mercoledì 25 luglio 2012

“Quando la strada non c’è, inventala!”

Una massima indubbiamente propositiva questa di Robert Baden-Powell, fondatore e animatore del movimento scautistico. Non conosco a fondo il suo pensiero, non avendo avuto modo di leggere i suoi libri; ma il ricco florilegio di sue frasi che circola nell’ambiente, gli accredita un valore sicuramente educativo per i giovani, anche se talvolta i suoi slogan danno l’impressione di poggiare più sul buonismo e sull’ovvio, che su solidi principi di ordine morale.
E fin qui, rimanendo nel sociale, nulla da eccepire.
Un po’ meno condivisibile, anzi decisamente fuori luogo e discutibile, è l’aver riprodotto questa esortazione a caratteri cubitali su un grande cartello, e averlo affisso, come ho avuto modo di scoprire, in una chiesa, in prossimità del presbiterio, a due passi dall’ambone, luogo liturgicamente preposto alla proclamazione della Parola di Dio: quella vera di Parola, quella autentica; quella che dice: «Io sono la Via!»; “Io, Cristo, sono la strada sicura per tutti voi credenti. Sono Io l’unica strada che tutti voi siete chiamati a percorrere; non esistono altre vie”. Quindi a che pro un simile cartello in quel luogo? “Quaestio non datur” direbbe san Tomaso: è improponibile, per chi crede e frequenta la Chiesa, anche solo mettere in dubbio l’esistenza della strada maestra da seguire; significherebbe non conoscere Cristo-Via; significherebbe ignorare Lui e la sua Parola: e ciò è da escludere a priori.
Ammesso quindi e non concesso che i giovani cristiani di oggi non conoscano l’esistenza di Cristo, io direi che invece di esortarli a inventare nella vita una strada a Lui alternativa, sarebbe molto più proficuo insegnare loro a conoscerlo, a studiarlo, ad amarlo, a seguirlo; e allora, con buona pace di Baden-Powell, scoprirebbero immediatamente, davanti ai loro passi, l'esistenza di una strada stabile per sempre, larga e luminosa!
Peraltro, accettare, suggerire e condividere quelle parole, estrapolate dal loro contesto, significa esortare i giovani a crearsi autonomamente una “loro” strada, adattandola alle “loro” esigenze, ai “loro” ritmi, a quello che essi ritengono più o meno percorribile e comodo. Ma, scusate, questo non è “relativismo”?

(MaLa, 24 luglio 2012)

sabato 21 luglio 2012

Diocesi di Padova. a quale Chiesa appartiene?

Reduce da alcuni giorni da una visita al territorio patavino, ho avuto modo di riscontrare a pelle alcuni segnali di un malessere latente. Ho poi trovato in questo articolo, anche se in qualche punto piuttosto severo, un'analisi molto dettagliata della situazione. Ho pensato valesse la pena leggerlo con maggior attenzione:
«Il progetto di una "nuova evangelizzazione" può correre il pericolo di un radicale fraintendimento e trasformarsi così in un progetto di "evangelizzazione nuova", creativa. Del resto, se evangelizzare significa trasmettere la fede, è evidente che la presenza di quest’ultima è un presupposto imprescindibile, in ossequio -mutatis mutandis- all’antico detto "nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet".
Emblematico al proposito può essere il caso della diocesi di Padova, che sembra aver fatto proprio, già da alcuni decenni, l’auspicio di una disintegrazione della Chiesa cattolica istituzionale dall’interno, in vista di una assimilazione al protestantesimo. Quest’opera ha trovato terreno fertile nella temperie post-conciliare quando, negli istituti di formazione religiosa e nella facoltà teologica, alla lettura dei testi del concilio è stata sostituita la loro interpretazione, nella versione cara alla scuola di Bologna.
I capisaldi di questa interpretazione erano, e sono rimasti: la messa in discussione del primato petrino e, più in generale, del principio di autorità e di quello gerarchico; l’indebolimento del sacerdozio ministeriale a favore di quello "diffuso" dei laici; l’esaltazione del principio democratico anche in materia di fede; il rovesciamento del principio ecumenico nell’assimilazione di valore tra le religioni, e il conseguente rifiuto del proselitismo; l’impoverimento liturgico, che finisce talora per rovesciarsi in vacuo istrionismo; la spasmodica tensione verso i fatidici "segni dei tempi".
Viene proposta, quindi, una nuova chiesa, non più depositaria di verità di fede riconosciute e trasmesse come tali, e illuminate dalla ragione: la fede diventa funzione del sentimento personale del divino, in omag«gio al nuovo antropocentrismo.
Questi venti di dottrina hanno spirato compatti nei seminari, nell’epoca in cui il Nuovo e il Bene sono diventati sinonimi e alla libertà cristiana si è sostituita quella sessantottina, mentre ogni pretesa culturale si andava identificando con l’adeguamento ideologico.
Forte della formazione ricevuta, per metà protestante e per metà marxista, il parroco diocesano "in carriera" restituisce ai fedeli una catechesi alternativa: ad esempio, per offrire ai parrocchiani un commento sui testi del concilio, inviterà a parlare il funzionario comunale, il quale indicherà nel pagamento dei tributi la principale virtù cristiana; in altra occasione, lo stesso parroco non mancherà di rassicurare il proprio gregge sul definitivo superamento del concetto di verità oggettiva e assoluta, sull’inattualità del papato, sulla dubbia consapevolezza, da parte di Cristo, della propria divinità, sul declassamento del peccato a condizionamento sociale, sull’arroganza di una religione che pretende di fare proseliti e, in ogni caso, sulla ripugnanza dello spirito di crociata; respingerà con fastidio la richiesta di una preghiera per Eluana morente, perché "di tutto non ci si può occupare", mentre si rifiuterà di prendere posizione su qualsiasi tema etico sul quale si sia già espresso il popolo sovrano o il Corriere della Sera; assicurerà i parrocchiani che non lo si vedrà mai in giro vestito da prete e, d’altra parte, chiuderà un occhio sulle cresimande adulte in tenuta balneare; inviterà periodicamente Alberto Melloni a sparare sul papa, sulla Chiesa e sulla liturgia, Rosy Bindi a propagandare i DICO, e ogni altro giornalista di passaggio a parlare contro la liberalizzazione del rito antico.
D’altra parte quest’ultimo è tema ghiotto per alimentare in ogni sede la polemica antiromana, e sede privilegiata è la scuola di liturgia. Qui, all’uscita del Summorum Pontificum, viene chiamato a tenere una conferenza, per evidenti motivi di competenza, l’Umberto Galimberti di Repubblica; l’assenza imprevista del relatore consente al preside di sostituirsi a lui, per dare libero corso ad un attacco frontale: il documento papale è evidentemente frutto di una ubbia senile, e può avere persino l’effetto di destabilizzare il limpido corso della secolarizzazione provocando un pericoloso ritorno del sacro.
La stessa polemica antiromana sembra rivestire toni meno viscerali alla facoltà teologica, dove assume scientificamente la veste di strumento metodologico e dove san Tommaso ha lasciato il posto a Roberta de’ Monticelli; salvo il caso del singolo cattedratico che, a commento dell’interpretazione pontificia di una formula liturgica, propone come soluzione ultima quella di "sedersi sul bordo del fiume e aspettare che passi il cadavere del nemico". Ma alla facoltà teologica, si sa, anche lo spirito dei tempi soffia forte per le antiche mura, dove viene venerato il fiore della teologia protestante e, ancor più, la sedicente dissidenza cattolica alla Hans Küng. Qui, davanti ad una classe di seminaristi prossimi all’ordinazione, il brillante professore di teologia caldeggia le ragioni contrarie al celibato sacerdotale, mentre in altra aula si celebra la bellezza della confessione collettiva.
Al Centro Universitario, intanto, vengono chiamati a rinvigorire la fede degli universitari cattolici: atei non devoti (alla Boncinelli), eretici in servizio permanente effettivo nella Chiesa (alla Enzo Bianchi), filosofi della scienza frequentatori instancabili della obsoleta chiesa darwiniana (alla Giorello) e fuoriusciti cattolici per incompatibilità dottrinali, come Vito Mancuso, conferenziere privilegiato e onnipresente, al quale viene affidato nientemeno che il cammino pasquale.
Le intemperanze, dottrinali e no, della facoltà teologica e della scuola di liturgia, l’ansia del pastore diocesano di correre dietro ad un gregge mediaticamente straniato, si rinvigoriscono nel pensiero dei vicari vescovili, ma con un passaggio ulteriore: infatti, oltre a rivolgersi contro le strutture istituzionali e i principii dogmatici della chiesa, essi tagliano all’occorrenza ogni collegamento anche con i testi sacri. E, una volta tolto di mezzo anche il Vangelo, rimane lo spirito del tempo che, per analogia con lo Spirito Santo, soffia sempre come e dove vuole, realizzando così il sogno della libertà totale.
C’è la linea agnostico-radicale del relativista organico: la democrazia e la tolleranza sono i criteri risolutori di ogni questione religiosa, etica e politica. La trascendenza assoluta e l’inconoscibilità del divino impediscono l’imposizione di una legge che non sia quella votata dalla maggioranza. Nessuna esperienza umana richiede di essere elevata per mezzo del sacramento, poiché esaurisce nella sua contingenza il proprio valore. La figura di Cristo, accantonato il problema della sua divinità, si riassume in un significato politico e sociale che trascende la storia.
Più pittoresca la variante pop, che legge il relativismo teologico nel mito sessantottino della realtà come immaginazione e della fantasia al potere. Ed è proprio il potere l’oggetto di una critica radicale e ricorrente, predicata con l’avallo di Gesù e Maria. Quest’ultima è la proto-femminista che ha osato sfidare l’autorità famigliare e, "conducendo con grande arte lo scontro", impone al figlio un nome da lei liberamente scelto. La chiesa è persino arrivata a dire che Maria è stata concepita senza peccato, ma questo al vicario sembra veramente troppo. Quanto a Gesù, non pretendeva di insegnare nulla, ma si limitava a incontrare la gente. Tolto l’insegnamento a Gesù, è logico che il vangelo lasci il tempo che trova e possa essere pretermesso, e la libertà è salva anche a dispetto del Cristianesimo.
Ma, su tutte le varianti di pensiero, domina l’apparato vicariale burocratico: qui non c’è spazio per trastulli ideologici, c’è una macchina politico-amministrativa i cui ingranaggi consentono solo spazi di piccola dissidenza controllata. Naturalmente questo potere assoluto e non rappresentativo rimane esente da qualsiasi critica.
Facoltà teologica, scuola di liturgia e vicariato, tutti, sono infine aristocraticamente accomunati dal disprezzo per le forme di devozione popolare, in sintonia del resto col cardinale addetto alla cultura: si tratta del cosiddetto "folklore" di certi eventi e riti tradizionali sopravvissuti al riformismo liturgico.
Su questo quadro complessivo si riformula opportunamente la domanda iniziale: se e in che modo sia possibile una nuova evangelizzazione da parte di quanti sembrano essere portatori di una fede fortemente appannata. Per rispondere a questa domanda, non rimane che esaminare da vicino il progetto di iniziazione cristiana elaborato dall’ufficio diocesano».

(Fonte: Patrizio Letore, Riscossa cristiana, 16 luglio 2012)

martedì 17 luglio 2012

Hollywood si affida a Dio ma mette la Bibbia in burla

Hollywood si lancia nelle storie bibliche, ma invece di restare fedele alle Sacre Scritture, le trasforma in storie di vampiri, gladiatori e sangue. Intenti a scrivere horror fiction, a costruite una gigantesca Arca di Noè e a ricucire alcuni capitoli dei Vangeli sono un manipolo di grandi registi: da Steven Spielberg a Darren Aronosfky, da Mel Gibson a Paul Verhoeven e Ridley Scott.
Ultimo ad aggiungersi alla lista da Oscar è l'attore Will Smith, al suo debutto dietro la telecamera, con una sceneggiatura su Caino e Abele.
Pare però, dalle ultime indiscrezioni, che Smith abbia intenzione di trasformare la storia di rivalità e gelosia dei due fratelli in una pellicola vampiresca. La Sony ha firmato con Smith (che oltre a dirigere sarà anche protagonista) un contratto che gli permetterà di girare La redenzione di Caino con un ottimo budget: i miliardi sono necessari, se vorrà far concorrenza agli altri kolossal biblici.Il regista Darren Aronofsky rischia di sbancare la Paramount per costruire un'enorme arca di Noè. Il regista di Black Swan finora ha diretto pellicole a basso costo: il suo film da Oscar era costato meno di 50 milioni, ma stavolta il suo Noè, interpretato da Russel Crowe accanto a Jennifer Connelly ed Emma Watson, sarà tra i dieci film più cari del 2012. Anche lui, come Smith, aggiungerà alla storia raccontata nel libro della Genesi un contorno di pura fantasia, con uno squadrone di enormi angeli senza ali ma con sei braccia, contro i quali si scaglierà Noè. Si legge nella presentazione della pellicola: «Il suo nome è Noè, ma è un uomo diverso dagli stereotipi dei patriarchi della Bibbia. È un lottatore, un Mad Max che vive in un mondo dove non c'è pietà». Vista la partecipazione di Russell Crowe, ci si può aspettare che il suo Noè abbia tutti i connotati del gladiatore.
Il regista Paul Verhoeven sta lavorando sulla nuova «biografia» di Gesù. Come sceneggiatore è stato scelto Roger Avary, che ha alle spalle film horror come Beowulf. Il suo Gesù non ha nulla di divino: sarebbe nato dalla violenza subita dalla giovanissima Maria, violentata da un soldato romano. Il suo Gesù, del tutto umano, è un profeta radicale, che faceva esorcismi e non miracoli, convinto che il paradiso lo si potesse trovare sulla terra; il suo messaggio di pace e fraternità avrebbe sconvolto l'Impero romano e cambiato il mondo, ma in lui non c'è alcun aspetto del Messia dei Vangeli.Più rispettose verso l'Antico Testamento dovrebbero essere due pellicole sulla vita di Mosè. La prima, tratta da Gods and Kings, una sceneggiatura scritta a quattro mani da Michael Green e Stuart Hazeldine, sarà diretta da Spielberg. Secondo le prime indiscrezioni Spielberg avrebbe già dichiarato che questo film sarà la sua più grande sfida: la pellicola per la quale, un giorno, vorrà essere ricordato è anche il suo personale omaggio alla fede ebraica.
Spielberg ha detto di volersi ispirare a Braveheart e al suo Salvate il soldato Ryan, con grande attenzione alle battaglie epiche ed ai dettagli della storia di Mosè: l'abbandono sul fiume, l'adozione, l'infanzia presso il faraone, la fuga dall'Egitto e la solitaria vecchiaia, alla guida di un popolo che non aveva ancora raggiunto la Terra promessa. Il secondo progetto su Mosè è invece del regista Ridley Scott. Il Mosè di Scott, prodotto dalla Fox, verterà sulla relazione del profeta con il faraone Ramses, prima dell'Esodo.Ancora da definire il cast. Si aggiungono poi alla lunghissima lista di favole e horror biblico il nuovo film di Mel Gibson sul comandante israelita Giuda il Maccabeo e quello annunciato sull'infanzia di Gesù, del regista di Harry Potter, Chris Columbus.
In molti casi, il nesso tra Scritture e invenzione registica appare piuttosto discutibile, e infatti farà discutere. L'Antico Testamento è utilizzato come semplice serbatoio di trame accattivanti, ogni aspetto religioso e teologico è relegato in secondo piano. Oggi non si sa più come fare cassetta: e gli studios si affidano a Dio.

(Fonte: Silvia Kramar, Il Giornale, 17 luglio 2012)

mercoledì 11 luglio 2012

Scientology: una setta inquietante e pericolosa

Il divorzio di Katie Holmes da Tom Cruise è chiaramente una notizia di cronaca rosa. Tuttavia, si tratta di gossip che offre l’occasione per parlare di Scientology, la setta religioso-filosofica di cui i due attori fanno parte e che tanto va di moda in certi ambienti cinematografici statunitensi e non solo. Probabilmente ora, con il divorzio, Katie Holmes sarà identificata come “S.P.”, acronimo di “soppressive people”, la dicitura che la chiesa di Scientology usa per definire i fuoriusciti. Una volta che il soggetto viene siglato in questo modo, non potrà più avere contatti con gli altri membri dell’organizzazione, né parlare delle dinamiche interne a essa. Ma come funziona Scientology e perché tale setta è tanto inquietante?
Innanzi tutto bisogna considerare che il fedele affiliato deve firmare un contratto per un miliardo di anni. Una fedeltà che passa così da una vita all’altra, dato che il fondatore Ron Hubbard era convinto dell’esistenza di vite precedenti e successive, che lui solo con i suoi metodi è stato in grado di provare, in quanto illuminato e conoscitore di Xenu, il governatore supremo della galassia che portò sulla Terra 75 milioni di anni fa qualche miliardo di alieni. Come si può notare, più che di religione, sembra trattarsi di fantascienza. Ron Hubbard era in effetti uno scrittore di romanzi ambientati nello spazio. Solo in seguito avrebbe trovato dentro di sé il metodo per curare le persone dalle proprie psicosi e in particolare dalle tossicodipendenze. Ma Scientology non è affatto un’associazione filantropica e caritatevole.
I fuoriusciti che hanno avuto il coraggio di raccontare la propria esperienza parlano della famigerata “Sea Org”, la struttura a cui si affidano e in cui lavorano gli adepti, come di qualcosa impostato con un’educazione di tipo militare. Una volta entrati in questa scuola di formazione, c’è solo spazio per lavorare, a tutte le età e a tutte le ore, e il tempo per le attività personali è praticamente assente, così come quello con i familiari, che in caso di condotta negativa dell’adepto, vengono tassativamente esclusi. Per questo le fondatrici dell’ “Ex Scientology Kids”, i bambini appartenuti alla presunta chiesa, tra cui la figlia dell’attuale leader di Scientology David Miscavige, hanno voluto fondare un forum in cui tutti gli ex bambini allontanati (“disconnessi”, secondo la terminologia dell’organizzazione) dalla propria famiglia potessero raccontare le loro storie. Astra per esempio racconta di essere scappata quando rimase incinta a 16 anni e le chiesero di abortire perché una gravidanza avrebbe compromesso il suo lavoro alla “Sea Org”.
La massima esperta tedesca di Scientology è Ursula Cabert, che ad Amburgo ha guidato la commissione incaricata di studiare il funzionamento del culto. “Di solito, Scientology cerca di far tacere i membri in uscita, facendo pressione perché non rivelino nulla dell’associazione”, ha dichiarato la Cabert. Per quel che riguarda i bambini, poi, viene loro insegnato che “il mondo è pericoloso e per questo negli Usa sono mandati in scuole apposite, totalmente separate dalla realtà quotidiana vissuta da tutti gli altri coetanei. Il sistema li separa dai genitori e si prende cura della loro educazione”.
Secondo la studiosa, autrice di “Scientology, il libro nero”, l’organizzazione è sospettata di praticare una forma di “lavaggio del cervello, contraria ai principi costituzionali, totalitaria e che porta le persone all’infelicità”. Una realtà inquietante, insomma, e verso cui si dovrebbero prendere seri provvedimenti, anche perché se è vero che i servizi segreti tendono a ridurne il numero, pare che circa dieci milioni di persone ne facciano parte.

(Fonte: Federico Catani, Corrispondenza Romana, 10 luglio 2012)


“Verso la guarigione e il rinnovamento”. Atti del simposio internazionale sugli abusi su minori

Negli ultimi anni, le violenze sessuali su minori da parte di membri della Chiesa, specialmente da parte dei suoi presbiteri, sono diventate uno scandalo percepito non solo dai suoi capi, ma anche da molte persone in tutto il mondo. Da parte sua, il Papa Benedetto xvi ha parlato di questo scandalo, affermando, fra l’altro: «Furono commessi gravi errori di giudizio e si sono verificate mancanze di governo» (Lettera pastorale ai cattolici di Irlanda, n. 11). Il Santo Padre è convinto che la crisi causata dalla rivelazione di queste violenze dovrebbe generare in tutti i pastori e i fedeli uno «slancio per un onesto auto-esame e un convinto programma di rinnovamento ecclesiale e individuale» (ibidem, n. 2).
Il simposio “Verso la guarigione e il rinnovamento”, tenuto alla Pontificia Università Gregoriana, a Roma, dal 6 al 9 febbraio 2012, intendeva aiutare vescovi, superiori religiosi e altre persone in posti di particolare responsabilità a fare un sincero esame di coscienza, come richiesto dal Papa, e a stimolare il rinnovamento personale ed ecclesiale. Il simposio voleva essere un’ulteriore tappa nel lungo e doloroso percorso che la Chiesa ha intrapreso per affrontare la «ferita aperta» della violenza sessuale (Benedetto XVI).
Nel suo messaggio ai partecipanti al simposio, trasmesso dal segretario di Stato, Benedetto xvi incoraggiava ognuno ad accettare questa sfida con un amore ispirato dal Vangelo in modo da offrire a bambini indifesi, a giovani e adulti lo spazio vitale necessario per il loro integrale sviluppo umano e spirituale. Il Papa chiedeva, inoltre, a tutti i partecipanti di perseguire una maggiore comprensione dell’intera situazione affinché si potesse instaurare in tutta la Chiesa una cultura di efficace protezione dei giovani e di sostegno alle vittime. Per concretizzare queste speranze espresse dal Santo Padre, nel settembre del 2010 si decise di organizzare un simposio sulla questione delle violenze sessuali all’Università Gregoriana. Fin dall’inizio l’iniziativa poté contare su un sostegno esplicito e un aiuto concreto da parte di vari dicasteri del Vaticano. Si dovrebbe ricordare, in particolare, l’incoraggiamento della Segreteria di Stato e delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, dei Vescovi e dell’Evangelizzazione dei Popoli. Il simposio intendeva anche monitorare e continuare il lavoro avviato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con la Lettera circolare del 3 maggio 2011, che chiedeva alle conferenze episcopali di tutto il mondo di elaborare linee guida per la protezione dei minori. Di conseguenza, gli invitati al simposio furono anzitutto e soprattutto rappresentanti delle conferenze episcopali a livello mondiale nonché i superiori generali delle congregazioni religiose e di altri istituti di vita consacrata. La scelta dei singoli partecipanti venne lasciata alle conferenze episcopali e alle unioni internazionali dei superiori generali (maschili e femminili).
Al simposio hanno partecipato 110 rappresentanti di conferenze episcopali e 35 superiori generali e, inoltre, rappresentanti delle Chiese orientali in comunione con Roma, rettori di collegi e università, cattolici romani, canonisti, psicoterapeuti ed educatori; in totale, 220 persone provenienti dai cinque continenti. Gli organizzatori assegnarono al simposio il raggiungimento di questi obiettivi: dare voce alle vittime delle violenze e indicare onestamente mancanze, peccati e crimini commessi nella Chiesa; favorire una cultura dell’ascolto e dell’apprendimento, per lavorare insieme in futuro alla ricerca di soluzioni al problema delle violenze; collaborare con i media e far conoscere ciò che si può fare per proteggere le persone più deboli dalle violenze. I relatori provenivano da Filippine, Messico, Brasile, Stati Uniti, Malta, Sud Africa, Argentina, Belgio, Germania e Irlanda. Una tale partecipazione mondiale mostra chiaramente che il problema delle violenze non riguarda solo Stati occidentali, ma il mondo intero, sfidando quindi i cristiani e la società in genere in tutto il mondo.
Il simposio cominciò la sera del 6 febbraio 2012 con un discorso di apertura del cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il cardinale sottolineò soprattutto la necessità di un approccio al fenomeno delle violenze sessuali nella Chiesa e nella società da varie prospettive (canonica, teologica, pastorale e psicologica). Dopo la presentazione iniziale, i temi centrali furono affrontati in nove relazioni nelle tre mattinate successive, con discussione da parte di tutti i partecipanti. La prima relazione fu tenuta da Marie Collins, proveniente dall’Irlanda, vittima di violenza sessuale da parte di un prete all’età di tredici anni. Ella parlò delle dolorose conseguenze di quella violenza e anche della rinuncia del vescovo responsabile a trattare con lei e con l’autore della violenza. Fu coadiuvata dalla baronessa Sheila Hollins, psichiatra inglese, che aveva ascoltato i racconti di svariate centinaia di vittime nel corso di sessioni di ascolto tenute nel quadro della visita apostolica alla Chiesa di Irlanda del 2010. Monsignor Stephen J. Rossetti parlò dell’esperienza fatta nel corso di molti anni trascorsi al St Luke’s Institute a Silverspring, Maryland (Stati Uniti) sul trattamento adeguato dei preti autori di violenze. Padre Desmond Nair, un prete del Sud Africa, riferì sul lavoro di educazione e prevenzione svolto dalla Chiesa nel suo paese. Monsignor Charles J. Scicluna, il promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, presentò gli aspetti canonici importanti che le conferenze episcopali devono rispettare nella definizione delle linee guida sulle violenze sessuali. Egli affermò che il pieno riconoscimento della verità in questa materia contribuirà alla promozione della giustizia. Perciò la comunità cristiana deve collaborare pienamente con le autorità statali nella lotta contro le violenze sessuali sui minori. Padre Edenio Valle, verbita, proveniente dal Brasile, analizzò le componenti sociologiche e culturali nella valutazione e trattazione pubblica delle violenze sessuali. Il vescovo Jorge Carlos Patrón Wong del Messico, già presidente della Conferenza dei rettori di seminario in America Latina, parlò della necessità di un’accurata formazione umana e spirituale dei futuri preti. L’arcivescovo Luis Antonio G. Tagle di Manila (Filippine) sottolineò che la violenza sessuale non è estranea alle culture asiatiche. Perciò bisogna tener conto del contesto culturale nell’elaborazione di risposte pastoralmente rilevanti ed efficaci in materia di guarigione e prevenzione. Quattro teologi dell’Università Gregoriana (Joseph Carola, Mark Rotsaert, Michelina Tenace e H. Miguel Yáñez) presentarono una riflessione teologica comune sul problema della violenza sessuale. Infine, l’arcivescovo di München und Freising, cardinale Reinhard Marx, illustrò il modo in cui i capi della Chiesa dovrebbero esercitare la loro responsabilità sia verso le vittime che verso gli autori delle violenze, nonché verso i media e la società in generale. Un tale approccio era essenziale per promuovere la credibilità della Chiesa e ristabilire un clima di fiducia. Nei pomeriggi di martedì 7 e mercoledì 8 febbraio furono organizzati gruppi di lavoro su questi temi: “I costi reali della violenza sessuale”; “Pornografia e Internet”; “La prevenzione della violenza sessuale su adulti vulnerabili”. Questi gruppi di lavoro furono guidati da un’équipe di sette persone di Virtus (un’organizzazione del National Catholic Risk Retention Group). Virtus ha organizzato molti programmi del genere per gli impiegati e i capi della Chiesa in oltre 115 diocesi negli Stati Uniti. La sera del martedì e del mercoledì si sono tenute una veglia penitenziale e una celebrazione eucaristica particolare sul tema e sugli obiettivi del simposio.
Nella veglia penitenziale, presieduta dal cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, i partecipanti hanno chiesto perdono per non aver difeso i bambini e i giovani. Durante l’Eucaristia del mercoledì, il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha invocato lo Spirito Santo sui partecipanti e sul loro lavoro di guarigione e rinnovamento. Molte persone hanno contribuito alla programmazione, organizzazione e realizzazione del simposio, facendone così visibilmente un momento di autentica collaborazione ecclesiale fra vescovi, preti, religiosi e laici. Non è possibile ricordare in questa sede tutti coloro che hanno offerto il loro contributo. Gli organizzatori del simposio e i curatori di questo volume desiderano ringraziare i relatori e tutti coloro che hanno offerto con grande generosità tempo ed energie. Siamo molto grati anche a coloro che hanno reso possibile il simposio con il loro contributo finanziario: l’arcidiocesi di München und Freising; la Conferenza episcopale tedesca; Aid to Church in Need, Renovabis, Misereor, le diocesi di Brescia, Pavia e Bolzano-Bressanone e le province italiana, svizzera e olandese della Compagnia di Gesù. Il simposio non è stato concepito come un evento isolato, ma come un importante passo avanti. Tutti nella Chiesa devono promuovere un atteggiamento di perseveranza e impegno nell’accettazione della responsabilità per il passato e della collaborazione per un futuro migliore.

La fondazione del Centro per la protezione dei minori dell’Istituto di psicologia all’Università Gregoriana può essere considerata un ulteriore passo avanti basato sul lavoro del simposio. Questo centro, con sede a Monaco di Baviera, elaborerà per un periodo di tre anni un programma e-learning, cioè una piattaforma di apprendimento su internet in varie lingue. In collaborazione con i partner del progetto in tutti i continenti si spera di incentrare l’attenzione sulla violenza sessuale nella Chiesa e nella società in generale. Questa iniziativa vuole servire anche come strumento per la prevenzione di future violenze sessuali. Gli organizzatori del simposio e i curatori di questo volume sperano che il dibattito favorisca una maggiore determinazione, trasparenza e consapevolezza del dovere di tutti i cattolici di affrontare la difficile questione della violenza sessuale. Confidiamo che questo volume possa essere una fonte di ispirazione e di incoraggiamento nel cammino verso la guarigione e il rinnovamento.

(Fonte: ©L'Osservatore Romano, 11 luglio 2012)

500.000 euro in tempo di crisi

Apprendiamo dal senatore PD gnazio Marino che il ministro Riccardi avrebbe l’intenzione di finanziare nel 2013 la modica cifra di 500.000 eur per sostenere le attività del Programma speciale delle Nazioni Unite per la salute riproduttiva (Hrp).
Riccardi non conferma né smentisce.
La risposta temporeggiatrice del suo ufficio stampa, riportata da Il Foglio di venerdì 29 giugno, lascia stupefatti. I casi, infatti, sono due: o il senatore Marino, a nome del nostro paese, ha annunciato i fondi da parte del ministro a insaputa del ministro stesso – il che sarebbe molto grave – oppure Riccardi ha effettivamente dato mandato a Marino dell’annuncio, il che è ancora più grave.
È infatti esclusa la possibilità che un ministro della Cooperazione internazionale esperto come Andrea Riccardi ignori cosa significhi l’espressione “salute riproduttiva” nei programmi ONU, e che ignori la posizione della Santa Sede a riguardo.
Cosa significhi l’apparentemente innocuo termine “salute riproduttiva” lo spiega Il Foglio: “Accanto alla promozione della salute materno-infantile, e quindi alla lotta alla mortalità materna e al miglioramento della salute della donna legata alla sua possibilità di procreare, quella definizione ricomprende infatti il vasto e spinoso capitolo – spinoso almeno per i cattolici, ma non solo per loro – della contraccezione (preventiva e d’emergenza) e dell’aborto, senza contare l’altro controverso capitolo della vaccinazione contro il papillomavirus, indirizzata a bambine e adolescenti.
Proprio la scorsa settimana, tra l’altro, l’Hrp ha presentato a Ginevra l’edizione aggiornata di “Aborto sicuro: guida tecnica e politica per i sistemi sanitari”. Leggiamo direttamente sul sito dell’Hrp – che dedica il mese in corso alla promozione e all’informazione della pillola del giorno dopo – la descrizione delle sue attività. Che prevede anche “la messa a punto di soluzioni sicure e accettabili in materia di aborto medico, compresa l’utilizzazione di mifepristone-misoprostol (si tratta dell’aborto chimico con la Ru486, ndr). La ricerca continua per migliorare l’efficacia e ridurre gli effetti secondari di questi medicamenti”.
Ci domandiamo se questi soldi rappresentano, oltre che da un punto di vista etico e morale, ciò di cui il nostro paese ha più bisogno.
Ci domandiamo anche con quale trasparenza il ministro cattolico Riccardi si pone nei confronti di chi, come lui, condivide una visione della vita che tenda a costruire, sostenendo la vita soprattutto dei più deboli, gli indifesi ancora non nati.
Allora, caro ministro, conferma o smentisce? Il convegno di Todi che l’ha formalmente eletta prima di Monti, prevedeva forse l’asservimento dei cattolici al potere di turno? A questo ci saremmo ridotti?

(Fonte: Editoriale Samizdatonline, 6 luglio 2012)

Festa di San Benedetto. Il Papa: non anteporre nulla a Cristo, via per uscire dalle notti oscure della storia

Oggi, 11 luglio, la Chiesa celebra la Festa di San Benedetto, Patrono d’Europa. Il Papa, che ha posto il suo Pontificato sotto la protezione del Santo di Norcia, ha dedicato al padre del monachesimo occidentale l’udienza generale del 9 aprile 2008, invitando i fedeli a seguire la sua esortazione a non anteporre nulla a Cristo, via per uscire dalle notti oscure della storia.
«Dalla crisi alla rinascita: questo il percorso compiuto da Benedetto da Norcia, secondo il profilo tracciato dal Papa. Nato nel 480, quattro anni dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, di fronte ad una società passata dal benessere alla miseria, Benedetto dà il suo contributo non puntando il dito ma iniziando a cambiare se stesso. Appena ventenne, si ritira in una grotta nei pressi di Subiaco per superare – dice il Papa - le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: La tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé”. (Udienza generale del 9 aprile 2008)
“Io, ma non più io – sottolinea il Papa - è questa la formula dell'esistenza cristiana”. Se Gesù vive in noi, allora “trasformiamo il mondo”. E Benedetto si lascia cambiare da Dio attraverso la preghiera, contatto vivo con Cristo, non sterile intimismo consolatorio:
“La preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. ‘Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti’, egli afferma (Prol. 35)”. (Udienza generale del 9 aprile 2008)

La preghiera produce opere: “Ora et labora”. Così i monasteri benedettini forgiano la nuova civiltà europea, rilanciano l’agricoltura, l’artigianato e il commercio, all’insegna della solidarietà, conservano e tramandano la cultura sia pagana che cristiana. Un solo uomo, che ha messo Cristo al centro della propria vita come via per la “vera autorealizzazione”, cambiando se stesso ha cambiato gli altri, un intero mondo. Oggi, l’Europa – spiega il Papa – ha certo bisogno di soluzioni politiche ed economiche per superare la sua crisi, che è prima di tutto crisi d’identità e crisi di valori, ma per “creare un’unità nuova e duratura” ha bisogno soprattutto di “un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa”. “Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, ‘un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità’ (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58)”. (Udienza generale del 9 aprile 2008)

(Fonte: Radio Vaticana, 11 luglio 2012)

Sacrifici per la plebe, 14 milioni a Radio Radicale

Danilo Quinto, è autore del coinvolgente frammento autobiografico, "Da servo di Pannella a figlio libero di Dio", edito dalla veronese Fede & Cultura. Un libro importante, del quale sarà doveroso scrivere quanto prima.
Adesso sembra necessario anticipare l'umiliante e scandalosa notizia diffusa da Quinto sulle allegre spese della finanza ascetica di Mario Monti.
Mario Monti, infatti, ha risposto prontamente alle imperiose richieste di Marco Pannella, sciogliendo i cordoni della severa borsa statale.
Scrive Quinto: "Il governo dei tecnici, dei professori della Cattolica, del presidente della Comunità di Sant'Egidio, dei cattolici riuniti a Todi e del presidente della Repubblica ha pensato a Pannella. E bene. Il decreto Milleproroghe, approvato dal Consiglio dei Ministri il 23 dicembre, ha previso il rinnovo della convenzione tra il Ministero dello Sviluppo Economico e il Centro di Produzione S.p.a., proprietario di Radio Radicale, autorizzando la spesa di sette milioni di euro per l'anno 2012, che sarà coperta da una riduzione dell'autorizzazione di spesa degli stanziamenti previsti nella legge del 25 febbraio 1987 . 67, che rinnova la legge 416 sull'editoria. Meno soldi ai giornali più soldi a Radio Radicale. ... Sette milioni di euro, più tre milioni ottenuti a inizio dicembre, fanno dieci. Per un solo anno. Più i quattro milioni di euro che Radio Radicale incassa ogni anno in base alla legge sull'editoria, in quanto organo della Lista Pannella. Quattordici milioni di euro, circa ventotto miliardi delle vecchie lire".
Il fascino esercitato da Pannella sembra irresistibile. I cattolici aperti e i liberali (Berlusconi ed ex signora in prima linea) sembrano incapaci di resistere al canto della sirena radicale.
Il governo dell'imperterrito professore Mario Monti, "virtuoso" fra virgolette, chiede e impone sacrifici ai piccoli negozianti, agli artigiani, agli operai, ai pensionati ai proprietari di appartamenti ad uso di personale abitazione. Li chiede in nome della salvezza dell'Euro, divinità suprema, feticcio che regge i destini della Banca Redentrice. Sarà... Ma intanto 14.000.000 di Euro divini e salvifici escono dalle gelose casse dello Stato italiano per dare sostegno a un ente, Radio Radicale, costituito per diffondere i torbidi pensieri di un vecchio trombone, un malvissuto che trova l'ascolto di una minoranza costituita per lo più da nichilisti, mammane, necrofori, megere, tossicomani e pederasti.
Monti va a messa ogni domenica. Ma la sua religione sembra (inconsapevolmente?) inquinata dal culto superstizioso - iniziatico - tributato alla moneta europea dai protagonisti del complotto contro la vita.
Un idolo, l'euro, che sostituisce la ruota dentata circolante (ormai a vuoto) nell'emblema della repubblica fondata sul lavoro (scemante per volontà della Banca Suprema).
Fiat pecunia, pereat homo. Ecco è un motto, uno slogan, che potrebbe "felicemente" riassumere l'ideologia cui obbediscono il professore Monti e i suoi inutili esperti.
L'umiliazione dell'uomo e l'esaltazione della moneta: ecco la trama dell'azione scenica attuata dalla cattomassoneria al governo per far scendere la notte di Valpurga sull'Italia cattolica.
Un'azione che rappresenta feroci tagli al modesto bene degli italiani e sontuose elargizioni al partito che promuove aborto ed eutanasia, cioè squisite battaglie contro la vita italiana

(Fonte: Piero Vassallo, Riscossa cristiana, 10 luglio 2012)

"La Superbia: un super-io contro Dio" (di mons. Rino Fisichella)

Per quanto possa sforzarmi di tornare indietro con la memoria, il ricordo del termine “superbia” mi riporta sempre, a quando ero bambino e la mente fissò il nome di Tarquinio il Superbo. Tutto ruota intorno alla sua persona, di cui conosco ben poco, eppure la qualifica è quanto rimane in me del personaggio. Non saprei dire perché mi colpì così tanto da permanere come pensiero nella memoria. Forse, perché con lui si concludeva la lista dei re di Roma che eravamo obbligati, già in tenera età, a imparare a memoria come una filastrocca; forse, perché neppure sapevo cosa fosse la superbia, ma il termine rimbombante lo imponeva… saranno gli psichiatri a determinare il tutto. Ciò che posso dire è che parlando di superbia il nome del re Tarquinio è il primo che balza alla mente. Certo, non senza ragione i Romani gli affibbiarono l’appellativo se è vero, come attesta Tito Livio, che convocato il Senato ed entrato nella Curia si sedette sul seggio del re; questi accorso sul posto magna voce gli intimò: “Quid hoc, Tarquini, rei est? qua audacia me vivo vocare ausus es patres aut in sede considere mea?”. Ciò che Servio Tullio chiamava giustamente audacia, i Romani poco alla volta la definirono superbia, sperimentandola sulla loro pelle.
Qualunque sia il ricordo, comunque, non è di Tarquinio che dobbiamo parlare, ma di noi in relazione a ciò che è identificato come l’origine di tutti i vizi. Da qualsiasi parte ci si volta, infatti, la superbia sembra avere il primato. Per chi vuole trattare dei vizi rispettando l’ordine alfabetico: accidia, avarizia, gola, invidia, ira, lussuria, arriva alla superbia come il culmine di un procedere. Per quanti vogliono modificare l’ordine, la prima che viene nominata è sempre lei, la superbia, per incarnare ciò che rappresenta. Il “peccato capitale”, così chiamato per primo da Gregorio Magno e tematizzato in seguito dalla teologia medievale, e in primis da Tommaso d’Aquino, porta con sé tanti derivati che impediscono di innalzarsi a una corretta vita di relazioni e di ordine cosmico. Sono sette, come si sa, per indicare secondo la cabala la pienezza e la totalità di una vita ripiegata sul male.
Ironia della sorte, però, la semantica del termine (ύπερηφανία) è positivo. Pur nell’etimologia oscura, il significato originario intende esprimere il carattere “eminente”, “eccellente” e “insigne” dell’animo umano e della sapienza. Lo sviluppo successivo, al contrario, venne usato in senso peggiorativo e riprovevole come “arroganza”, “vanteria” e “alterigia”. Insomma, per gli antichi Greci, la superbia si colloca tra la ύβρις, tipica di chi disprezza e la αλαζών, il presuntuoso millantatore che inganna se stesso ed è un ciarlatano vantando pregi che non ha. In una parola, il superbo è un folle presuntuoso, perché si vanta della sua posizione, del potere e della ricchezza guardando gli altri sprezzantemente dall’alto in basso. In una parola, il termine manifesta un’esperienza universale. Nell’uomo di ogni terra e di ogni cultura, in ogni tempo e lingua si verifica il segno di una connotazione giudicata negativamente perché tesa a dominare sul proprio simile e a disprezzare le doti altrui. E così, la letteratura greca antica è densa di riferimenti che mettono in guardia dalla superbia e da ultimo, soprattutto per influsso degli stoici, il superbo venne incluso nei cataloghi dei vizi.
Prima di entrare nel merito della superbia, non sarà inutile anticipare qualche riflessione sul perché la Chiesa ha identificato sette peccati capitali e perché li ha chiamati così. Una considerazione importante è fatta dal Catechismo il quale dice che: “Il peccato trascina al peccato; con la ripetizione dei medesimi atti genera il vizio. Ne derivano inclinazioni perverse che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male” (ccc 1865). Insomma, la lotta tra il bene e il male permane fino alla fine dei tempi. Certo, è impari. Come attesta l’apostolo Paolo le “opere della carne” e il “frutto dello Spirito” (Cfr Gal 5,19-23) non stanno sullo stesso livello. La forza redentrice di Cristo ha vinto e ha distrutto il peccato del mondo, ma la libertà degli uomini, che segna l’originalità del cristianesimo, permane come la conditio sine qua non. “Dio che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”. L’espressione di sant’Agostino permane con la sua forza di significato per indicare l’imporsi della libertà personale. Mai, probabilmente, il dramma della libertà si esprime con tutta la sua potenza come nella scelta tra il bene e il male e nella vita a servizio dell’uno o dell’altro. Vivere nel bene apre il cuore e rende fecondi; scegliere il male impoverisce e rinchiude in se stessi. Certo, rimarrà sempre la grande quaestio di cosa sia bene e male; eppure, nel profondo del cuore di ognuno, e impresso nelle pagine della natura, il confine posto non è solo percepito, ma anche compreso e tematizzato. Il male, comunque, offusca la coscienza e la discesa diventa sempre più scoscesa e scivolosa. C’è una ambivalenza nel vizio che tende a nascondere la parte peggiore, per illudere con il canto delle sirene. Dall’altra parte, c’è la forza della virtù che chiama al bene. Perseverare nel bene crea virtù che consente non solo di compiere atti positivi, ma soprattutto sprona a dare il meglio di sé e a ricercare forme sempre più grandi di bene. Ecco, pertanto il dramma: dove c’è il vizio, là c’è la virtù che si contrappone: a te la scelta. Sei posto dinanzi all’orientamento da dare alla tua vita. A te la scelta di quale ruolo vuoi giocare. Da ogni parte ti volti, comunque, non puoi rimanere neutrale.
Probabilmente, oggi il vizio ha un fascino maggiore della virtù. Già il nome di virtù appare obsoleto e riservato a una piccola categoria che diventa fastidiosa e da evitare perché non ci consentirebbe di vivere la vita come vogliamo. Il vizio, invece, no. Del vizio preferiamo intesserne le lodi. In qualche modo, ci piace e ci affascina; ci consente di sperimentare il brivido del proibito che la Chiesa ha sempre combattuto per tenerci legati e soggiogati a sé. E poi, il vizio si traveste felicemente con il tratto ironico che ti rende simpatico anche il peccato peggiore. Chi non riesce a trovare simpatia per un impareggiabile Alberto Sordi nelle vesti dell’Avaro? L’avaro Sordi, fa ridere della sua avarizia e non permette più di cogliere il male intrinseco di chi vuole accumulare solo per sé. E così, ancora una volta, sembra avere ragione Molière: “Tutti i vizi, quando sono di moda, passano per essere una virtù”.
Dall’accidia alla superbia, e viceversa, il passo è breve. Soprattutto ai nostri giorni non è difficile percepire come la presenza dell’una conduca inesorabilmente all’altra. Il fatto non è innocuo per la vita personale. L’accidia, o l’ozio, è stata normalmente identificata come il vizio dei monaci. Indica, l’atteggiamento di indifferenza e disinteresse per il mondo, la vita, se stessi. Spesso si accompagna con la stanchezza, la noia, l’apatia e lo scoraggiamento, portando di fatto alla malattia dei nostri tempi: la depressione. Non si è più padroni di sé, si pensa che il groviglio dell’esistenza sia un labirinto senza via d’uscita e ci si rinchiude in una totale forma di sfiducia. E, tuttavia, non si può confondere la patologia con il vizio. Se c’è vizio allora c’è scelta e quindi responsabilità. Vivere stancamente e nell’ozio, riempire le giornate di pettegolezzo e mirare solo alle debolezze degli altri per non guardare a noi stessi, rimuginare rancore e malizia nei rapporti… insomma, tutto questo porta a dimenticare l’esperienza di Dio e del suo amore. Il passo verso la superbia è breve. Dimentico di Dio non resta che l’uomo, anzi rimango solo io! La superbia, in ultima analisi, è il rifiuto di Dio. Lui o io. Non può esserci una via di mezzo.
Lo aveva ben compreso Agostino quando nel De civitate Dei dice perentoriamente che la superbia è “allontanarsi da Dio e convertirsi a sé” (12,6). Il superbo, scimmiotta Dio; perché vuole imitare la sua potenza e rendersi simile a lui. Non è un caso, quindi, che egli veda nella superbia “l’origine di tutti i mali perché è la causa di tutti i peccati” (In Ioh ev 25,16); tanto da poter “sussistere anche da sola senza gli altri peccati” (De nat et gr 29,33). Torna con tutto il suo valore l’accenno all’etimologia; quel ύπερ dice tutto. Indica il mettersi sopra gli altri, il non voler vedere nessun altro se non se stessi. Una grande lezione proviene anche da Tommaso che, non si dimentichi, è la fonte per Dante come vedremo subito. Con la profondità che gli è propria, Tommaso dice che: “La superbia è il vizio e il peccato con il quale l’uomo,contro la retta ragione, desidera andare oltre la misura delle sue condizioni” (STh II-II,162,1). L’analisi di questa espressione consente di vedere il nucleo della superbia. Il superbo, di fatto, crea una sproporzione tra sé e la realtà con la conseguenza che la volontà, principio che guida l’agire, non è più capace di giudicare coerentemente. Ecco perché è contraria alla retta ragione perché il superbo sopravvaluta se stesso senza confrontarsi con la realtà. La superbia diventa, di fatto, un andare contro la ragione. Questa è fatta per ricercare la verità, vale a dire, ciò che è coerente (adequatio); con la superbia, invece, la stessa ragione è fuori strada. Dirà sempre Tommaso: “I superbi mentre godono della propria superiorità, trovano fastidio nella superiorità della verità” (II-II,162,3, Concl). Non si tratta più di solo sentimento o di condizione psicologica caratteriale. La superbia è un uso non corretto della ratio! Ciò implica l’assunzione di una responsabilità che proviene da una scelta fatta. Puntare gli occhi sulla verità, al contrario, crea equilibrio e permette di vedere non solo la complessità della realtà, ma il suo ordine intrinseco verso cui siamo orientati per ottenere il bene.
Ne è ben consapevole Dante, che alla scuola di Tommaso, identifica esempi concreti di superbi nell’XI canto del Purgatorio. Non è privo di significato che il canto X sia un inno all’umiltà per far emergere il valore della virtù dinanzi al vizio. Alla stessa stregua, l’inizio del canto si apre con la preghiera del Padre nostro per far emergere il riconoscimento dell’uguaglianza dei figli di Dio dinanzi all’unico Padre. Come si sa, Virgilio indica al poeta i superbi come coloro che “La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia… si vede giugner le ginocchia al petto, così fatti vid' io color, quando puosi ben cura”. Tre personaggi ricurvi su se stessi camminano sotto il peso del masso che li opprime. L’immagine è limpida fin dall’inizio: coloro che si sono sopravvalutati ora sono schiacciati a tal punto da non poter vedere neppure Dante che passa accanto a loro. Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzano Salvani stanno a indicare i tre ambiti in cui la superbia sembra esercitarsi con maggior facilità: la nobiltà, l’arte e la politica. Il primo si rivolge a Dante chiedendo, retoricamente, e con un accenno alla superbia non ancora debellata, se lo ricorda. Il secondo, invece, è riconosciuto dal poeta che si china fino a terra per poterlo vedere in volto. E’ con lui che il dialogo diventa più intenso e il senso della superbia acquista maggior significato. “Oh vana gloria de l'umane posse!” esclama Oderisi, facendo da eco a Gregorio Magno che proprio così aveva definito la superbia: “inanis gloria”. La superbia altro non è che illusione e transitorietà: “com' poco verde in su la cima dura”. Lui, il grande e insuperabile artefice di miniature, ora si vedeva superato dal Bolognese di cui non aveva voluto riconoscere l’arte in vita. Alla stessa stregua, parla di Cimabue superato da Giotto, e Guido Guinizzelli che fu dimenticato per il sorgere del Cavalcanti. E, come lascia intuire il testo, anche costui a sua volta adombrato dalla grandezza di Dante. Ed infine, il capo dei ghibellini di Siena votato alla damnatio memoriae al sopraggiungere della vittoria dei guelfi. Insomma, insegna Dante, la superbia ti illude, perché è effimera. Ti lascia godere un istante, ma a ben vedere ti abbandona presto e rende la delusione ancora più grande.
Torna con forza, a questo punto, un’immagine anch’essa scolpita nella mia mente di ragazzo quando davanti al televisore seguivo l’incoronazione di Paolo VI. Il Papa sulla sedia gestatoria procedeva contento e salutava festoso una folla che lo acclamava. Ad un certo punto, il cardinale con in mano un piatto ricolmo di ovatta, incurante di quanto accedeva chiamò il Papa: “Pater Sancte”. Paolo VI si volse verso di lui e in quel momento il cardinale diede fuoco all’ovatta: “Sic transit gloria mundi”. Un attimo e il fuoco bruciò tutto. Il volto di Paolo VI divenne greve e pensoso. Il segno, in questo caso, parla molto di più delle parole. Nessuno può gloriarsi perché tutto passa velocemente, e solo puntare all’essenziale crea stabilità.
Dio disperde quanti hanno pensieri di superbia perché si contrappongono a lui e rimangono chiusi in se stessi e nell’illusione della loro arroganza, mentre egli esalta l’umile. Non è un caso che soprattutto i libri sapienziali facciano ricorso alla dialettica tra superbia e umiltà per indicare in quest’ultima la via privilegiata a cui il giusto e il pio devono attenersi. E’ significativo, d’altronde, che il vangelo di Marco, ripercorrendo lo stesso pensiero, ponga la superbia tra la “bestemmia” e la “stoltezza”; cioè è tipico dello stolto essere superbo, perché si rivolta contro Dio, non volendo riconoscere la sua grandezza, ma nello stesso tempo condanna se stesso per non avere un’intelligenza adeguata della sua esistenza (Mc 7,22). Una parabola, comunque, acquista in questo contesto tutto il suo valore. Gesù narra di due uomini, un fariseo e un pubblicano che si ritrovano insieme al tempio per la preghiera. Il primo, “stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio, che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Lc 18,11-12). Aver posto l’esempio del superbo nello scenario della preghiera ha un suo primo significato: come ci si pone dinanzi a Dio, così ci si pone dinanzi agli uomini, e viceversa. Il senso della parola, comunque, non verte sulla preghiera, ma sull’atteggiamento dell’uomo davanti a Dio. Come si vede, il fariseo fa riferimento a due fatti; anzitutto, elenca i peccati da cui si tiene lontano, poi riferisce di tutte le sue opere buone. Ciò che egli fa è riconosciuto solo come sua impresa personale; il tono delle sue parole e il vanto che ne deriva non sono altro che un’autoesaltazione e compiacenza di sé a tal punto da non essere neppure sfiorato dal pensiero che potrebbe essere un peccatore. Insomma, la sua preghiera diventa un monologo per pronunciare il giudizio su se stesso; non deve attendere quello di Dio, perché si è già posto come innocente davanti a lui e ha trovato il capro espiatorio: il pubblicano. Alla fine, poiché compie opere che non sono comandate dalla legge, ma sono compiute per la sua buona volontà, egli è perfino creditore nei confronti di Dio, a differenza del povero pubblicano che neppure ha la forza di alzare gli occhi verso di lui e chiedere il suo perdono. L’amore di Gesù, tuttavia, è nei confronti di quest’ultimo che nella sua condizione umile di peccatore riconosce di avere bisogno dell’amore di Dio. La verità sulla propria vita appartiene al pubblicano, non al fariseo che rimane fermo nel suo inganno: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8).
A conclusione di questa riflessione giunge attuale la parola di Gregorio Magno. Nel suo Commento morale a Giobbe, il grande Papa identifica quattro atteggiamenti che permettono di riconoscere la superbia: “Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere ciò che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità… Tutto ciò che fanno gli altri, anche se è fatto bene, non piace all’orgoglioso; gli piace solo ciò che fa lui, anche se è fatto male. Disprezza sempre le azioni degli altri e ammira sempre le proprie perché, qualunque cosa faccia, crede di aver fatto una cosa speciale e in ciò che fa, pensa per bramosia di gloria al proprio tornaconto; crede di essere in tutto superiore agli altri e mentre va rimuginando i suoi pensieri su di sé, tacitamente proclama le proprie lodi. Qualche volta poi è talmente infatuato di sé che quando si gonfia si lascia pure andare a discorsi esibizionisti” (33,16-34,48). A ben vedere, l’immagine che ne deriva del superbo è piuttosto una caricatura in cui cade l’uomo. In un momento in cui il narcisismo ha conquistato un posto d’onore nella cultura dei nostri giorni e in molti dei nostri comportamenti, una seria considerazione su chi siamo realmente non dovrebbe stonare né apparire fuori luogo. Perdere il senso del limite e non essere più capaci di humor su se stessi conduce a quella ipertrofia dell’ego che presto o tardi porta a conseguenze nefaste per la propria vita. Meglio allargare l’orizzonte e puntare sull’essenziale della vita per consentire di raggiungere quella vera libertà fonte di genuina realizzazione di sé. Dovremo dire con il libro dei Proverbi: “Ubi humilitas ibi sapientia” (11,2). La verità su se stessi proviene dalla capacità di ascolto e di gratuità che sostengono la profonda intelligenza in ricerca della verità ultima.

(Fonte: Mons. Rino Fisichella, Avvenire, 29 Giugno 2012)

Sentenza G8: Siamo in un paese libero e civile, se lo ricordi anche chi manifesta

Sentenza sui pestaggi alla caserma Diaz, durante il fatidico G8 di Genova. Condannati i poliziotti responsabili, cui toccherà almeno l’interdizione dagli uffici e immagino una consistente contributo al risarcimento danni, per i feriti, troppi, e alcuni in modo grave. Prima considerazione: si chiude una brutta pagina per la nostra democrazia, e questo lo dicono un po’ tutti, ok. Si chiude tardi, però, dopo 11 anni, e pensare che dei sadici picchiatori si siano aggirati tranquillamente per tanto tempo esercitando le loro funzioni di tutela della pubblica salute e sicurezza, non lascia indifferenti. Seconda considerazione: chissà se pagheranno tutti, o i mandanti, o chi era consapevole dei fatti, e ha taciuto, restano ai loro posti, protetti dall’onorata carriera e dai legami con le alte sfere della politica. Insomma: se è stato possibile far sprizzare sangue sulle pareti di una caserma, chiudere dei sospetti facinorosi per tre giorni senza possibilità di contatto con l’esterno e pestarli, con calci e spranghe, qualcuno l’avrà pur saputo, o avrà abituato i suoi sottoposti a chiudere un occhio, e lasciare che si desse sfogo alla rabbia, alla vendetta. Intendiamoci: ci stavano, perché quei ragazzi amanti della libertà che pacificamente protestavano per un mondo più giusto erano in parte gruppi paramilitari, affiliati a forze antagoniste ai limiti della legalità, a copertura di formazioni terroristiche di cui abbiamo visto le azioni in tanti altri incontri al vertice, nelle nostre più recenti proteste in val Susa, per non dire di Roma, l’altr’anno. Gente niente affatto ingenua e innocente, che trasforma i centri storici in teatro di guarriglia, spacca vetrine, insozza e insulta, in specie chi fa il proprio mestiere anche a difesa loro, e che, come ben intuì Pasolini, rappresenta la parte del paese più provata, che non ha tempo di protestare e organizzare sit in, perché deve guadagnarsi il pane; uomini e donne che ci credono, ad un paese che osano chiamare patria, credono all’onore, al coraggio, al servizio per gli altri. Io sto in genere dalla parte dei poliziotti, per questo. Che non sono il male, non sono i cattivi, né allo stadio né nelle piazze, e non si vorrebbe che questa sentenza giusta servisse a sputare fiele ben noto nei confronti delle forze dell’ordine, bersaglio facile e naturale di tutte le tensioni sociali e le follie di spostati o di fomentatori di odio, manovrati da chi non vuol certo il bene comune. Poi, i malvagi e i violenti ci sono dappertutto, purtroppo, tra i poliziotti e tra i giovani rivoluzionari. Era violento Carlo Giuliani, che cercava di lanciare un estintore addosso a un carabiniere terrorizzato, in una camionetta assediata. Aveva paura?
Può darsi. Anche il carabiniere che l’ha ucciso. Non ci si dovrebbe arrivare, a suscitare e subire tanta paura, perché è difficile, quando la folla si accalca, quando la battaglia si accende, capire che chi hai di fronte non è da odiare, non è da fermare con la forza. Ma chi difende la legge ha una responsabilità in più, è stato educato alla pazienza, alla freddezza, a non reagire, non esternare, non abusare di un potere che non è per sentirsi più forti e intoccabili. Quindi, onore a tutti quei poliziotti e carabinieri che, non so come, riescono a restare impassibili quando sorprendono criminali e delinquenti, quando si sentono sbeffeggiare e umiliare e non reagiscono mai. E nessuna copertura, mai, per chi sbaglia, per chi copre chi sbaglia, per gli occultamenti di prove, i depistaggi, la corruzione...
Siamo un paese democratico, capita di rado che ad alti livelli le forze dell’ordine vengano condannate, e questa condanna diventi monito ed esempio. Siamo un paese civile, e libero. Ricordiamocelo, alla prossima manifestazione.

(Fonte: Monica Mondo, Il sussidiario, 6 luglio 2012)

mercoledì 4 luglio 2012

La famiglia normale oggi è ancora possibile

La famiglia normale – quindi cattolica – non solo è possibile, ma esiste davvero. È un’ottima notizia, quella che ci viene comunicata nell’ultimo libro di Lorenzo Bertocchi, Dio & Famiglia – Analisi di una dissoluzione.. e testimonianze di straordinaria normalità (Fede & Cultura, Verona 2012, pp.128, 10.00 €).
Notizia, confortata dai fatti, nomi e cognomi: i beati Beltrame Quattrocchi, i beati Martin – genitori di S.Teresa di Lisieux –, i coniugi Bernardini, Manelli, Gheddo ed Anendolagine, ne sono tutti esempi concreti ed autentici. In un contesto sociale come l’attuale, in cui con sondaggi ed analisi sociologiche si tenta di definir “famiglia” qualsiasi cosa, tutto questo potrebbe non sembrar più così scontato.
Finalmente un testo che invece rilancia l’unica famiglia possibile, quella fondata sul sacramento del matrimonio tra un uomo ed una donna, «che hanno messo Dio, l’unico Dio, al centro della loro vita», impegnati nella difficile, ma affascinante sfida educativa di genitori; sulla scorta di quanto già formulato nel De bono coniugali da sant’Agostino, per il quale, «se mancano i due elementi della fedeltà e della prole, o anche uno solo di essi, non vedo in qual maniera potremo chiamare matrimonio simili unioni». Di per sé non sarebbe necessario aggiungere altro.
Se non vivessimo in una società, in cui – come scrive mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, nella Premessa al volume – «non c’è più posto per la famiglia come non c’è più posto per la Chiesa, perché esse indicano un mondo totalmente diverso, retto da una concezione diversa della vita, dei rapporti fra gli uomini e dell’amore dell’uomo per la donna». Ed allora ecco perché parlarne – e scriverne – è importante, eccome, per contrastare, ad esempio, l’“arrembaggio” morale e culturale, sferrato dagli aficionados dell’omosessualismo e del transgender in tutti i modi possibili, con carte, proclami e documenti quali i “Principi di Yogyakarta” presentati al Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani – alle estemporanee dichiarazioni del prof. Umberto Veronesi sul “Corriere”, quando – esattamente un anno fa – proclamò «esser a suo giudizio l’amore omosessuale “più puro” di quello eterosessuale».
Bertocchi mostra bene quali siano le radici di tutto questo ovvero quella rivolta “morale, politica, sessuale”, che fu il Sessantotto, tra pillola anticoncezionale, pornografia dilagante e femminismo estremo. Bastava però l’analisi compiuta già pochi anni prima da un intellettuale cattolico francese, Jean Daujat, per capire cosa stesse accadendo: «La crisi – scrisse – è nell’uomo ed interessa l’uomo in tutte le sue manifestazioni».
Contro pietismi, emozionalismi e sentimentalismi di maniera, occorre allora rilanciare il concetto di Persona – ovvero di creatura –, protesa a “piacere a Dio”, poiché – come scrisse San Tommaso – «Dio soltanto può riempire la volontà dell’uomo». «Il cammino da intraprendere per raggiungere il Sommo Bene – scrive Bertocchi – è uno solo: imitare e seguire Gesù Cristo», standosene alla larga magari dai «falsi profeti» – specie quando «lupi travestiti da agnelli con la patente di “cattolico”» –, i cui «orientamenti» furono, in realtà, «disorientamenti», come scrisse Benedetto XVI (la cosiddetta “teologia della liberazione” docet…).
Per questo, appare quanto mai utile la seconda parte del libro, in cui – partendo dall’esperienza di famiglie reali e concrete – l’Autore mostra come non sia né impossibile, né strano riuscire in questa “sequela Christi”. Anzi, come in ciò molti siano già riusciti. Coppie di Beati o di Servi di Dio, di cui è in corso la causa di beatificazione. La santità nella quotidianità, nell’ordinario, nella vita di tutti i giorni, insomma. Come per tutti noi, chiamati a percorrere gli stessi itinerari di vita e di fede. Ed il libro di Bertocchi rappresenta in tal senso un’indicazione in più, che aiuta a non perdere la giusta direzione…

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 4 luglio 2012)