mercoledì 18 gennaio 2012

Sulla cittadinanza italiana

Prima delle feste natalizie, era già intervenuto il Presidente della Repubblica. Andando un po’ oltre i propri compiti istituzionali, aveva lanciato un messaggio per riconoscere la cittadinanza italiana a tutti i bambini stranieri nati in Italia, cambiando l’attuale legge. Per la verità la proposta era stata accolta in modo non molto entusiasta dal Presidente Monti, forse consapevole delle diverse reazioni che avrebbe suscitato nell’anomala maggioranza bipartisan che lo sostiene.
Eppure oggi il ministro Riccardi, per la cooperazione internazionale e l’integrazione, rilancia la proposta: “ritengo che si debbano riprendere i lavori in materia di cittadinanza almeno per affrontare il problema dei bambini nati in Italia figli di stranieri che sono qui da un certo periodo. I minorenni figli di cittadini stranieri – ha precisato – sono il 7,5% della popolazione scolastica”.
Chi mai potrebbe non essere d’accordo con il fatto di considerare italiani i bambini figli di immigrati che vanno a scuola con i nostri figli e che imparano le stesse cose? Chi mai avrebbe tanto poco cuore da negare anche a loro di essere cittadini italiani, in omaggio tra l’altro al 150° anniversario dell’unità d’Italia?
Eppure, vorrei qui spiegare perché questa proposta ha ben poca utilità pratica, è uno specchietto per le allodole, per raccogliere facili consensi, e non migliorerebbe la situazione degli stranieri, anzi creerebbe diversi problemi.
Intanto vorrei sottolineare che la cittadinanza è una qualifica, uno status giuridico importante, è – diciamolo pure – un valore aggiunto, perché a essa sono collegati una serie di diritti (ad esempio, elettorato attivo e passivo), che si aggiungono ai diritti umani che spettano a tutte le persone in quanto tali. Essa rappresenta la caratteristica peculiare di una data comunità di persone legate da una storia e una tradizione ben precise. Alla base della cittadinanza c’è l’idea di fedeltà al paese e alle proprie leggi, come ben sottolinea l’art. 54 della Costituzione, “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”. In sostanza, alla base della cittadinanza c’è l’idea di appartenenza.
La prima riflessione è dunque che la cittadinanza non è un semplice titolo di carta, che può essere distribuito come un volantino propagandistico. Mi pare che oggi sia spesso uno sport nazionale quello di fare a gara a chi concede con più larghezza la possibilità di diventare italiani: bastano 5 anni di permanenza in Italia, basta nascere in Italia, diamo l’elettorato e il voto anche senza cittadinanza… tanto siamo tutti uguali. Certo, ma ciò non vuol dire che dobbiamo essere anche tutti italiani.
L’egualitarismo universale, l’indistinzione a priori ha solo provocato molti danni nella storia dell’uomo, così come oggi ne sta provocando la globalizzazione. In questo caso, la svendita della cittadinanza svilisce i riferimenti culturali insiti nel fatto di essere cittadino, e si considera così poco importante essere italiani che si concede la cittadinanza indipendentemente dal fatto che si desideri o meno far parte del nostro paese.
In secondo luogo, mi pare che quello sollevato sia un falso problema.
Già con l’attuale legge 91/1992, i bambini che nascono in Italia e che rimangono a vivere in Italia, possono diventare italiani al compimento del diciottesimo anno di età. A chi giova far acquisire loro la cittadinanza durante la minore età, quando non possono ancora esercitare i diritti a essa connessi? Giova solo a chi voglia dimostrarsi a tutti i costi paladino dell’accoglienza (a parole).
E’ invece importante mantenere il fatto che per ricevere la cittadinanza ci debba essere una richiesta, cioè una scelta ben precisa, dimostrando così di aver maturato una vera partecipazione al destino del paese in cui ci si è trovati a nascere e a vivere. E questo può avvenire solo con il raggiungimento della maggiore età, l’età in cui anche ai cittadini italiani è concesso di poter esercitare il proprio status in modo attivo.
Regalando la cittadinanza agli inconsapevoli bambini stranieri, le cui famiglie magari non la vogliono o comunque vogliono mantenere la propria, non si farebbe un buon servizio. Tanto più che quei bambini godono comunque – ovviamente – di tutti gli stessi diritti e servizi dei minorenni italiani.
Per quanto riguarda poi i minori stranieri di seconda generazione, che – si dice – sono quindi perfettamente integrati in Italia e sono più italiani degli italiani, ci si chiede per quale motivo debba riconoscersi loro la cittadinanza, quando il proprio nucleo familiare, pur in Italia da lungo tempo, non ha mai chiesto di diventare italiano. Si ricorda, infatti, che la cittadinanza si acquisisce anche da parte di qualunque straniero che sia in Italia da almeno dieci anni. Una volta acquisita la cittadinanza o dal padre o dalla madre, il bambino nato in Italia è italiano.
Se quindi permangono situazioni di minori stranieri nati da genitori stranieri a loro volta nati in Italia, è perché questi ultimi non hanno mai sentito la necessità e non hanno mai voluto diventare italiani.
E’ poi ovvio che la sorte dei minori stranieri è legata a quella del loro nucleo familiare.
Se il nucleo familiare è stabile e integrato in Italia da almeno un decennio, la cittadinanza è acquisibile in ogni momento e – come sopra visto – non ha molto senso riconoscerla “prima” al minore nato in Italia.
Se il nucleo familiare non è stabile o è da poco tempo in Italia, riconoscere la cittadinanza al minore nato in Italia, comporterebbe grossissimi problemi. Se i genitori non hanno il permesso di soggiorno o hanno perso i requisiti per mantenerlo, potrebbe verificarsi l’ipotesi di una possibile divisione della famiglia, con l’allontanamento dei genitori del minore ormai italiano. Oppure dovrebbe riconoscersi automaticamente il permesso di soggiorno anche ai genitori del minore italiano, in virtù del principio di unità familiare, pur in mancanza dei requisiti minimi per poter vivere, lavorare e mantenersi, con tutto ciò che ne consegue. Ciò tra l’altro alimenterebbe la speranza di venire in Italia al solo scopo di far nascere il proprio figlio per poi acquisire il permesso di soggiorno.
Un conto è aiutare e sostenere chi comunque si trova in Italia in queste difficili e precarie situazioni di vita e di lavoro, indipendentemente dal fatto che si tratti di italiani o di stranieri.
Un conto è il fatto che lo Stato stesso, con le proprie leggi, crei e faciliti l’incrementarsi e l’aggravarsi di queste situazioni, come sarebbe se si riconoscesse la cittadinanza a tutti i minori nati in Italia.
Se può aiutare il riferimento esterofilo, visto che sembra che non ne possiamo mai fare a meno, non mi risulta che in nessuno degli stati europei a noi vicini un bambino acquisisca automaticamente la cittadinanza.
Sostenere che il problema dell’integrazione si risolva attraverso la concessione di uno status giuridico è fuorviante e ideologico. Altri problemi incombono.
Se proprio si vuol porre mano a riformare la procedura sulla cittadinanza si proceda invece a eliminare le lunghezze e le pesantezze burocratiche che frenano le richieste di tante persone che pur vorrebbero veramente diventare cittadini italiani. Ogni ufficio sparso per la penisola è un’autorità a sé e richiede documenti i più disparati, con il rischio di dover spesso rifare tutto daccapo per un errore di certificazione.
I tempi sono biblici e spesso per delle inezie l’iter viene sospeso, con interminabili fasi istruttorie per decidere se è tutto a posto o meno.
Se si ha veramente a cuore il problema della cittadinanza, mi pare che più realisticamente debba porsi mano a questo aspetto della cosa, anche se meno appariscente e meno politicamente corretto.

(Fonte: Stefano Spinelli, Cultura Cattolica, 13 gennaio 2012)


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