mercoledì 30 novembre 2011

Lucio Magri, Angelo Stazzi e la “buona morte”

Quando si dice nascere sfigati. Angelo Stazzi, l’infermiere che faceva fuori i vecchietti per sfogare le proprie pulsioni omicide, avrebbe potuto fare la stessa cosa in modo molto più pulito e rispettabile, se solo fosse vissuto in Svizzera, in quella clinica dove si pratica il suicidio assistito e dove è andato recentemente a morire l’ex direttore del Manifesto Lucio Magri (foto).
Pensateci: invece di quella brutta foto segnaletica (dove figura con la barba incolta, la faccia da mascalzone, da criminale, la posa da psicolabile), lo Stazzi avrebbe potuto avere una bella foto in un depliant, con una posa molto più professionale, con un bel sorriso stampigliato in faccia, rassicurante e finanche fraterno. Avrebbe fatto i soldi continuando a fare il carnefice di vecchietti, col vantaggio di non essere considerato un carnefice, un boia, ma un asettico operatore sanitario o addirittura un benefattore.
Sono le contraddizioni della cultura della morte, di una società impregnata di quella cultura, che nemmeno riflette più sulla gravità dei propri usi e costumi. Mi colpiva stasera, seguendo il TG, che la prima pagina fosse dedicata al ricordo grato e un po’ commosso di Lucio Magri, andato a fare “l’ultimo viaggio” in quella clinica svizzera, dove si può fare quello che nell’Italia ancora bigotta e cattolica non è consentito. E poi, più avanti, nella pagina di cronaca, arrivava la notizia dello Stazzi, definito “l’angelo della morte”, con il giusto marchio d’infamia che si riserva agli assassini.
Si dirà: ma che c’entra? Quelli che in Svizzera hanno “aiutato a morire” Lucio Magri lo hanno fatto su precisa richiesta dell’aspirante suicida. Rispondo che, richiesto o meno, non c’è differenza alcuna tra il lavoro sporco degli svizzeri e quello dello Stazzi. Il mestiere di boia è sempre lo stesso. Magari lo Stazzi ha interpretato a modo suo la volontà dei suoi pazienti; magari avrà carpito qualche loro lamento, qualche frase di quelle che si ripetono quando si è stanchi della vita, e l’ha presa sul serio.
Quello che è certo è che lo Stazzi sarebbe stato un ottimo operatore nella clinica svizzera. Serio, professionale, metodico, preciso. Proprio quello che ci vuole in strutture di quel genere.
E veniamo a Lucio Magri. Si è voluto suicidare. Che qualcuno prenda questa orribile decisione non è una cosa nuova. La novità è che da qualche tempo lo si può fare in modo soft, pulito, asettico, addirittura, in qualche modo, sereno. Niente più pistole che fanno saltare le cervella: niente più gas di scarico dell’automobile nel garage ermeticamente chiuso; niente più cappio al collo in qualche cesso; niente più voli dal quinto piano con conseguente spiaccicamento a terra; niente più avvelenamenti da barbiturici presi in dosi massicce. Tutta roba vecchia, sporca. Adesso c’è la clinica, c’è lo sguardo rassicurante delle infermiere, i vasi di fiori nella camera pulita, la musica che ti accompagna...
L’uomo si gioca così il suo “potere di morire”, trasformandolo in un”diritto di morire”, come bene commentava questa sera l’inossidabile Giulianone Ferrara. E se la morte diventa un “diritto” (per la prima volta nella storia dell’umanità!), che perda anche tutto il suo aspetto tragico e si trasformi in qualcosa di dolce! “Eutanasia”, appunto. In questo modo, ha detto ancora Ferrara, Cristo viene spazzato via dalla faccia della terra. Ma con Cristo scompare anche l’uomo.
La vicenda di Magri insegna una cosa facile facile e per questo va tenuta a mente. Non si è andato ad uccidere un uomo che era segnato da qualche terribile malattia, un malato terminale ridotto allo stadio vegetale, un essere umano ridotto in carrozzella e impedito in tutti i movimenti o in qualche altra funzione. E’ andato a suicidarsi un uomo che semplicemente non voleva più vivere. E’ una cosa diversa. E’ un’immagine molto diversa da quelle terroristiche che ci sono state presentate con i casi di Welby o di Eluana. E questa immagine svela l’ipocrisia di molte campagne per il “diritto di morire”. Non ci facciamo fregare: una volta concesso questo “diritto”, i primi ad usufruirne non saranno gli handicappati né i malati terminali, né i malati di cancro. Ma quelli che, semplicemente, non vorranno più vivere, per un motivo qualsiasi. E non necessariamente a settant’anni. La crisi potrà arrivare molto prima: a sessanta, cinquanta, quaranta, perfino trenta e giù giù fino ai diciotto.
E questi poveracci, invece di incontrare qualcuno che li aiuti a ritrovare se stessi, la speranza, il senso della vita, Cristo, cadranno nelle mani di carnefici alla Stazzi, ma in veste di angeli della “buona morte”. Sorridenti, fraterni, professionali, puliti. Pronti, loro, a riscuotere una parcella per lo stesso mestiere per il quale, altri, vanno in galera.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 29 novembre 2011)


Non ci sono preti? Ecco allora i Lettori, “Ministri della Parola”

Una nuova figura si prepara nella Chiesa: il "ministro della Parola". La delinea il vescovo di Como nel piano pastorale stilato per il prossimo biennio: «Non ci sfugge la necessità e il compito di preparare idonei ministri della Parola - scrive monsignor Diego Coletti - per la celebrazione della Parola di Dio nelle comunità in cui non si riesce più a celebrare la Messa di ogni giorno feriale; o addirittura non è possibile garantire sempre il sacrificio eucaristico nei giorni di precetto festivo» e ricorda che il Papa chiama queste comunità «assemblee domenicali in attesa di sacerdoti».
In pratica, un diacono o un lettore istituito, condurrà le preghiere e le letture delle Sacre Scritture, Epistola e Vangelo, e le commenterà. Non potrà certo consacrare il pane e il vino, poiché solo un sacerdote può farlo, ma il "ministro della Comunione", figure laiche già presenti nella nostra Diocesi, potrà poi distribuire la Comunione.
Il ministero della Parola è un'esperienza già in corso, per esempio, nella vicina Svizzera, in certi villaggi dove il sacerdote arriva a celebrare la Messa due volte al mese; da noi, la preparazione passa dalla Scuola diocesana di teologia e dai vicariati, le nuove zone pastorali omogenee in cui è stata suddivisa la diocesi, per una miglior collaborazione tra le parrocchie e per azioni comuni, in raccordo con le associazioni. Ma il vescovo, nel piano pastorale, afferma che tutti i cristiani devono diventare «esperti del primo annuncio», cioè portare la Parola di Dio a tutti, «a chi è in ricerca, a chi è cresciuto fino ad una certa età frequentando la catechesi e i sacramenti e poi ha lasciato la vita della Chiesa» e perfino ai lontani. E dove la porta? «Nelle chiese e nelle case - esemplifica Coletti - nei luoghi di divertimento e di lavoro» e «nelle situazioni che toccano il cuore dell'esistenza quotidiana: la nascita di un figlio, una decisione importante, l'incontro con la morte di una persona cara, la scelta di vivere insieme, la fragilità, la sofferenza, la povertà».

 (Fonte: La Provincia, Il quotidiano di Como, 30 novembre 2011)


Toccherà ai cristiani fuggiti dall’islam salvare l’Occidente

Ci salveranno i cristiani fuggiti dall’islam e rifugiati in Occidente. Le nostre Chiese si fanno in quattro per promuovere il dialogo con i mufti, gli ulema e gli imam al punto da relativizzare il cristianesimo accreditando la tesi delle tre grandi religioni monoteiste, rivelate e abramitiche, ma loro che conoscono a memoria il Corano, la Sira (la biografia ufficiale di Maometto) e la Sunna (i detti e i fatti attribuiti a Maometto), ci dicono esplicitamente che si tratta di un’ideologia demoniaca incompatibile con la nostra umanità.
I nostri cardinali, vescovi e sacerdoti tradiscono la fede nella verità assoluta in Cristo come sigillo della profezia e compimento della rivelazione al punto da concepire che la legittimazione dell’islam e la costruzione delle moschee sia parte della loro missione cristiana, ma loro che hanno subito sulla loro pelle le discriminazione, la persecuzione e il massacro perpetrati dai musulmani ci condannano come aspiranti suicidi.
Ho conosciuto la scorsa settimana a Bruxelles monsignor Charles- Clément Boniface Ozdemir, detto padre Samuel, della Chiesa siro cattolica, nato in Turchia e cittadino belga, personaggio focoso e carismatico che si è scontrato con la Curia cattolica, ha vinto un processo intentatogli per diffamazione dell’ islam e ha partecipato alle elezioni locali con una propria lista. Lo scorso 7 novembre avevo conosciuto a Parigi il gruppo di cristiani arabi che gestisce la televisione Al Hayat (La vita) la cui sede principale è a Seattle nello Stato di Washington, partecipando come ospite alla trasmissione di punta Al Dalil (La prova).
Sono due realtà che affrontano in modo diverso il rapporto con l’islam, ma concordano sia sul fatto che si tratta di un’opera del demonio sia sul fatto che la nostra missione come cristiani è essenzialmente quella di conoscere e di far conoscere la verità del Corano e di Maometto. Ed è evidente che sono loro a potersi assumere l’onere di questa missione dal momento che conoscono l’arabo, hanno studiato i testi fondamentali dell’islam e hanno il coraggio di affermare pubblicamente la verità finendo per convertire al cristianesimo molti musulmani.
Ho incontrato padre Samuel nel mio ufficio nel Parlamento Europeo e sono rimasto subito impressionato dalla spontaneità e dalla chiarezza della sue posizioni di netta condanna dell’islam, definito una falsa religione opera del demonio, ispirato da un criminale assetato del sangue dei cristiani, degli ebrei, degli apostati e di tutti coloro che non si sottomettono all’islam complessivamente condannati come infedeli. Afferma senza esitazione che se lui avesse scritto oggi il Corano sarebbe stato arrestato e condannato per apologia di odio, violenza, morte, discriminazione, razzismo e terrorismo.
Ha sostenuto in televisione che la proliferazione delle moschee è peggiore della proliferazione delle centrali nucleari e che dietro a ogni islamico che si attiene rigorosamente al dettame del Corano e all’esempio di Maometto vi è un potenziale terrorista. È convinto che i musulmani in Europa non siano integrabili e che il loro vero obiettivo è insediarsi, radicarsi per sottometterci all’islam.
È contrario ai matrimoni misti tra cristiani e musulmani. Ha avuto 45 famigliari uccisi dai musulmani e dice con convinzione: «Io li conosco bene. Sono falsi, ipocriti e perfidi. Dicono di volere il dialogo e la convivenza ma ciò che vogliono è costringerci a sottometterci all’islam. Tareq Ramadan ( il più celebre ideologo dei Fratelli Musulmani in Europa) afferma che i musulmani «offrono » l’islam agli europei ma non lo impongono. Hanno una lingua biforcuta per opportunismo. La dissimulazione delle loro reali intenzioni ( taqiya) è legittimata dal Corano e da Maometto».
A differenza del gruppo di cristiani arabi che gestisce la televisione Al Hayat e che sono convinti che l’islam un giorno finirà quando i musulmani conosceranno ciò che è scritto nel Corano e chi è stato Maometto, che pertanto la nostra missione è di far conoscere i testi fondanti dell’islam ai musulmani, padre Samuel non crede affatto in questa possibilità: «Anche se prendono atto che nel Corano si ordina di uccidere i non musulmani, loro l’accettano acriticamente perché l’ordine viene da Allah e Allah non può sbagliarsi».
La conclusione a cui approda padre Samuel è catastrofica: «Ci sarà una guerra civile in Europa. Di ciò non ho alcun dubbio». Questa guerra civile sarà causata dalla volontà egemonica dei musulmani. «Noi siamo determinati a prepararci alla battaglia per difendere il cristianesimo.
Gli europei e la Chiesa cattolica non conoscono l’islam. Purtroppo anche gli islamologi cattolici che ispirano le scelte della Chiesa sono filo-islamici. Per conoscere l’islam bisogna averci vissuto, essere dentro la realtà dell’islam e il vissuto dei musulmani. Noi cristiani fuggiti dall’ islam lo conosciamo bene. Saremo noi a difendere il cristianesimo in Europa e a salvare l’Europa dalla nuova dominazione islamica».
Sono d’accordo sul fatto che gli europei in generale e la Chiesa in particolare non conoscono o semplicemente hanno paura o addirittura sono collusi con l’islam, essendo ormai succubi dell’ideologia del relativismo che porta a legittimare l’islam a prescindere dai suoi contenuti come religione di pari valore e dignità dell’ebraismo e del cristianesimo.
Ma sono convinto che noi italiani e noi europei possiamo, anzi dobbiamo, riscattare la nostra civiltà laica e liberale dalle radici giudaico-cristiane affermando e facendo rispettare un modello di convivenza fondato sulla condivisione dei valori non negoziabili della sacralità della vita, della dignità della persona e della libertà di scelta, nonché sulla certezza delle regole che si traducono in diritti che salvaguardano tutti senza alcuna discriminazione ma anche doveri che vincolano tutti senza alcuna eccezione.
La nostra vera missione è salvarci dalla dittatura del relativismo e del materialismo per fortificarci dentro e vincere la sfida epocale contro gli adoratori di Allah e del dio denaro.

(Fonte: Magdi Cristiano Allam, Il Giornale, 28 novembre 2011)


Quando l’integrazione porta alla morte

Hina Salem, Sanaa Dafani, Begum Shnez e ora Rachida Radi, tutte uccise perché volevano semplicemente essere se stesse. Colpevoli di volere un fidanzato italiano, colpevoli di volere vivere “all’occidentale”, colpevoli di togliersi il velo, colpevoli di lasciare il marito. L’ultima vittima in ordine di tempo è Rachida Razi, 35 anni, marocchina, che lo scorso 19 novembre, a Brescello in provincia di Reggio Emilia, è stata presa a martellate e uccisa dal marito, Mohamed al-Aryani.
Rachida aveva deciso di separarsi dal marito che già in passato aveva denunciato per maltrattamenti. Rachida aveva anche iniziato a frequentare la parrocchia, dove per arrotondare faceva qualche lavoretto, ma dove soprattutto incontrava persone, incontrava il mondo esterno. Rachida si era tolta il velo, voleva imparare l’italiano e a detta dei volontari che lavorano in parrocchia aveva anche iniziato un “percorso verso una nuova vita”, una nuova fede.
In poche parole è stata brutalmente uccisa l’ennesima donna che voleva integrarsi nel paese che l’aveva accolta. Non è il primo cittadino marocchino che si avvicina alla nostra fede. L’islam popolare marocchino, con una forte devozione dei santi, è forse il più vicino alla spiritualità cristiana. Purtroppo, l’avvicinamento al cristianesimo, per non parlare della conversione da parte di un musulmano ha sempre il risvolto tragico: la condanna a morte.
Se il Corano non è esplicito nella pena, le raccolte di detti di Maometto sono molto chiare. Nella raccolta di Bukhari (52, 260) che è considerata una raccolta di hadith puri e quindi è una delle fonti del diritto islamico. Sempre in Bukhari leggiamo: “L’Inviato di Dio non ha mai ucciso se non innanzi a una delle tre seguenti situazioni: 1. Una persona che ne aveva uccisa un’altra ingiustamente, fu uccisa; 2. Una persona sposata che ha commesso adulterio; 3. Un uomo che ha combattuto contro Dio e il Suo Inviato e che ha rinnegato l’islam per diventare un apostata” (83,37); “Chiunque apostati l’islam, uccidetelo” (84, 57); “Un uomo che abbraccia l’islam e che dopo ritorna all’ebraismo deve essere ucciso secondo il giudizio di Dio e del Suo Inviato” (89, 271); “L’Inviato di Dio ha detto: ‘Negli ultimi giorni ci saranno dei giovani stupidi che parleranno bene, ma la cui fede non uscirà dal cuore e lasceranno la religione come una freccia che sbaglia mira. Allora ovunque li troviate, uccideteli, perché chiunque li uccide riceverà la giusta ricompensa nel Giorno del giudizio” (84, 64-65).
Non a caso già nel 2007 a Vigevano in provincia di Pavia un marocchino convertito che aveva esposto la bandiera del Vaticano per accogliere il Pontefice era stato preso a sassate da un gruppo di egiziani. Nel 2009 Mohamed Echamali, 29 anni, raccontava la sua angoscia quotidiana in carcere, in quanto convertito e chiedeva disperatamente aiuto: “Adesso mi trovo nel carcere di Aosta ma fra pochi giorni sarò trasferito perché non posso più stare qui: i detenuti connazionali mi hanno picchiato con rabbia soltanto perché vado in chiesa e non ho fatto il Ramadan come tutti loro”.
Sempre nel 2009 Said Bouidra, un giovane di 22 anni immigrato dal Marocco, che voleva convertirsi al cattolicesimo si è impiccato a Civitavecchia. Il giovane stava vivendo un dramma personale in quanto era fortemente osteggiato dalla famiglia che era contraria alla sua conversione e già erano ricorsi a minacce e a percosse fisiche. Ci sono poi casi di conversioni, inizialmente tormentate, ma aiutate da un marito e da una cerchia di amici italiani. E’ il caso di Rachida Kharraz che nel 2009 decide di battezzarsi pubblicamente, con l’orgoglio e la convinzione di chi è forte della propria fede e, come dice lei, con la forza della protezione della Madonna che sin da piccola sognava. Purtroppo a Rachida Radi un allontanamento dal marito e un avvicinamento alla parrocchia sono costati la vita.
E’ inaccettabile, insopportabile che questo accada in Italia, in Europa e che tutti noi ci risvegliamo solo innanzi a un atroce omicidio. Ogni volta si condanna, ma nulla cambia. Lo Stato dovrebbe prendere delle misure severe, nette al fine di evitare queste tragedie. Le donne immigrate sono le principali vittime. Bisognerebbe monitorare più attentamente le denunce sporte alla polizia e ai carabinieri, non trascurare nulla perché le donne immigrate non sono donne di seconda categoria. Bisognerebbe coinvolgerle sempre più nella vita quotidiana con corsi di lingua italiana, nel percorso scolastico dei figli obbligandole a recarsi ai colloqui con gli insegnanti, bisognerebbe sensibilizzare insegnanti, medici e istituzioni affinché denuncino casi sospetti laddove la donna non abbia il coraggio di ammettere una violenza.
Solo Rachida sa cosa serbava in cuore, ma l’ipotesi di un’eventuale conversione diventa plausibile nel momento in cui nessuno della sua famiglia abbia ancora reclamato la salma accresce il sospetto che la donna stesse davvero iniziando un percorso di fede nuovo.
Non è ammissibile il delitto d’onore, non è ammissibile la condanna a morte per apostasia, non è soprattutto ammissibile che tutto questo accada in Italia. Bisognerebbe prevedere una modifica del codice penale, ovvero introdurre l’aggravante per i reati commessi per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali. Bisognerebbe fare in modo che nessuno possa essere privato della vita in nome della libertà né tantomeno in nome della religione.
Bisognerebbe avviare un progetto a livello nazionale che protegga queste donne, che le faccia sentire al sicuro, affinché abbiano il coraggio di uscire allo scoperto, di denunciare e di vivere. Bisognerebbe avviare dei programmi di formazione che insegnino agli uomini immigrati che l’onore non si difende con l’omicidio, che non c’è giustificazione alcuna, né religiosa né culturale, alla morte.
Bisognerebbe iniziare a punire severamente, senza alcuna attenuante culturale, non solo chiunque uccide, ma chiunque minacci, maltratti la propria moglie, la propria figlia, la propria sorella. Bisognerebbe prevedere una pena per chiunque minacci di morte un uomo o una donna perché ha intenzione di cambiare religione. E’ giunto il momento di dimostrare che l’Italia non vuole più lo spargimento di altro sangue innocente né le nuove catacombe per i convertiti dall’islam.

(Fonte: di Valentina Colombo, Corrispondenza Romana, 27 novembre 2011)


Nel Giorno del Ringraziamento Obama si "dimentica" di Dio

Nessuno poteva immaginare che anche il Giorno del Ringraziamento, una delle feste più importanti negli Stati Uniti, potesse scatenare un putiferio politico. Ma cos'è accaduto? Il presidente Barack Obama nel tradizionale discorso ha ringraziato tutti gli americani ma non ha speso una parola - ed è questa l'accusa nei suoi confronti - su Dio. Non è un dettaglio secondario visto il senso della festa. Subito è scoppiata la polemica, sui media, su Internet, e in special modo su Twitter.
Il giorno del Ringraziamento, Thanksgiving, risale al 1621 quando, in occasione del primo raccolto, William Bradford, governatore della Colonia fondata dai Padri pellegrini, a Plymouth, nel Massachusetts, ordinò a tutti di radunarsi con le famiglie, ascoltare il pastore e rendere grazie a Dio per tutte le sue benedizioni. E', dunque, una festa di chiare origini cristiane.
Fox, la rete tv di Rupert Murdoch vicina ai conservatori, ha duramente criticato Obama per aver evitato, nel suo discorso, ogni riferimento religioso "anche se Thanksgiving è una festa in cui per tradizione di ringrazia e si prega Dio". "È un ateo militante", "sostenitore del separatismo multiculturale", sono alcune tra le accuse che gli vengono mosse su Twitter. Qualcuno va sul pesante e fa dell'ironia sulle origini del presidente: "Se continua così entro Natale sarà di nuovo musulmano". E queste sono solo le frasi più gentili e moderate nei confronti di Obama...
Nel suo discorso Obama si è limitato ad augurare agli americani un buon Thanksgiving, e ha descritto come lui avrebbe trascorso la giornata. "Siamo particolarmente grati agli uomini e alle donne che ci difendono oltreoceano - afferma il presidente -. Agli americani volontari che aiutano nelle cucine e nei rifugi per i senza tetto per assicurarsi che tutti i loro vicini abbiano un piatto caldo e un posto dove stare. Il primo Thanksgiving è stata una celebrazione della comunità durante un periodo difficile e noi da allora seguiamo questo esempio" ha detto Obama rievocando le celebrazioni dei padri Pellegrini. "Se manteniamo questo spirito vivo e se ci sosteniamo gli uni con gli altri, supereremo le sfide che ci troviamo davanti. Sono grato di essere il vostro presidente e comandante in capo. Sono grato che le mie figlie possa crescere in un grande paese come il nostro. Sono grato per la possibilità che ho di fare la mia parte". Abilissimo comunicatore, Obama questa volta ha commesso una piccola-grande gaffe. Non è da escludere, infatti, che in un tempo di crisi come questo gli americani decidano di riavvicinarsi ai valori trascendenti. E un ateo, nei fatti se non proprio dichiarato, potrebbe risultare non troppo gradito.

(Fonte: Orlando Sacchelli, Il Giornale, 25 novembre 2011)


venerdì 25 novembre 2011

“Stop per un anno alle omelie nelle chiese”

Qualche tempo fa avevo buttato giù degli appunti per un articolo semi-serio dopo essere stato a messa e aver sofferto durante l’omelia. L’inizio della celebrazione era stato molto bello, eravamo entrati in un bel crescendo verso il momento centrale; ma quindici minuti e passa di omelia, forse non allo stesso grado di intensità, mi avevano fatto sperimentare un processo inverso.
Avevo scritto quello che troverete più sotto, con l’intenzione di non pubblicarlo; uno sfogo destinato al cassetto, anzi, al “file” dei pezzi mai pubblicati. Poi qualche giorno fa mi è cascata sotto gli occhi una notizia di agenzia, protagonista il Presidente del pontificio Consiglio per la Cultura, biblista di chiarissima fama, inventore del “Cortile dei gentili”, e mi sono detto: allora….
Il cardinale Gianfranco Ravasi invitato, nella sua veste di biblista e intellettuale, ad aprire, alla Pontificia Università Gregoriana, un corso sulla parola, affermava:
''La parola è in sofferenza. Anche per la comunità ecclesiale, la Chiesa e la sua comunicazione. La parola è tradita e umiliata''. Anche dal pulpito. Ravasi chiama in causa direttamente i sacerdoti. Perché ''spesso le predicazioni sono così incolori, insapori, inodori da essere irrilevanti''. Invece ''bisogna ritrovare la parola che 'offende', ferisce, inquieta, giudica'', la ''parola sana, autentica che lascia il segno''. E non dimenticarsi che oggi, piaccia o no, chi ascolta ''e' figlio della tv e di internet''.
E ancora: Ravasi ricorre a Voltaire e Montesquieu e dice con loro che ''l'eloquenza sacra è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta: quello che non sa darti in profondità te lo da' in lunghezza''. Il tono del cardinale è leggero, ma tagliente. ''Il sacerdote non deve accettare che la parola sia umiliata. E' chiaro che la capacità di parlare è anche, in parte, dote naturale, ma poi' c'è la formazione, l'aspetto pedagogico, l'attrezzatura tecnica di cui dotarsi. E questo oggi manca nei seminari''. Per finire: “Umberto Eco stima che oggi i giovani usino solo 800 parole. Ciò impone a chi parla essenzialità, incisività, narrazione, colore”.
Allora mi sono fatto coraggio, e ho tirato fuori il mio appello; che spero sia formalmente corretto, perché non ho esperienza nel campo; è la prima volta che scrivo a un papa.
“Santità, mi permetto di rivolgerLe un appello; scherzoso, ma fino a un certo punto solamente. Riguarda le omelie. Quelle che sentiamo, ogni domenica, andando a messa.
È un appello che in realtà contiene diversi suggerimenti, proposte, idee; e come si conviene nel rivolgersi a Lei, in tutta umiltà, naturalmente.
La prima idea è un po’ radicale. Proclamare un periodo (decida Lei la durata) di digiuno omiletico. Vale a dire: stabilire che per un anno nelle chiese (esclusi ovviamente il Papa e i vescovi) non vengano pronunciate omelie. Non mi chieda spiegazioni o ragioni. Non voglio offendere i sentimenti (buoni) di nessuno. Chieda spiegazioni, se vuole, a Giulio Andreotti, che – se non ricordo male – cerca(va) di andare a messa molto presto di mattina, proprio per non ascoltare omelie. Io credo che se l’omelia fosse sostituita da un breve periodo di raccoglimento e di meditazione delle parole appena udite nelle Letture potrebbe essere benefico per tutti.
Secondo suggerimento; questo, ovviamente scherzoso. Obbligare i sacerdoti a frequentare un corso di giornalismo, e in particolare di giornalismo di agenzia, o televisivo. Ci è stato detto più volte, durante la nostra ormai lunga frequentazione di redazioni, che in cinquanta righe si può descrivere la storia di una vita. Possibile che non sia possibile scrivere, nello stesso spazio, una riflessione sul Vangelo del giorno?
Terza possibilità (anche questa scherzosa, però….): chiedere alla Congregazione apposita di emanare un documento in cui si stabilisca tassativamente che il tempo dedicato all’omelia non deve superare i cinque minuti. Un santo, o un padre della Chiesa, disse un giorno: “nei primi cinque minuti parla Dio, negli altri cinque minuti parla l'uomo, nei restanti cinque minuti e più parla il diavolo”. Propendo a credere che in realtà dopo i primi cinque minuti da molti pulpiti continui a parlare l’uomo; e purtroppo non tutti sono alla Sua altezza, nello scrivere e pronunciare i discorsi. E l’esperienza ci fa toccare con mano – senza colpa di nessuno, i sacerdoti sono animati dai migliori sentimenti, e pieni di santo entusiasmo – che un’omelia che si dilunga, si perde, divaga, tocca tanti punti diversi spesso non è di aiuto a mantenere la concentrazione e la tensione spirituale creata dalle Letture. Anzi. Naturalmente sarebbero esclusi il Papa, i cardinali, i Patriarchi e gli arcivescovi metropoliti. Su vescovi e abati si può discutere….”.
Speriamo che qualcuno glielo faccia leggere.

(Fonte: Marco Tosatti, Vatican Insider, 22 novembre 2011)


La moglie di Lutero

Mi sembra un fatto un po’ curioso che nel clima attuale di dialogo intenso e a tutto campo con i Luterani e col diffuso interesse che c’è per la tematica del sesso e della famiglia, non compaia mai, almeno nella pubblicistica corrente, né da parte cattolica né da parte protestante, la questione della moglie di Lutero, l’ex-monaca Caterina Von Bora, che gli dette cinque figli, dei quali pure peraltro non si parla mai.
Mi si potrà forse obiettare che l’interesse prevalente per Lutero riguarda la sua dottrina teologica e non tanto la sua vita privata ed ancor meno la sua vita coniugale e di famiglia. Non so però quanto vale questa obiezione, considerando peraltro la stessa concezione moderna del far teologia e della stessa teologia, per la quale, soprattutto nell’orientamento esistenzialistico – e il protestantesimo non è lontano dall’esistenzialismo – si concepiscono la teologia e il teologare come fatti esistenziali del singolo teologo, come vita ed espressione di vita. D’altra parte si sa come è normale per i teologi e i pastori protestanti aver famiglia.
Si direbbe che su questo aspetto importante della vita di Lutero, niente affatto estraneo alla sua concezione teologico-morale del sesso, della donna, del matrimonio, del peccato e della giustificazione, si sia steso come un velo non si sa se di pudore o di disagio o di imbarazzata indifferenza, quando invece io ritengo che è un aspetto assai importante della vita di Lutero, strettamente legato col suo pensiero, aspetto quindi che andrebbe messo in maggior luce e dovrebbe esser oggetto di un ampio e franco dibattito ecumenico, al di fuori di qualunque mentalità scandalistica o, peggio, curiosità morbosa, che niente hanno a che vedere col clima di sereno confronto che attualmente deve governare il suddetto dialogo ecumenico.
Ma quello che è legato a questo silenzio sulla vicenda coniugale di Lutero e sulla figura di Caterina è indubbiamente l’assenza, nei primi secoli del luteranesimo, di significative figure femminili e di un contributo femminile importante nel campo della spiritualità e della teologia protestanti, quando invece si sa come la letteratura spirituale e mistica femminile cattolica, nata nel sec.XIII e proprio in Germania, sia poi continuata nel cattolicesimo, con grandi figure di Sante, nominate persino Dottori della Chiesa, sino ai nostri giorni, mentre una significativa letteratura religiosa protestante femminile è solo di data assai recente.
Quanto allo stesso Lutero, ovviamente, come uomo - e qui condivido il tradizionale giudizio su Lutero -, non posso lodare la nota tendenza all’intemperanza che caratterizzava l’atteggiamento di Lutero nei confronti del sesso, e come cattolico vedo con dolore il fatto che egli abbia tradito i voti monastici e per di più unendosi ad una donna essa pure infedele ai detti voti, anche se poi tutto sommato Lutero fu un marito fedele e un padre premuroso.
Come è noto dalla storia, Lutero eleva la grande per non dire insuperabile sua difficoltà a controllare la propria tempestosa sessualità a condizione propria dell’uomo conseguente la caduta originale. Probabilmente accecato dalla passione, egli chiude gli occhi alla splendida storia della pratica religiosa del voto di castità e di tutti gli esempi di castità degli sposi cristiani, benché ai suoi tempi avesse davanti agli occhi una diffusa situazione di corruzione. Come notò il grande storico domenicano P. Enrico Denifle nel suo famoso studio su Lutero dell’inizio del secolo scorso, Lutero denigra la pratica della castità consacrata quasi si trattasse di una frustrazione disumana, in modo non dissimile alle calunnie che Freud le avrebbe lanciato nel sec.XX.
Lutero non sa apprezzare quanto nella storia della santità cristiana la castità ha favorito ogni virtù, le opere della carità ed ogni azione autenticamente riformatrice, nonché l’imitazione di Cristo e della Beata Vergine Maria, e tutta una letteratura di alto valore teologico, ascetico, morale e spirituale fondata su di un’autentica adesione alla Sacra Scrittura, il cui messaggio, come si sa, egli intendeva riconoscere, garantire e diffondere.
Lutero non sbaglia nel vedere nel racconto genesiaco della creazione dell’uomo e della donna e della loro unione un insegnamento antropologico e morale più radicale e fondamentale di quello pur sublime di Cristo che invita chi vuol seguirlo a “farsi eunuco per i regno dei cieli”, un’esortazione fatta ad alcuni più fervorosi, che però è legata soltanto al piano della Redenzione, il quale, stante la condizione attuale della natura decaduta, ha in fin dei conti soltanto la ragione di mezzo privilegiato al fine di ripristinare nella sua pienezza il piano originario della creazione.
Sbaglia Lutero nel vedere la pratica dei voti come un mero discutibile per non dire nefasto uso della Chiesa Romana e non invece un principio di perfezione che risale a Cristo; però non ha torto nel vedere la maggiore fondamentalità del rapporto uomo-donna prospettato dal Genesi.
Il limite di Lutero, del resto tipico della Chiesa del suo tempo, fu quello di non tener conto che la prospettiva finale, escatologica della Redenzione non è la coppia procreativa, ma la semplice unione di coppia o meglio riconciliazione dell’uomo con la donna, dopo la “divisione” provocata dal peccato, un’unione escatologica, simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa.
Lutero è partito dalla suddetta visione limitata, della quale, col “senno del poi”, non possiamo fargliene una colpa, perché ancora l’antropologia sessuale non aveva ben chiaro il permanere nella risurrezione della coppia uomo-donna, come invece apparirà chiaro nel sec.XX con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II.
Se di colpa o quanto meno di errore invece vogliamo parlare, esso fu l’omologazione da lui fatta tra il bisogno sessuale-procreativo e i bisogni fisiologici dell’individuo, la cui soddisfazione gli garantisce la sussistenza fisica. In tal modo Lutero, certo senza immaginarlo, è all’origine della visione antropologica che sta alla base della fecondazione artificiale che concepisce la procreazione come diritto assoluto della persona, da soddisfarsi con ogni mezzo.
Si può pensare con alcuni che questo invincibile bisogno sessuale, dove peraltro la donna risulta piuttosto strumentalizzata, sia il segno che Lutero non aveva avuto una vera vocazione monastica, per quanto, come rilevò lo stesso Giovanni Paolo II, egli sia stato un’anima profondamente religiosa, anche se certo non fu proprio di un’anima veramente religiosa l’idea che gli venne di abolire la S.Messa. La sua stoltezza fu, come ho detto, quella di elevare il suo caso personale a principio generale con la pretesa di fondarlo sulla Bibbia.
Quanti casi abbiamo avuto in questi ultimi decenni di sacerdoti e religiosi i quali col permesso dell’autorità ecclesiastica sono stati dispensati o dai voti o dal celibato! Ma moltissimi di essi certamente non hanno preteso di elevare il loro dramma legge generale della Chiesa, la quale peraltro probabilmente in un futuro potrebbe approvare un sacerdozio coniugato, ma con ben altre condizioni, e mantenendo sempre una speciale stima per quello celibatario.
Quanto poi ai voti religiosi, è evidente che la loro soppressione, sopprimerebbe automaticamente lo stato religioso come tale. E di fatti si sa come Lutero fosse contrario allo stato religioso, non riuscendo a trovarne il fondamento evangelico.
Se invece Lutero, come pensano altri, aveva ricevuto una vera vocazione religiosa, allora è chiaro che la rottura dei voti non potè essere senza colpa, perché, come attesta l’esperienza di sempre, se uno fa voto a ragion veduta e con l’autenticazione dell’autorità della Chiesa, Dio poi non gli nega la grazia di poterlo osservare per tutta la vita. E la colpa di Lutero si accresce considerando quanti religiosi e sacerdoti, compresi fedeli comuni, egli ingannò con i suoi sofismi pseudobiblici, allontanandoli dalla pratica della castità.
Tuttavia, come fa Hartmann Grisar alla fine della sua famosa monumentale opera su Lutero, dove non gli risparmia le critiche, anch’ io voglio affidare Lutero alla misericordia di Dio insieme con la “sua” Caterina, di quel Dio che disse: “Non è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio fare un aiuto simile a lui”, un aiuto vedendo il quale Adamo esultò, mentre il Creatore dispose che uomo e donna siano in eterno “una sola carne e che l’uomo non divida ciò che Dio ha unito”.

(Fonte:  P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa cristiana, dic. 2010)


Protestantesimo e modernismo

Nell’enciclica Pascendi S. Pio X collega il modernismo al protestantesimo. Per quale motivo? Se noi consideriamo quelli che furono gli intenti di Lutero, bisogna dire che egli, per sua espressa dichiarazione, non intese tanto essere “moderno”, quanto piuttosto mettere o rimettere in evidenza la verità del Vangelo, secondo lui oscurata o falsificata dal cattolicesimo medioevale, il quale avrebbe aggiunto alla Parola di Dio idee, credenze, usanze, riti, pratiche e tradizioni spuri e meramente umani - potremmo dire farisaici -, per i quali l’uomo pretende di glorificare se stesso davanti a Dio sostituendo la gloria delle opere e dei meriti dell’uomo alla gloria, alla grazia ed alla misericordia che vengono solo da Dio.
Lutero ha quindi inteso liberare il Vangelo e il costume cristiano da queste che egli considerava aggiunte illegittime, scorie, ipocrisie e falsificazioni, per ritrovare la pura essenza o sostanza del messaggio cristiano in piena aderenza alla Sacra Scrittura. Egli credette quindi con ciò di recuperare le fonti, le sorgenti genuine ed originarie del cristianesimo, che secondo lui ai suoi tempi erano state inquinate o soffocate da secoli di false concezioni e tradizioni, delle quali era responsabile il papato e tutta la struttura ecclesiastica, dottrinale e comportamentale che faceva capo a lui.
Egli bensì sapeva bene che caratteristica del Nuovo Testamento è il presentarsi come annuncio di novità salvifica, frutto di quello Spirito che rinnova la faccia della terra. Quindi Lutero non era estraneo all’idea del progresso umano, morale e spirituale, che così profondamente caratterizza l’anima di tutta la Scrittura, progresso peraltro da intendere non tanto come rottura col passato - salvo che si tratti di rompere col peccato o con avanzi del passato -, quanto piuttosto di passaggio dal bene al meglio nonché rafforzamento, crescita ed avanzamento di valori perenni ricevuti da Dio. La metafora del “camminare nella verità” è uno dei temi fondamentali dell’etica giovannea, mentre S. Paolo usa altre espressioni, come quella dell’aumento della luce del giorno che si avvicina o del rafforzarsi nella propria vocazione o del passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo.
La categoria del “moderno” è certamente implicita nella Scrittura sotto i temi del rinnovamento e del progresso. Essa appare esplicitamente in S.Tommaso, il quale mette a confronto gli antiqui, che sarebbero i filosofi pagani, con i moderni, che sono i teologi del suo tempo. L’istanza della “modernità” cresce con i secoli seguenti: nel sec.XIV Guglielmo di Ockham è chiamato il venerabilis Inceptor; nel sec.XV nasce la cosiddetta “devotio moderna” soprattutto nei paesi fiamminghi con Ruijsbroek, l’opera anonima La Teologia tedesca e l’Imitazione di Cristo, una spiritualità individualistica di tipo riflessivo ed interioristico, la quale tende a minimizzare le strutture oggettive della Chiesa, ed a sostituire il realismo e l’interesse teologico medioevale di tipo contemplativo con uno sguardo rivolto alla coscienza e all’io concreto, che pur sempre, per adesso, si misura sulla volontà di Dio. Ma con i secoli seguenti questa importanza data all’io diventerà sempre più pervasiva sino a cancellare completamente, nei sec. XIX e XX, con l’ateismo e il panteismo, l’interesse teologico. S.Agostino lo aveva previsto: amor sui usque ad contemptum Dei.
Lutero è sulla scia di questa “modernità”, anche se, come ho detto, egli resta profondamente religioso e nel suo pensiero questa categoria non esiste esplicitamente. Essa tuttavia è sottintesa dalla sua passione per il rinnovamento della testimonianza cristiana e la volontà di recuperare il novum evangelico. Inoltre, ad accentuare questi spunti “modernistici”, è noto come in Lutero sia molto carente la sensibilità per la Sacra Tradizione, da lui semplicisticamente ed ingiustamente equiparata alle tradizioni umane, contingenti e caduche della Chiesa. Per lui la divina rivelazione sorge dalla sola Scriptura e non dalla Tradizione.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare che in Lutero la Tradizione è in qualche modo sottintesa, benchè deformata, nella sua passione per la predicazione della Parola di Dio. E cosa è la Tradizione se non conservazione e trasmissione della Parola? Il guaio è che Lutero dimentica che questa trasmissione non avviene semplicemente tra teologi, biblisti e profeti, ma anzitutto per mezzo della catena apostolica, cosa che Lutero dimentica completamente col suo disprezzo per il sacramento dell’Ordine e quindi dell’Episcopato.
Questi germi di modernismo presenti in Lutero fruttificheranno nel protestantesimo dei secoli seguenti, in quanto la teologia protestante, accortasi dell’importanza della filosofia così disprezzata da Lutero, salirà sul carro della cosiddetta “filosofia moderna” di Cartesio e postcartesiani, trovando, dopo Ockham, nel soggettivismo idealista cartesiano una buona interpretazione del soggettivismo di Lutero.
In tal modo il protestantesimo, soprattutto a cominciare dai secc.XVII e XVIII, avverte se stesso sempre più come “moderno” rispetto al vecchiume medioevale e ci tiene ad esserlo, soprattutto in relazione al progresso degli studi biblici, i quali però appaiono sempre più ispirati non alla fede già propria di Lutero nella verità assoluta della Bibbia in quanto Parola di un Dio trascendente superiore alla ragione, ma alla convinzione della divinità della stessa ragione del soggetto individuale. Da qui, sempre sulla linea del “libero esame” luterano, il sorgere di una critica biblica, ispirata a Spinoza e Reimarus, su su sino a Lessing, Schleiermacher, Harnack, Wellhausen e Bultmann, che vedeva nella Scrittura, anche se si affettava di credere ancora in Dio, nulla di più che un testo letterario come qualunque altro, totalmente sottoposto al giudizio inappellabile del metodo storico-critico.
A questo punto si comprende molto bene il matrimonio di luteranesimo e modernismo denunciato da S. Pio X. Indubbiamente Pio X non esaminò a fondo la possibilità che il metodo storico-critico elaborato dagli studiosi protestanti potesse riservare qualche aspetto accettabile dai cattolici. Egli fu invece - e così esigevano i tempi - preoccupato soprattutto di porre un argine all’invasione di spirito protestante (per non dir di peggio) nell’area del cattolicesimo. E il suo energico intervento resta più che mai attuale ed utile. Solo negli anni successivi iniziarono nel mondo cattolico i primi tentativi, per esempio ad opera del Servo di Dio il biblista domenicano Padre Joseph Lagrange, di recuperare gli elementi validi di quel metodo, per realizzare anche in campo cattolico una sana modernità.
Come è noto l’opera del Lagrange non fu immediatamente compresa dal S. Pio X e dal Maestro Generale dell’Ordine, il Beato Giacinto Cormier (anche tra Santi non sempre ci si intende!), ma poi Papa Sarto, notando il grande spirito di obbedienza e di umiltà nel dotto Domenicano, apparentemente rivoluzionario, ma in realtà rispettoso della Tradizione, gli dette campo libero, sicché a questo grande e santo esegeta della Parola di Dio - simile in ciò ai Santi Padri e Dottori della Chiesa - va il merito di aver preparato cinquant’anni prima i progressi dell’esegesi cattolica promossi dal Concilio Vaticano II e codificati nel documento della Commissione Biblica “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” del 1993 dedicato appunto all’esegesi della Sacra Scrittura.
Per essere moderni non è necessario essere né modernisti né protestanti, con tutto il rispetto per i valori esistenti anche in questi grandi ed importanti movimenti spirituali e culturali. Il cattolico, come persona privata, fallibile e limitato, fosse anche il Papa, avrà da imparare, all’occorrenza, anche da quei movimenti - ecco l’ecumenismo -, ma il cattolicesimo, come pienezza della verità rivelata per mezzo della Chiesa da Gesù Cristo, non ha nulla da imparare ma anzi molto da correggere in quei movimenti i quali, per quanto conservino elementi di cristianesimo, sono ben lungi dal conservarne la pienezza e l’autenticità.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa Cristiana, 16 novembre 2011)


"Gli utenti sono monitorati", i dirigenti di Facebook ammettono

Nella vicenda della presunte violazioni della privacy e della gestione dei dati personali da parte di Facebook si aggiunge un nuovo capitolo. Un'inchiesta del quotidiano Usa Today rivela infatti le ammissioni dei vertici del social network di Palo Alto, che confermano il tracciamento degli utenti durante la navigazione. Utilizzando i cookie Facebook riesce in sostanza a registrare gli spostamenti dell'utente nella Rete, ed anche se non si è iscritti alla piattaforma basta la visita ad una qualsiasi pagina del sito Facebook perché i cookie vengano installati sul proprio computer.
In questo modo - stando alle parole dei dirigenti di Facebook - il social network ha creato un database di tutte le pagine Web visitate negli ultimi 90 giorni dagli oltre 800 milioni di iscritti. Il sistema è noto ed è utilizzato da buona parte dell'industria della pubblicità, ma da Palo Alto - dopo le accuse provenienti da più fronti (l'ultima in ordine cronologico arriva dall'Agenzia federale per la protezione dei dati di Amburgo) - smentiscono categoricamente che lo scopo sia legato all'advertising. Queste le parole del portavoce di Facebook Andrew Noyes:
"Non abbiamo in programma di modificare l'utilizzo che facciamo di questi dati, l'azienda è in netto contrasto con i network pubblicitari che deliberatamente e clandestinamente tracciano gli utenti con lo scopo di creare profili dei loro comportamenti e di venderli a terzi o di utilizzarli per inserzioni pubblicitarie private".
I vertici della società californiana sostengono invece che il monitoraggio serve a Facebook per migliorare la sicurezza degli utenti (evitando ad esempio che utenti minorenni dichiarino il falso sulla loro età effettiva), per sviluppare applicazioni e per scopi statistici.

(Fonte: Liquida, le voci del web, 23 novembre 2011)


Otto per mille e pseudo inchieste, la disinformazione al potere

Ci riprovano: nuova dose di bugie e confusione sulla Chiesa. L’otto per mille può piacere o non piacere. Si può discutere sulla sua opportunità e sulla sua ripartizione. In un Paese democratico ci sta e sarebbe del tutto normale. Anomalo, e assai poco democratico, è spacciare per informazione la menzogna. Mercoledì prossimo esce un nuovo libro sui «privilegi e scandali del Vaticano», dal titolo I senza Dio, scritto da un giornalista dell’Espresso che già nelle scorse settimane aveva tentato qualche maldestro affondo su Ici e «privilegi» ecclesiastici. L’Espresso da ieri in edicola gli regala un generoso spot. Novità? Nessuna. Le contestazioni sono sempre le stesse da quattro anni. Che cosa scrive il settimanale del gruppo di Carlo De Benedetti? Già il sommario è una cortina fumogena mirata a far coincidere Vaticano e Cei, Santa Sede e Chiesa italiana: «Più di un miliardo l’anno dallo Stato italiano per pagare lo stipendio dei preti. Per i quali bastano 361 milioni. E le altre centinaia? In un’inchiesta, tutta la verità su business e privilegi del Vaticano». Il Vaticano non c’entra niente con l’8xmille, possibile che ancora non lo sappiano, dopo 22 anni? O forse lo sanno? Ci siete o ci fate, distratti colleghi? Tutta la verità: se conoscete la quota destinata al clero, non potete non conoscere tutta la ripartizione, pubblicata su quotidiani e Internet.
E allora non potete ignorare che oltre 452 milioni sono destinati alle «esigenze di culto della popolazione». Anche un bambino, cercando su google, scopre in pochi secondi che 190 milioni sono andati all’edilizia di culto, 156 alle diocesi sempre per culto e pastorale, 57 per interventi di rilievo nazionale, 37 per la catechesi e l’educazione, 12 per i tribunali ecclesiastici. L’Espresso, con il tono di chi ha scoperto il vasetto della marmellata nascosto dalla mamma, rivela che 85 milioni sono destinati agli interventi caritativi nel Terzo Mondo, come se fossero gli unici; ma evita di informare, pur sapendolo, che fanno parte di un totale ben più cospicuo di 227 milioni destinati agli interventi caritativi, di cui ben 97 affidati alle diocesi (a proposito di centralismo...). Preferiscono insinuare e infangare, i censori democratici dalla «verità» a senso unico alternato: la Cei «ha stipato nei propri forzieri», «i vescovi fanno la cresta sullo stipendio dei loro sottoposti», la firma sui modelli 730 o Unico sarebbe in realtà «un gigantesco sondaggio d’opinione mettendo una croce». Una croce? Sondaggio? I sondaggi si fanno su un piccolo campione di popolazione. Questo è una sorta di referendum, una forma di democrazia diretta applicata al sistema fiscale, senza alcuna garanzia per la Chiesa né per le altre confessioni religiose: ogni anno tutto dipende dalla fiducia concessa dai contribuenti. Le firme sono poche? Tra chi è tenuto a presentare la dichiarazione, raggiungono il 63,7 per cento, più che in tanti appuntamenti elettorali. E poi: «Santa Casta»? Una «casta» che riceve una media di 1.000 euro al mese di remunerazione? Questi sono gli argomenti e i toni dell’«inchiesta». Con la sparata finale (che con l’8xmille nulla c’entra) di «20 cardinali di stanza a Roma costati oltre 3 milioni di euro». La fonte della cifra assurda? Il settimanale ”The Lancet”, perbacco. Tra pochi giorni allegheremo ad Avvenire una pubblicazione che rispiegherà per filo e per segno tutto ciò che c’è da sapere sull’8xmille. Per essere informati, approvare o criticare, ma partendo dalla verità dei fatti. Non da deformanti singulti ideologici.

(Fonte: Umberto Folena, Avvenire, 19 novembre 2011)


Idealismo e sessualità

“Chi vuol fare l’angelo - diceva saggiamente Pascal - finisce col fare la bestia”. E Papa Benedetto XVI, agli inizi del suo pontificato, ricordò il mito di Icaro, il quale, per aver voluto presuntuosamente salire sino al sole con ali ci cera da lui costruite, finì col precipitate sulla terra essendosi le ali sciolte al calore del sole (foto).
La sottile e raffinata tentazione idealistica, che attecchisce negli spiriti intelligenti ma superbi o nelle anime ardenti ma prive di equilibrio, è un fuoco segreto che stimola da millenni sia ad oriente che ad occidente l’aspirazione ascetica e il desiderio di perfezione in una folta schiera di uomini e donne affascinati dalla grande potenza del pensiero e della volontà dell’essere umano aperto al desiderio del divino e dell’assoluto.
Ma nell’istanza idealistica, apparentemente così nobile, profonda e lodevole, a volte geniale e sublime, si nasconde, non sempre immediatamente visibile - latet anguis in herba - una visione dualistica della natura umana, un orgoglioso disprezzo per la sua dimensione di animalità, con la sua connotazione maschile-femminile. Molti idealisti, da Platone, passando per gli gnostici, i catari medioevali, Böhme, Cartesio, Berkeley, sino a Kant, Schopenhauer, Heidegger, Severino e Rahner, rifiutano esplicitamente la definizione dell’uomo come animal rationale, sostanza vivente materiale animata da un’anima spirituale, come concezione dell’uomo volgare e grossolana, incapace di cogliere veramente la dignità spirituale, infinita e divina della persona umana.
Tuttavia è chiaro che un idealismo puro non esiste ed è impraticabile, anche perché all’idealista, per la verità, il sesso interessa molto e come. Solo che non vuol darlo ad intendere ed allora ecco le lodi sperticate dello spirito, della ragione, della coscienza, del “soggetto”, del pensiero, della volontà, della libertà e della mistica. Esiste bensì un idealismo rigorista, appartenente piuttosto al passato, come lo troviamo per esempio in Oriente nel brahmanesimo o nel buddismo o in Occidente cristiano nella tradizione monastica origeniana, i cui influssi più o meno accentuati è possibile rintracciare nel sottofondo di tutta una concezione tradizionale della castità consacrata che giunge sino ai nostri giorni, nonostante la correzione evangelica proposta dal recente Concilio Vaticano II, col suo richiamo all’unità della persona umana composta di anima e di corpo ed in particolare insegnando che “Dio non creò l’uomo lasciandolo solo: fin da principio « uomo e donna li creò » (Gen1,27) e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone” (Gaudium et Spes 12).
Tuttavia l’idealismo di maggior successo, che è quello moderno, - e ciò è molto comprensibile, data la pesantezza della carne umana - non è tanto quello dell’uomo come puro spirito, come res cogitans, come autocoscienza o come trascendentale o Dasein o come “pastore dell’essere” o come “sguardo su Dio” o teofania divina, abitante in un iperuranio fatto di astrazioni sussistenti o di disumane privazioni e macerazioni, ma è quello del piccolo borghese il quale, senza affatto rinunciare alla sua divinità, si trova molto bene in questo mondo, non ne disprezza affatto i piaceri, sino a concepire una visione dell’uomo nella quale lo spirito non è affatto distinto dalla materia, né l’anima è distinta dal corpo (questo sarebbe dualismo greco!), ma bensì lo spirito - per usare un’espressione di Rahner - non è che materia fluidificata, mentre il corpo non è che spirito solidificato.
Infatti, se, come afferma esplicitamente l’idealista, l’essere è pensiero, e la materia è spirito, non è difficile fare l’operazione opposta - anche se lo non lo riconosce esplicitamente ma lo pratica nei fatti -, ossia quella di materializzare l’essere, l’idea, il pensiero e lo spirito, riducendo l’astratto al concreto, l’essere al divenire, l’intelletto al senso, la volontà all’istinto e l’anima al corpo.
Ed ecco che il gioco è fatto: dal superspiritualismo dell’uomo angelicato, salta fuori l’uomo-bestia di Marx, Darwin e Freud. Dall’uomo-spirito salta fuori l’uomo-sesso. Meraviglioso gioco di prestigio che associa sapientemente le altezze della superbia con le bassezze della sensualità e della libido. Ma il soggetto continua a considerarsi e ad essere considerato il grande genio dell’intelligenza, della scienza e della sapienza, per non parlare della mistica. Non osa però parlare di “santità”, questo forse sarebbe troppo.
A questo punto bisogna dire che sono più franchi i libertini e i debosciati di ogni tempo, i quali dichiarano apertamente la loro idolatria del sesso, senza fare tanti giri di falso spiritualismo e senza tanti preamboli di elevatissima metafisica che scompare tra le nuvole di incomprensibili astrazioni. Per lo meno non hanno l’ipocrisia degli idealisti. Più tollerabili, a questo punto, gli eredi del gaudente empirismo liberale anglosassone, per esempio David Hume, come oggi appare nella linea della sessuologia libertaria dei Pannella e Bonino.
Tuttavia la questione del sesso è effettivamente una questione molto seria. L’idealista è uno che non è riuscito a risolverla. Quindi non è sempre detto che sia cattiva volontà o ipocrisia. A volte nell’idealista c’è un dramma o un tormento nascosto che egli solitamente non ci rivela pubblicamente - quando mai i grandi filosofi idealisti si fermano a trattare di etica sessuale? -. Deduciamo il loro tormento dalle contorsioni del loro stesso pensiero: una mescolanza di fango e sublimità, di demonismo e di angelismo, di bestialità e di spiritualità. Vogliono essere spirituali, ma non sanno divincolarsi dalla prepotenza della carne. Qui ci potrebbe venire in mente Lutero. La torbida spiritualità hegeliana è qui sulla linea del Riformatore.
Quale sarebbe la soluzione? Una sana antropologia, che, sulle orme di Aristotele, di san Tommaso e della Sacra Scrittura, vedesse l’uomo come unica sostanza animale informata da un’anima spirituale e considerando la questione del sesso, avesse la chiara consapevolezza e certezza della dimensione sessuale della persona umana, come costitutivo della stessa persona, salvo il dovere da parte della persona di regolare sapientemente i moti della propria sessualità.
La chiave risolutiva fondamentale di questa grave e perenne questione, che spesso ci assilla tutti, è contenuta in quelle semplicissime ma profondissime parole del Genesi, c.1: “maschio e femmina li creò”, con tutto quello che è successivamente insegnato anche nel c.2. Su ciò mi sono diffuso ampiamente in una mia recente pubblicazione commentando anche i preziosi insegnamenti in proposito del Beato Giovanni Paolo. (Cfr. La coppia consacrata, Ed. Vivere In, Monopoli (BA), 2008).
Qui il concetto fondamentale è che l’esser uomo e l’esser donna sono voluti da Dio in vista dell’eterna beatitudine; per questo per il cristiano, in questa luce, la sessualità va posta in armonia con la spiritualità e non messa in opposizione quasi le fosse nemica. Le pur necessarie e lodevoli, rinunce ed astinenze ascetiche devono in fin dei conti garantire la pacificazione tra “spirito” e “carne” che non sono affatto voluti da Dio, ma non sono altro che una conseguenza del peccato originale.
Occorre raggiungere una posizione equilibrata, lontana tanto dall’angelismo quanto dalla bestialità. L’uomo non è una bestia la cui massima aspirazione sia il piacere sessuale, ma non è neppure uno spirito puro asessuato o un angelo alloggiato in una bestia, per cui l’esser maschio e femmina non sono qualcosa di avventizio o di accidentale, o, peggio ancora, conseguenza del peccato originale; non sonno neppure qualcosa di convenzionale o di arbitrario, estraneo al campo della morale, del quale ognuno possa disporre come gli pare, ma sono componenti naturali ed essenziali della persona umana, tali quindi, se ben vissuti, da influenzare positivamente la stessa vita spirituale, una volta che la retta ragione ispirata alla fede si prende cura di questa dimensione rispettandone leggi e finalità poste dal Creatore e la indirizza ai suoi fini e significati più sublimi tesi a simboleggiare il vertice dell’amore ed in particolare l’unione mistica con la divinità.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa Cristiana, 16 novembre 2011)


domenica 20 novembre 2011

Benetton: quei maglioni in pelle di sciacallo

Provo schifo per i maglioni della Benetton e per tutta la roba con quel marchio. Uno schifo antico che risale ai tempi in cui una tragica scena di morte per Aids diventò la scusa per vendere maglioni.
E poi gesùcristi, madonne, preti e suore, poveri e anoressiche, mercificati sempre dalla speculazione Benetton.
Il bacio in bocca del Papa con l’imam, srotolato davanti a San Pietro, e di cui abbiamo parlato più sotto, è solo l'ultima schifosa provocazione pubblicitaria di questo marchio (d'infamia). Per non dire del retrobottega della multinazionale: dove produce, come produce, con chi e come si allarga. Meglio non parlarne, dicono, sarebbe pubblicità per loro; ed è quel che vogliono.
Ma il disprezzo etico e merceologico supera ogni calcolo. Non invito al boicottaggio, non credo a queste militanze, esprimo solo un’avversione a pelle per tutti i suoi prodotti, che spero largamente condivisa. Dopo queste campagne, il ribrezzo che suscita il loro marchio è naturale, spontaneo. Sento che quei maglioni puzzano di sciacallo, non sono lana di pecore tosate ma peli di iene e piume di avvoltoi.
Li trovo perciò repellenti, urticanti sul corpo,ripugnanti per l’anima. Qual è la ragione di tanto disprezzo? L’uso del dolore, della morte, della malattia, della fede, della speranza e della disperazione per vendere un volgarissimo maglione. L’umanità diventa strumentale alla merce. Ci sono nel commercio tanti abusi in questo senso; ma Benetton li rende espliciti e brutali anche se li traveste di messaggi ideologici finto- amorevoli. La loro è barbarie autentica. Andassero a zappare, loro e i loro pubblicitari!

(Fonte: Marcello Veneziani, Il Giornale, 19 novembre 2011)


venerdì 18 novembre 2011

Perseverare nella vocazione: una fatica quotidiana!

Si racconta che un giorno un giovane fratello che viveva nel deserto andò di corsa da un vecchio monaco e gli disse «Oh, Padre, sai una cosa? Fratel Giovanni se ne è andato ed è tornato nel mondo». L'anziano, senza scomporsi, gli rispose: «Figlio mio, non essere sorpreso perché molti se ne vanno. Meravigliati piuttosto che qualcuno rimanga!».
È un episodio pieno di quella sapienza che troviamo di frequente nei detti dei Padri del deserto. Lo racconta Fratel Ben Harrison, un missionario della Carità di Madre Teresa di Calcutta, che ha lavorato nella formazione e nell'apostolato delle sua comunità per i senzatetto, i prigionieri e i drogati, in un articolo apparso nella rivista americana “Human development”, e dedicato al tema della perseveranza nella vita religiosa.
La reazione provata da quel fratello che andò costernato dal vecchio monaco è probabilmente la stessa che avverte ognuno di noi quando qualcuno della nostra comunità decide di andarsene, abbandonando la vita che aveva abbracciato. E la reazione è forse ancora più forte se l'abbandono ha avuto come protagonista qualcuno che ha lavorato e contribuito alla nostra formazione e che magari era ritenuto un esempio e un modello di virtù. Indubbiamente è molto difficile conoscere le ragioni profonde che portano una persona a compiere questo passo increscioso.

In effetti, osserva Ben Harrison, «ci turba che tante persone brave e promettenti lascino la vita religiosa, spesso dopo molti anni di servizio apparentemente appagante e impegnato». Ma, osserva, «grazie a Dio, ogni tanto si celebrano dei giubilei per ricordarci che ci sono anche quelli che rimangono. E poi c'è la lista dei confratelli defunti che è lì per dirci che c'è chi ha perseverato fino alla fine».
Non dare la perseveranza mai per scontata.
A convalida di quanto scrive, Ben Harrison racconta la sua esperienza per mostrare come la perseveranza nella vocazione non è data per scontata fin dall'inizio, ma richiede un assiduo lavoro di fedeltà giorno per giorno, in mezzo alle prove inevitabili della vita.
«Ricordo, scrive, quando venni la prima volta in convento. Non ero sicuro di riuscire a farcela per una settimana. Poi, mentre passavano i mesi, continuavo a essere sorpreso nel trovarmi ancora lì presente. Prendevo le cose solamente "un giorno alla volta" e aspettavo per vedere quanto questo sarebbe durato. Finalmente, dopo alcuni anni di voti temporanei, giunse il tempo di decidere se fare la professione perpetua. Pensai a lungo e con difficoltà alle possibili opzioni che stavano davanti a me».
Non fu una decisione facile, perché «avevo sempre avuto paura di assumere un impegno, così che il pensiero di consacrare il resto della mia vita a Dio (ma anche alle altre realtà in questo campo) mi sembrava impossibile».
Aveva l'impressione di assomigliare a un alcolista, preoccupato dell'idea di non poter più bere un bicchiere per tutta la vita. Pensò allora a ciò che viene consigliato agli alcolisti per aiutarli a uscire dall'abitudine contratta e che li tiene come prigionieri, e cioè di non fare propositi a lungo termine - cosa impossibile da osservare - ma cercare di non bere "giorno dopo giorno". È un suggerimento che sembra possibile, rileva, «così continuai a resistere un giorno per volta».
In tutte le comunità religiose, in preparazione alla professione si è soliti premettere a questo appuntamento un corso di esercizi spirituali. Così fu anche per Ben Harrison, il quale racconta: «Il terzo giorno di quegli esercizi spirituali, qualche mese prima della professione perpetua, mi resi conto di avere un forte desiderio di consacrarmi a Dio in questa strada, di donarmi in modo definitivo all'Assoluto. Sapevo però che la grande gioia che provavo allora non sarebbe durata per sempre, che sarebbe venuto il giorno quando avrei avuto dubbi e tentazioni. Come avrei potuto perciò compiere quel passo e assumere un così grande impegno sapendo che tutto sarebbe cambiato? Bene, c'erano ancora mesi o settimane prima della vera data e così continuai a vivere la mia vocazione un giorno per volta».
Ma la paura non era del tutto scomparsa. «Più o meno un mese prima di quella data, mi fu concesso un giorno di preghiera. Mi sentivo inquieto e avevo mal di testa. Al momento di chiedermi se questo fosse un segno della mia paura per il prossimo impegno, mi sembrò che la spiegazione non fosse del tutto convincente. E siccome qualche volta il contrasto dei sentimenti produce questi effetti, mi chiesi: "Non potrebbe essere magari che questi sentimenti siano il sintomo non della paura, ma della felicità?". Mi resi così conto che stavo reprimendo una gioia esagerata, che finalmente avevo trovato qualcosa o Qualcuno, e che volevo consacrarmi senza riserva. Continuai a contare i giorni, deciso a godermi l'intera preparazione a quel grande evento, e il giorno fissato per la professione perpetua, semplicemente chiesi a Dio: "Che cosa vuoi che io faccia oggi?". Nel mio cuore sentii una tranquilla sicurezza: "Voglio che oggi tu ti consacri a me con totalità, per sempre"».
Ciò che conta è il dono assoluto di sé.
Ricordando quell'esperienza, Ben Harrison scrive: «È una cosa strana. Certe volte noi pensiamo alla professione come a un impegno che dura per un certo tempo, solo un tempo più lungo della professione temporanea. Nella formula dei voti, nella mia fraternità, noi diciamo che li facciamo "per tutta la vita". Ma io ho capito che il profondo significato dei voti non si misura in anni, o in una vita o in altra maniera. In quest'atto di fede e di amore io sto dicendo che ora, in questo momento, voglio dare a Dio tutto quello che sono, tutto quello che ho, tutto quello che amo, tutto ciò che faccio e tutto ciò che diventerò, e che voglio farlo in modo assoluto, totale, oggi, per sempre nel tempo e al di là del tempo. Questo è il mio desiderio. Perpetua non qualifica la professione per quei dieci, venti o cinquant'anni che ancora mi restano prima di morire. Perpetua vuol dire: per tutto il tempo e al di là di tutto il tempo. desidero essere unito al mio Dio senza interruzione a partire da questo momento fino all'eternità».
Ma, si domanda: «come è possibile fare un tale dono di me stesso? Se non sono padrone di me stesso, come posso offrire me stesso? Se non sono padrone dei miei giorni o delle mie ore, e ancora meno del mio futuro, come posso consegnarli a un altro?».
Ed ecco la sua risposta: «So solo che ho questo desiderio e che questa voglia mi è stata messa nel cuore in questo preciso momento. E che questo desiderio lo posso anche perdere nell'attimo che viene subito dopo. Non posso quindi fare affidamento su di me o su qualcosa che è in me, non posso fidarmi di me stesso né della mia parola o della mia promessa solenne. Posso solo fidarmi di Dio, della sua misericordia e della sua grazia. Tuttavia il desiderio di appartenere a lui è, in questo momento, così grande che io sono pronto a rendermi ridicolo, a rischiare il fallimento e il disonore. Sono pronto a correre il rischio di sfidare Dio a fare per me quello che io non riuscirei mai a fare da solo. E così mi decido e faccio la mia professione perpetua».
Si tratta di un impegno che abbraccia tutta vita, ma da vivere "giorno per giorno". Infatti, osserva: «trovo che devo vivere la mia vocazione un giorno per volta. Il mio maestro di noviziato ci ha detto che anche Madre Teresa, quando era più giovane, era solita dire: "Non meravigliatevi, sorelle, se un giorno la Madre dovesse andarsene con un uomo"».
Ben Harrison commenta: «Suppongo che non si trattasse tanto per lei della tentazione di sposarsi, quanto piuttosto della sua intenzione di far capire, in modo umoristico, alle sue sorelle che esse dovevano dipendere dall'intima unione con Gesù e non da lei». Questo indica che «anche le sante persone sanno che non possono essere sicure di se stesse. Più sono sante e più fermamente ne sono convinte. Quanto a me, preferisco riconoscere tutto questo e dire: "Sarà un miracolo se io non me ne vado via," anziché credere che non avrò mai un dubbio».
Bisogna pertanto mettere in conto nella propria vita i dubbi e le difficoltà. Essi hanno una funzione a dir poco provvidenziale: «Ci mantengono onesti, ci ricordano di che cosa siamo fatti, e quanto bisogno abbiamo di Dio. Ci costringono a fare e rifare la decisione di seguirlo, una decisione che ogni volta che la rifacciamo, si consolida sempre di più».
Ma il problema non è solo questo perché è vero che anche noi cambiamo. Infatti, «io non sono più lo stesso uomo di quando ho emesso i primi voti. Anche le cellule del mio corpo sono cambiate e alcune di loro molte volte. Dio mi ha guarito da molte debolezze, mi ha dato un po' di sapienza, coraggio e convinzione che prima non avevo. Con questi doni, nel mondo potrei far fortuna; dopo tutto quello che ho ricevuto in questi anni, potrei avere una vita molto più proficua, più felice, più equilibrata di quella che avrei se non fossi mai diventato fratello. E allora perché non prendere su i soldi e andarmene?».

«Qualcuno potrebbe dire: "Ma come puoi pensare una cosa simile?" Altri potrebbero aggiungere: "Hai dato la tua parola solenne, hai fatto una promessa a Dio. Come puoi contraddire tutto questo?". Potrei rispondere di avere tante ragioni per fare una simile cosa, e mi conosco abbastanza per sapere che potrei trovare, in un modo o in un altro, una giustificazione: "Non sapevo ciò a cui andavo incontro"; "sono cambiato nel corso degli anni"; "l'Istituto è cambiato"; "ero troppo giovane." No, non basterebbe la vergogna per essere sufficientemente forte e farmi essere fedele. Se io non fossi qui per amore di Dio, perché dovrei difendere il mio onore?».
Che cosa allora può dare la forza per perseverare? Se uno guarda a se stesso e alla propria debolezza potrebbe dire: «Non so se ci sia qualcosa in grado di mantenermi fedele. Potrei finire per andarmene domani. Ma ciò che credo è che devo fidarmi di Dio, pregarlo e chiedergli di continuare a darmi il desiderio di essere tutto suo, ogni giorno, un giorno per volta. Devo essere pronto a vivere nell'insicurezza totale, povero in spirito, senza fiducia nella mia volontà. Devo essere pronto a credere che Dio mi darà tutto ciò di cui ho bisogno per essere fedele, un giorno per volta. Posso chiedere a Dio che non permetta che io abbandoni questa strada. Posso implorarlo perché mi faccia capire l'assoluto bisogno che ho di lui, così da rimanergli attaccato come se fosse lui colui che … salva la mia vita durante una bufera. Posso impegnarmi di nuovo, molte volte ancora. Al momento di cambiare e di crescere, di trovare salvezza e nuova vita, al momento dei dubbi e degli interrogativi, io devo dare tutto, sempre e ancora, devo sentire nuovamente il mio nulla e la gioia che viene dall'appartenere sempre di più a lui, dandogli oggi quello che fino a ieri non avevo ancora ricevuto. Perché, se il fuoco non brucia sempre più intimamente nel cuore del tronco, finirà per spegnersi».
Utile avere una vera guida spirituale.
Ben Harrison osserva che per essere perseveranti e sostenere la propria fedeltà, oltre a pregare, a nutrirci con la lettura spirituale, ricevere la comunione in azione di grazie e rinnovarci attraverso la confessione, è importante avere un direttore spirituale, ossia «uno che mi obblighi alla sincerità con me stesso». In effetti, rileva, «so bene di essere capace di ingannare me stesso e di giustificare i miei desideri. Perciò ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a vedere gli inganni miei e quelli del nemico. Anche i miei fratelli e i poveri continuano a richiamarmi sulla retta via, a condizione che io presti loro attenzione e sia disposto ad ascoltarli!».
Riprendendo il consiglio iniziale della fedeltà vissuta un giorno alla volta, Harrison racconta un altro interessante episodio dei Padri del deserto e che ha per protagonisti ancora una volta un giovane monaco e un anziano: «Un giovane monaco va dall'anziano e gli dice: "Padre, non ce la faccio più. Me ne vado". E il vecchio monaco: "Aspetta fino a domattina, dormi bene e sarai in forma per il viaggio". La mattina dopo il giovane monaco viene di nuovo: "Va bene, Padre, adesso me ne vado." "No," gli dice il vecchio, "aspetta solo un giorno, non lavorare, dì le tue preghiere. Puoi sempre partire domani". "Cerchi di imbrogliarmi?", gli chiede il giovane, "domani mi dirai di nuovo la stessa cosa". "Certo", gli dice l'anziano, "è questo il modo con cui io ho perseverato nella mia vocazione, un giorno dopo l'altro. Così è stato per diciassette anni e poi ho trovato la mia pace" ».
Ben Harrison conclude: «Per quanto mi riguarda, sono ora ben più di diciassette anni, e non ho ancora trovato la pace di una certezza totale. Chi sa quanto durerò? A dir la verità, non mi interessa. È Dio il Fedele. Egli ci dona "il volere e l'operare" (Fil 2,13). Possa egli continuare a darci questi due doni e possiamo noi continuare ad essere aperti ad essi, solo per oggi».

(Vocazioni.net, "Il segreto della perseveranza nella vocazione" da Testimoni, n. 19/2011 p. 8)


La teologia sessantottina. Un annunciato disastro cattolico

Nel romanzo “L'impostura”, Georges Bernanos, dopo aver presentato un sacerdote che si dichiara orgoglioso di appartenere al proprio tempo, afferma: "egli non ha mai prestato attenzione al fatto che in tal modo rinnega il segno eterno di cui è segnato".
Bernanos aveva intuito che il culto del proprio tempo, cronolatria senza serio fondamento e diserzione insensata dall'eternità, è il motore del rovinoso inseguimento cattolico delle effimere illusioni propalate dai moderni apostati.
Si tratta di una malattia inavvertita dalle vittime, convinte di obbedire non al futile e orchestrato si dice ma a suggerimenti lanciati da una teologia luminosa e sapiente.
I banditori clericali della cronolatria, in una prima fase, hanno raccomandato l'attenzione dei fedeli alle scientifiche verità svelate dalla filosofia di Immanuel Kant, in seguito hanno lodato le ragioni lampanti nel Capitale marxiano e nelle commedie di Bertoldt Brecht, quindi hanno adottato gli sgangherati criteri della psicoanalisi e del pensiero debole.
Ultimamente la malattia ha rivelato la sua profonda e abbietta origine, il conformismo trionfante e urlante in francofortese con voce impostata dal tenebroso e strutturalmente senile Sessantotto.
Voce di prelati televisivi, di benefattori in faccenda, di azzimate attizzatrici di focolari leggiadri, di teologi deliranti intorno alla salma dello hegelismo, di filosofi in marcia su piste sodomitiche e di profeti urlanti nell'obitorio ecumenico. Voce in falsetto, che disgusta e allontana i fedeli e svuota i seminari prima di irrompere nel cabaret.
Ora all'origine di una tale catastrofe stanno gli equivoci intorno all'analogia storica nascosti nella filosofia di Jacques Maritain. Lo ha dimostrato José Miguel Gambra, autore di un magistrale saggio pubblicato nella rivista “Catholica” nell'ottobre del 2011 a Saint Cyr sur Loire (www.catholica.fr).
Gambra sostiene che Maritain per un certo tratto segue l'insegnamento di San Tommaso d'Aquino, secondo cui le leggi devono essere applicate tenendo conto delle condizioni nelle quali si trovano gli uomini. Pertanto i precetti superiori contengono i precetti inferiori in due diversi modi: nel primo si tratta di precetti comuni, nel secondo di precetti che tengono conto di circostanze particolari.
A questo punto Gambra rammenta che nella dottrina di San Tommaso da un lato sono contemplate leggi più o meno generali, leggi che sono in sé immutabili, dall'altro lato le imperfette applicazioni storiche delle leggi immutabili.
Maritain, invece altera questo rapporto insinuando l'idea che sia data una differenza sostanziale tra le imperfette applicazioni medievali delle leggi immutabili e l'applicazione integrale e perfetta compiuta dalla nuova cristianità, in questo tributaria del pensiero moderno.
Nella visione di Maritain, la Cristianità medievale era il risultato di un'applicazione difettosa dei princìpi personalistici e comunitari. Al contrario, la Cristianità moderna nasce da una perfetta deduzione dei princìpi personalistici e comunitari.
Gambra cita a proposito Palacios secondo cui la nuova Cristianità rappresenta, secondo Maritain, un ideale di perfezione assoluta. E conclude affermando opportunamente che è intollerabile la filosofia maritainiana della storia che attribuisce alla cultura mondana la capacità di trasformare la dottrina cattolica e di produrre una coscienza più chiara di ciò che deve essere conservato e di ciò che deve essere dichiarato decaduto.
Nel 1966, Maritain ha preso le distanze dal trasformismo dei teologi progressisti, che hanno tentato d'inquinare la dottrina del Vaticano II. Purtroppo Maritain non ha abbattuto il sostegno fornito alla teologia progressista dalle concessioni da lui fatte allo storicismo hegeliano e alla cronolatria. Opinioni a suo tempo oggetto delle pesanti critiche di padre Antonio Messineo s. j., di padre Julio Meinvielle e del cardinale Giuseppe Siri.
La liberazione dagli errori che avvelenano la vita ecclesiastica deve pertanto iniziare dal rifiuto degli equivoci generati da Maritain quando ha proposto l'applicazione della chimera progressista alla teologia della storia.

(Fonte: Piero Vassallo, Radici Cristiane, 17 novembre 2011)