venerdì 26 settembre 2008

Il Cristianesimo non è una filosofia né una nuova morale

«Il Cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova moralità, ma l’incontro con Cristo. Solo in questa relazione personale con Il Risorto diventiamo veramente cristiani e così si apre la nostra ragione a tutta la ricchezza della verità. Chiediamo il dono di una fede vivace, un cuore aperto e grande, di una carità per tutti che rinnova il mondo».
Benedetto XVI ha dedicato l’Udienza Generale del 3 settembre 2008 alla conversione di San Paolo sulla via di Damasco, episodio cruciale nella storia della Chiesa perchè trasformò Saulo, il persecutore dei primi cristiani, nell’Apostolo delle Genti. «Paolo – ha ricordato il Papa – non definisce mai conversione questo avvenimento e ci sono varie ipotesi sul perchè egli non usa tale parola […]. Per me però la ragione è evidente: la svolta della sua vita non era frutto di un processo psicologico o di maturazione, era frutto dell’incontro con Cristo Gesù, un avvenimento che lo ha trasformato: in questo senso era morte e risurrezione».
Commentando il racconto della conversione scritto da San Luca negli Atti degli Apostoli, il Pontefice ha osservato che troppo spesso nel leggere queste pagine ci si sofferma sui dettagli: la luce dal cielo, la caduta (in proposito non ha citato il cavallo, che appare nell’iconografia, ma di cui il Nuovo Testamento non parla), la condizione di cecità e la voce che chiama Saulo.
Tutto importante, ma «il centro dell’avvenimento è la Risurrezione di Cristo. San Paolo fu trasformato da un incontro personale con il Signore: è questo il centro del racconto di San Luca. In questo senso – ha concluso il Papa – si può, si deve parlare di una conversione, della quale tuttavia San Paolo non raccontò mai i dettagli, limitandosi a dire che Gesù apparve a Pietro, poi ai Dodici, poi a 500 fratelli in gran parte ancora viventi e poi apparve anche a me».

Parole, gesti e segni che hanno plasmato l'Europa

Ci chiediamo se il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI possa costituire, e in che senso, una risposta al processo di secolarizzazione della società contemporanea. Per rispondere abbiamo bisogno innanzitutto di una definizione della secolarizzazione e, tra le tante, una delle migliori è stata formulata in un discorso del 23 febbraio 2002, da Giovanni Paolo II, secondo cui "purtroppo alla metà dello scorso millennio ha avuto inizio, e dal Settecento in poi si è particolarmente sviluppato, un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il Cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana. Il punto d'arrivo di tale processo è stato spesso il laicismo e il secolarismo agnostico e ateo, cioè l'esclusione assoluta e totale di Dio e della legge morale naturale da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata così la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno". Da queste parole di Giovanni Paolo II emerge in primo luogo che la secolarizzazione è un processo storico che ha inizio con l'umanesimo rinascimentale: si è sviluppato con l'illuminismo, e ha il suo sbocco nel laicismo e nel secolarismo agnostico e ateo, caratteristico del marxismo e della società postmoderna. Il punto di arrivo finale è l'esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale.
C'è chi crede che per evitare il secolarismo anticristiano, la Chiesa dovrebbe far propria e "battezzare" la secolarizzazione. Questa concezione accetta l'inevitabilità della secolarizzazione attribuendole, di fatto, un carattere positivo in quanto svolgimento necessario della storia. Se, però, rifiutiamo questa visione immanente e storicista e assumiamo invece un criterio che ci permetta di valutare gli eventi alla luce di principi trascendenti, non possiamo considerare in sé "positivo" o "buono" nessun fatto storico. Come gli atti umani, i fatti storici, che sono prodotti dalle scelte razionali e libere dell'uomo, non sono mai neutri e indifferenti: lo storico, e a maggior ragione il filosofo e il teologo della storia, ha il dovere di giudicarli, ovvero di attribuire loro valore positivo o negativo.
L'accettazione della secolarizzazione come fatto storico inevitabile, porta a una filosofia e poi a una teologia della secolarizzazione. La filosofia della secolarizzazione, implicita nell'umanesimo pagano, si forma nei circoli illuministi; viene portata alla sua coerenza logica da Gramsci e penetra nella seconda metà del ventesimo secolo nella teologia protestante (e poi cattolica) con Dietrich Bonhoeffer. Quella che Bonhoeffer definisce la "maturità del mondo" si raggiunge con l'espulsione del sacro da ogni ambito sociale e con l'estirpazione delle radici cristiane dalla società. Bonhoeffer interpreta la secolarizzazione come l'espressione di un "mondo diventato adulto", il quale, grazie all'evento liberatorio cristiano, può vivere "come se Dio non esistesse", etsi Deus non daretur.
L'illusione è quella di realizzare un ordine "mondano", al di fuori del cristianesimo, eliminando il legame verticale e trascendente che costituisce l'essenza stessa della religione perché ri-lega l'uomo a Dio.
Aristotele ha definito giustamente l'uomo un essere sociale. Ma Aristotele, che non aveva l'idea di creazione, ha ridotto la socialità degli uomini al loro rapporto con i propri simili. La prima relazione dell'uomo, ciò che fa di lui un essere non immanente e autosufficiente, ma estroflesso e dipendente, è la sua relazione con Dio. Essa si esprime innanzitutto nella preghiera, che fa dell'uomo, non solo un animale sociale ma, per essenza, un homo religiosus. Ma poiché Dio si è fatto uomo egli stesso e per salvare l'umanità colpita dal peccato originale, ha fondato, attorno al sacrificio di Cristo, la Chiesa, la preghiera per eccellenza dell'uomo, l'unica che lo redime, è quella che egli fa con la Chiesa, all'interno della Chiesa. La liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa, l'atto di culto non privato, del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati, riuniti attorno al santo sacrificio dell'altare. La liturgia che vi si celebra non è solo la trasmissione della parola di Dio all'uomo, e la sua santificazione attraverso i sacramenti; essa è anche e innanzitutto un insieme di forme sensibili che elevano l'uomo verso Dio e lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto.
Non è nulla di più antitetico alla secolarizzazione della liturgia espressa dal sacrificio della messa. In esso trovano compimento i misteri della passione, risurrezione e ascensione di Gesù Cristo, perfezione della sacralità, perché nella sua persona Dio si dà massimamente a una natura umana, unita inscindibilmente a Lui. Il punto più sacro della messa è la formula consacratoria, composta, come ricorda il concilio di Trento, in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato piamente stabilito dai santi Pontefici.
"La celebrazione liturgica - ha ricordato Giovanni Paolo II nella Lettera alla Congregazione per il Culto Divino del 21 settembre 2001 - è un atto della virtù di religione che, coerentemente con la sua natura, deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l'uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a Colui che è tre volte santo e trascendente. Di conseguenza l'atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali davanti al rovo ardente?".
Questo stupore e questa riverenza si esprime soprattutto nel linguaggio del silenzio. Il silenzio, a cui ha dedicato belle pagine il cardinale Ratzinger (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2007, pp. 203-212) si oppone al frastuono ed esprime la distanza infinita tra il Dio ineffabile, che non può essere conosciuto nella sua essenza, e l'umile creatura che, senza di lui, ricadrebbe nel nulla. Ma questo Dio, adorato nella sua maestà divina, non è lontano, è anzi infinitamente vicino, perché si è donato in Cristo, è presente sull'altare in corpo, sangue, anima e divinità. Solo nella assoluta trascendenza divina si esprime la radicale ed estrema vicinanza di Dio all'uomo.
Il rito romano antico non permette equivoci di alcuna sorta: in esso vi è un senso ineguagliabile della trascendenza divina. Esso non è l'unico rito possibile, ma esprime con perfetta chiarezza quell'unica ecclesiologia che può dirsi cattolica e che ogni liturgia deve esprimere.
La dimensione rituale è una dimensione costitutiva della nascita e dello sviluppo della società europea e cristiana dei primi secoli. La parola traditio, nel suo senso originale, si riferisce alla trasmissione dei symbola fidei, ovvero di quelle formule verbali, confermate dall'autorità ecclesiastica, destinate alla pubblica professione della fede. La traditio si esprime nella consegna di verità destinate a formare il depositum fidei, ma è anche ricerca dei modi in cui queste verità vengono trasmesse, ricerca dei simboli e dei riti che queste verità efficacemente esprimono. Ogni verità infatti si traduce in una liturgia, secondo la nota formula di Prospero di Aquitania, lex orandi, lex credendi (oppure legem credendi lex statuat supplicandi; De vocatione omnium gentium, 1, 12).
La descrizione della Eucaristia della domenica lasciataci da san Giustino (Giustino, Apologia, 61-62; 65-67) ci attesta, già prima dell'anno 165, la prassi rituale della Chiesa romana, "nella quale - come scriveva sant'Ireneo - si custodiva fedelmente la tradizione venuta dagli apostoli" (Adversus haereses, II, 3). In questo senso l'Europa nasce anche attorno a una tradizione liturgica. Christopher Dawson osserva, non a torto, che, dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'ordine sacro della liturgia rimase intatto nel caos e la liturgia costituì il principale legame di unità interiore della società.
La liturgia fu, nel medesimo tempo, la sede della tradizione e la sede della fede, perché in essa tradizione e fede si incontravano e si conciliavano. A Papa Damaso, eletto vescovo di Roma nel 366, si deve la prima esposizione del concetto di Petrinitas, come principio di ordine gerarchico ecclesiastico. Ma l'affermazione del primato romano, sotto Damaso e i suoi successori, corre si può dire parallela alla affermazione dell'ordo liturgico romano, la cui definitiva configurazione avviene tra il IV e il VI secolo, culminando nella creazione del Liber Sacramentorum di Gregorio Magno. La liturgia damaseno-gregoriana - come ricorda monsignor Klaus Gamber - si andò imponendo progressivamente in occidente, ed è quella che oggi Benedetto XVI ripropone alla Chiesa.
Questa liturgia gregoriana, espressa dal rito romano antico ci ricorda, attraverso il suo silenzio, le sue genuflessioni, la sua riverenza, l'infinita distanza che separa il cielo dalla terra; ci ricorda che il nostro orizzonte non è quello terreno, ma quello celeste; ci ricorda che nulla è possibile senza sacrificio e che il dono della vita naturale e soprannaturale è un mistero.
Non si tratta di mettere in competizione il rito antico con la nuova messa, promulgata e autorizzata dagli ultimi Pontefici. Si tratta di comprendere come la restituzione della libertà al rito antico opponga una nuova barriera al secolarismo avanzante.
Questo rito aprì e chiuse tutti i ventuno concili ecumenici della Chiesa, da Nicea al Vaticano II. Fu celebrato sotto le volte grandiose di San Pietro e nelle più umili e remote cappelle agli estremi confini della terra, ovunque arrivò lo zelo dei missionari. Fu al centro del culto di tutti gli ordini religiosi fondati nella storia; lo splendore di Cluny e la rinascita liturgica di dom Guéranger, l'avvolsero di maestà e di splendore. I martiri della fede del ventesimo secolo, vi attinsero la forza per resistere ai loro carnefici. Il rito romano costituisce oggi, nelle intenzioni di Benedetto XVI, un'efficace risposta alla sfida della secolarizzazione. (Roberto de Mattei, ©L'Osservatore Romano, 17 settembre 2008)

L’anticristo abita al 53° piano

Ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione e alla presenza di Dio nella città…
C’è una nuova religione che sta innalzando i suoi templi in Europa, e non sto parlando di moschee. I politici e gli elettori, poveri, credono siano grattacieli, musei, università, sedi di banche e di parlamenti, teatri, centri commerciali, e invece sono templi. Spesso pagati coi soldi dei contribuenti, gente perbene o anche permale però con moderazione, persone che non metterebbero mai la crocetta sull’otto per mille al fine di sostenere un culto dichiaratamente nichilista ma che, senza saperlo, versano ogni anno un obolo alla chiesa dell’Architettura Antiumana. Come ogni chiesa che si rispetti anche questa ha dei testi sacri, ovvero intangibili, sconosciuti non perché segreti (sono anzi diuturnamente proclamati dai sommi sacerdoti sui mezzi di comunicazione di massa) ma perché, storia e saggezza popolare insegnano, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Così come pochi non-nazisti negli anni Trenta lessero davvero il Mein Kampf, per poter continuare a pensare che Hitler si sarebbe accontentato di un pezzetto di Cecoslovacchia, così come pochi non-musulmani oggi leggono davvero il Corano, per poter continuare a figurarsi le religioni tutte uguali e ugualmente protese all’amore universale, allo stesso modo pochi non-architetti leggono davvero le interviste agli architetti antiumani, per poter continuare a immaginarseli come professionisti al servizio del funzionale e del razionale.
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“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese del Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: ‘Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco’. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: ‘Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome’”. (Genesi 11, 1-4).
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“Non esiste né il buono, né il vero, né il bello. Sono un relativista. Sono un nichilista” dichiarò Philip Johnson, il re dei grattacieli, poco prima di rendere l’anima al diavolo. Omosessuale e nazista, il passaporto Usa gli evitò di fare la fine dell’omologo Ernst Röhm e continuò a lavorare per la propaganda del partito nazionalsocialista fino al 1939, quando descrisse estasiato l’incendio di Varsavia, anzi fino al 1940, anno in cui la posizione di americano crociuncinato divenne insostenibile perfino per un polivalente del suo livello, a proprio agio ai vernissage mondani del Moma di New York così come alle cerimonie pagane di Norimberga immortalate da Leni Riefenstahl. Se un nazista non può più fare il nazista può cominciare a fare l’architetto o meglio (essendo com’è ovvio un ardente ammiratore di Nietzsche) il super-architetto, l’architetto al di là del bene e del male. Nel ’49 costruisce la Glass House per distruggere l’idea di casa come guscio degli affetti. Dentro quattro pareti di vetro può vivere un’esibizionista, non una famiglia: l’assenza di intimità e la totale visibilità sarebbero piaciute all’orwelliano Grande Fratello ma pure a Jeremy Bentham, l’inventore del Panocticon, il carcere dove si vede tutto, “un nuovo modo per ottenere potere sulla mente”. La Glass House è un incunabolo dell’Architettura Antiumana che però offre il meglio di sé nel fuoriscala. Nel seguito di carriera Johnson si è dato ai grattacieli, il più famoso dei quali è l’At&t building di New York, riconoscibile fra mille per il timpano forato (oggi si chiama Sony Tower perché commissionare grattacieli non porta benissimo, anche a Milano c’è sempre il Pirellone ma non si sa dove sia finita la Pirelli).
Eppure il Sony è ancora troppo basso, solo 197 metri, poteva andar bene negli anni Ottanta ma oggi per farsi un nome bisogna spingersi oltre. “Per essere moderni bisogna progettare in verticale. Sopra i 400 metri” ha sentenziato Massimiliano Fuksas dall’ambone di Repubblica, nerovestito come Daniel Libeskind, come Rem Koolhaas, come Jean Nouvel (anche dal punto di vista degli abiti sacerdotali la chiesa dell’Architettura Antiumana è molto più rigida della chiesa cattolica, i cui preti vestono come gli pare e infatti hanno ormai meno ascendente degli adoratori del grattacielo). Il comandamento dell’altezza è una sfida malriuscita a Dio e un’aggressione riuscitissima alla sua creatura: più il grattacielo sale, più l’uomo si rattrappisce, ridotto al rango di formica laggiù sul marciapiede. Un grattacielo di 400 metri dialoga con la Muraglia Cinese, la Piramide di Cheope, le Linee di Nazca, non con bipedi 250 volte più piccoli e meno che meno con cuccioli di bipedi. Quando non si capisce se qualcosa è a misura d’uomo basta pensare se è a misura di bambino, e subito risulta evidente l’umanità o la disumanità dell’oggetto analizzato. E’ straziante solo immaginarlo, un bambino costretto a vivere in un appartamento al cinquantatreesimo piano. Secondo me Eric Clapton ancora si sveglia la notte per domandarsi come mai, quel maledetto giorno del 1991, suo figlio Conor fosse affacciato alla finestra di un edificio manhattaniano di altezza assurda e non giocasse invece con le papere davanti a un cottage negli Hamptons. Il teorico dell’architettura Nikos Salingaros ha individuato nel gigantismo il primo dei fattori disumanizzanti. Nemmeno facendosi venire il torcicollo si possono apprezzare forma e dimensioni di un grattacielo con mezzi naturali, c’è bisogno come minimo di un elicottero. Per innalzare e gestire centinaia di migliaia di metri cubi non bastano gli uomini ma occorrono società quotate in borsa e fondi di investimento meglio se degli Emirati Arabi perché il grattacielo è ritornato alle sue origini orientali, bibliche, e infatti nella lingua del culto non si chiama più building ma tower, come nel libro della Genesi: i primi sei edifici più alti del mondo si trovano in Asia (Dubai, Taipei, Shanghai, Kuala Lumpur…).
All’ombra della maggior parte di essi non esiste libertà religiosa: il dispotismo asiatico blandisce gli architetti, sempre al servizio del potere, e perseguita i preti, che servono i servi. Quando supera una certa dimensione l’architettura diventa totalitaria di per sé, indipendentemente dall’ideologia dell’architetto, del costruttore e perfino del regime politico del luogo. Il grattacielo babelico di Dubai è costruito da operai indiani, pachistani e bengalesi ridotti in semischiavitù, impossibilitati a tornare a casa per il fenomeno dell’indebitamento obbligatorio e il relativo sequestro dei passaporti, pagati un decimo degli impiegati arabi, senza diritti di alcun genere, falcidiati da incidenti sul lavoro il cui numero è tenuto segreto come segreta è l’altezza che sarà raggiunta dallo spaventoso edificio una volta completato (700 metri?). Sacrifici umani e misteri iniziatici: ecco altri due ingredienti tipici delle religioni precristiane.
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“Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’” (Genesi 11, 5-7).
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Un’esaustiva collezione di dogmi della chiesa dell’Architettura Antiumana è stata recentemente pubblicata da Mondadori Arte. L’autore, o meglio il raccoglitore, si chiama Christian de Poorter (deve trattarsi di un convertito: a giudicare dal nome è nato in ambiente cristiano). Il libro si intitola “Atlante dell’architettura contemporanea in Europa” ma qui più delle foto, tragiche e bellissime, è la prefazione che ci interessa. Oltre alla completezza e all’apparato iconografico, il valore di questo testo divulgativo risiede nella sua trasparenza. Ci fu in tempo in cui gli architetti cercavano di nascondere grandi masse di cemento e di metallo dietro il dito dell’ideologia: Renzo Piano si atteggiava a benefattore e demoliva antichi palazzi di Parigi in nome della partecipazione sociale. Vecchie fisime anni Settanta. Oggi gli alibi non servono più e De Poorter espone senza falsi pudori i malvagi obiettivi dei progettisti alla moda. “L’architettura contemporanea seduce, stupisce e conquista”. Insomma vuole stordirci, invaderci, come una droga, come una metastasi. “Il contenitore diventa più attrattivo del contenuto”. L’architetto è quindi un vampiro capace di svuotare di senso qualsiasi tipologia edilizia, anche una chiesa del culto concorrente vale a dire una chiesa cristiana (non è difficile: basta sabotare l’incarnazione mimetizzando l’esterno, come Piano a San Giovanni Rotondo, o rendendo astratto l’interno, come Meier a Tor Tre Teste). “Il Kunsthaus di Graz, un’enorme bolla blu aliena atterrata nel cuore della città austriaca”.
Finalmente ammesso che i capolavori dell’architettura contemporanea in Europa altro non sono che elefanti in cristalleria. “Rogers nel progetto della nuova sede londinese del Lloyd’s Register of Shipping estremizza il concetto della trasparenza offrendo una sorprendente leggerezza visiva, al limite della fragilità psicologica”. Così De Poorter dà ragione a Salingaros, secondo il quale i sacerdoti dell’antiumano stanno operando “una deliberata aggressione ai nostri sensi che usa il meccanismo percettivo per generare ansietà fisica e angoscia”. Io per esempio se per uno scherzo del destino fossi costretto ad abitare nel Turning Torso disegnato da Santiago Calatrava in Svezia, 190 metri dall’aspetto poco stabile, sicuramente mi imbottirei di psicofarmaci. Poi De Poorter cade in alcune ingenuità devozionali, tipiche dei neofiti o degli adepti di scarsa cultura. In Olanda gli edifici nevrotizzanti si espandono senza freni e allora la si definisce un “piccolo paese dinamico e anticonformista” quando a prescindere dall’architettura vi impera un conformismo terrorizzato, dove non si possono proiettare film critici verso il Corano, dove gli anticonformisti giacciono per lo più sotto terra (vedi Pim Fortuyn e Theo Van Gogh). Il vocabolario formale di Frank Gehry è descritto come “nutrito e variegato” a pagina 11 ma De Poorter si smentisce da solo, con il suo stesso libro: basta andare alle pagine 220 (Berlino), 242 (Dusselforf) e 310 (Praga) per constatare la monotonia dell’architetto canadese, sempre le stesse finestrelle esoftalmiche.
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“Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Genesi 11, 8-9).
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Gesù discende da Davide, il piccolo Davide che abbattè il gigante Golia. Nel discorso della montagna, che era poi una collinetta, Gesù non abolisce la Legge e non rinnega la punizione toccata a Babele (fra parentesi, nemmeno quella a Sodoma e Gomorra). Gesù proclama la beatitudine degli uomini miti. Gesù invita a imparare da lui, umile di cuore. Gesù dice che per convertirsi bisogna diventare come bambini. Gesù dice che per entrare nel regno dei cieli bisogna farsi piccoli. Gesù dice che gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi. Gesù entra a Gerusalemme su un asinello. L’Antico Testamento colpisce la superbia con una spada di fuoco, il Vangelo testimonia la modestia e la misura in ogni pagina, quasi in ogni versetto. Per questo i grattacieli non possono dirsi cristiani. Anzi, ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione, alla presenza di Dio nella storia e nella città.
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“Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Salmo 127, 1).
Sul Corriere della Sera ho letto un articolo di Pierluigi Panza, vi ho colto uno stile (dote rara in chi si occupa di architettura) e quindi ho cercato notizie su di lui. Vagando per la rete ho trovato uno spezzone in cui Panza viene intervistato da un signore dal cranio perfettamente lucido che poi ho scoperto chiamarsi Pier Moro. Moro cerca di strappare a Panza un giudizio favorevole sui grattacieli della Fiera di Milano firmati Hadid, Isozaki, Libeskind, ed è penoso vedere l’intervistato barcamenarsi per cercare di salvare l’anima senza però scontentare l’intervistatore, un chierichetto del grattacielismo. Per ridicolizzare gli avversari dei tre moloch antiumani e antimilanesi, Moro la butta sul caratteriale: forse ce l’hanno con Libeskind perché è antipatico. Sarebbe una triste vicenda se una scritta alle spalle dei due interlocutori non la rendesse tristissima: Radioformigoni.it. No, non sto per cominciare un discorso morale, qui siamo tutti simoniaci. Come dice Julián Carrón, un prete che il presidente della Regione Lombardia immagino conosca meglio di me, “il problema non è l’etica, il problema è l’ontologia, è il rapporto con il reale”. Nella fattispecie il problema è rispondere alla domanda messa da Eliot in bocca alla Straniera: “Qual è il significato di questa città?”. Sconfortato mi chiedo: Formigoni è ancora cristiano o è passato armi e bagagli all’anticristianesimo militante e architettante? No? E allora: avrà mai letto il filosofo Roger Scruton secondo il quale le opere di Libeskind sono fra le più arroganti espressioni del nichilismo contemporaneo, costruite “come in assenza di gravità, stabilità e comunità”?
Terza domanda: E’ consapevole che Libeskind rigetta pubblicamente qualsiasi nozione di sacro, di inviolabile, e sta all’urbanistica come Jack Kevorkian, il dottor Morte, sta alla medicina? Io capisco che un politico non abbia il tempo di leggere filosofi e poeti, quei perdigiorno, ma i giornali richiedono meno impegno. Basta sfogliarli distrattamente per capire dove ci vuole portare il sinedrio dell’Architettura Antiumana. L’architetto Paolo Caputo, concelebrante del grattacielismo milanese, quando viene intervistato sguinzaglia la hybris: “Le torri andranno a dichiarare nuove centralità urbane”. Sono parole chiarissime che significano il progetto di strappare Milano a Milano, portando il suo cuore lontano da Piazza Duomo e Piazza Sant’Ambrogio, in nuovi quartieri dove i bambini cresceranno senza mai vedere un crocifisso, senza mai ascoltare le campane, e umiliando ulteriormente la Madonnina, via via sminuita a partire dal 1954 quando il grattacielo di Piazza della Repubblica superò per la prima volta la guglia maggiore della cattedrale. Ma non voglio più parlare, io non sono nessuno, dispero di poter convincere colui che la domenica va a messa e il lunedì guarda la Madonna dall’alto in basso, dal suo ufficio al Pirellone. La superbia è il peccato del primo uomo e lo sarà anche dell’ultimo. Io taccio per lasciar parlare qualcun altro.
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Un discepolo gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta” (Vangelo di Marco 13, 1-2). (Camillo Langone, Il Foglio 20 settembre 2008)

Una truffa intellettuale: Inchiesta sul cristianesimo di Corrado Augias e Remo Cacitti

La fede crede che Gesù sia risorto. La scienza sa che Gesù non è risorto, perché i morti non risorgono. La fede crede che i quattro Vangeli ci trasmettano il messaggio di Gesù Cristo. La scienza sa che non è così. La fede crede che la Chiesa ci permetta d’incontrare ancora oggi nella storia Gesù di Nazaret attraverso la continuità dell’istituzione da lui fondata. La scienza sa che Gesù non ha fondato nessuna istituzione, e che la Chiesa come la conosciamo semmai deriva dall’imperatore Costantino. Vecchiume che risale all’Illuminismo, e che riposa su una concezione dogmatica e arrogante di scienza definitivamente decostruita da Adorno e Horkheimer in poi, senza dimenticare la meta-scienza di Popper? Purtroppo no: lo scientismo è un passato che non vuole passare, come conferma un aspirante best seller in cerca di lettori, “Inchiesta sul cristianesimo. Come si costruisce una religione” (Mondadori, Milano 2008), confezionato sulla scia del successo del suo precedente Inchiesta su Gesù dal giornalista Corrado Augias, questa volta con Remo Cacitti, docente di Storia del cristianesimo antico all’Università di Milano.
Per quanto nell’anno di grazia 2008 questo possa sembrare un po’ vecchiotto, c’è ancora chi è convinto che si possa opporre alla fede – rappresentata per esempio da Benedetto XVI, oggetto di più di una battutina velenosa, e per definizione infondata e soggettiva – la Scienza storica con un’ideale S maiuscola, che sarebbe invece per definizione oggettiva, universale e certa. Cacitti va addirittura a ripescare dalle brume di uno scientismo anticlericale dimenticato l’archeologo e storico francese Salomon Reinach (1858-1932), che gli fornisce quello che può essere considerato il motto del libro: mentre la fede dice “io credo” la scienza della storia delle religioni, fondata su “fatti certi”, può dire con orgoglio “io so” (p. 265). Una volta entrati in (o per meglio dire, tornati a) questa logica, il gioco è fatto: a chiunque muovesse obiezioni in nome della religione o del semplice buon senso Monsieur le Professeur potrà additare la sua redingote e il suo cilindro accademici e invitare chi non insegna storia all’università a farsi più in là e non disturbare i manovratori.
Il problema, dunque, è non entrare in una logica che, dal punto di vista del metodo (e senza volere in alcun modo giudicare le persone o le intenzioni), costituisce un’oggettiva truffa intellettuale.
Metodologicamente, infatti, non è in nessun modo accettabile contrapporre “la” scienza alla religione (che poi, nel libro, è sostanzialmente la religione cattolica, oggetto degli strali polemici degli autori). Esistono infatti innumerevoli scuole teologiche e forme di spiritualità, ma da un punto di vista sociologico è possibile parlare in modo sensato di “una” religione cattolica, definita dal magistero della Chiesa e illustrata nel Catechismo. Non è invece possibile parlare quando si tratta del cristianesimo, delle sue origini e di Gesù Cristo di “una” scienza. Anzitutto, ci sono più scienze che si occupano di questi temi: colpisce, per esempio, l’assenza nel testo di qualunque riferimento alla sociologia delle religioni, una scienza il cui più noto esponente statunitense contemporaneo, Rodney Stark, ha dedicato una delle sue opere fondamentali precisamente alle origini del cristianesimo. Inoltre, Cacitti certamente sa benissimo che se si leggono dieci storici delle origini del cristianesimo scelti a caso si troveranno dieci tesi diverse su quasi tutti i punti essenziali, non solo su questioni di dettaglio.
Ma soprattutto: in che cosa consiste il metodo storico “scientifico” di Cacitti, di cui si afferma con tanta sicumera la superiorità sul modo con cui si accosta alle origini cristiane Benedetto XVI? Si cita ripetutamente l’intenzione di privilegiare fonti diverse dai Vangeli, tra cui gli storici romani: ma dal momento che queste fonti ci dicono molto poco su Gesù Cristo si torna necessariamente al Nuovo Testamento, sia pure con una spruzzata di testi apocrifi e gnostici. A proposito dei Vangeli e delle lettere di Paolo, si afferma quindi che alcune affermazioni vanno intese come effettivo resoconto di fatti storicamente avvenuti, altre solo come metafore o descrizioni di esperienze spirituali a torto scambiate per realtà storiche o empiriche, altre ancora come affermazioni messe in bocca post factum a Gesù per giustificare interessi o posizioni della Chiesa nascente.
Il metodo non è nuovo: il controverso esegeta irlandese, residente negli Stati Uniti, John Dominic Crossan e il suo Jesus Seminar avevano prodotto addirittura un Vangelo “a colori” dove attribuivano colorazioni diverse a quanto, secondo loro, Gesù avrebbe detto per davvero e a quanto sarebbe stato inventato dagli evangelisti. Il problema però è chi e come decide quali parole e fatti attribuiti a Gesù sono autentici e quali sono inventati. Dichiariamo autentici i testi che pensiamo di poter considerare più antichi? Niente affatto: Cacitti riconosce che le affermazioni più chiare sul fatto che Gesù sia fisicamente risorto dai morti sono in testi di san Paolo “vicini all’evento, ovvero databili agli anni Trenta del I secolo” (p. 28).
Eppure secondo lo storico italiano è “evidente” che si tratta di “una prospettiva religiosa, non storica” (ibid.). E perché è “evidente”? Cacitti lo dice in modo più sfumato e Augias più brutalmente: perché nel XXI secolo “alla resurrezione dei morti oggi nessuno crederebbe” (p. 72). A parte la solita mancanza di sociologia – uno sguardo alle Indagini mondiali sui valori convincerebbe gli autori che la maggioranza assoluta dei nordamericani e dei sudamericani, e un buon terzo degli europei, crede in pieno XXI secolo che Gesù sia risorto – la formula sembra precisamente quella rimproverata al Jesus Seminar: consideriamo autentici solo gli eventi e gli insegnamenti riportati nei Vangeli che risultano accettabili ai contemporanei, anzi a quella minoranza di contemporanei che segue i dettami dello scientismo. Il criterio spacciato per scientifico e storico in realtà è ideologico e deriva dai nostri pregiudizi. Così le affermazioni sul primato di Pietro e tutto quanto fonda un cristianesimo che non sia puro insegnamento morale sulla povertà e la pace “devono” essere aggiunte posteriori e non possono fare parte dell’insegnamento autentico di Gesù Cristo: il quale, diversamente, assomiglierebbe troppo a quello di Benedetto XVI e darebbe fastidio alla sensibilità liberal degli autori.
Che le cose stiano così è confermato dalle incaute incursioni su temi diversi da quelli delle origini cristiane. Per esempio, in tema di apparizioni della Madonna a Fatima, Lourdes e Medjugorje, Cacitti afferma ripetutamente che “non hanno assolutamente nulla di religioso” (p. 149). Poiché nello scientismo non c’è posto per le apparizioni, è evidente che la Madonna non appare. Ma più curiosa ancora è la pretesa di definire che cosa sia “religioso”. Avendo a suo tempo partecipato (unico studioso italiano invitato) al progetto europeo LISOR sulla definizione di religione, penso di avere qualche elemento per dire che, per esempio, nel messaggio di Fatima o nelle parole della Vergine a Lourdes, per tacere dell’esperienza dei fedeli e dei pellegrini nei rispettivi santuari, tutto è religioso secondo una qualunque delle maggiori nozioni di religione utilizzate nella sociologia contemporanea.
Anche sul rigore scientifico di Cacitti ci sarebbe poi da ridire, come quando definisce “chierici franchisti” i sacerdoti e religiosi uccisi durante la guerra di Spagna e canonizzati (p. 210: molti di loro non erano certamente “franchisti” e furono uccisi per la loro fede, non per le loro idee politiche) e quando confonde, tra i documenti del Vaticano II, la Nostra Aetate (che non è il testo “che apre alla libertà religiosa”, p. 246) con la Dignitatis humanae. Si passa invece dalla semplice svista alla manifestazione dichiarata del pregiudizio ideologico quando lo storico di Milano attacca “l’oscena strumentalizzazione di certi passi del Corano, operata da truci cristiani, per i quali sarebbe quel testo sacro a fomentare la violenza e il terrorismo islamici”: una posizione che “certo non è vera” (p. 66). Il maggiore sostenitore accademico contemporaneo della tesi secondo cui le giustificazioni di una certa violenza islamica si trovano in alcune sure del Corano, David Cook, il quale offre argomenti molto seri e tutt’altro che facili da smontare, sarà forse “truce” per gli standard di Cacitti, ma certamente non è un cristiano.
A suo tempo, in pubbliche interviste, Cacitti difese Il Codice da Vinci come fonte, se non di veri insegnamenti, almeno di valide “intuizioni”. Non dovrebbe quindi prendersela troppo con chi oggi pensa che il suo libro possa fare compagnia a Dan Brown nello scaffale delle fantasie anticattoliche: mentre il cristianesimo, quello vero, rimane un’altra cosa. (Massimo Introvigne, Cesnur.org, 18 settembre 2008)

La teologia di Vito Mancuso

È considerato un teologo, ma il contenuto e l’impianto del suo testo contraddicono la natura della teologia. Tratta con scandalosa superficialità temi che meriterebbero ben altro rispetto, commettendo diversi notevoli svarioni.
Il libro L’anima e il suo destino (Cortina, 2007) ha purtroppo imposto all’attenzione del pubblico Vito Mancuso come «teologo cattolico». Dico «purtroppo» perché il caso è emblematico di quanto la cultura di oggi disconosca (volutamente o per mera ignoranza) lo statuto epistemologico (cioè la natura e i compiti) della teologia cristiana. L’autore è teologo nel senso che insegna Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell’Università «San Raffaele» (Milano), ma l’effettivo contenuto e l’impianto metodologico del suo libro sono in netta contraddizione con l’idea stessa di teologia. Il suo saggio vorrebbe essere Un «moderno» trattato di escatologia, e infatti i nove capitoli che compongono il libro trattano dell’esistenza dell’anima, della sua origine e della sua immortalità, della speranza di salvezza, della morte e del giudizio, dell’aldilà (purgatorio, paradiso, inferno) e infine della «parusia» (la seconda venuta di Cristo alla fine della storia) e del giudizio universale.
Gli argomenti di per sé sono certamente suscettibili di una trattazione teologica, ma l’autore li affronta in un modo che non è quello della teologia, come non è quello della filosofia né di alcuna altra scienza. Da un punto di vista formale, Mancuso non rispetta le più elementari esigenze della logica in generale e in particolare dell’epistemologia; da un punto di vista materiale, poi, dimostra una superficialità scandalosa nel trattare temi ai quali un teologo dovrebbe accostarsi con rispetto, con attenzione e soprattutto con le dovute competenze storiografiche, e esegetiche e critiche. È facile pensare di poter «ridefinire» o «riproporre in termini nuovi» le verità rivelate che sono oggetto della dottrina della Chiesa: occorre perô intenderle nel loro vero senso e accettarle come verità rivelate da Dio, sapendo che hanno come premesse le verità che l’uomo può raggiungere con le sue forze naturali. La questione della verità è (a questione essenziale, non solo in filosofia ma anche e soprattutto in teologia, e chi pretende di fare teologia deve scoprire le proprie carte, facendo vedere da quali presupposti di verità parte, altrimenti le sue argomentazioni sono dei veri e propri sofismi, utili non a fare scienza, ma a imporre in altri modi la ben nota «dittatura del relativismo».
Non si può ignorare, ora che siamo gia nel terzo millennio del cristianesimo, che la teologia cristiana è la riflessione scientifica di un credente sulla propria fede, assunta non come ipotesi da «verificare» ma proprio come verità rivelata da Dio, nei termini precisi con i quali essa è proposta dalla Chiesa, che ha l’autorità e il dovere di custodire e interpretare la Rivelazione. Quando il discorso su Dio e su temi religiosi cristiani non è svolto a partire dalla fede come verità creduta, non si fa più teologia cristiana ma filosofia della religione cristiana o semplicemente filosofia di Dio, cioè «teologia» nel senso aristotelico, come culmine della metafisica. È lo stesso Mancuso a squalificare il suo lavoro fin dall’inizio quando spiega che esso mira alla «costruzione di una “teologia laica”, nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia». Che significato può avere l’aggettivo «laico» applicato alla teologia? Se per «laico» si intende un fedele cristiano che non è membro della gerarchia, l’aggettivo non aggiunge nulla allo statuto epistemologico della teologia, che oggi è coltivata con frutto da tanti laici, uomini e donne. Se invece per «laico» si intende «ateo» (come purtroppo lo intende molta gente oggi), allora l’aggettivo qualifica la teologia in senso negativo, come non più cristiana ma intenzionalmente non-cristiana, anticristiana. Se infine l’intenzione (sia pure malamente espressa) vuol essere di fare un discorso su Dio che valga sia per i credenti che per i non credenti, allora si tratterebbe di mera filosofia, ragione per cui non si capisce perché Mancuso scriva che il suo vuol essere un «rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia».
Non sono, queste, osservazioni troppo puntigliose: a questione del metodo teologico non è una questione di dettaglio, anzi la validità scientifica e l’utilità ecclesiale della teologia cristiana sta tutta nel metodo, e in particolare nel punto di partenza, che deve essere la fede creduta. Da questo punto di vista, una vera teologia può essere più o meno scientificamente accettabile, ma è sempre utile alla riflessione sulla fede. Se invece questa presunta teologia pretende di negare con argomenti razionali la credibilità del dogma, allora non è nemmeno buona filosofia perché la credibilità del dogma cristiano può essere negata solo con false ragioni, con pregiudizi filosoficamente falsi. D’altra parte, una buona filosofia non potrà che offrire al credente «ragioni per credere».
La buona filosofia ha saputo dimostrare, fin dall’antichità (Platone), la natura spirituale, cioè immateriale, dell’anima umana, in quanto capace di atti (le intuizioni intellettive e le volizioni libere) che trascendono i limiti della materialità.
La Chiesa ha poi fatto proprie queste acquisizioni della filosofia, non in quanto legate a una particolare epoca storica o a una particolare scuola filosofica, e nemmeno in quanto sostenute dalle indagini delle scienze empiriche, ma solo perché la loro evidenza appartiene alla retta ragione, cioè al senso comune.
Ignorando sia il senso comune e la filosofia, sia il significato del dogma, Mancuso parla di «materia» riferendosi alla corrispondente nozione einsteiniana, senza accorgersi che quest’ultima è in funzione della teoria fisico-matematica e nulla ha a che vedere con la nozione metafisica di «materia», incomprensibile senza quella di «forma». Già in Aristotele, infatti, la materia è il sostrato delta forma, è ciò che ha la capacità di ricevere la forma e quest’ultima è ciò che configura e organizza la materia, è il principio di organizzazione e di configurazione della materia intrinseco alla materia stessa.
Ma, anche a proposito di «forma», egli ignora che essa costituisce l’uomo singolo come «sostanza», tanto che arriva invece a scrivere che la dottrina cattolica concepisce l’anima come «sostanza»; in realtà, per la dottrina cattolica, come per la metafisica classica, sostanza è la persona, nell’unita di corpo (materia) e anima (forma).
D’altronde, Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione all’ideologia dell’evoluzionismo cosmico (Teilhard de Chardin), che è quanto di più lontano dalla vera filosofia e — proprio per questo — quanto di più incompatibile con la verità rivelata, sia nei capisaldi teoretici che nelle conseguenze morali, specialmente bioetiche. Basti pensare che, da un principio scientificamente errato come quello che Mancuso enuncia dicendo che «non c’è più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l’anima razionale-spirituale» (p. 107), deriva niente meno che la legittimità dell’eutanasia indiscriminata di malati e di anziani; Mancuso non capisce che la facoltà di intendere e di volere (ciò che ci fa vedere che c’è l’anima immateriale) è permanente e costituisce la persona umana con i suoi inalienabili diritti, anche quando il suo esercizio attuale è accidentalmente impedito da fattori materiali di vario genere. Anche in questo caso, la mancanza di categorie metafisiche (che sono le uniche compatibili con il senso comune e con la Rivelazione) non consente né di intendere né di rispettare la verità sull’anima, che è innanzitutto verità dell’uomo che si sa creato da Dio «a sua immagine e somiglianza», e poi verità di Cristo che «rivela pienamente l’uomo all’uomo».
Leggi in proposito: Antonio Livi, Ermeneutica teologica, Casa editrice Leonardo da Vinci, 2008.Idem, Le premesse razionali della fede, Lateran University Press, 2008. Cornelio Fabro, L’anima; Idem, Dio. Introduzione al problema teologico. (Mons. Antonio Livi, il Timone, n. 75, Luglio/Agosto 2008)

giovedì 18 settembre 2008

Mons. Rino Fisichella e Oriana Fallaci: un’amicizia sulle questioni fondamentali

È la storia di un’amicizia breve ma profonda, quella tra Oriana Fallaci e il vescovo Rino Fisichella. Un’amicizia discreta, della quale non si era avuta notizia fino al momento in cui la famosa giornalista autrice de “La rabbia e l’orgoglio”, malata di un cancro incurabile, venne ricevuta da Benedetto XVI a Castelgandolfo alla fine di agosto 2005. Quell’udienza speciale, quel colloquio privato, al di là del protocollo e dell’ufficialità, tra una donna coraggiosa, senza peli sulla lingua, le cui controverse posizioni sulla debolezza dell’Occidente di fronte all’islam avevano provocato una scossa e una cascata di polemiche, era stata ottenuta e preparata da monsignor Fisichella.
Tutto comincia nel giugno 2005, dopo un’intervista nella quale il vescovo cita la Fallaci e pochi giorni dopo si vede arrivare una lettera della giornalista. È l’inizio di un’amicizia e dalle pagine di quel carteggio - grazie all’opera di Giuseppe De Carli, direttore di Rai Vaticano - tra l’uomo di Dio e l’appassionata giornalista non credente che sa di essere giunta alla fine della sua vita, emerge la profondità e la statura umana di entrambi i protagonisti.
Da questi brandelli di comunicazione si coglie la profondità della domanda della giornalista e il modo discreto con cui il sacerdote l’accompagna. E il conforto è reciproco, come emerge dalla lettera che la Fallaci scrive al monsignore per manifestargli la sua vicinanza in occasione della morte della madre.
Si è spesso discusso sulle conversioni in punto di morte di persone che non hanno creduto durante la loro esistenza, le quali, di fronte al passo estremo, si riavvicinano alle fede. E qualcuno ha pure ironizzato sull’attivismo di alcuni prelati nell’accostarsi ad alcuni vip sulla via del tramonto.
Si è però dimenticato che è naturale in molti l’acuirsi delle domande fondamentali, decisive, sul proprio destino ultimo, in prossimità della morte. Dalle lettere emerge con evidenza che il vescovo è stato contattato, è stato scelto. Emerge pure che ciò che ha offerto è stata un’amicizia vera, non tentativi di conversioni forzate.
Ha detto Papa Ratzinger lunedì scorso, prima di amministrare l’unzione degli infermi a dieci malati davanti al santuario di Lourdes: «La sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo... Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza», di un’amicizia.
Oriana Fallaci fino all’ultimo ha lottato ed è rimasta tenacemente avvinghiata alla vita. Dai suoi scritti non traspare in alcun modo disperazione. Ma è evidente da queste lettere che nel momento più difficile della sua vita ha cercato e trovato conforto e amicizia in un uomo di Dio.
(Andrea Tornielli, © Copyright Il Giornale, 18 settembre 2008 consultabile online anche qui)

Diamo qui un piccolo saggio del loro scambio epistolare
«Vorrei incontrare Ratzinger»
New York, giugno 2005
Monsignore, Lei mi ha commosso. Naturalmente sapevo bene chi fosse il Rettore della Lateranense, il vescovo che ragiona al di là degli schemi e senza curarsi dei Politically Correct.
Ma a leggere la Sua intervista al Corriere ho rischiato davvero la lacrimina. Io che non piango mai. E mi sono sentita meno sola come quando leggo uno scrittore che si chiama Joseph Ratzinger...
Il guaio è che sono molto malata. Ormai l’Alieno mi divora perfino gli occhi. Medea e i suoi figli ho dovuto dettarlo come Milton che da cieco dettava, mi si perdoni il paragone, La Storia d’Inghilterra e Il Paradiso Perduto. E questo mi confina a New York... Prigioniera delle chemioterapie e delle radioterapie, non posso allontanarmi.
Ci proverò lo stesso, prima o poi. Tanto più che vorrei parlarLe anche dell’importantissima cosa di cui suppongo sia al corrente... Vale a dire il mio desiderio d’incontrare, zitta zitta e lontano da occhi indiscreti, Sua Santità.
Sa, è un desiderio che mi accompagna da quando incominciai a leggere i suoi libri. E che non cercai di esaudire subito perché lavoravo giorno e notte a La Forza della Ragione.
Poi perché l’Alieno si scatenò e non stavo nemmeno in piedi. Dopo, perché stavo completando la Trilogia con L’intervista a me stessa e L’apocalisse.
Infatti quando venne eletto Papa feci sì capriole di gioia ma nel medesimo tempo pensai: «Oddio. Ora non potrò più vederlo». E con un sospirone avvilito mi rassegnai... La ringrazio di nuovo. Ripetendo che mi piacerebbe conoscere anche Lei, La saluto caramente... Oriana Fallaci.
(© Copyright Il Giornale, 18 settembre 2008 consultabile online anche qui).
«Lei è una voce preziosa fuori dal coro degli yes men»
Dear Oriana,
Accattoli mi aveva annunciato la sua intenzione di scrivermi, ma quando ho aperto la lettera le assicuro che l’emozione è stata grande. L’intervista che ho rilasciato al Corriere era sincera e manifestava solo per sommi capi il mio pensiero e la mia ammirazione nei suoi confronti. Per il coraggio che lei esprime, l’intelligenza che ha accompagnato da sempre i suoi scritti e la vis polemica che mi affascina non poco nei suoi ultimi libri, lei merita molto di più dell’intervista del rettore del Laterano... lei è una voce preziosa, fuori dal coro degli yes men e con un’autorevolezza che fa onore alla sua professionalità...
Non so se posso permettermi, ma le chiedo di lottare contro l’alieno.
Non lo scriva neppure con la maiuscola, non lo merita. Sì è davvero un alieno e lei lo chiama con il giusto nome; non appartiene alla nostra vita, soprattutto quando la ragione sa sconfinare per spazi illimitati e lui obbliga a verificare la debolezza del proprio corpo.
Ogni volta che mi affaccio su piazza san Giovanni vedo dinanzi a me l’obelisco egizio: quasi 4000 anni di storia... non riesco a comprendere fino in fondo perché un pezzo di pietra fatto dall’uomo, possa superare il tempo mentre io devo ripetere le parole del Salmo: «Gli anni della mia vita sono settanta e ottanta per i più forti»! Combatta anche con la debolezza fisica, perché «quando sono debole allora sono forte»; non lo chiedo solo io... Abbiamo bisogno di lei, perché non appaia che l’identità del nostro Paese e la storia dell’Europa sia una cosa da «cattolici» mentre è una questione ben più universale. Si tratta di responsabilità che abbiamo per le nuove generazioni, nonostante sembri che solo a pochi interessa far parte viva di un processo di trasmissione che conserva cultura e crea nuove forme di pensiero coerenti con il nostro passato.
La sua Trilogia era già tra i miei libri... Conserverò il suo cofanetto con gelosia, come il dono di un’amicizia che è giunta improvvisa, inaspettata e per questo ancora più carica di gratuità... gioisco nel sentire che vorrebbe incontrare il Santo Padre...
Le assicuro che oggi stesso mi prodigherò perché sia fattibile un suo incontro... lei potrà toccare con mano l’amabilità e l’acutezza di Ratzinger e lui potrà sperimentare il coraggio di una donna libera e combattiva che crede nella forza della ragione. Mons. Rino Fisichella)
(© Copyright Il Giornale, 18 settembre 2008 consultabile online anche qui.)
«Io i veli in testa non li porto Neanche morta»
Era il 16 agosto, mancavano 11 giorni all’appuntamento con Benedetto XVI quando Oriana scriveva:
Per quel sabato o lunedì m’è sorta una domanda angosciosa. Una preoccupazione che non mi aveva mai sfiorato il cervello. Oddio, oddio: non ci vorranno mica abiti da cerimonia?!? Io quelli non li ho. O non più, anche considerando i 38 chili che ormai ci sguazzano dentro. Io ho soltanto spartane giacche da uomo. È lecito imporle a un sovrano? A ciò si aggiunge l’incubo della testa coperta. Io i veli in testa non li porto. Neanche morta. Neanche per coprire i capelli lasciati dalla chemioterapia. Di copricapo acconci non ne posseggo né saprei dove trovarli. Se l’etichetta li impone, come si fa?!? Sembrano scemenze, invece non lo sono. In ventisei anni non mi sono ancora rimessa dal trauma che soffrii a Qom col chador. Quello che poi tolsi facendo infuriare l’ayatollah. Oriana Fallaci.
(© Copyright Il Giornale, 18 settembre 2008 consultabile online anche qui).
«Per quel momento non si è mai pronti»
(in occasione della morte della mamma di Monsignore)
New York, domenica 23 ottobre 2005
Rino,
Marco (il segretario del vescovo n.d.r.) ha chiamato. Me l’ha detto, e ne sono rimasta molto turbata. Oh, lo so che quel dolore miliardi di esseri umani lo hanno sofferto prima di te. Di noi. Lo so che a miliardi ne soffriranno dopo di te, di noi: che questa è la Legge della vita. Lo so che la tua certezza di rivederla ti aiuta ad accettare una realtà che io non accetto. E infine so che ti ci stavi preparando. (Ne parlammo due telefonate fa, ricordi? Non so perché ti chiesi di lei, e tu rispondesti: «Se l’avessi persa all’improvviso, non avrei resistito. Quindi meglio che se ne vada così, piano piano mi abitua all’idea»). Però so anche che quando il momento arriva, non si è pronti lo stesso.
Io non lo ero, la notte in cui mia madre se ne andò. Nonostante tutta la morte che avevo visto alle guerre, tutti i giovani che mi erano morti accanto al fronte, nonostante Alekos che un anno prima era stato ammazzato mentre correvo ad Atene per cercar di salvarlo, non ero pronta. E sebbene fossi andata a vivere nella casa di campagna per starle vicino, sebbene mi fossi «abituata all’idea», ne soffrii in maniera lancinante. Unico conforto, il fatto che la sera precedente fossi riuscita a procurarle un prete...
«Prete» aveva farfugliato con occhi imploranti verso mezzanotte. Così ero corsa subito fuori senza neanche infilarmi un cappotto. Era inverno e nevicava. Nel buio avevo raggiunto la chiesa del villaggio e chiamato un certo Don Gori che non voleva venire. «Domani, domani, ora-è-troppo-tardi-e-fa-freddo». A spintoni, parolacce, minacce, «se-non-mi-segue-seduta-stante-io-la-ammazzo», lo avevo costretto venire con la stola viola e il resto. E, a vederlo entrare, gli occhi imploranti s’erano illuminati d’una gioia insensata. Sublime e insensata. Oltretutto lei lo detestava perché per celebrare la messa nella nostra cappella del giardino esigeva ogni volta ventimila lire. E perché durante la Messa prendeva a calci York, il suo yorkshire-terrier, che si metteva ai piedi dell’altare. Poi, da un tipo simile assolta dai peccati che non aveva mai commesso, s’era appisolata con un sorriso felice e... Ho chiesto a Marco: «A che ora se n’è andata?». «Alle tre del mattino» ha risposto un po’ sorpreso dalla domanda. E ho avuto un brivido. Anche mia madre se ne andò alle tre del mattino.
Non ho mai visto un ritratto della tua. Nel living-room vi sono soltanto fotografie di prelati. Ma la vedo in due immagini che en-passant me ne hai dato. La prima è quella d’una mamma alla quale un bambino di sette anni dice inesorabile «Io voglio diventare prete». La seconda è quella d’una signora che si inchina dinanzi al proprio figlio vestito da vescovo e gli bacia l’anello. Dunque la mano. Bè, al tuo dolore dico: non è vissuta invano quella mamma, quella signora. Perché ha messo al mondo te. E a costo di scandalizzarti, indignarti, spaventarti, (aiuto-aiuto, Graham-chiama-la-polizia-porta-l’acqua-santa-ché-bisogna-fare-un-esorcismo), questa volta ti abbraccio teneramente. Anzi con tutta l’anima. Oriana Fallaci.
(© Copyright Il Giornale, 18 settembre 2008 consultabile online anche qui).
Il Mistero del Natale
Roma, 24 dicembre 2005:
Sto per andare dal Papa per la messa di mezzanotte. Oriana carissima, è Natale. Non uno qualunque, perché ogni Natale è per me un dono unico e irripetibile che mi ricorda il farsi uomo del Figlio di Dio. Ti invio una breve frase di San Gregorio il teologo, non poteva essere altrimenti, il quale dice: «Colui che è nasce, Colui che è incomprensibile viene compreso, Colui che arricchisce conosce la Povertà, Colui che è pienezza diviene vuoto». Questo mistero mi riguarda, pregherò il Signore per te, perché ti conceda di portare a compimento ogni desiderio di bene che è in te. Nell’attesa di risentirti ti auguro un buon Natale. Mons. Fisichella.
«In te mi riconosco, sebbene io sia del tutto diversa da te»
Oriana Fallaci gli risponde inviandogli una copia della “Forza della ragione”, poi gli dà una brutta notizia:
DOLORE E ANESTETICI

L’Alieno si è esteso alla spina dorsale, si è piazzato nella vertebra dentro cui mi beccai la pallottola messicana e di lì ha invaso altre vertebre. Da gennaio soffro dolori spietati e vivo di anestetici. Oriana Fallaci
NON RIESCO PIÙ A SCRIVERTI: 2 maggio 2006
Non ti scrivo da cent’anni. Ormai è diventata un’impresa straziante anche cambiare il nastro di questa macchina. Tutto fluttua dentro la nebbia e in più a stare seduta mi manca il respiro, soffoco, quasi ciò non bastasse ogni giorno succede qualcosa che mi ruba a me stessa e quando emergo dal nuovo trauma crollo sul letto come un bove al mattatoio. Lì ti scrivo, sì, ma col pensiero e basta. Oriana Fallaci.
TROPPO POCO TEMPO: Maggio 2006
Sai, mi dispiace molto morire. Infatti me ne vado con molti dispiaceri, ma il dispiacere più grosso è averti trovato così tardi e aver passato così poco, troppo poco tempo con te. Non so nemmeno chi eri, com’eri. Di te so soltanto chi sei oggi, una persona nella quale mi riconosco completamente, sebbene io sia completamente diversa da te. Oriana Fallaci.
(© Copyright Il Giornale, 18 settembre 2008 consultabile online anche qui).