Nel
gennaio 2004 per la prima volta una madre palestinese di appena 21 anni si fece
esplodere uccidendo quattro israeliani e lasciando due figli, l’uno di 18 mesi
e l’altro di tre anni. L'attentato, consumatosi a Gaza, rappresentò un grave
salto qualitativo nella strategia dell’estremismo islamico. L'identikit
dell'aspirante “martire” era progressivamente mutato. Si era passati dal
maschio giovane motivato dalla disperazione economica o dalla sete di vendetta
nei confronti del “nemico sionista”, all'adulto di entrambi i sessi spinto da
una scelta ideologica indipendente dallo status socio-economico-religioso e
ispirata da una crisi di identità, come avevano dimostrato gli attentatori
dell’11 settembre. Il caso della giovane Reem Reyashi, benestante e
sostanzialmente laica, ampliava spaventosamente le possibilità di arruolamento
dell'esercito della morte coinvolgendo le madri, ovvero le persone che più di
altre dovrebbero avere a cuore la salvaguardia della vita propria e dei propri
figli.
D’altronde il 9 novembre 2005 la belga Muriel
Degauque, 38 anni,
convertita all’islam, si fece esplodere a bordo di un'auto imbottita di
esplosivo sulla strada per Baquba, sessanta chilometri a nord di Bagdad.
Nel febbraio 2008 la fabbrica del terrore fece un altro atroce e
disumano balzo in avanti poiché si ebbe l’abbietta strumentalizzazione della
vita di due ragazze disabili, trasformate in bombe umane e fatte esplodere da
Al Qaeda in due mercati di Bagdad, provocando il massacro di oltre 70 persone.
Questa tendenza è stata tristemente confermata da un reportage sulle donne
kamikaze trasmesso dalla televisione Al Jadid/New TV il 19 agosto 2008.
Agghiacciante fu la testimonianza di una giovane donna che si fa chiamare
“Amante di Gerusalemme”: “Questa è la cintura che portiamo intorno alla vita,
così che possiamo farci esplodere premendo un bottone. E’ un bottone di
sicurezza. Non esplodiamo se non lo schiacciamo. Solo quando Dio instilla il
desiderio nel nostro cuore… la nostra forza non è nel corpo, ma nel cuore”.
Se è difficile comprendere come si possa
giustificare e
autorizzare un attentato suicida da parte di un uomo, lo è ancora di più
qualora si tratti di una donna. Sembrerebbe un controsenso. Invece l’estremismo
islamico, che ritiene che la donna debba coprirsi, vivere una vita riservata,
muta parere qualora possa diventare uno strumento utile per ottenere un fine,
ovvero uno strumento di resistenza. E’ sufficiente leggere una fatwa emessa
dallo shaikh Yusuf al-Qaradawi sulle donne kamikaze per comprendere
il ragionamento che sottende all’autorizzazione: “L’operazione di martirio è la
più alta forma di jihad sulla via di Dio […]una donna ha il diritto di
parteciparvi accanto agli uomini” poiché “possono talvolta fare ciò che è
impossibile per gli uomini”. Ma la parte più interessante riguarda la questione
del velo, di cui al-Qaradawi è sempre stato un estremo fautore: “Per quanto
riguarda il velo, una donna può indossare un cappello o qualsiasi altra cosa
per coprirsi il capo. Qualora necessario può togliere il velo per portare a
compimento l’operazione perché morirà per la causa di Dio e non vuole esibire
la sua bellezza o i suoi capelli. Quindi non vedo alcun problema nel togliere
il velo in questa occasione”.
È evidente come la donna venga automaticamente
esentata dai
doveri che dovrebbe assolvere per essere una buona musulmana come si legge
nell’articolo 18 dello statuto di Hamas: “La donna, nella casa e nella famiglia
dei combattenti, si tratti di una madre o di una sorella, ha il suo ruolo più
importante nell’occuparsi della casa e nell’allevare i figli secondo i concetti
e i valori islamici, e nell’educare i figli a osservare i precetti religiosi
preparandosi al dovere del jihad che li aspetta. Pertanto è necessario prestare
attenzione alle scuole e ai programmi per le ragazze musulmane, così che si
preparino a diventare buone madri, consapevoli del loro ruolo nella guerra di
liberazione. Le donne debbono avere la consapevolezza e le conoscenze
necessarie per gestire la loro casa. La frugalità e la capacità di evitare gli
sprechi nelle spese domestiche sono requisiti necessari perché ci sia possibile
continuare la lotta nelle difficili circostanze in cui ci troviamo. Le donne
dovranno sempre ricordare che il denaro equivale al sangue, che non deve scorrere
se non nelle vene per assicurare la continuità della vita sia dei giovani sia
dei vecchi”.
Con lo Stato Islamico si è aperta una nuova era in cui si assiste
all’apoteosi della strumentalizzazione della donna in quanto madre, moglie, ma
anche e soprattutto come corpo al servizio dei combattenti.
Nel numero 7 della rivista Dabiq compare
un’intervista a Umm Basir al-Muhajirah (Madre
di Basir l’emigrata) ovvero la moglie di Amedy Coulibaly, uno degli attentatori
di Charlie Hebdo. Qui la moglie del “martire” invita le “sorelle”
ad aiutare e sostenere “i mariti, i fratelli, i padri e i figli”, a “essere
forti e coraggiose” nel sostenere gli uomini della loro famiglia nel loro
sforzo verso Allah. Da questo momento la rivista dello Stato Islamico dedica
una rubrica alle donne gestita da Umm Sumayyah al-Muhajirah (madre di Sumayyah
l’Emigrata). Al pari di Umm Basir ha compiuto l’egira verso lo Stato islamico
ed è non solo un modello per le altre musulmane, ma diventa altresì un mentore.
Rammenta l’obbligo dell’egira per uomini e donne e narra le storie delle donne
che sono migrate abbandonando la “miscredenza” (kufr) in cui vivevano. “Tutte
le storie iniziano con la sorella che decide di partire per la causa del suo
Signore. Il primo ostacolo che la muhājirah deve affrontare è la famiglia. E
chissà che cosa è la famiglia! Nella maggior parte dei casi, le famiglie sono
composte da musulmani laici, ai quali proporre l’egira è come sbattere la testa
contro una roccia. E’ vero che la loro la sorella è il loro onore ed è loro
diritto temere per lei, ma perché e non temono per il loro onore, quando la
sorella si vuole recare a Parigi o Londra per una specializzazione”.
Umm Sumayyah ricorda il caso di una “sorella che è partita
accompagnata dal marito e fu fermata dai soldati del tiranno (taghut)
all’aeroporto dopo che i suoi genitori avevano avvisato la polizia” e si
stupisce del fatto che nonostante fosse accompagnata dal suo “guardiano” la
polizia l’abbia fermata. Le parole di Umm Sumayya mirano a coinvolgere, a
convincere altre donne a migrare e a non avere paura dello Stato islamico che
invece garantisce loro i veri diritti in quanto musulmane. Tra questi diritti
indubbiamente spicca la poligamia. Umm Salamah, nell’ultimo numero di Dabiq,
illustra alle donne che sono migrate e che hanno assorbito valori occidentali
che non devono essere gelose, che devono accettare che il proprio marito sposi
altre donne: “ogni sorella dovrebbe sapere che quando suo marito vuole sposare
un’altra donna, non è obbligato a chiederle il consenso, né chiederle
l’autorizzazione, né cercare di accondiscendere alle sue richieste. Se lui
attuerà questa scelta sarà per generosità.”
Non si può tacere il fenomeno del “jihad del
matrimonio” poiché
se gli uomini che aderiscono allo Stato Islamico abbracciano un’ideologia
jihadista, al contempo abbracciano una visione machista del mondo nella quale
la donna può essere strumento di attacco e combattente, ma laddove la visione
della donna come corpo al servizio dei combattenti non viene esclusa anzi viene
esaltata. Se tutte le ideologie dell’islam radicale considerano la donna come
corpo, come sedizione, ma in prima istanza come oggetto e strumento di piacere
dell’uomo, l’ideologia dell’ISIS può essere considerata l’apoteosi di questa
visione. Inoltre al pari del suicidio femminile in nome di Allah, come si è
osservato soprattutto nella Fratellanza musulmana, il “jihad al-nikah”, il
jihad del matrimonio, viene considerato un modo per purificare il proprio corpo
unendosi, anche con matrimonio temporaneo, chi combatte il vero jihad, quello
con le armi. Ancora una volta la sottomissione totale ad Allah corrisponde per
la donna alla sottomissione all’uomo che svolge un ruolo in prima linea nella
vita, nel jihad e nella sharia.
Per concludere, studi recenti evidenziano che alla
radice della
migrazione femminile verso lo Stato Islamico si trova, come nel caso di quella
maschile, anche la ricerca di identità come conseguenza di una mancata
integrazione, di carenze affettive e di disagio psico-sociale. Lo stesso
disagio, la stessa predisposizione alla manipolazione si riscontra anche nelle
donne che aderiscono all’ideologia dell’Isis senza migrare. E’ il caso di Hasna
Aït Boulahcen, la donna che è rimasta vittima – o forse si è fatta esplodere –
durante il recente blitz a Saint-Denis dopo gli attentati parigini. Hasna, 26
anni, dopo un’infanzia in cui è stata maltrattata da genitori che si sono ben
presto separati, è stata data in affido tra gli 8 e i 15 anni a un’altra
famiglia. A 15 anni ha abbandona la famiglia che l’ha accolta e ha avviato una
vita marcata da droga e alcool. Nell’ultimo anno il cambiamento: niqab e
avvicinamento all’islam radicale. Il resto è storia nota.
E’ evidente che la donna, in quanto madre e moglie, potrebbe rappresentare la
chiave di volta per arginare la radicalizzazione, ed è per questo motivo che
ogni processo di de-radicalizzazione dovrebbe passare attraverso un maggiore
monitoraggio e una maggiore integrazione delle musulmane nelle nostre società.
Basterebbe passeggiare per le vie di Moelenbeek o di Saint-Denis per
comprendere quanto le donne siano la punta dell’iceberg di una ghettizzazione
che vede nel loro velo – talvolta integrale – un microcosmo simbolico di un
velo ben più spesso che separa certe realtà e quartieri dall’ambiente
circostante che viene visto e sentito come ostile.
(Fonte:
Valentina Colombo, La nuova bussola quotidiana, 23 novembre 2015)
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