giovedì 26 settembre 2013

Nuovi profeti della cultura italiana. Ovvero, un pauroso minestrone di sincretismo, gnosi, yoga e altre amenità

Sembra non avere fine il rinnovamento del sistema scolastico e universitario italiano: un’istruzione sempre più ricca di proposte di ogni genere, di cibi per tutti i gusti, di indigestioni culturali in salsa sincretistica, relativistica, pansessualistica, omofobica. Dopo il protocollo d’intesa “Verso una Strategia nazionale per combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”a firma del Dipartimento delle pari opportunità e del suo ufficio UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), regalatoci dal Governo Monti con una perspicace intuizione della Ministra Fornero (vedi l'articolo di Marisa Orecchia su questo sito), notiamo che la caccia al terribile omofobo continua imperterrita ancor prima della definitiva e ormai prossima entra in vigore della fatidica legge: dopo il caso scoppiato contro una prof. di religione di Perugia) è scattata la retata liberticida dei movimenti gay anche contro un convegno tenuto a Casale Monferrato sulle tematiche dell’omofobia e del gender: per chi non volesse capirlo, questo è solo un piccolo assaggio; dopo, probabilmente, manette e manganello per tutti.
Certo la nostra cultura può offrire molto di più, non solo intensive purghe LGBTQIA (Lesbian, gay, bisexual, transgender, questioning, intersex, and asexual: ormai è quasi metà alfabeto, chissà cosa inventeranno ancora!): dopo la frequentatissima mostra del cinema di Venezia che ha fornito proposte cinematografiche per tutte le perversioni (vedi l'articolo di Roberto Dal Bosco su questo sito), esce un nuovo derivato per le matricole e i neo-laureati. Sempre da Venezia, udite udite, una notizia Ansa del 14 settembre scorso riportava che “L'Università Ca' Foscari di Venezia proporrà il primo Master europeo dedicato allo yoga. Unico al mondo nel suo genere e pionieristico nei suoi intenti, il Master in yoga studies coniuga le più innovative ricerche storiche e filologiche sullo yoga alle più avanzate conoscenze in campo medico-scientifico e giuridico-economico. Il Master è un momento formativo sia per insegnanti, praticanti di yoga e studenti universitari”.
Ecco, ci mancava anche uno sdoganamento ufficiale nelle aule universitarie dello yoga, oltre alle già centinaia di corsi sparsi in tutta Italia.
Tanto per rinfrescare la memoria è possibile indicare le intese che lo Stato italiano ha già approvato con altre confessioni e movimenti religiosi: Tavola valdese (conclusa 21 febbraio 1984 e approvata con la legge 449/1984, revisione conclusa il 25 gennaio 1993 e approvata con la legge 409/1993); Assemblee di Dio in Italia (conclusa il 29 dicembre 1986 e approvata con la legge 517/1988); Unione delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno (conclusa il 29 dicembre 1986 e approvata con la legge 516/1988, revisione conclusa il 6 novembre 1996 e approvata con la legge 637/1996); Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (conclusa il 27 febbraio 1987 e approvata con la legge 101/1989, revisione conclusa il 6 novembre 1996 e approvata con la legge 638/1996); Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia (conclusa il 29 marzo 1993 e approvata con la legge 116/1995); Chiesa Evangelica Luterana in Italia (conclusa il 20 aprile 1993 e approvata con la legge 520/1995);Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni (Mormoni) (conclusa il 4 aprile 2007 e approvata con legge 126/2012); Arcidiocesi d'Italia ed esarcato per l'Europa meridionale (conclusa il 4 aprile 2007 e approvata con legge 127/2012); Chiesa Apostolica in Italia (Pentecostali) (conclusa il 4 aprile 2007 e approvata con legge 128/2012); Unione Buddhista Italiana (conclusa il 20 marzo 2000, revisione conclusa il 4 aprile 2007. Ratificata dal Parlamento l'11 dicembre 2012); Unione Induista Italiana (conclusa il 4 aprile 2007. Ratificata dal Parlamento l'11 dicembre 2012); Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova (conclusa il 20 marzo 2000, revisione conclusa il 4 aprile 2007); terza revisione dell'intesa con l'Unione delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno (conclusa il 23 aprile 2004, revisione conclusa il 4 aprile 2007); terza revisione dell'intesa con la Tavola Valdese (conclusa il 27 maggio 2005, revisione conclusa il 4 aprile 2007). Inoltre è stata avviata l’intesa, in via di perfezionamento, con Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (confessione riconosciuta come ente di culto con DPR del 20 novembre 2000, trattative iniziate il 18 aprile 2001). Partecipano, inoltre, all’ 8 ‰ e deduzioni fiscali, oltre alla Chiesa cattolica, anche la Tavola Valdese, gli Avventisti del settimo giorno del movimento di riforma, le Assemblee di Dio in Italia, l’ Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Chiesa Evangelica Luterana in Italia.
Tanto basta per comprendere come l’obiettivo politico sia quello di sradicare sempre più le radici cristiane di uno Stato che è una delle culle del cristianesimo e del cattolicesimo, ma che sotto la bandiera della tutela e del riconoscimento di ogni minoranza e di ogni gruppuscolo, propone un vastissimo progetto formativo dispersivo, una nuova Babele culturale e sincretistica. Prepariamoci, oltre alla tanto agognata ora di educazione (omo)sessuale, al supermarket dell’ora di religione: se vuoi un geovista o un maestro di yoga, un mormone o un maestro sufi, un monaco buddhista o volendo un docente di ateismo illuministico e razionalistico (si potrebbe chiedere, in merito, qualche consiglio al ministri dell’educazione francese Vincent Peillon) potresti essere presto accontentato.
Il master universitario di I livello (a ben vedere, se le iscrizioni avranno successo ci sarà anche un II livello suppongo) si intitola “Yoga Studies. Corpo e meditazione nelle tradizioni dell'Asia” e tra i vari obiettivi prefissi leggiamo quello di “fornire conoscenze approfondite e strumenti critici aggiornati in merito al percorso storico del pensiero yoga, e includono corsi specifici relativi alle tradizioni classiche, medievali e moderne dello yoga e ai loro rapporti con altri importanti sistemi filosofici dell'India classica, come il samkhya e il vedanta”; indagare gli aspetti "cosmopoliti" dello yoga e le sue interazioni, alquanto produttive, con diverse pratiche teorico-corporee del mondo iranico-islamico, di quello tantrico-tibetano e di quello cinese tradizionale”.
Non manca l’aspetto pratico che si prefigge di “condurre lo studente lungo un percorso di conoscenza critica delle teorie e pratiche connesse alla percezione/autoconoscenza del corpo e alla sua necessaria rappresentazione e riproduzione artistica e simbolica nell'ambito della dimensione tanto storica quanto contemporanea dello yoga, con un'attenzione particolare, da un lato, alla fenomenologia del corpo e all'estesiologia, e, dall'altro, all'iconografia ed iconologia delle tradizioni yoga”, nonché di “professionalizzare lo studente in senso critico e consapevole e a renderlo capace di trasformarsi in un operatore d'avanguardia nel proprio ambito specifico d'attività, in grado di applicare con successo le svariate competenze e conoscenze acquisite. I corsi previsti coprono realtà che vanno dall'economia dei beni simbolici, al diritto degli operatori di salute, alla sociologia dello yoga in Occidente”.
L’obiettivo è chiaro e lo presenta il direttore del corso, tal prof. Federico Squarcini, dicendo che “con oltre 20 milioni di praticanti negli Stati Uniti, con centinaia di brevetti registrati e di sistemi di tutela di copyright, con decine di palestre in ognuna delle grandi città europee, con un giro d’affari annuale che supera, tra Nordamerica e Unione Europea, i cinque milioni di dollari, lo yoga è senza dubbio uno dei più straordinari esempi di “commodification” e commercializzazione di beni simbolici dei nostri giorni. A fronte di queste cifre non stupisce che economisti e giuristi in tutta Europa si stiano dedicando alla messa a punto di regolamenti e forme di tutela legislativa atte a governare un siffatto fenomeno, che tocca da vicino la vita e le risorse di milioni di persone(per chi volesse approfondire)
Il tutto, alla modica cifra di 4.000 euro, per un corso annuale.
I pericoli e le insidie nascoste dietro il vasto universo delle religioni e delle filosofie orientali, delle pratiche di meditazione e dei vari corsi sono noti, ma per rinfrescare la memoria, si può ricordare che l’obiettivo della pratica Yoga è quello di una divinizzazione dell’individuo, di un’unione della mente e dell’anima con Dio (Paramatma), l'unione tra Jivatman (energia individuale) e Paramatman (energia universale), l'unione del meditante con l'oggetto meditato, l'unione dell'anima individuale con l'Anima universale. L’obiettivo è il raggiungimento di uno stato di benessere totale attraverso la (con)fusione dell’individuo-asceta con il tutto, l’essenza divina: una liberazione dalla sofferenza e dall’ambiente circostante per raggiungere un altro stato di coscienza, una pace interiore, un distacco dal mondo. L’anima verrebbe così liberata dal suo peso materiale e terreno ma soprattutto per il ciclo delle reincarnazioni l'anima impura dell'uomo deve rientrare sempre in un seno materno e nascere di nuovo, raggiungendo dopo varie reincarnazioni purificatrici la redenzione identificandosi infine con l'anima cosmica. Soprattutto nello Yoga indiano l’anima è concepita come unita, nella sua sostanza, alla divinità. Ecco a cosa punta essenzialmente lo Yoga: l’uomo è Dio stesso, si svuota completamente di sé per trovare Dio in se stesso, elevandosi, per mezzo delle forze cosmiche universali (aria, acqua…) ad uno stato originario di piena armonia. Colui che insegna e pratica Yoga si preoccupa costantemente del suo sé in un vortice egoistico di auto redenzione, giacché è lui stesso a salvarsi e non c’è nessun Creatore, nessun Redentore, ma si mira all’auto-annullamento in un’ipotetica forza cosmica.
Una nuova gnosi insomma, un nuovo culto del super-uomo che cerca di auto salvarsi, a ben vedere una nuova tentazione di togliere di mezzo Dio per mettersi al suo posto ( “si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” Gn 3,5). Tanto ci basta per trarne alcune sommarie conclusioni.
Da non esperto ai lavori mi limito a queste riflessioni, lascio a persone più esperte e preparate la descrizione di pratiche di meditazione trascendentale e dottrine filosofiche varie provenienti da Levante. Mi permetto solo un piccolo consiglio al prof. Squarcini e agli studenti del master: nel tempo libero, tra una lezione e l’altra, aprano anche la Bibbia e il Catechismo della Chiesa cattolica (vi troverebbero la Via, la Verità e la Vita, la vera Luce che illumina il mondo), oppure se vogliono conoscere anche qualche altra versione delle religioni e delle dottrine orientali leggano, ad esempio, qualche bel volume tipo La religiosità orientale. Induismo e buddismo a confronto con il cristianesimo, di Corrado Gnerre;Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana”, di Roberto Dal Bosco; o qualche articolo tra la vasta distesa di ricerche sullo yoga e le varie filosofie e religioni orientali.
Noi, intanto, prepariamoci, a veder “sfornare” nuovi guru e maestri Yoga magari pronti a sostituire l’ora di educazione fisica o di religione, senza nulla proferire, pena venir tacciati di “Yogafobia”
 

(Fonte: Giampaolo Scquizzato, Riscossa cristiana, 24 settembre 2013)
 

Le “nozze dei preti” e la vendita di illusioni

"Anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età" cantava Lucio Dalla. Tuttavia la questione celibataria è seria e non può essere ridotta a un motivetto, a uno slogan, alla battaglia di qualche tonachella smarrita.
Il tema divide perfino gli addetti ai lavori e tocca alla Chiesa scegliere se modificare o meno le sue indicazioni. Tuttavia mi permetto di riassumere alcuni argomenti in difesa della tradizione consolidata. Perché credo che i lettori abbiano diritto, almeno una volta, a sentire anche l'altra campana: quella che suona a favore del celibato.
Per cominciare: l'ordinazione presbiterale di uomini sposati e il matrimonio dei preti non sono la stessa cosa, come pretenderebbero i maestri della confusione. Se, a un certo punto della vita, una persona celibe decide liberamente di pronunciare la promessa a perseverare nel suo stato e più tardi si pente, la massima solidarietà e comprensione per il caso umano e tutte le sue possibili motivazioni non possono cancellare il fatto che quel tale è venuto meno alla parola data. È un "poveretto" non un "eroe", tantomeno un "profeta".
Obiezione diffusa: però gli infedeli sono tanti. E se molti rubano il furto non è più reato? Se parecchi contestano la monogamia si possono prendere più mogli?
La norma secolare del celibato, il parallelo valore della castità e perfino quella della verginità sono stati esaltati da personaggi come (pesco a caso nel mucchio) Cipriano, Atanasio, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Girolamo e perfino Agostino, che in materia senza dubbio se ne intendeva. Tutti ignoranti o inconsapevoli? Siamo intelligenti soltanto adesso?
"I tempi sono cambiati" si osserva. E se invece proprio questo nostro tempo avesse ancora più bisogno di figure che propongano questa dimensione "altra", questa "liberazione sessuale" non sessantottina? Inseguendo il "soddisfacimento di bisogni" e gli "impulsi" non vengono forse trascurate l'ascesi, la rinuncia, lo spirito di sacrificio, l'invito "lascia tutto e seguimi"?
La gerarchia ecclesiastica ha il ragionevole sospetto che dalle nozze dei preti nascano più problemi che soluzioni. Per esempio quello delle "corna" (ai coniugati può accadere e la carne è debole per tutti, non soltanto per i celibi), poi della separazione o del divorzio. Per non dire degli eventuali figli. Chi si trincera dietro l'esempio protestante, sa di che parla? Conosce le sofferenze e i problemi pratici del pastore che guida una comunità se per disgrazia ha un figlio tossicodipendente o una figlia di facili costumi? Inoltre, perché si pensa soltanto ai preti e non ai frati, alle suore? Nozze anche per loro?
Certi tribuni dell'anticelibato fanno credere di possedere soluzioni facili, immediate. Vendono illusioni. La Chiesa, abituata a ragionare e riflettere, sa che dietro ogni magia c'è un trucco. In più, ascolta e legge con rispetto e attenzione le parole di coloro che contestano la promessa celibataria. Non parlano e non scrivono di preghiera, penitenza, pietà, sobrietà, umiltà, obbedienza; occhi rovinati sul breviario, ginocchia consumate sui banchi, ore passate nel confessionale. Tra tanto qualunquismo e un pizzico di esibizionismo, coniugano esistenzialismo e socialismo, mai la vocazione alla santità o il mistero della celebrazione eucaristica. Praticano la teologia del corpo più che quella del corpo mistico. Avessero la stoffa e la robustezza morale di un Curato d'Ars o di padre Leopoldo, tanto per giocare in casa, la storia potrebbe essere diversa. Ma quelli non erano pretini.
 

(Fonte: Léon Bertoletti, Riscossa cristiana, 19 settembre 2013)
 

giovedì 19 settembre 2013

A proposito de “I frutti del Concilio”

L’articolo su “I frutti del Concilio” mi ha fatto riflettere. Noto un tono di grande serietà e senso di responsabilità, preoccupazione autentica per la situazione ecclesiale, percezione dell’attuale malcelato disagio dottrinale, accompagnato da perniciose persistenti illusioni modernistiche, considerazioni che invano purtroppo vorrei sentire nella bocca dei vescovi e che invece spesso sento nel buon popolo di Dio, non solo negli illustri uomini di cultura, ma anche del comune fedele, oggetto del mio ministero sacerdotale, soprattutto nella predicazione e nel confessionale.
Mi ha colpito la libertà e l’anticonformismo della dichiarazione iniziale di Papa Benedetto, citata dall’autore,circa i difetti di un importante documento del Concilio, quale la Gaudium et Spes, senza per questo misconoscere naturalmente quanto di buono ha portato il Concilio, al quale del resto egli dette un contributo importante.
Sotto quest’ultimo aspetto, le analisi del prof. Pasqualucci, per quanto puntuali e spesso condivisibili, non sembrano tuttavia render sufficiente giustizia all’aspetto di sana novità portato dal Concilio e dal postconcilio sotto la guida della Chiesa, mentre nessun vero cattolico nega la falsificazione operata dai teologi modernisti.
L’infallibilismo modernista (quello che Paolo VI chiama “magistero parallelo”) è una vera piaga, perché coloro che osano relativizzare il dogmi definiti della Chiesa, hanno poi l’audacia di un’arrogante sicumera circa la loro interpretazione modernista del Concilio, che non temono di imporre in modo dogmatico, senza che dubitino minimamente circa il valore della loro interpretazione.
Certo, come hanno detto sempre i Papi del postconcilio, le dottrine del Concilio, benché non contengano nessun dogma definito, vanno comunque accolte con piena docilità, laddove esse trattano, magari solo indirettamente, di dottrina di fede, senza turbarsi delle nuove formulazioni, le quali, ben lungi dal tradire il Magistero tradizionale, lo esplicitano e lo sviluppano in modo adatto alle nuove circostanze storiche.
Il nodo di fondo di tutta la questione e di tutto il disagio che ogni uomo di coscienza avverte nel campo della dottrina, resta la questione della modernità, che la Chiesa sino al Vaticano II non si era mai posta con tanta chiarezza e sistematicità. Mons. Gherardini si è compiaciuto di segnalare l’infinità di volte nelle quali nei testi conciliari appare l’aggettivo “nuovo”.
Il Concilio è veramente il progetto complessivo di una nuova cristianità. L’intento è stato quello di una vaglio critico della modernità per assumerne, in vista di una nuova evangelizzazione, alla luce delle immutabili verità di fede meglio conosciute ed esposte, gli aspetti validi sia dal punto di vista del linguaggio che dei contenuti, e dar così alla Chiesa un nuovo slancio missionario sulla base di una più approfondita autocoscienza della Chiesa da parte di se stessa.
L’eccesso di ottimismo o una certa faciloneria sociologistica nelle analisi del mondo moderno e l’assenza o scarsezza di opportune condanne degli errori, come sempre hanno fatto i Concili, e come notava la stesso Benedetto XVI, è un difetto di una tale evidenza, lampante dopo quarant’anni di chiarimenti, commenti, spiegazioni, discussioni, applicazioni, interpretazioni, insuccessi, che il negarlo appare ormai come segno di imperdonabile ignoranza o di mala fede ed è tuttora l’ultima spiaggia di un modernismo svampito e sempre meno credibile, che comincia a far grosse crepe e a non credere neppure in se stesso, sempre più rabbiosamente arroccato su posizioni difensive, benché tuttora detentore di un forte potere repressivo.
Sono convinto anch’io con Padre Fabro e molti altri studiosi di alto livello, come per esempio il Card. Siri, che tutta la crisi dottrinale e quindi morale presente, che si trascina da quarant’anni, si potrebbe raccogliere, anche se in modo un po’ semplicistico, attorno al nome fascinoso e fanfarone di Rahner, come ampiamente dimostrato nel libro “Karl Rahner, Il concilio tradito” di P. Giovanni Cavalcoli, frutto di trent’anni di studi e di insegnamento della teologia nelle Facoltà ecclesiastiche.
Ma come rimediare oggi agli immensi danni procurati dal rahnerismo in quarant’anni di libera circolazione, tanto che esso appare ormai come una specie di paradigma del clima dell’attuale teologia e quindi, cosa molto grave, della formazione sacerdotale e quindi dei nuovi vescovi?
Come liberarci da questa consolidata koiné teologica, mai ufficialmente approvata dalla Chiesa ma purtroppo neppure mai condannata, che ormai ha invaso tutti gli ambienti ed ha formato una vera e propria classe di governo ecclesiale di stampo rahneriano? Come rimediare a un male del quale sono affetti proprio coloro che ci dovrebbero curare? Chi curerà i medici? Dobbiamo ancora scendere più in basso?
Certo in una qualunque società umana, se vengono meno le strutture sanitarie, non c’è niente da fare, se non ricostruirle, se ci si riesce. Ma nella Chiesa è diverso: accanto e al di sopra dei medici umani impotenti esiste il Medico divino: Cristo e lo Spirito Santo. Ormai non abbiamo altro rimedio, altra speranza che il ricorso alla potenza divina.
Certo resta il Papa, che nessuna forza infernale può vincere: ma il Papa ha bisogno di essere sostenuto e non tradito da coloro che più strettamente dovrebbero essere i suoi collaboratori. Nessuno tuttavia ci impedisce di stare accanto al Vicario di Cristo, anche nella nostra povertà, in questa lotta mortale contro il potere delle tenebre. Christus vincit, Christus imperat.
Occorrerà però una buona volta che la S.Sede in uno sforzo supremo di obbedienza allo Spirito di Cristo, ci liberi, con la sapienza che sempre l’ha caratterizzata, dal rahnerismo, non certo per tornare al preconcilio, come improvvidamente alcuni vorrebbero, ma per indicarci quella sana modernità che era negli intenti del Concilio e che il Concilio stesso non sempre ha saputo indicarci con totale chiarezza e coraggiosa linearità.
 

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, OP, Riscossa cristiana, 17 settembre 2013)
 

Ma Francesco non è Martini

Il commento di Eugenio Scalfari – e non solo il suo – alla lettera, pubblicata l’11 settembre, che Papa Francesco ha ritenuto d’indirizzargli conferma che il dialogo con i «Gentili senza cortile» – cioè con gli atei che, come il giornalista italiano continua a spiegare a proposito di se stesso, non solo non hanno la fede ma neppure la cercano – è difficile, pericoloso ed esposto a tutte le manipolazioni. Questi commenti, nella sostanza, scambiano Papa Francesco per un «alter ego» del cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012). Sempre di gesuiti si tratta, e i vaticanisti ci assicurano che al conclave del 2005 Martini tifava per Bergoglio. Scalfari e i suoi amici esultano, e qualche critico cattolico ultra-conservatore ripete le stesse cose semplicemente cambiandole di segno. Ma è proprio così?
La figura di Martini – che ho conosciuto personalmente in anni lontani, prima che diventasse cardinale – è più complessa e tormentata di quanto si creda, ma l’aspetto dell’arcivescovo di Milano che qui interessa, e che Scalfari chiama in causa a proposito di Papa Francesco, è la sua idea che fosse necessaria una svolta radicale e un cambio di rotta sostanziale rispetto ai pontificati del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) e di Benedetto XVI. Ecco qui la svolta, scrive ora Scalfari: nella lettera Papa Francesco gli avrebbe scritto cose inaudite, mai sostenute da alcun Pontefice, sul dialogo con la cultura erede dell’Illuminismo, sugli Ebrei e sulla coscienza.
Nello spirito di dialogo instaurato dal Pontefice, possiamo anche immaginare che Scalfari sia in buona fede, né si tratta evidentemente di un esperto di Magistero pontificio. Certamente Scalfari, da illuminista, può pensare che ci si trovi di fronte a cose nuovissime quando legge frasi come «è necessario accogliere le vere conquiste dell’Illuminismo» e che per la Chiesa questa accoglienza ha richiesto «una lunga ricerca faticosa». C’è solo un problema. Queste frasi non sono di Papa Francesco. Sono di Benedetto XVI, nel discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2006, un testo particolarmente importante e solenne. E nel discorso di Ratisbona dell’11 settembre 2006 – di cui ci si ricorda, sbagliando, solo per la parte iniziale relativa ai musulmani – Papa Ratzinger trovava le radici dell’Illuminismo nell’eredità dei suoi amati filosofi greci, i quali già avrebbero proposto «una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo».
Naturalmente, Benedetto XVI non è un nipotino di Voltaire (1694-1778). Non lo è neanche Papa Francesco. Entrambi propongono un dialogo con l’Illuminismo che distingua momenti esigenziali – domande – accettabili da risposte che invece sono a vario titolo sbagliate. Benedetto XVI, nel suo viaggio negli Stati Uniti del 2008 – ma già nel discorso natalizio alla Curia Romana del 2005, dedicato al Concilio Vaticano II – aveva distinto fra due tipi di cultura illuminista, valorizzando quella anglosassone che porta alla Rivoluzione americana, rispetto a quella europea, che invece porta alla Rivoluzione francese. Questioni complesse, su cui gli storici discutono. Ma dove Papa Francesco è in continuità sostanziale con Benedetto XVI, il quale a Fatima il 12 maggio 2010 aveva affermato che per impostare il rapporto fra Chiesa e modernità occorre sempre partire dal Concilio Vaticano II «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [al Concilio] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita». Scalfari è contento del dialogo dei Papi con le «istanze della modernità». Ma i Papi non hanno mai smesso di denunciare anche gli «errori e vicoli senza uscita».
Sugli Ebrei, Scalfari sembra attribuire a Papa Francesco la prima critica nella storia del Magistero alla cosiddetta «teologia della sostituzione», secondo cui la Nuova Alleanza fra Dio e la Chiesa in Gesù Cristo ha «sostituito» totalmente l’Antica Alleanza fra il Signore e Israele, così revocandola. Anche qui è all’opera l’illusione ottica che fa scambiare le indubbie novità di stile e di accenti di Francesco per rivoluzioni dottrinali, che non ci sono. Semmai, nell’incontro con gli Ebrei del 24 giugno 2013, Papa Francesco ha usato sul punto espressioni perfino più prudenti rispetto al beato Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI. La critica di una certa teologia della sostituzione – anche questo un tema complesso, su cui tra i teologi coesistono legittimamente opinioni diverse – da parte del beato Giovanni Paolo II parte dall’incontro con gli Ebrei a Magonza del 17 novembre 1980 e dal famoso riferimento di quel Papa al «Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato». Ci sono sei discorsi dello stesso beato Giovanni Paolo II che vanno nella stessa direzione, e cinque di Benedetto XVI. Ma in realtà – lo hanno rilevato studiosi come don Pietro Cantoni – la critica della teologia della sostituzione è molto più antica, e se ne trovano precedenti ben prima del Vaticano II. Certo non l’ha inventata Papa Francesco a uso e consumo di Scalfari.
Infine, la coscienza. Anche qui Scalfari attribuisce a Papa Francesco una rivoluzione che non c’è. Benedetto XVI ha beatificato il cardinale oratoriano John Henry Newman (1801-1890) che, ai suoi tempi, fu molto criticato per una frase divenuta celebre della sua «Lettera al Duca di Norfolk», secondo cui «se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa». Un brano che, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger aveva commentato rivendicandone la piena ortodossia. «Questa dottrina sulla coscienza di Newman – scriveva autobiograficamente Ratzinger nel 1990 – è divenuta per me sempre più importante». Sì, il beato Newman aveva ragione e tutti – credenti e non credenti – siamo tenuti a seguire anzitutto la nostra coscienza. Ma la coscienza non è il luogo dell’arbitrio e del desiderio, non è – come si potrebbe ricavare da certi scritti del cardinale Martini – il luogo dove si trovano ragioni per contestare la legge naturale su temi come l’aborto o l’omosessualità. Al contrario, la coscienza è precisamente il luogo dove Dio ha depositato la legge naturale, la nozione del bene e del male. Quando Benedetto XVI nel 2010 si reca in Gran Bretagna per beatificare il beato Newman, ne celebra il suo dialogo (ancora) con le «istanze della modernità» e la sua profonda analisi della coscienza. Precisando però che «la via della coscienza non è chiusura nel proprio “io”, ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita». Più o meno le parole che Papa Francesco ha scritto a Scalfari, cui ha proposto – alla fine – una catechesi sugli aspetti essenziali del Cristianesimo. Martini, con tutto il rispetto, talora scriveva cose un po’ diverse.
 

(Fonte: Massimo Introvigne, La nuova bussola quotidiana, 12 settembre 2013)

 

giovedì 12 settembre 2013

Il Papa scrive. «La Repubblica» manipola

Un gesto di frontiera. Papa Francesco lo aveva già spiegato all'inizio del suo pontificato, scrivendo il 25 marzo 2013 ai vescovi argentini, e lo ha ripetuto altre volte: «uscendo» per incontrare chi è lontano dalla Chiesa si corre il rischio d'incidenti. «Ma preferisco una Chiesa incidentata», aveva scritto allora Francesco, a una Chiesa che, con chi è lontano, o anche ostile, semplicemente non parla. Certo, il rischio d'incidenti è massimo quando si parla con chi dell'ostilità alla Chiesa ha fatto la sua ragione sociale, come il quotidiano italiano La Repubblica. Che non è un quotidiano qualunque, è la casa madre dei nemici della Chiesa. E infatti ha risposto con la consueta manipolazione all'offerta di dialogo di Francesco, che con una lettera pubblicata l'11 settembre ha risposto alle domande che gli aveva posto Eugenio Scalfari. Le lettere non hanno titolo, ma il quotidiano ne ha sparato uno in prima pagina: «La verità non è mai assoluta», seguita dalla firma Francesco, come ad arruolare anche il Papa nel partito della dittatura del relativismo, quello per cui va esposto - e se del caso imposto - che la verità è sempre variabile e soggettiva.
Il danno è fatto, perché la lettera è lunga e complessa e molti lettori leggono purtroppo solo i titoli dei giornali, così che l'episodio dovrebbe indurre a qualche riflessione sugli immensi problemi di comunicazione che pone, in piena dittatura del relativismo, la dialettica fra Chiesa chiusa e Chiesa «incidentata». Tuttavia, chi non si ferma al titolo scopre che il Papa a Scalfari ha scritto più o meno il contrario di quello che il titolo di Repubblica suggerisce. Parto dal brano sulla verità, anche se non viene all'inizio della lettera, perché ha un rilievo centrale. Scalfari, forse con qualche malizia, aveva chiesto al Pontefice «se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Francesco risponde che «per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione». Per il cristiano invece «la verità è una relazione»: «non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità e la vita"?».
Attenzione, però, precisa subito Papa Francesco: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre è solo come un cammino e una vita».
La distinzione è proprio quella che, con un gioco di prestigio manipolatore, viene fatta sparire nel titolo di Repubblica. Ma nel testo del Pontefice è chiara. In sé, la verità è non variabile e non soggettiva, dunque - in effetti - assoluta. Sennonché la parola «assoluta» ha diversi sensi. Dal nostro punto di vista umano la verità - che in sé è assoluta, nel senso che non è affatto «variabile e soggettiva» - non è «assoluta» in un altro significato della parola, quello etimologico latino di «ab-soluta, soluta ab, "sciolta da"». Non è sciolta dalla relazione con Cristo, e non è sciolta dalla fatica di un cammino che dura tutta la vita e ci porta ad afferrare e comprendere gradualmente e faticosamente quel vero che di per sé è assolutamente oggettivo e non-variabile.
Ma - si chiederà a questo punto il lettore cattolico - perché mai il Papa si esprime in questo modo, che per essere compreso richiede una pausa, una lettura attenta, una spiegazione? Non era più semplice ribadire semplicemente a Scalfari - Papa Francesco poteva citare se stesso, nel discorso al Corpo diplomatico del 22 marzo 2013 - che «la dittatura del relativismo mette in pericolo la convivenza tra gli uomini» e crea una «povertà spirituale» non meno grave della povertà materiale? Da un certo punto di vista, era più semplice e meno rischioso non scrivere a Scalfari. Ma, una volta presa la decisione e assunto il rischio, Francesco non può che impiegare il metodo che ha tante volte proposto per «uscire» verso le «periferie esistenziali» - da non confondere con le periferie materiali e fisiche delle città - dove vivono i poveri più poveri, quelli che hanno magari tutte le ricchezze tranne la ricchezza essenziale, la fede. E tra questi «poveri spirituali» c'è senz'altro anche Scalfari. Il modo di accostare questi «lontani» che il Papa propone non è partire dalla polemica - che sarebbe comprensibile e del tutto giustificata, ma certo non li avvicinerebbe alla fede - ma dalla persona di Gesù Cristo, additata come via, verità, vita ma anche come perdono e misericordia. Questo «dialogo aperto», sulla scia del Concilio Ecumenico Vaticano II e di Benedetto XVI - che per primo aveva parlato di un «cortile dei Gentili» da proporre alla cultura di derivazione illuminista e atea - è quello che il Pontefice regnante offre a Scalfari, e ai tanti come lui, a partire dall'enciclica «Lumen fidei», che Francesco ribadisce di avere ricevuto dal suo «amato Predecessore» già «in larga misura redatta» ma di avere «con gratitudine» fatta sua.
Che cosa offre ai non credenti il Papa? Anzitutto l'essenziale: la testimonianza che l'incontro con Gesù «ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza», e che questo incontro Gesù lo offre a tutti coloro che non chiudono il loro cuore, anche dopo una vita lontana dalla fede, Scalfari compreso. Ma attenzione, aggiunge il Pontefice: questo incontro non è mai offerto fuori della Chiesa: «Senza la Chiesa - mi creda - non avrei mai potuto incontrare Gesù». È un tema che il Papa ha illustrato anche all'udienza generale dell'11 settembre dove, riprendendo le catechesi sulla Chiesa, ha proposto una meditazione sulla Chiesa come madre. «A volte io sento - ha detto il Pontefice - io credo in Dio ma non nella Chiesa». Ma «la Chiesa siamo tutti e se tu dici che credi in Dio e non credi nella Chiesa, stai dicendo che non credi in te stesso, questa è una contraddizione!». Quello che è difficile spiegare ai non credenti è che «il nostro far parte della Chiesa non è un fatto formale, non è riempire una carta, è un atto interiore. Non si appartiene alla Chiesa come si appartiene a una società, a un partito o a una qualsiasi altra organizzazione. È un legame vitale come quello che si ha con la propria mamma», che ha anche dei difetti ma che va seguita quotidianamente con rispetto e con affetto.
A Scalfari, che rimprovera all'enciclica una scarsa attenzione alla critica storica dei Vangeli, Francesco risponde che il tema della «Lumen fidei» è riproporre non i dettagli, ma in tutta la sua «concretezza e ruvidezza» l'essenziale della missione di Gesù: la sua predicazione con «exousia», con un'autorità che scaturisce da quello che il Signore effettivamente è e non da una semplice abilità nella predicazione. Alla fine, l'annuncio decisivo riguarda «l'identità di Gesù», che fa cose che già «nell'Antico Testamento sono di Dio e soltanto di Dio». Gesù è Dio, ed è risorto: questo è «il cardine della fede cristiana»: «questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica». E - come Scalfari sa, ma non vuole accettate - è proprio dalla fede trinitaria, dal fatto che tra Dio e la storia ci sia un mediatore insieme divino e umano, Gesù Cristo, che nasce la possibilità di una «distinzione fra la sfera religiosa e la sfera politica», che è così difficile da fondare in altre religioni e su cui invece «faticosamente si è costruita la storia dell'Occidente». Una distinzione che non è separazione, perché la fede è distinta dalla politica ma è chiamata a «incarnarsi» anche nella vita sociale, «nel diritto», «nella giustizia».
Il problema di Scalfari è di fondo: non solo non crede, ma non vuole credere. Di qui allora alcune sue domande, che sono piuttosto confessioni di questa difficoltà a comprendere le questioni ultime se ci si pone da un punto di vista semplicemente umano. Come può Dio essere veridico - aveva chiesto il giornalista - se aveva promesso la sua amicizia al popolo ebraico e lo ha poi abbandonato all'inferno dell'Olocausto? La questione è immensa e misteriosa, risponde il Papa, ma da un certo punto di vista «mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele». Anche nelle prove più terribili la Provvidenza ha fatto sì che gli ebrei abbiano almeno «conservato la loro fede in Dio» e non siamo scomparsi come popolo, come volevano i loro persecutori.
La scienza - chiede poi Scalfari - ipotizza una Terra futura dove non ci saranno più esseri
umani: come potrà allora esistere Dio se non esisteranno più gli uomini che lo pensano? «Dio non dipende dal nostro pensiero», è la risposta ovvia del Papa. Francesco però aggiunge che la domanda è mal posta: gli uomini, se anche fossero spazzati via dalla Terra, non cesseranno davvero di esistere. L'anima umana è immortale, e tutti esisteremo ancora, in un'altra dimensione, anche quando la Terra non esisterà più.
Ma la domanda di Scalfari che più sta a cuore al Papa è un'altra, che riporta alla questione della verità: Dio perdonerà anche chi non crede? «La misericordia di Dio non ha limiti», risponde Francesco, che però aggiunge: «se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito».
Come si salva chi, sinceramente, non arriva alla fede? La risposta del Papa è chiara: la chiave «sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza». La coscienza, beninteso, non va intesa come sinonimo delle nostre opinioni soggettive o peggio dei nostri desideri. Nel fondo della coscienza tutti percepiamo le azioni «come bene o come male», e sappiamo che sulla scelta tra bene e male «si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire». Parlare di legge naturale farebbe venire l'itterizia a Scalfari, ma si tratta proprio di questo: se non la soffochiamo con l'ideologia e il vizio, nella nostra coscienza c'è un senso naturale del bene e del male, e c'è perché ce l'ha messo Dio. Seguire questa verità naturale iscritta nella coscienza è quanto è chiesto anche ai non credenti sinceri.
Ma il relativismo rende tutto più difficile.
 

(Fonte: Massimo Introvigne, La nuova bussola quotidiana, 11 settembre 2013)
 

Veronesi, uno scienziato al servizio dell’ideologia dominante

«I bisessuali domineranno l’umanità», dice Umberto Veronesi a “L’Espresso”, ribadendo le teorie che ha diffuso in questi anni, peraltro assai proficui per lui, in termini di nomine e di incarichi, come quello acquisito recentemente di Presidente della Commissione Sviluppo Sanità della Regione Lombardia e per le vicende che lo vedono al centro di progetti megagalattici, come quello del Cerba di Milano, il Centro di Ricerca di cui è promotore, congelato per sei mesi e che dovrebbe nascere su un’area di 620mila metri quadrati di proprietà di una delle società ex “gruppo Ligresti”.
L’etica umana, a parere dell’illustre scienziato, si evolve ed è il «logorio» a generare, nell’uomo e nella donna, l’inversione dei ruoli. Il maschio diventa femmina e viceversa. «Se un uomo – dichiarava Veronesi al “Corriere della Sera” del 7 agosto scorso deve alzarsi al mattino per cacciare la preda che fornirà cibo a sé e ai suoi, se deve uccidere, appostarsi, inseguire, il cervello comunica i suoi bisogni aggressivi all’ipofisi, che stimola altre ghiandole tra cui le gonadi: da qui la produzione di molti ormoni maschili, che a loro volta creano spermatozoi. Se invece lo stesso uomo trascorre la giornata in ufficio, arriva a casa, culla il figlio e aiuta nei lavori domestici, la sua ipofisi riceve meno stimoli e giorno dopo giorno i testicoli si ‘addormentano’».
E la donna? «La donna oggi – affermava Veronesi deve sviluppare aggressività, fare carriera, comandare persone, assumersi responsabilità, competere con gli uomini, sopportare doppi e tripli ruoli, che soffocano la sua femminilità. Il risultato è che le donne affrontano la prima gravidanza in età più avanzata e appaiono sempre meno femminili, socialmente e biologicamente». Insomma, il fenomeno dell’infertilità spiegato attraverso il cambiamento dei ruoli familiari e sociali tra i due sessi, che produce l’attenuarsi della polarità e dell’attrazione tra i due sessi.
Ad avvalorare questa tesi, Veronesi portava due altri elementi. Descrivendo il primo, si richiamava alla Bibbia, dove – sosteneva la sterilità era considerata il «peggiore dei mali e qualsiasi cosa era giustificata pur di procreare, dal tradimento fino all’incesto. Oggi invece la nostra ansia è la sovrappopolazione e la spinta sociale è alla limitazione delle nascite. E i fenomeni demografici influenzano la biologia. C’è un legame profondo fra mente, assetto ormonale e sessualità». Si potrebbe osservare che quella “spinta sociale” è favorita da quasi tutto l’apparato scientifico del mondo, legato alle teorie malthusiane, che incidono profondamente sul fenomeno della decrescita della natalità. È il senso dell’umano che deve essere distrutto, per poi distruggere – a cascata – tutti i principi che sono a fondamento della sua identità.
Dire che il futuro dell’umanità è bisessuale anche se questa teoria dovesse essere ammantata dal modello della “liberalità”, una sorta di allargamento delle identità sessuali ai fini di aumentare le possibilità di scelta individuale – o propagandare la “teoria del gender”, che nega la differenza sessuale, significa trasformare in modo irreparabile la cultura occidentale: significa cambiare l’idea di natura e di identità naturale, il concetto di famiglia e di procreazione, tutti nodi fondamentali di qualsiasi sistema antropologico. Non si scardinano i principi per puro divertimento o a caso. Si scardinano perché l’eliminazione di quei principi favorisce.
 

(Fonte: Danilo Quinto, Corrispondenza Romana, 11 settembre 2013)

 

giovedì 5 settembre 2013

Femen, la realtà messa a nudo

Ricordate le Femen, le attiviste ucraine che si mettono a seno nudo in piazza in nome del femminismo, del matrimonio omosessuale e della laicità? Sono quelle che hanno distrutto con una motosega in Ucraina la croce eretta in memoria delle vittime dello stalinismo, che si sono spogliate a Notre Dame per i diritti dei gay e hanno contestato Benedetto XVI in Piazza San Pietro. Una di loro - ne abbiamo parlato - ha perfino prestato il volto a Marianna, il simbolo della Rivoluzione francese, per il nuovo francobollo unico che la Francia ha adottato per tutta la corrispondenza, e che è stato presentato personalmente dal presidente Hollande. Le Femen sono ormai una multinazionale, con scuole per attiviste in Francia, in Germania, in Brasile, e un'icona globale del femminismo e dei nuovi diritti.
O lo erano fino a ieri. Perché ieri è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia il film «L'Ucraina non è un bordello» della regista australiana Kitty Green, che ha vissuto per un anno con le Femen a Kiev, ha manifestato con loro e a Roma con le ragazze di Kiev si è perfino fatta arrestare. Partita per girare il suo film da una simpatia per le Femen, la Green ha scoperto tutta una serie di scheletri nell'armadio delle attiviste anti-religiose, che l'hanno indotta almeno parzialmente a ricredersi.
Le Femen non fanno il loro strano mestiere solo per idealismo. Sono regolarmente pagate, con un fisso di mille dollari al mese, ma prendono una quota anche delle donazioni - che arrivano principalmente da uomini, non da donne - e possono arrivate a guadagnare fino a dieci volte tanto. Sono reclutate non in base all’ideologia ma all’avvenenza: inchieste della stampa francese avevano già insinuato che alcune avrebbero precedenti nel mondo della pornografia e della prostituzione semi-amatoriale delle studentesse.
Il pezzo forte del film della Green è il tentativo di rispondere alla domanda: chi recluta le Femen? La risposta è: Viktor Sviatski, un inquietante uomo d’affari ucraino che le Femen hanno presentato come loro «consulente politico» ma che è in realtà, secondo la Green, il loro inventore e il loro padrone. All’inizio, nel film, Sviatski sembra un po’ il misterioso Charlie che dirigeva le detective della serie televisiva «Charlie’s Angels»: nessuno lo vede mai, comunica solo per telefono ma dà istruzioni estremamente precise ed esigenti su cosa fare, dove colpire, e perfino che dieta seguire per apparire congruamente avvenenti. E minaccia anche le ragazze: niente successo mediatico, niente soldi.
Alla fine, Sviatski accetta di parlare con la Green e dichiara di avere creato lui le Femen. Perché lo ha fatto? La risposta è brutale: «Gli uomini fanno di tutto per il sesso: io ho creato il gruppo per avere delle donne». Ma non è – obietta la regista – il contrario del femminismo che le Femen propagandano? La risposta di Sviatski è disarmante: «Spero che vedendo il mio comportamento patriarcale loro alla fine rifiutino quel sistema che io rappresento». E le ragazze che ne pensano? «Senza un uomo dietro, non saremmo mai venute fuori», ammette una di loro nel film. E in effetti che Sviatski gestisca una specie di harem – certo, guadagnandoci anche – era stato suggerito dalla stampa ucraina quando l’uomo d’affari lo scorso 24 luglio era stato aggredito da sconosciuti e pestato nella notte a Kiev. La stampa occidentale, compreso qualche giornale italiano, aveva pensato alla Reazione con la R maiuscola – che, per definizione, è sempre in agguato –, smettendo poi di parlare del caso quando era cominciata a emergere l’ipotesi che all’origine del pestaggio ci fosse invece il fidanzato di una delle ragazze.
La spiegazione del film, però, finisce per apparire un po’ troppo semplice. Uomo fantasioso come sembra essere, se Sviatski cercasse solo sesso e denaro avrebbe potuto procurarseli senza mettere su un baraccone internazionale complicato come quello delle Femen. Per quanto la Green abbia indagato in prima persona, il film non risponde a tutte le domande. Sviatski recluta e paga le ragazze, ma chi paga Sviatski? La storia dei tanti piccoli donatori che, eccitati di fronte alle foto delle bellezze senza veli, mandano il loro obolo alle Femen via Internet non è, neppure lei, del tutto convincente. Le Femen non sono un aneddoto. Fanno propaganda – di enorme risonanza mediatica – per cause ben precise: la lotta alla Chiesa, l’ideologia di genere, il matrimonio omosessuale. Riescono a infiltrarsi in riunioni politiche vietate al pubblico grazie a tessere di grandi agenzie di stampa internazionali non proprio facili da ottenere e che non si comprano su Internet. Da chi le ricevono? Chi c’è dietro Sviatski?
Qualche risposta viene da indagini di stampa, e anche da un curioso gruppo di ragazze francesi che hanno fondato Les Antigones. Il nome viene dall’eroina della tragedia di Sofocle (496-406 a.C.), che muore per testimoniare che la legge divina è al di sopra delle leggi umane, e Les Antigones seguono le Femen protestando contro le loro proteste, non spogliandosi ma indossando tuniche bianche che ricordano il teatro greco. Ben vestite e con l’aria delle brave ragazze, Les Antigones hanno acquistato una certa popolarità, ma naturalmente sono anche state attaccate come «fasciste», cattoliche tradizionaliste o signorine ricche e annoiate in cerca di distrazioni.
Una delle Antigones si è anche infiltrata fra le Femen. Intervistata alla radio, ha sostenuto che la pista del denaro porta agli Stati Uniti – non ha fatto nomi, ma qualche organo di stampa ha menzionato il finanziere George Soros, noto per avere donato cento milioni di dollari a gruppi che promuovono il matrimonio omosessuale e l’aborto – e che le Femen sono un gruppo «lanciato dalla sinistra euro-americana al servizio della sua agenda politica e geopolitica». L’anonima Antigone – che ha infiltrato le Femen all’epoca della loro protesta a Roma contro Silvio Berlusconi – ha pure affermato che le Femen «si sono interessate molto presto all’Italia. Ho avuto l’impressione che dovessero dare una mano a far cadere Berlusconi nel quadro della lotta di certi ambienti finanziari interessati a tenere l’Italia sotto controllo».
Femen contro Antigones: una guerra che diverte la Francia e che assomiglia troppo a una commedia brillante per ricavarne profonde considerazioni politiche. Ma che forse giustifica una richiesta alle Femen: se la verità è nuda, la prossima volta – invece dei consueti slogan – si scrivano addosso, cortesemente, quanto sono pagate e da chi.
 

(Fonte: Massimo Introvigne, La Nuova bussola quotidiana, 4 settembre 2013)
 

Pace fatta tra Müller e Gutiérrez. Ma Bergoglio non ci sta

Domenica prossima, 8 settembre 2013, nella basilica di Santa Barbara a Mantova, il prefetto della congregazione per la dottrina della fede Gerhard Ludwig Müller e il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez presenteranno assieme l'edizione italiana di un loro libro a quattro mani dedicato alla teologia della liberazione, in vendita da lunedì 9 settembre in tutte le librerie: G. Gutiérrez, G.L. Müller, Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa” (Edizioni Messaggero-EMI, Padova, 2013, pp. 192).
Il libro è uscito nel 2004 in Germania senza suscitare particolari emozioni, ma questa sua ristampa italiana è stata salutata da alcuni come una svolta storica: quasi fosse la firma di un trattato di pace tra la teologia della liberazione e il magistero della Chiesa.
Gutiérrez è considerato uno dei padri della teologia della liberazione e Müller fu suo allievo e ammiratore. Tant'è vero che quando nel 2012 Benedetto XVI lo chiamò a presiedere la congregazione per la dottrina della fede, molti manifestarono sorpresa.
Si devono infatti proprio a Joseph Ratzinger, quando era lui il prefetto della congregazione, le due “istruzioni” concatenate del 1984 e del 1986 con cui la Chiesa di Giovanni Paolo II sottopose la teologia della liberazione a una critica molo severa, mossa “dalla certezza che le gravi deviazioni ideologiche denunciate finiscono ineluttabilmente per tradire la causa dei poveri”.
Ma evidentemente Ratzinger riteneva accettabile la lettura che Müller dava delle posizioni di Gutiérrez, se non solo l'ha fatto prefetto della congregazione per la dottrina della fede, ma gli ha affidato anche la cura dell'edizione completa delle sue opere teologiche, in tedesco già arrivata quasi a metà dell'impresa.
Il giudizio positivo di Müller sulla teologia della liberazione – letta attraverso la lente di Gutiérrez – lo si coglie fin dalle prime righe della pagina del libro: “Il movimento ecclesiale e teologico dell’America Latina, noto come teologia della liberazione e che dopo il Vaticano II ha trovato un’eco mondiale, è da annoverare, a mio giudizio, tra le correnti più significative della teologia cattolica del XX secolo”.
Più avanti egli sostiene: “Solo per mezzo della teologia della liberazione la teologia cattolica ha potuto emanciparsi dal dilemma dualistico di aldiquà e aldilà, di felicità terrena e salvezza ultraterrena”.
L'espressione di papa Francesco: “Sogno una Chiesa povera e per i poveri” è stata sbrigativamente assunta da molti come il coronamento di questa assoluzione della teologia della liberazione.
Ma sarebbe ingenuo considerare chiusa la controversia.
Lo stesso Jorge Mario Bergoglio non ha mai celato il suo disaccordo con aspetti essenziali di questa teologia.
Suoi teologi di riferimento non sono mai stati Gutiérrez, né Leonardo Boff, né Jon Sobrino, ma l'argentino Juan Carlos Scannone, che aveva elaborato una teologia non della liberazione ma “del popolo”, centrata sulla cultura e la religiosità della gente comune, dei poveri in primo luogo, con la loro spiritualità tradizionale e la loro sensibilità per la giustizia.
Nel 2005 – dunque quando era già uscito in Germania il libro di Müller e Gutiérrez – l'allora arcivescovo di Buenos Aires scrisse: “Dopo il crollo dell'impero totalitario del 'socialismo reale' queste correnti di pensiero sono sprofondate nello sconcerto. Incapaci sia di una riformulazione radicale che di una nuova creatività, sono sopravvissute per inerzia, anche se non manca ancora oggi chi le voglia anacronisticamente riproporre”.
A giudizio del fratello di Leonardo Boff, Clodovis, l'evento che segnò l'addio della Chiesa cattolica latinoamericana a quel che restava della teologia della liberazione fu la conferenza continentale di Aparecida del 2007, inaugurata da Benedetto XVI in persona e con suo protagonista il cardinale Bergoglio.
Clodovis Boff maturò proprio in quel periodo la sua “conversione”. Da esponente di punta della teologia della liberazione diventò uno dei suoi critici più taglienti.
Nel 2008 fece scalpore la polemica tra i due fratelli. A giudizio di Clodovis, l'errore “fatale” in cui la teologia della liberazione cade è di collocare il povero come “primo principio operativo della teologia”, sostituendolo a Dio e a Gesù Cristo.
Con questa conseguenza: “La 'pastorale della liberazione' diventa un braccio fra tanti della lotta politica. La Chiesa si fa simile a una ONG e così si svuota anche fisicamente: perde operatori, militanti e fedeli. Quelli 'di fuori' provano scarsa attrazione per una 'Chiesa della liberazione', poiché, per la militanza, dispongono già delle ONG, mentre per l’esperienza religiosa hanno bisogno di molto più che una semplice liberazione sociale”.
Il pericolo che la Chiesa si riduca a una ONG è un segnale d'allarme che papa Francesco lancia ripetutamente.
Sarebbe ingannevole trascurarlo, nel rileggere oggi il libro di Müller e Gutiérrez.
 

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 5 settembre 2013)


Uomini fatti per amare le donne

Apriti cielo! Alain Delon ha pronunciato una frase “shock e anti-gay”: è un omofobo. Così hanno scritto i giornali. Cosa avrà mai detto quell'affascinante attore di 77 anni, Leone d’oro a Berlino, osannato e qualche volta criticato dalla critica cinematografica, l'attore de Il Gattopardo, di Rocco e i suoi fratelli? Quali parole inaudite saranno mai uscite dalla sua bocca, durante il suo intervento alla trasmissione televisiva, “C à vous” di France 5?
«Mi dispiace dirlo - ha dichiarato - ma non esistono più differenze, non c'è più rispetto. Non ho niente contro i gay che si mettono insieme, ma noi uomini siamo fatti per amare le donne».
Siamo fatti per amare le donne e, diciamolo, a noi donne piacciono gli uomini capaci di queste certezze, quelli che sanno essere differenti da noi e per questo essere l’altro lato della medaglia. Certo, abbiamo le nostre responsabilità, abbiamo lottato molto per ingentilirli, per femminilizzarli e ci dispiace ammettere che non sempre era questo il risultato che volevamo ottenere. Volevamo che imparassero a lavare i piatti, cambiare pannolini, dividere le fatiche della gestione familiare, ma ci piace che abbiano il dono della sintesi, la capacità di arrivare al nocciolo dei problemi, qualche volta anche l’incapacità di cogliere problemi che per noi sono drammi e che per loro sono quisquilie.
Insomma caro Alain Delon, con buona pace di tutti, con il fascino dei tuoi 77 anni, puoi dire ciò che pensi e che pensiamo ancora in molti, ma che per ipocrita “correttezza” evitiamo di dire in pubblico.
Niente contro i gay, ma ci piacciono gli uomini, quelli capaci di amare le donne, consapevoli di essere “stati fatti per amare le donne”. Gli uomini che amano gli uomini? Liberissimi, ma sarà pure permessa la libertà di pensiero, o non più?
 

(Fonte: Nerella Buggio, Cultura Cattolica, 4 settembre 2013)
 

“Inchiesta su Maria” di Corrado Augias e Marco Vannini

Ci mancava proprio questo testo di Corrado Augias e di Marco Vannini sulla Madonna, anche se, francamente, non ne sentivamo alcun bisogno; come non ci mancavano le entusiastiche parole di recensione di Vito Mancuso, che, da par suo, continua nella demolizione del cattolicesimo (forse giustificando così, di fronte a sé e al mondo, la sua personale scelta di vita).
È strana l’impressione che si ha leggendo questo articolo di Repubblica: è come se ci si trovasse di fronte alla cronaca di una partita di calcio scritta da uno che non se ne intende affatto, e il cui unico riferimento siano i giochi della pallacorda ai tempi che precedevano la rivoluzione francese.
Così si assiste da un lato alla critica di una certa Mariologia che ha certamente fatto il suo tempo, e dall’altro alla sistematica dimenticanza di ciò che costituisce la coscienza attuale della Chiesa (e non è un caso che, nell’articolo, non ci sia neppure un accenno al Concilio Vaticano II, che concludeva la Costituzione sulla Chiesa Lumen gentium con una trattazione esauriente della figura di Maria – e mi pare che proprio tale riflessione abbia avuto negli autori citati da Vito Mancuso dei convinti assertori).
Inoltre sembra che, nel furore iconoclastico di Mancuso e compagni, sia completamente assente la realtà, quella della autentica riflessione mariologica dei nostri tempi recenti e la realtà di un popolo che oggi, nel nostro presente, ha trovato in Maria ragioni di vita e di speranza.
Ci sembra di essere proprio di fronte ai soliti intellettuali nemici e dispregiatori del popolo, quegli snob che trovano la loro forza nella derisione di quanto dona agli uomini una speranza affidabile; quei professorini che, incapaci di costruire quei grandi edifici umani e concettuali dei geni della storia, si beano del loro cinico disprezzo.
Sembra di essere di fronte alla volpe che, davanti alla succosa uva, se ne va con il suo disperato commento: «Nondum matura est – andiamocene via, è ancora acerba».

 

(Fonte: Don Gabriele Mangiarotti, Cultura Cristiana, 2 settembre 2013)