venerdì 17 aprile 2020

Le prediche di Ratzinger nel nostro deserto spirituale


In "L'ultimo Papa d'Occidente?" Giulio Meotti traccia un preciso profilo intellettuale di Benedetto XVI

Schivo e appartato come è nel suo carattere, lontano dai riflettori, Joseph Ratzinger compie oggi novantatre anni. Di anni ne son passati sette invece da quando lasciò volontariamente il seggio di Pietro.
A succedergli è stato un Papa che con lui ha poco da spartire, e non solo per il fatto che viene dal Sudamerica: più radicalmente perché ha una concezione del compito dei cristiani e della Chiesa cattolica nel mondo completamente diversa da quella del predecessore. Così diversa da porsi tendenzialmente, secondo alcuni, al di fuori della dogmatica per molti aspetti.
Tanto che Giulio Meotti, uno dei più bravi giornalisti italiani, non esita a chiedersi, nel titolo di un'agile monografia su Ratzinger appena pubblicata da Liberilibri, se Benedetto XVI non sia stato l'ultimo rappresentante di una tradizione bimillenaria: L'ultimo Papa d'Occidente? (pagg. X+108, euro 14, introduzione di John Waters). Le sue dimissioni assumerebbero in quest'ottica un altro aspetto: quasi che, avendo provato invano a salvare una scialuppa che faceva acqua da tutte le parti, egli a un certo punto si fosse reso conto di essere troppo debole per corrispondere all'improbo compito affidatogli dalla Provvidenza, nelle cui mani si è rimesso. In ogni caso, il libro di Meotti, che è una sorta di raffinata biografia intellettuale del pontefice emerito, muove da una domanda precisa: non tanto chi egli veramente sia stato, quanto come abbia concepito il suo ruolo e quale compito si sia dato nella sua vita di studioso e di alto prelato. Il tutto, facendolo parlare direttamente, riportando stralci significativi dei suoi discorsi e dei suoi scritti.
Meotti si orienta benissimo in una mole impressionante di opere e mostra come il Papa tedesco abbia compreso da subito che il declino dell'Europa e quello del cristianesimo erano le due facce di una stessa medaglia. Il relativismo, contro la cui «dittatura» quasi con ossessione si è rivolto sempre il suo impegno, non è che il destino tragico e paradossale a cui ha condotto, radicalizzandosi, la mentalità illuministica. La decristianizzazione in atto mette faccia a faccia l'uomo con quel nulla di senso, il nichilismo, che Nietzsche aveva già intuito alla fine dell'Ottocento e che è alla base ogni crisi particolare che stiamo vivendo (economica, sociale, culturale, politica, di prospettive). In questo deserto spirituale («desertificazione» è una parola che ritorna spesso nelle sue opere), l'unica speranza è creare piccole comunità di resistenza e da lì provare a tessere i fili di una possibile rinascita.
È ciò che fece San Benedetto da Norcia (al quale non a caso Ratzinger col suo nome ha voluto richiamarsi da Papa), creando i suoi monasteri sul finire di quell'Impero romano che, con il suo lento declino, molto assomiglia all'Occidente di oggi. Fu in quei monasteri che, nel periodo delle invasioni barbariche, si conservò l'antica cultura greca e romana, la si cristianizzò, e la si fece transitare nei nuovi tempi. È lì che nacque l'Europa che, per l'«europeista» Ratzinger, o sarà cristiana o non sarà. Ragione, diritto e fede - o, come dice spesso nei suoi discorsi, Atene, Roma e Gerusalemme - sono i tre pilastri di una sintesi virtuosa su cui si è costruita la nostra cultura. Pensare di affidarsi, come ha voluto l'illuminismo, alla sola ragione, con il suo potere corrosivo e distruggitore di ogni tradizione, non porta che a negare chi e ciò che siamo. E da questo punto di vista le polemiche, puntualmente ricostruite da Meotti, suscitate dal discorso di Benedetto XVI a Ratisbona contro l'islamismo, oppure la pervicacia con cui gli si negò un intervento alla «Sapienza» di Roma, sono altamente significative. Cosa è altro, quel politicamente corretto razionalistico a cui Ratzinger tante volte si è opposto con l'inattualità del suo messaggio, se non una forma subdola e soft di totalitarismo?
Da questo libro, fra tanti spunti e considerazioni spesso illuminanti, emerge con forza l'idea che ci porta a vedere nella sintesi fra ragione e fede operata dal cristianesimo l'origine stessa delle nostre libertà liberali. Perso il primo, non potremo che perdere anche le seconde. E forse ci siamo già arrivati.

(Fonte: Corrado Ocone, Il Giornale, Venerdì 17 aprile 2020)
https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/prediche-ratzinger-nel-nostro-deserto-spirituale-1854992.html


venerdì 3 aprile 2020

A Dio Livi, diga teologica al modernismo nella Chiesa


È morto dopo lunga malattia monsignor Antonio Livi, un grande filosofo e teologo, che per anni ha dato anche un importante contributo di idee alla Nuova Bussola Quotidiana (qui l'elenco dei suoi articoli). Implacabile nel difendere l'oggettività della verità contro l'evidente decadenza della teologia cattolica e la protestantizzazione della Chiesa.

Una cattiva filosofia produce una cattiva teologia e questa porta la Chiesa fuori strada. Non aveva dubbi, monsignor Antonio Livi, che ci ha lasciati ieri a 82 anni a Roma per aspettarci nella Gloria di Dio quando questo passaggio toccherà anche a noi, che la Chiesa stia andando fuori strada. Ed aveva impegnato tutta la sua vita di filosofo e di teologo per spiegare e difendere la recta ratio, la verità naturale, la filosofia spontanea dello spirito umano, senza della quale non è possibile la recta fides, la fede non solo come atto soggettivo (fides qua) ma anche come conoscenza delle verità rivelate salvifiche (fides quae).
La dislocazione attuale dall’oggetto al soggetto, dai contenuti alla prassi, dalla dottrina alla pastorale tipica delle età in decadenza, come scriveva Josef Pieper (“Tutte le epoche in procinto di dissolversi sono soggettive, mentre tutte le epoche che guardano in avanti hanno una direzione oggettiva”), connota anche questa nostra età della decadenza e riguarda anche la Chiesa. La teologia cattolica, insegnava Antonio Livi, sta perdendo il riferimento ad un sistema naturale di pensiero senza il quale essa si riduce a generica letteratura religiosa, a vaga esortazione parenetica, ad assimilazione mimetica e compiaciuta del linguaggio del mondo, ma non serve più il dogma.
Senza la struttura di verità del proprio pensiero – egli usava l’espressione “epistemologia aletica” – la fede cristiana cessa di essere un autentico sapere, non si comunica a tutti gli uomini, non presenta i dogmi sempre nello stesso senso, non li difende dalle eresie.
Sulla scia del suo maestro Étienne Gilson, Antonio Livi è stato un grande tomista vissuto in un’epoca in cui la teologia cattolica ha messo il realismo metafisico completamente da parte. Per questo la sua vita è stata una “lotta” teoretica e pratica – “sapesse quante ne ho passate!", mi aveva detto -, una lotta fino all’ultimo momento, una lotta che egli lascia in eredità: “Ho pochi momenti lucidi nell’agonia, ma so che altri continueranno dopo di me”.
Proprio come Gilson, Livi ha denunciato tutti i tentativi moderni, necessariamente confluenti nel modernismo, di negare il realismo filosofico, sapendo che se si concede al pensiero moderno anche una sola briciola di vantaggio all’inizio, la partita prima o dopo sarà perduta. La stessa battaglia che Gilson aveva intrapreso fieramente contro la scuola di Lovanio negli anni Trenta del secolo scorso, Livi l’ha affrontata contro i neomodernisti del nostro tempo, denunciando il razionalismo di origine protestante dilagante ormai nella teologia cattolica e che animava la protestantizzazione del cattolicesimo ormai sotto gli occhi di tutti.
La sua “filosofia del senso comune” eliminava ogni concessione al dubbio cartesiano e al criticismo kantiano, impediva sul nascere qualsiasi accordo tra il realismo metafisico e i principi della filosofia moderna, liquidava come inconsistente e dannosa la teologia ufficialmente professata in moltissimi centri accademici cattolici comprese le università pontificie, fronteggiava apertamente i più acclamati maestri del pensiero cattolico attualmente in voga, tanto inconsistenti quanto vezzeggiati dal nuovo establishment ecclesiastico.
Come aveva fatto Réginald Garrigou-Lagrange negli anni quaranta del secolo scorso, Antonio Livi si era chiesto dove stesse andando la nouvelle théologie e la sua diagnosi confermava quella del grande domenicano: essa conduce alla tesi che una teologia non attuale è falsa e che la teologia vera per essere vera deve essere attuale. È così che ha pensato Rahner e che pensa Kasper, per i quali l’essere è tempo e il tempo è essere, la teologia nasce dall’esistenza che è sempre mutevole e così anche essa cambia.
Una teologia immutabilmente vera oggi è ritenuta cosa impossibile anche ai vertici della Chiesa, ma non da Antonio Livi. Nel suo libro forse più famoso, “Vera e falsa teologia”, egli presentò un elenco di teologi, poi più volte aggiornato, che stravolgevano la teologia cattolica e che ciò nonostante erano insigniti al merito da parte dell’autorità ecclesiastica. Nei suoi ultimi editoriali della rivista “Fides Catholica”, di cui aveva preso la direzione dopo le note vicende accadute ai Francescani dell’Immacolata, aveva denunciato la logica hegeliana penetrata nello stesso magistero, come conseguenza matura della nuova teologia modernista: un certo insegnamento dottrinale o morale è vero, ma poi i tempi cambiano e quindi bisogna riconsiderarlo.   
Antonio Livi va paragonato, come già osservato, a Garrigou-Lagrange, a Étienne Gilson, a Cornelio Fabro, ai grandi filosofi e teologi della Scuola Romana la cui ricchezza è stata rifiutata e dimenticata e nessuno sa dire perché. Rifiutata perché non più attuale, ma rifiutare una verità perché non più attuale significa rifiutarla senza un perché. Certamente è triste che i Grandi siano rifiutati senza un perché. Del resto, però, ciò evidenzia la loro grandezza rispetto alla quale nessun perché è sufficiente per rifiutarli.  

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 3 aprile 2020)
https://lanuovabq.it/it/a-dio-livi-diga-teologica-al-modernismo-nella-chiesa