sabato 25 febbraio 2012

Il “cattolico” Monti un “massone? Non parliamo sempre a vanvera!

È comprensibile che, con le sue decisioni “impopolari”, la figura del presidente del Consiglio sia sottoposta a severa analisi critica da parte dei media. “Severo” però non è sinonimo di “prevenuto”. Monti può essere simpatico o non simpatico, ma il giudizio (parlo sulla sua persona; quello sul suo operato sarà la storia a darlo) deve essere comunque obiettivo.
Recentemente, sul suo curriculum professionale, sono state accreditate appartenenze a diversi organismi internazionali, l’attività dei quali non sempre è stata giudicata trasparente dalla stampa specializzata (alludo alle grandi potenze economico-bancarie internazionali come Bilderberg, Golden Sachs, la grande burattinaia dell’intero mercato finanziario internazionale, ecc. ): ma ciò non autorizza a tacciarlo tout court da “massone”; mi sembra che sia un andare contro la dovuta cautela che vieta sempre di fare a priori di "tutt'erba un fascio".
Trovo pertanto utile riportare uno scambio di opinioni in proposito, che ritengo valido, tra una nostra lettrice e il direttore di Avvenire, che mi offre l’opportunità di aggiungere anche qualche altra considerazione.
Monti e la scelta della trasparenza”. «Caro direttore, come la rete di una nota parabola evangelica, il web raccoglie pesci buoni e pesci cattivi. Fra questi ultimi oltre a errori e inesattezze, anche bufale tipo quella su «Monti massone», diventata leggenda metropolitana che circola anche in ambienti cattolici. Per questo motivo ritengo più che utile citare, soprattutto a uso dei lettori alle cui orecchie è giunta la leggenda, tre autorevolissime smentite che non ammettono replica. La prima, del 20 gennaio scorso, dello stesso Monti che, interrogato in merito da Lilly Gruber nella trasmissione "Otto e mezzo" (La7), dice testualmente, con la sottile ironia che stiamo imparando a conoscere: «Ho saputo anch’io che una delle ricerche di Google associa il mio nome alla massoneria. Devo però ammettere una lacuna: non so cosa sia la massoneria, ma certamente non sono massone, e non saprei nemmeno accorgermi se uno è massone: è una cosa un po’ evanescente». Alle parole del presidente replicano infastiditi (Il Tempo del 22 gennaio, a pagina 5) l’avvocato Gustavo Raffi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, che esorta Monti a «informarsi» sulla storia della massoneria, «scuola di pensiero ampiamente riconosciuta in Europa» e gli suggerisce un testo; e lo storico Luigi Pruneti, gran maestro della Gran Loggia d’Italia che, esortato a invitare Monti nelle sedi dove i massoni si riuniscono, risponde sicuro che «non verrà mai» ma si dice certo che «il tormentone Monti massone proseguirà». Ahimè, constato che prosegue... Rientra nella sfera morale dell’ottavo comandamento fare quanto è in nostro potere per rimuovere il fango della menzogna comunque si presenti, e non farlo è peccato di omissione. Per questo le scrivo e la ringrazio se vorrà pubblicare. Vetulia Italia, Roma».
Risponde Tarquinio: «E io, cara signora, accontento volentieri una lettrice fedele e attenta come lei, che anche in passato ha affrontato nelle sue lettere questioni importanti e serie. Diciamo che anche questa delle voci ritornanti (soprattutto via internet, dove – come è noto – circola di tutto: sana informazione e vergognosa distorsione della realtà) sulla presunta appartenenza alla massoneria dell’attuale presidente del Consiglio può diventare un’occasione per riflettere brevemente sullo scoccare dei primi cento giorni del governo Monti. Sulle difficoltà vecchie e nuove che sta affrontando nella sua opera di risanamento e di rilancio del Paese e sul prezioso argine che è riuscito a porre, grazie ai sacrifici di tanti italiani, alle ondate speculative e di sfiducia che ci hanno messo a dura prova. Ma stando al punto, mi pare proprio che la rapida serie di citazioni da lei proposta sia effettivamente molto chiara. Direi che si tratta di parole impegnative e obiettivamente inequivocabili. D’altronde, la scelta della piena "trasparenza" compiuta da Mario Monti al cospetto dei cittadini che governa, risulta inconciliabile con le logiche che governano certi ambienti che, come noto, si mantengono largamente e accuratamente “coperti”. Marco Tarquinio». (Cfr. Avvenire, Lettere al Direttore, 24 febbraio 2012).
Che dire? Io credo assolutamente a Mario Monti, quando dice: “Non sono massone, non conosco la massoneria”. E ritengo offensivo insinuare aprioristicamente nei suoi confronti il contrario.
Ma mi chiedo: questa sua posizione  di “non appartenenza” e di “ignoranza” della realtà massonica (che, ripeto, do per assoluta e scontata), sarà sufficiente a rintuzzare gli attacchi speculativi di quelle superpotenze economiche mondiali (peraltro guidate, non tanto segretamente, dall'organizzazione massonica internazionale), ormai così onnivore nei confronti dell’Italia?
Rinfreschiamoci un po’ la memoria sul recente passato: è ormai universalmente risaputo che è la massoneria a gestire l’intera speculazione finanziaria mondiale. Anche quella che ha preso di mira l’Italia e che ci sta facendo sprofondare sempre di più nella recessione.
Berlusconi, considerato l’unico imputato per l’attuale crisi economica, in realtà non é stato il principale artefice della recessione italiana. Lui e le azioni di governo attribuitegli dall’opposizione (le sue fastidiose leggi ad personam, le sue crociate contro quei comunisti dei magistrati e la sua eccessiva fiducia nell’incompetenza reiterata di Tremonti), hanno sicuramente contribuito al disastro economico italiano, ma non possono essere le uniche ragioni.
La vera ragione della crisi é la massoneria mondiale. Una cricca di potenti, tanto ricchi da poter creare a piacimento crisi e risanamenti nei conti di una intera nazione. Sono loro che smuovono immense quantità di capitali, che mettono in moto ogni singolo meccanismo speculativo sul mercato finanziario. La morsa che hanno stretto su Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ora sta soggiogando l’Italia.
Analizziamo il problema: ricordate? ogni volta che il governo Berlusconi prendeva una spallata e iniziava a vacillare pericolosamente, il mercato dava fiducia all’Italia e lo Spread si assestava. Di contro, ad ogni indizio che portava alla stabilità del governo, specie in concomitanza con le dichiarazioni pubbliche di resistenza del Cavaliere, lo Spread volava. É come se il mercato credesse nell’Italia ma non nel suo governo. É proprio questa la situazione: la massoneria mondiale non gradiva più Silvio Berlusconi. L’ex premier che, come dicono gli osservatori, ha goduto per tutti gli anni dei suoi mandati dell’appoggio delle logge, era diventato scomodo. Era uno ostacolo per la “conquista” dell’Italia.
Ecco le tre motivazioni per le quali la massoneria ha voluto silurare Berlusconi e vuole il tracollo totale della finanza italiana:
Punto primo: La politica energetica italiana da’ molto fastidio ai confratelli anglo-ebraici-americani. Il cavaliere, per quanto criticabile su tutti i fronti, è però riuscito a instaurare rapporti commerciali energetici con Libia e Russia. Ucciso Gheddafi è rimasta soltanto la Russia di Putin, e l’E.N.I. é in difficoltà. Attualmente, il 30% dell’E.N.I. è in mano pubblica. Un altro 20% lo possiedono gli investitori anglo-ebraici-statunitensi che tirano le fila del mercato globale e che vogliono mettere le loro avide mani, grazie alla crisi economica creata ad arte, sulle decine di miliardi che una maggiore proprietà dell’E.N.I significherebbe. Se l’Italia affonda, deve svendere le sue azioni. Se le svende, i grandi burattinai ci guadagnano.
Punto secondo: Con quasi 2500 tonnellate di oro, l’Italia possiede la terza maggior riserva di oro al mondo, dopo Stati Uniti e Germania. Il Fort Knox (precisamente 2.451,80 tonnellate) fa gola a molti. Mettere in ginocchio un paese con le tasche così piene d’oro é il sogno di ogni potente speculatore.
Punto terzo: L’Italia é un paese con un importante patrimonio pubblico. Se l’Italia va male lo deve per forza svendere. I capitali stranieri sono voraci in termini di patrimoni pubblici. Ogni volta che un Paese va male, o é scosso da un accadimento che lo ha fortemente indebolito, gli avvoltoi sono lì, sempre pronti per nutrirsi di disgrazie.
In Italia una cosa simile é già accaduta nel 1992 e allora vinsero i massoni: a poche settimane dalla strage di Capaci (il 23 maggio 1992), esattamente il 2 giugno 1992 sul Britannia, il panfilo della Regina Elisabetta II, si organizzò un vero e proprio complotto ai danni dell’Italia.
George Soros, Giulio Tremonti, il Direttore generale del Tesoro Mario Draghi, Il Presidente dell’IRI Romano Prodi, il Presidente dell’ENEL Franco Bernabé, il Governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e il Ministro Beniamino Andreatta, svendettero il patrimonio pubblico ai capitali stranieri come Goldman Sachs, Barings, Warburg e Morgan Stanley.
I nostri B.O.T. vennero immediatamente declassati dalle agenzie di rating mondiali (indovinate un po’, tra l’altro, nelle mani di chi sono) e lo speculatore ungaro-ebraico George Soros, cercò di impossessarsi di 10.000 miliardi di lire della Banca d’Italia, speculando sterlina contro lira.
Carlo Azeglio Ciampi, per “impedire”, diciamo così, tale speculazione, bruciò le riserve in valuta straniera: 48 miliardi di dollari. Ciampi, per questi suoi servigi sarà premiato con la Presidenza della Repubblica.
Su George Soros indagarono le procure di Roma e Napoli, ma lo strapotere dei suoi amici massoni vinsero ancora una volta e tutte le accuse caddero nel vuoto. A seguito di questo attacco mirato alla lira, e della sua immediata svalutazione del 30% partì la più grande privatizzazione di Stato a prezzi stracciati (ENEL, ENI, Telecom, ecc.), per opera dei governi Amato (1992-1993) e Prodi (1996-1998). In quel caso la Massoneria si accontentò di una speculazione “mirata”, un colpo all’Italia che sarebbe stato molto lucroso ma non letale per il Bel Paese. Ciò che preoccupa é che i loro ingordi stomaci rumina-soldi questa volta vogliono mangiare il più possibile, fino a spolparne definitivamente tutta la carne, riducendo l’Italia ad un povero scheletro.
Ecco, sono questi i retroscena a livello mondiale che non dobbiamo mai dimenticare.
Ora, tornando a Mario Monti, possiamo dire, senza timori di smentite, che il professore é stato quantomeno “in amicizia” con questa gente, professionalmente ne ha fatto parte, é stato uno di loro. Ciò è innegabile: la sua presenza su panfili reali e negli hotel super lusso – in occasione delle riunioni del Gruppo Bilderberg (nel 2004 anche in Italia, a Stresa, sul Lago Maggiore) – è documentata e comprovata. (Cfr. Il corsivo quotidiano, novembre 2011).
Ma, a questo punto, comunque stiano le cose, noi possiamo soltanto augurarci che il prof. Monti, sulla cui dichiarazione di estraneità dalle liste massoniche non ci permettiamo di avanzare dubbio alcuno, riesca in ogni caso a smarcarsi in maniera totale, definitiva e netta, dal modus operandi di questi scomodi “amici finanzieri”, per essere in grado di garantire finalmente all’Italia - con la tanto decantata trasparenza - un futuro sereno e vivibile per i nostri figli e per i nostri nipoti. E diamogli per questo il dovuto credito.

(MaLa, 25 febbraio 2012)


Vera e falsa teologia: la “scienza della fede” contro l’equivoca “filosofia religiosa”

Discepolo di Etienne Gilson e legittimo erede di Cornelio Fabro, mons. Antonio Livi milita nella prima linea dei filosofi cristiani protagonisti dell'ardua ma esaltante impresa, che è finalizzata al riscatto delle verità di ragione, da tempo impigliate e sequestrate nella fitta rete dei sistemi ultra-cogitanti, intesi a oltrepassare la soglia del mistero circa l'essenza divina.
La perfetta conoscenza delle indeclinabili verità del senso comune e dei princìpi della metafisica, oltre a una sterminata erudizione, consentono a Livi di esaminare, valutare e confutare, con indiscussa autorità, le rovinose incursioni delle teorie d'indirizzo immanentistico nei quartieri della teologia cattolica, ultimamente messi a soqquadro dalla incontrollata cupidigia di novità.
Il risultato dell'esauriente indagine condotta da Livi è il magistrale saggio "Vera e falsa teologia", pubblicato in questi giorni da Leonardo da Vinci, qualificata casa editrice romana.
La finalità perseguita dall'autore è dimostrare che la vera teologia non ha per fine la razionalizzazione del mistero rivelato, ma la produzione "dell'anelito incessante alla visione diretta e beatificante che è promessa a quanti si saranno resi meritevoli della vita eterna".
Di qui la severa critica delle fatiche, inutilmente sopportate dai mediocri e affannati teologi, che rincorrono l'ateismo strisciante nei testi celebrati e incensati dal potere accademico.
Livi contesta le infondate opinioni dei teologi d'assalto ricordando che "La teologia ha una sua ragion d'essere e svolge una funzione effettivamente ecclesiale se si limita all'elaborazione di ipotesi di interpretazione del dogma e non pretende di operare in vista di una completa razionalizzazione del dogma, del tipo di quella che nell'Ottocento è stata ideata da Hegel".
La sapienza cristiana si oppone frontalmente al razionalismo affermando che "tutta la scienza dei teologi (quella, ad esempio, di Antonio Piolanti, autore del più completo trattato sull'Eucarestia) nulla aggiunge a quello che un bambino che fa la prima comunione può e deve comprendere della presenza eucaristica. ... Questo significa che il mistero non può essere reso intelligibile in termini filosofici nemmeno da teologi particolarmente illuminati".
A ragion veduta Livi afferma che i teologi sono subordinati al Magistero e al proposito rammenta che Pio XII, nell'enciclica Humani generis, insegnava ai teologi sedicenti novatori, che "Cristo Signore ha affidato al sacro Magistero il deposito della fede - cioè la Sacra Scrittura e la Tradizione divina, per essere custodito, difeso ed interpretato, deve essere per qualsiasi teologo la norma prossima e universale di verità in materia di fede e di costumi".
Purtroppo la norma stabilita da Pio XII è stata aggirata nella stagione postconciliare, quando, lo ricorda Angelo Amato, opportunamente citato da Livi, "i mass media hanno individuato nel teologo un esponente di rilievo, soprattutto se in contrasto con il magistero della Chiesa ritenuto come un'istanza autoritaria superata ed extrascientifica".
La conseguenza della campagna adulatoria condotta dalla propaganda laicista è l'incremento di scolastiche effervescenti, nelle quali si tenta la contaminazione della vera fede con le ingannevoli opinione della filosofia religiosa.
Di qui l'accertamento delle cause che hanno prodotto l'eclissi della metafisica classica, un'indagine preliminare alla corretta e penetrante analisi degli errori che hanno alterato il pensiero di alcuni teologi da palcoscenico.
Con rara competenza, Livi analizza il pensiero degli autori (Cartesio nel XVII secolo, Lessing, Kant, Jacobi, Schleirmacher, Hegel, Schelling, nel XVIII e nel XIX secolo, Heidegger nel XX secolo) che hanno preparato la deriva filosofica della teologia filosofante.
Esemplarmente acuta è l'interpretazione del pensiero di Hegel, il teologo luterano al quale si deve la metamorfosi filosofica della rivelazione cristiana.
Livi, al seguito di Cornelio Fabro, dimostra che "Hegel pretese di interpretare in modo perfetto e definitivo l'essenza della fede cristiana attraverso i concetti della sua filosofia".
Se non che la filosofia hegeliana era strutturata come sistema chiuso, assolutamente autoreferenziale "e ciò comportava che la teologia finisse per essere totalmente assorbita dalla filosofia".
A conferma della sua tesi, Livi cita la sentenza di Karl Barth, secondo cui "il sistema hegeliano è concepito come se noi potessimo partecipare all'auto-comprensione di Dio come Egli è in se stesso".
Nel sistema hegeliano il Cristianesimo si rovescia in un rovente prometeismo che offre all'uomo la stessa realtà di Dio. Il miraggio della filosofia che divinizza l'umanità conclude il cammino modernorum e pertanto costituisce la tentazione degli intellettuali cattolici che subiscono il fascino dell'immanentismo e perciò rifiutano o sono incapaci di riconoscere che l'opera di San Tommaso d'Aquino rappresenta il vertice speculativo attinto dal pensiero umano.
Affascinato dal pensiero moderno, il gesuita tedesco Karl Rahner attuò una svolta antropologica rispondente "al presupposto ermeneutico secondo il quale la rivelazione cristiana andrebbe interpretata, non tanto come verità su Dio quanto come verità sull'uomo e anche dell'uomo, per il fatto che essa verrebbe a confermare e a completare ciò che da sempre è nella coscienza dell'uomo e che costituisce l'a priori di ogni conoscenza storica".
In Rahner e nei suoi imitatori viene meno il riconoscimento della trascendenza e della gratuità dell'ordine soprannaturale. Di qui la formulazione della tesi sui cristiani anonimi, uomini credenti e non credenti inclusi nel Corpo mistico indipendentemente dalla loro espressa volontà.
Risultato di una tale svolta è il buonismo, motore delle banalità ronzanti sui pulpiti della fede ridotta a figura umana.
In conclusione, la lettura e lo studio del saggio di Livi è consigliata a quei fedeli che intendono sottrarsi ai paradossi della teologia profana - immanentista e storicista - per vivere il Cristianesimo in conformità all'ermeneutica della continuità.

(Fonte: Piero Vassallo, Riscossa cristiana, 23 febbraio 2012)


Salvate Il soldato Giovanardi

Tutti contro Carlo Giovanardi. Rosy Bindi lo ha accusato di “mancanza di pudore”, di “becero maschilismo” e di “pochezza”. Anna Paola Concia, altra Pd, di “omofobia di Stato”, nonché di “violenza, inaudita e sconcertante”. Ignazio Marino, terzo Pd in pista, ha definito le sue dichiarazioni “incommentabili”. Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center, gli ha consigliato uno psichiatra. Franco Grillini dell'Idv ha bollato tutto come “stupidaggini omofobiche” e “castronerie psichiatriche”. E via elencando.
Ma perché tanto accanimento? Cos'ha detto di tanto terribile l'ex-Sottosegretario con delega alla Famiglia? Nulla di speciale, in realtà. E' solo stato tra i pochi, che abbiano commentato pubblicamente il tentativo politico -e non tecnico- del tecnocraticissimo ministro del Welfare, Elsa Fornero, pronta, anzi prontissima, col collega all'Istruzione, Francesco Profumo, ad introdurre l'omosessualità nelle scuole, servendosi del cavallo di Troia della “diversità”, nuovo moloch, nuovo “valore”, da imparare sin “da piccoli”. Da qui il rammarico del ministro Fornero, nel constatare un “grave ritardo culturale, di apertura mentale” del nostro Paese in merito. Premesse pericolosissime -come già evidenziato dal giornalista Riccardo Cascioli sul giornale on line “La Bussola Quotidiana”, poiché tali da condurre al “definitivo disfacimento della famiglia”.
Ma Bindi ed allegra brigata sono come il fu Scalfaro: non ci stanno. E picchiano duro sul povero senatore Giovanardi, “reo” solo d'essersi ben reso conto di quanto l'andazzo rischi di condurre la politica nazionale verso una china pericolosa in fatto di Valori.
Certo, con toni forse forti e sopra le righe, ma concreti, il parlamentare del Pdl ha messo in guardia su due punti fondamentali: innanzi tutto, il fatto che non spetti ad un governo di tecnocrati ridisegnare l’etica sessuale degli Italiani, né tanto meno legittimare le coppie gay, pena “la rivolta del Parlamento”. In secondo luogo, biasimare quanti vogliano “spettacolarizzare” con disgustosa ostentazione le proprie pratiche omosessuali. In quest’ottica, analogo è il senso di fastidio derivante dal veder urinare in pubblico o dall’assister nostro malgrado ad un bacio saffico: in questi termini fu posta la domanda al senator Giovanardi, in questi termini egli ha risposto. Forse non ottemperando al “politicamente corretto”, sicuramente però ottemperando al buon senso. E facendo apparire davvero peregrine reazioni degne di peloso ed inconcludente moralismo. Bindi e Concia in testa. Parlar di omofobia, in questi casi, è smodatamente fuori luogo. Come han dimostrato i “Giovani Democratici” di Modena con l’idea del bacio gay collettivo per le strade o sotto casa di Giovanardi: farse di questo tipo sviliscono quegli stessi concetti, sventolati da taluni come bandiere, offendono la ragione e mortificano il confronto. Ammesso che questo possa esserci. Ed ammesso che certi “paladini” dell'omosessualità tout court, tanto suscettibili quanto stizziti, il confronto, davvero lo vogliano...

(Fonte: Mauro Faverzani, Riscossa cristiana, 20 febbraio 2012)


Anno della “Parola”: l'omelia, un argomento scottante

Che fare quando l’omelia è troppo lunga e ingombrante, col risultato di soffocare la Parola ascoltata?
È giusto che duri quanto la metà dell’intera celebrazione? Quale deve essere il rapporto tra l’omelia e le altre parti della Messa?
Una delle lamentele più frequenti che i fedeli muovono ai preti, riguarda proprio la durata dell’omelia, in relazione alle altre parti della Messa. Nell’anno della Parola, vogliamo spendere due parole (preti, scusate l’ardire) su questo importante argomento; e ci sembra giusto affrontarlo, partendo da una considerazione generale sull’intera celebrazione eucaristica.
La Messa si struttura in diversi momenti tra loro collegati: riti di ingresso, liturgia della Parola, liturgia eucaristica, riti di conclusione. Queste diverse parti sono così legate le une alle altre da formare, come dice il Messale, un unico atto di culto (Ordinamento Generale del Messale Romano, n° 28).
La Messa, dunque, non va vissuta come un insieme di elementi tra loro isolati, ma ciascuna parte è strettamente legata all’altra. Attraverso i diversi momenti della celebrazione, infatti, siamo condotti dalla Liturgia a compiere un vero e proprio cammino che dall’ingresso ci conduce fino al cuore e al culmine della celebrazione: la liturgia Eucaristica. Questo è il motivo per cui le diverse parti della Messa non si svolgono tutte nello stesso luogo: i riti di ingresso si celebrano alla sede, la Liturgia della Parola si svolge all’ambone e, infine, la liturgia Eucaristica, all’altare.
Quando non si rispetta il giusto ritmo o la dinamica della celebrazione, tutta la Messa ne soffre e se ne smarrisce il senso. Questo accade anche quando i riti di ingresso sono troppo lunghi, con troppi canti (ingresso, kyrie, Gloria, ecc.) o quando, al contrario, sono troppo sbrigativi (senza nessuna pausa di silenzio o senza canti). Oppure, quando si gonfia eccessivamente la presentazione dei doni (offertorio) con troppi doni o lunghe didascalie, per poi trascurare l’importanza della Preghiera Eucaristica.
Tornando alla questione posta all’inizio, l’omelia trova la sua giusta durata nel quadro complessivo della celebrazione. La sua durata non dovrebbe mai superare quella dedicata alla proclamazione delle letture, né sacrificare i giusti tempi di silenzio previsti dal rito. I documenti liturgici e gli orientamenti magisteriali non danno nessuna indicazione precisa al riguardo, ma offrono delle considerazioni generali che ci possono essere di aiuto. Innanzitutto, l’omelia va considerata come parte integrante della Liturgia della Parola (Ordinamento Generale del Messale Romano, n° 65; Introduzione al lezionario, n° 24; Codice di Diritto Canonico, can. 767) e non come un momento isolato o, nel peggiore dei casi, centrale. La Parola di Dio infatti, proclamata e attualizzata, “corre” verso il suo compimento: la liturgia eucaristica (Introduzione al lezionario, n° 10).
L’omelia è strettamente legata alla Parola proclamata, quindi non deve essere generica o astratta: pur avendo un valore catechetico, non è quello il luogo della catechesi, né tanto meno il luogo di digressioni e avvisi inopportuni (cfr. Introduzione al Lezionario, n° 27; Sacramentum Caritatis, n° 46). Di volta in volta sarà il ritmo della celebrazione a sottolineare il rilievo da dare all’omelia: là dove, ad esempio, la celebrazione è più ricca di letture o di altri gesti (il caso tipico è la veglia pasquale), l’omelia sarà più sobria. Come pure nei giorni feriali, quando la presenza dei fedeli è minima. È brutto dirlo, ma l’intera Liturgia della Parola (letture + omelia) non dovrebbe superare la durata della Liturgia Eucaristica domenicale (mediamente 25/30 minuti). Infine, l’omelia deve sempre prevedere un momento di silenzio, per favorire la meditazione e predisporre il cuore a partecipare con frutto alla liturgia eucaristica, centro e culmine dell’intera celebrazione.

(MaLa, 20 febbraio 2012)


Caso Celentano: non sparate sullo “scemo del villaggio”. Fa il suo mestiere.

Un evento come Sanremo si presta da sempre, in quanto spettacolo senza rete, all’uso mediatico dei personaggi bizzarri, che garantiscono l’audience proprio perché nessuno può prevedere cosa uscirà dalla loro bocca. L’invenzione dello Scemo del Villaggio Televisivo si deve (perlomeno per il grande pubblico) a Pippo Baudo, che ha sempre fatto uso di questo genere di bocche abilitate a dire tutto quello che passa loro per la testa: ricordiamo le apparizioni di Beppe Grillo, o di Roberto Benigni, nella cui nicchia ecologica si situa anche questo Adriano Celentano.
Che i discorsi di questa gente siano sensati o meno, ha poca importanza. Meglio se non lo sono, c’è più suspence. Pippo Baudo, che secondo me è un genio, applicò prima degli altri la legge per la quale la forza di un evento dipende dall'importanza che il pubblico gli attribuisce. L’evento di per sé è poco e nulla. Cosa ci resta delle esibizioni di Benigni o di Grillo? Allo stesso modo, cosa resterà tra qualche giorno delle parole di Celentano? La vera invenzione è la trappola mediatica, che purtroppo (almeno secondo me) funziona quasi sempre. Questa volta ci sono cascati anche i vescovi italiani, i quali adesso esigono le scuse di Celentano, perdendo un’occasione per mostrarsi un po’ superiori alla media. Quanta gente, tutti i giorni, esige le scuse di qualcuno, che magari poi si difende usando la celebre espressione «sono stato frainteso»? Ho l’impressione che molti prelati, visto il coro che si è levato, giustamente e a proposito, contro Celentano, non vedessero l’ora di stare dalla parte della “maggioranza che conta”, a fianco di celebri editorialisti e critici televisivi.
Senza rendersi conto che questo coro ingigantiva la portata dell’evento e quindi, in qualche modo, ingigantiva Celentano oltre ogni limite ragionevole. Prelati, vescovi, mi rivolgo a voi: vi pare ragionevole assumere una posizione che vi rende simili a un politico qualunque? La prossima volta cosa farete? Andrete per avvocati? Sporgerete denuncia? Potevate cavarvela con due parole generiche sull’uso disinvolto e spregiudicato della libertà di pensiero e di espressione, oppure - meglio - ricordando a Celentano tutto quello che la Chiesa fa, nel mondo, per i poveri, per i diseredati, per gli ultimi. Come ha precisato, opportunamente, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio quando ha detto che il suo giornale ha sempre parlato di Cristo, della Carità e del Paradiso. Ci vuole un po’ di stile in queste cose. Invece, con questa sgraziata richiesta di scuse, voi avete dato ragione a lui, proprio come Pippo Baudo aveva previsto tanti anni fa.
Ma forse c’è anche un altro problema.
La vera importanza storica di Celentano sta nell’immagine “mediatica” che rappresenta: quella di un tipico ragazzo lombardo del dopoguerra, che frequenta l’oratorio e, nonostante gli orrori passati, ha fiducia in Dio e nel futuro, e col suo rock’n’roll infonde fiducia anche negli altri. Celentano è proprio un figlio della Chiesa intesa come parrocchie, preti, oratori, catechismo. E la sua esibizione dell’altra sera mostra la forza ma anche le crepe di un programma educativo che seppe trasmettere il cristianesimo come dottrina, rito, etica, o come convivenza sentimentale, ma non come cultura, ossia come autocoscienza. Qualcuno magari si illuse che per questo bastasse avere un’Università Cattolica, o un quotidiano come Avvenire, mentre si sa che giornali e università sono cose come la matematica, che non insegna a ragionare, mentre è utilissima a chi sa già ragionare.
Così la fede cristiana non diventò la forma del rapporto con la realtà di tutti i giorni: per quello bastavano le regole morali, o l’interesse economico, o le logiche di potere. Il discorso di Celentano è il prodotto “pasticciato” proprio di tutto questo: una stupidaggine irritante, certo, ma in linea con la trovata di quel diavolo di Pippo Baudo!

(Fonte: Luca Doninelli, Il Giornale, 20 febbraio 2012)


sabato 18 febbraio 2012

Un “Grande Fratellino”

Questa ci mancava: “Cerchiamo bambini dai 4 ai 12 anni per un nuovissimo format televisivo: i provini si svolgeranno l’11 e il 12 febbraio”.
Già abbiamo visto bambini sotto i riflettori nelle trasmissioni canore di prima serata: canzoni da grandi in bocca a “piccoli uomini e piccole donne crescono”, e cioè a dei piccoli, vestiti, truccati e acconciati da finti grandi, e ben addestrati a muoversi, sul palco, sinuosi e provocanti, o aggressivi q.b., come si muovono i loro idoli. Questo impenna l’audience, altro che Lo Zecchino d’oro, con il Mago Zurlì, la sostituta di Mariele Ventre, e i bambini che fanno solo i bambini!
Già abbiamo visto minorenni sulle passerelle, a sfilare per collezioni più o meno di marca: bambine che, traballanti, ancheggiano sui tacchi; bambini a cui insegnano l’arte del vero macho e a fingere il mascellone dell’“uomo che non deve chiedere mai”.
Già la sappiamo la storia delle giornate-piene-che-più-piene-non-si-può: sveglia, colazione, scuola, doposcuola, sport, lezione di inglese, chitarra con intermezzo di playstation e un po’ di tivù, vuoi perché i genitori lavorano, vuoi perché “così fan tutti e ai figli bisogna dare il massimo”, vuoi perché - diciamocelo - in fondo è comodo delegare ad altri l’accudimento e l’educazione dei propri figli. Siam già così pieni di cose da fare…
Però questa del “format televisivo per bambini dai 4 ai 12 anni” ci mancava. Ci mancava e ci han pensato (bene!) quelli della trasmissione Le Iene, che, in una puntata trasmessa di recente, sono giustamente partiti dalla considerazione che se i bimbi vanno in tivù, qualcuno ce li deve pure aver accompagnati. E così hanno provato a gettare l’amo (finto) del (finto) format televisivo. Neanche dirlo, per un primo colloquio hanno abboccato un sacco di genitori.
Dopo le domande iniziali (età, peso, altezza del figlio o della figlia…), si è cominciato a capire che il (finto) reality sarebbe stato come un “Grande Fratello piccolo”. Un “Grande Fratellino”, insomma. Sette maschietti e sette femminucce da selezionare e da lasciare soli, senza genitori, per 45 giorni, in una casa-atelier. Ventiquattr’ore su ventiquattro sotto gli occhi delle telecamere.
Domanda di una mamma: “Con la scuola… vabbé… si sospende… non vanno”. Recupereranno, che vuoi che sia per un mese e mezzo: son bambini!
Sì, bambini da trasformare in piccoli vip, spiegano i finti selezionatori, che avvertono i genitori che i modelli di riferimento cui i figli dovranno adeguarsi saranno Fabrizio Corona per i maschietti e, per la gioia dei papà (?), Belén Rodriguez per le femminucce.
Il 30% dei genitori, terminata questa prima fase di provino, se ne va effettivamente (e meno male!) sconvolta, ma resta il restante 70 % di coloro che si erano presentati; e si continua, perché per partecipare a questo nuovo programma non basta essere belli e simpatici, occorre essere anche competitivi e mondani, e giù altre domande.
Selezione su selezione, si arriva ad una rosa di possibili candidati, a cui viene spiegato cosa dovranno aspettarsi i bambini dentro la “casa”, se davvero vorranno diventare dei baby-vip. Tanto per cominciare, tutte le mattine “prova della bilancia”: i bambini, che abbiamo 4 , 7 o 12 anni non fa differenza, non dovranno sgarrare dal peso deciso per ciascuno di loro. I genitori dicono ok. Non è un problema. Per esigenze di sponsor, i 14 selezionati dovranno giocare alla playstation almeno cinque ore al giorno, ma non più di sei. E che problema c’è? Molti lo fanno già! Siccome ci sono esigenze televisive da rispettare, mangeranno solo merendine e snack degli sponsor (interviene un genitore: “Vabbé… lo sponsor… è normale…”) e siccome si tratta di un reality e la gente da casa vuol vedere bambini che si muovono e non che dormono, i fortunati che saranno stati scelti per la trasmissione dovranno bere bevande energizzanti (commento di un papà: “Non so… non le ha mai bevute… si può provare…”).
Ma ecco la raffica di domande finali, rivolte – è bene ricordarlo – sempre a genitori di bambini dai 4 ai 12 anni: “Possiamo farlo/a ingrassare? Dimagrire? Fargli/le tingere i capelli? Fargli/le mettere i tacchi? E le extension? E le lampade abbronzanti?” (Un papà : “Preferirei di no, se c’è la possibilità di scegliere. Se deve farle, le fa!”). “E i piercing? E i tatuaggi? E il french alle unghie? E radergli completamente le sopracciglia? E la ceretta?”. No problem!
Si comunica infine ai genitori l’eventualità che, proprio come accade al Grande Fratello, le penalità possano portare dalla “casa-atelier” al tugurietto, da soli, al freddo. “Con i ratti suo figlio come si comporta? Sa maneggiare veleno per topi?” (Un papà: “Non credo… ma, nel caso, sì”). E ancora: “E’ a suo agio con tarantole e rettili? Perché, sa, nella foto ‘Adamo ed Eva’ è prevista la presenza di un boa conscrictor…”.
La trasmissione finisce così, con l’inquadratura sugli ultimi genitori che… parla da sé, e con il commento della finta selezionatrice: “Dai nostri provini si capisce che questo format si può fare. Certo di coraggio ce ne vuole. A mandarlo in onda!”.
E’ vero che il campione di genitori statisticamente potrà essere poco significativo e che i papà e le mamme rimasti al termine della finta selezione sono pochi. Ciò che è accaduto sconcerta comunque, e credo (spero!) lo dica anche il numero di coloro che hanno rivisto, in rete, la puntata.
Hanno comunque superato il limite le cose che vediamo “sui” bambini, e cioè subite dai bambini. A volte per necessità dei genitori, che lavorano ed hanno poco tempo da dedicare loro, e li piazzano qui e lì, brontolando, e come avessero tra le mani dei pacchettini (è successo in questi giorni di scuole chiuse per l’emergenza neve!), a volte per scelta.
Certo c’è bisogno di azioni concrete di sostegno alle famiglie ed è necessario che la politica se ne occupi. Ma l’emergenza, ancora una volta, è innanzitutto educativa, perché i bambini non sono bambole, non sono pacchi, non sono delle macchine, non sono i nostri cloni, non possono e non devono farsi carico delle frustrazioni della loro mamma e/o del loro papà.
E’ difficile fare i genitori, difficilissimo: il mondo, la mentalità del mondo remano contro, ed occorre ogni giorno, con forza e convinzione, remare contro il mondo che rema contro. Ma siccome la corrente è fortissima, non bastano energie e buona volontà. E’ necessario tenere fissi gli occhi alla bussola, alla stella polare, a Chi sa la direzione giusta. Anche i timonieri possono sbagliare…

(Fonte: Luisella Saro, Cultura Cattolica, 11 febbraio 2012)


Ribellione al Papa

Le Chiese del nord e del centro Europa sono attraversate da venti di ribellione. C’è chi lo chiama «scisma silenzioso», chi invece minimizza. Di certo di tratta di un fenomeno preoccupante, che interessa Paesi di antica tradizione cattolica, come l’Austria o il Belgio.
In Belgio, ad esempio, oltre duecento sacerdoti, spalleggiati da migliaia di fedeli, chiedono per iscritto l’ammissione dei divorziati risposati alla comunione, l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati ma anche delle donne, nonché la possibilità per i laici di tenere l’omelia durante la messa domenicale. A colpire, dell’appello belga, sono le firme. Tra i sottoscrittori del manifesto progressista ci sono infatti personalità molto in vista del cattolicesimo, come il rettore onorario dell’Università cattolica di Lovanio, Roger Dillemans; il governatore della provincia delle Fiandre occidentali Paul Breyne, gli ex del Consiglio pastorale interdiocesano e alcuni noti sacerdoti. Nell’appello di legge: «Siamo convinti che, se come credenti prendiamo la parola, i vescovi ascolteranno e saranno pronti a portare avanti il dialogo su queste riforme urgentemente necessarie».
Come si ricorderà, nel 2010 – un vero annus horribilis per la Chiesa belga – la polizia tenne prigioniera per un giorno intero l’intera conferenza episcopale, mentre venivano aperte le tombe dei cardinali alla ricerca di documenti sulla pedofilia che solo una mente alla Dan Brown poteva immaginare venissero custoditi nei sepolcri degli arcivescovi passati a miglior vita. Lo scandalo della pedofilia viene agitato dai firmatari dell’appello per giustificare una revisione della norma del celibato: peccato che le statistiche abbiano ampiamente dimostrato come non vi sia un legame tra celibato e pedofilia, dato che la gran parte di questi terribili abusi avviene in famiglia.
A Buizingen, a sud ovest di Bruxelles, dopo la morte del vecchio parroco della chiesa di don Bosco, per il quale non si è trovato un sostituto, i parrocchiani hanno costituito un movimento alternativo facendo celebrare la messa a dei laici.

Movimenti simili già da anni sono diffusi in Austria, dove ben 329 parroci hanno aderito alla cosiddetta “Pfarrer-Initiative”, un «appello alla disobbedienza» nel quale vengono richieste urgenti riforme nella Chiesa. Vale la pena di ricordare che proprio in Austria, nella diocesi di Linz, si è verificato uno degli incidenti di percorso che hanno segnato il pontificato di Benedetto XVI. Nel gennaio 2009 il Papa aveva infatti nominato vescovo ausiliare di Linz Gehrard Wagner, costretto a dimettersi prima di essere consacrato perché considerato “troppo conservatore”. Tra coloro che a gran voce chiedevano le sue dimissioni c’era un canonico della diocesi di Linz che non faceva mistero di convivere con una donna.
I firmatari dell’«appello alla disobbedienza» hanno coinvolto altri gruppi di base (come “Noi siamo Chiesa”), che da anni avanzano richieste simili alla Santa Sede, e cioè l’abolizione dell’obbligo del celibato per i preti della Chiesa latina, la comunione ai divorziati risposati e il sacerdozio femminile. Nelle scorse settimane i dissenzienti hanno minacciato di voler procedere con le “messe” celebrate dai laici, nel caso non vengano accolte le loro richieste di ordinare preti uomini sposati e donne.
A questo proposito è bene ricordare che le due richieste non si equivalgono di certo: la Chiesa cattolica considera il celibato dei preti un dono prezioso da difendere, ma ammette eccezioni alla scelta celibataria – disciplina che ha motivazioni anche teologiche – nel caso dei preti cattolici appartenenti alle Chiese orientali (che possono essere sposati prima dell’ordinazione) o nel caso più recente degli anglicani che rientrano in comunione con Roma. Ben diversa è la richiesta di ordinazione sacerdotale per le donne, dichiarata più volte inammissibile e oggetto di una specifica lettera apostolica di Giovanni Paolo II (Ordinatio sacerdotalis, 1994), nella quale il Papa scriveva: «Benché la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti più recenti, tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare». «Pertanto – concludeva il beato Giovanni Paolo II – al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli».
Lo scorso 6 novembre i protestatari austriaci hanno siglato un nuovo documento sull’«Eucaristia in tempi di carenza di preti», nel quale si definiscono «regole obsolete» quelle in vigore nella Chiesa e il celibato sacerdotale è una «prassi tardiva». Si chiede di «affidare la guida delle comunità e la celebrazione dell’eucaristia a uomini e donne sposati», e si afferma che «Il cammino verso l’ordinazione femminile non può essere ostacolato da divieti del Papa di discuterne», perché ogni comunità «ha diritto a una guida, uomo o donna».
Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e il vescovo di St. Pölten Klaus Küng hanno definito queste proposte «una rottura aperta con una verità centrale della nostra fede cattolica» e «grande pericolo». Anche se i sondaggi vanno presi con le pinze e adeguatamente relativizzati, destano preoccupazione in Vaticano i risultati di un’indagine promossa dalla Tv austriaca Orf, secondo la quale ben il 72 per cento dei sacerdoti del Paese sarebbero favorevoli all’«appello alla disobbedienza». Il 71 per cento vorrebbe abolire l’obbligo del celibato e il 55 per cento aprire alle donne prete. Ogni giorno che passa, lo spettro di uno scisma diventa sempre più incombente e minaccioso.
Si sbaglierebbe a sottovalutare questi segnali, che a noi italiani suonano così lontani. E si sbaglierebbe a credere che questi fenomeni siano diffusi soltanto in alcune Chiese centro-europee note per la loro effervescenza e storicamente caratterizzate dal confronto con il mondo del protestantesimo. Notizie simili giungono infatti anche da altri Paesi e altre latitudini. Negli Stati Uniti ci sono 157 sacerdoti che manifestano contro il Papa, chiedendogli di annullare l’obbligo del celibato e di aprire all’ordinazione delle donne prete. Mentre in Australia un migliaio di fedeli della diocesi di Toowoomba, vicino a Brisbane, nel sudest del Paese, hanno inviato a Benedetto XVI una missiva per contestare la decisione resa nota lo scorso maggio di rimuovere il sessantasettenne vescovo William M. Morris. Monsignor Morris si era detto possibilista sull’ordinazione delle donne prete e per rimediare alla mancanza di sacerdoti aveva chiamato alle celebrazioni pastori protestanti. I firmatari della lettera spedita in Vaticano chiedono spiegazioni sulla rimozione di Morris e chiedono anche che «mai più un trattamento del genere si ripeta in altre diocesi dell’Australia».
L’emergere di questo dissenso addolora il Papa, che continuamente richiama alla conversione invitando a non pensare che la soluzione sia nel cambiamento delle strutture o nell’adeguamento dei «ministeri». Nel pieno della bufera post-conciliare, il 4 giugno 1970 a Monaco di Baviera, l’allora professor Joseph Ratzinger tenne una conferenza intitolata: “Perché oggi sono ancora nella Chiesa”. Disse che «la riforma, nel suo significato originario, è un processo spirituale molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del cuore del fenomeno cristiano; soltanto attraverso la conversione si diventa cristiani, e questo è valido per tutta la vita del singolo e per tutta la storia della Chiesa». «Se la riforma viene allontanata da questo contesto, dallo sforzo della conversione – concludeva Ratzinger – e se ci si aspetta la salvezza solo dal cambiamento degli altri, da forme e adattamento al tempo sempre nuovi», la riforma «diventa una caricatura di se stessa».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Timone, 4 febbraio 2012)


“Oci e zenòci”

Ôci e zenòci. Lo scrivo così, alla veneta, perché così l’ho imparato, ed è in questo modo che, spesso, aggiungendoci anche il punto esclamativo finale, richiamo il mio cuore a ciò che conta.
L’espressione significa “occhi e ginocchia” e basterebbe questo per vivere da cristiani ed anche per svolgere bene il servizio in questo blog che cerco di rinnovare nei contenuti a cedenza settimanale. Ci pensavo leggendo il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale per le comunicazioni sociali.
Oci e zenòci, ripeteva spesso il Venerabile Padre Bernardino da Portogruaro, nato 190 anni fa. Rimasto orfano di entrambi i genitori in giovane età, nel 1839 vestì l’abito francescano e il 19 marzo 1869 venne nominato da Pio IX ministro generale dell’Ordine dei frati minori.
Era, quella, un’epoca durissima per la Chiesa e per le istituzioni ecclesiastiche, a causa delle gravi conseguenze della rivoluzione francese e delle leggi napoleoniche, ma anche dell’atteggiamento anticlericale ed anticattolico dei governi che avevano soppresso molti Ordini religiosi, incamerato i loro beni e trasformato i conventi in caserme, uffici pubblici o li avevano affidati ad enti finanziari.

Non si stava tanto a filosofeggiare, in quelle condizioni: si viveva. All’epoca si imparava guardando. Si imparava dai maestri, e cioè da chi, nella quotidianità, faceva diventare carne la Parola e, con la vita, testimoniava il suo amore a Cristo e la fierezza di appartenere alla Chiesa. Senza “se” e senza “ma”.
Non si era, in quegli anni, ancora insinuato il relativismo nel pensiero dei cattolici (il razionalismo, la massoneria, il laicismo dei governi e della cultura dominante bastavano ed avanzavano!) e la frase che padre Bernardino era solito pronunciare era vera innanzitutto per lui: dava senso e consistenza alle sue giornate. Per questo era credibile!
Sono passati quasi due secoli dalla sua nascita, sono cambiate tante cose ma la Chiesa, seppur per ragioni diverse, vive la stessa sofferenza di allora e si trova nello stesso, identico stato di “emergenza”. Eppure, consapevoli di questo: del laicismo imperante, della persecuzione che subiscono i cristiani nel mondo, del relativismo che – ora sì! – anche tra i cattolici mette in discussione la possibilità di una verità vera per tutti, quanta fatica facciamo ad accogliere queste due semplici parole di Padre Bernardino e a vivere in questo suo stesso modo: osservando, vigili, la realtà, grati innanzitutto perché quotidianamente ci è ri-donata! Quanta fatica ad usare bene gli occhi per coglierne il positivo, e la bellezza che sempre la permea, anche quando pare nascosta; per discernere tra i numerosissimi stimoli che riceviamo e riconoscere e focalizzare le domande e le sollecitazioni, tra migliaia, importanti; ma anche con il coraggio di esprimere sulla realtà un giudizio, e cioè di leggerla, interpretarla non in base alle nostre opinioni, a ciò che “sentiamo”, ma alla luce della fede. E rispondere con carità ed intelligenza ai bisogni che da essa emergono.
E invece è proprio questo il nostro compito di cattolici, qualunque sia la nostra vocazione, là dove il Signore ci ha posti. Per me, qui nel blog, spalancare gli occhi e raccontare la realtà. Anche – e forse soprattutto – quella che, in buona o (più spesso) malafede i giornali più venduti, i siti più visitati, le trasmissioni di prima serata non raccontano, perché non corrisponde agli schemi del politicamente corretto, perché dis-turba. Persino – è doloroso dirlo – tanti cattolici, che per uno sciocco senso di inferiorità rispetto al “mondo”, scelgono di vivere nel grigiore sommesso di una fede nascosta o, camaleonti, si mimetizzano alla meglio, o si inchinano, ossequiosi, al pensiero dominante.
Questo, invece, ci è chiesto: andare a fondo, alle domande ultime (che sono anche le prime), e cioè alle domande “di senso”. E dare ragione della speranza che nasce dall’incontro con Cristo. E mostrare fiducia nella positività ultima della realtà. E chiarezza di giudizio.
Occorre essere, come ha ricordato il Papa, “annunciatori di speranza e di salvezza, testimoni di quell’amore che promuove la dignità dell’uomo e che costruisce giustizia e pace”.
Basterebbe questo: oci boni, e cioè occhi che vedono bene e che, nella realtà, vedono “il” bene, perché è quello che, solo, può rimandare al Bene, ed aprire porte alla speranza, e ad una vita con l’uomo e per l’uomo.
Non è piccola, dunque, la responsabilità che ci è chiesta, che è chiesta anche all’Apologeta, perché la Chiesa compie la sua opera di evangelizzazione anche tramite i mezzi di comunicazione sociale, e come ha ricordato Benedetto XVI il 27 gennaio scorso, in occasione dell'Udienza ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, “in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni”.
Ecco, allora, che prima ancora di mettersi all’opera, c’è innanzitutto bisogno di stare in ginocchio e di re-imparare a guardare la realtà da quella prospettiva. Servono i zenòci di cui parlava Padre Bernardino, perché imparare la comunicazione significa imparare il silenzio, l’ascolto, la contemplazione. Ed, anche se pare fuori moda persino tra i cattolici, invocare, in ginocchio, lo Spirito Santo, affinché ci guidi nel discernimento.
Stare in ginocchio ci ricorda che siamo solo collaboratori del piano di salvezza, ma che i fili della nostra storia e della Storia tutta li tesse un Altro. In zenòcio, rammentiamo la gerarchia delle nostre giornate e della vita, cadenzate dall’ora et labora. Viceversa non è la stessa cosa.
Prima del “fare”, dunque, bisogna ripartire dall’essere, e recuperare la dimensione della preghiera, del silenzio, della… fede.
“Oggi possiamo constatare non pochi frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici”, ha infatti ricordato il Papa, “ma dobbiamo anche riconoscere che il rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II, esige la nostra vigilanza. Questo indifferentismo è causato dalla opinione sempre più diffusa che la verità non sarebbe accessibile all’uomo; sarebbe quindi necessario limitarsi a trovare regole per una prassi in grado di migliorare il mondo. E così la fede sarebbe sostituita da un moralismo, senza fondamento profondo. Il centro del vero ecumenismo è invece la fede nella quale l’uomo incontra la verità che si rivela nella Parola di Dio. Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di «contratto sociale» cui aderire per un interesse comune, una «prasseologia» per creare un mondo migliore”.
Usare bene oci e zenòci, come per tutta la vita ha fatto ed ha insegnato, con semplicità, il Venerabile Padre Bernardino da Portogruaro, può, ora come allora, aiutare i cattolici a comprendere il metodo con cui accostarsi alla vita, ed anche all’informazione, e a dare ascolto a papa Benedetto, che, con la chiarezza di sempre, in questo delicato compito ci guida e ci indica la strada. “Nei dialoghi non possiamo ignorare le grandi questioni morali circa la vita umana, la famiglia, la sessualità, la bioetica, la libertà, la giustizia e la pace. Sarà importante parlare su questi temi con una sola voce, attingendo al fondamento nella Scrittura e nella viva tradizione della Chiesa. Questa tradizione ci aiuta a decifrare il linguaggio del Creatore nella sua creazione. Difendendo i valori fondamentali della grande tradizione della Chiesa, difendiamo l’uomo, difendiamo il creato”.

(Rielaborazione da: Oci e zenoci di Luisella Saro, Cultura Cattolica, 30 gennaio 2012)


Giallo in Vaticano

I fatti son fin troppo noti: la previsione della morte del Papa, le manovre per decidere fin da ora il successore, gli intrighi di palazzo e i furbetti della cittadella che parlano coi giornali. In casa cattolica, c’è chi trova la vicenda “tutta da ridere”. C’è chi la stigmatizza, ma senza trarne motivo di scandalo. C’è chi nasconde la notizia in una colonnina a pagina 19, così che il povero Bordin a Radio Radicale non fa in tempo ad arrivarci prima di finire la rassegna stampa.
Ce n’è per tutti, compresi quei cattolici ordinari che aprono i giornali e non sanno se si trovano nella cronaca nera o nella pagina degli spettacoli, col bel risultato di farsi venire gli stessi pensieri dei fior di anticlericali, anche se con opposto palpito di cuore. E ne hanno ben donde, poveretti. Perché, a non voler nascondere sotto il tappeto la sporcizia denunciata a suo tempo dal cardinale Ratzinger, da ridere pare proprio che non ce ne sia.
Questo desolante incrocio tra il Festival di Sanremo, dove si intriga per sapere in anticipo il nome del vincitore, e una serie tv stile “Codice da Vinci”, dove il sacro si dilegua davanti al profano, rappresenta fin troppo bene certi esiti dello scellerato patto stipulato dalla teologia moderna con il mondo. Tra le primizie pastorali di quel patto, doveva esserci una Chiesa protagonista dei mass media: eccola, sulle prime pagine dei giornali, in tv sul, web. Ma senza l’inossidabile sfavillìo festivaliero e senza l’ipnotica suspense del thriller di razza. Eccola, spogliata anche del minimo appeal, mostrare al mondo uomini occupati da tutto quanto rimane di solamente umano quando il divino è stato messo da parte.
Chi va con il mondo, avrebbe detto Totò che di spettacolo se ne intendeva, impara a mondanizzare. Però lo fa male e replica maldestramente copioni altrui illudendosi di recitare in proprio. Operazione aggravata dal fatto che mettere in scena un pessimo “Codice da Vinci” con personaggi veri è infinitamente più dannoso che subirne uno geniale a mezzo stampa.
Eppure, le avanguardie della nuova Chiesa pneumatica avevano promesso ben altro. Una volta gettata a mare la Chiesa costantiniana, il suo sfarzo liturgico, il suo trionfalismo e i suoi legami con il potere, non si sarebbero più replicate le nefandezze della Roma rinascimentale. Tempo il finir di millennio, il secondo, e la Chiesa sarebbe stata tutta nuova e spirituale. Invece, come accade sempre quando ci si occupa solo dello spirito, si finisce per sentirsi liberi da ogni vincolo e abusare del corpo: quello individuale proprio e altrui, quello sociale e quello mistico. Se si guarda con onestà da questo punto di vista, si spiegano tutte le piaghe che hanno flagellato in questi anni la Chiesa dall’interno, senza concorso di terzi. Tutto ciò con gran soddisfazione del mondo, per il quale non c’è alleato migliore di chi non se ne cura in quanto troppo occupato da pensieri spirituali.
E così, adesso, ci si trova davanti al paradosso di vasti, vastissimi, sterminati settori della Chiesa che, dopo una buona dose di mea culpa battuti sul petto altrui, ora si trovano al cospetto di ben altro, e non possono neppure incolpare il passato. Crolla lo schema ideologico secondo cui la Chiesa di oggi è sempre migliore di quella di ieri. Evapora la presunzione per cui i cristiani contemporanei sarebbero adulti e vaccinati), mentre quelli di una volta sarebbero tutti ignoranti e dunque indefessi peccatori. In tutta questa oscura faccenda dai contorni obiettivamente indefiniti, la Chiesa di sempre non fa una piega, perché come scrive Vittorio Messori, manifesta quella fetta di umano che si porta inevitabilmente con sé. Il guaio vero si manifesta quando l’umanesimo si mangia il cristianesimo, il sentimento la dottrina, l’orizzontale il verticale. A questo punto i complotti e i maneggi non sono più una patologia, ma la più logica delle conseguenze.
Qui giunti, le persone comuni, credenti e non credenti, si pongono la stessa domanda: ma quei signori ci credono davvero? Fatta salva la fede dei singoli, su cui il giudizio tocca al Padreterno, non si può pensare che lo smantellamento sistematico della dottrina, della morale, della liturgia non abbia effetti. E questa è una constatazione amara per credenti e non credenti: i quali, forse, si pongono la domanda fatidica con diverso palpito di cuore, ma sicuramente amerebbero avere la stessa risposta.

(Fonte: Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Foglio, 12/2/2012)


Guerra alla Chiesa?

Siamo in guerra: anche se non è mai stata dichiarata apertamente, sembra che le bordate, le cannonate, gli attentati siano oramai all’ordine del giorno. Già il salmo 143 (144) ricorda: «Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia.» Che venga questo tempo in cui ci si prepara all’unica guerra degna di questo nome, e che non è cruenta e genera frutti di civiltà: la guerra contro la menzogna e l’odio alla Chiesa, preludio dell’odio alla libertà di tutti.
Quali i sintomi di questo scenario drammatico? Leggiamo i giornali, guardiamo i diversi canali televisivi, ascoltiamo i discorsi che si fanno tra la gente: “Chiesa corrotta, sacerdoti indegni, ricchezze e abusi anche ai vertici, sprechi e privilegi… 8 per mille, ICI, pedofilia… e poi una presenza pubblica esagerata, soprattutto nelle scuole…”
Che sia tutto vero? O basta un sussurro per accreditare qualsiasi genere di notizia? Certo c’è il grave problema della informazione, di una responsabilità per la verità che manca in molti addetti della comunicazione (così come ricorda spesso il Papa, secondo cui «non manca, … il rischio che essi [i media] si trasformino … in sistemi volti a sottomettere l’uomo a logiche dettate dagli interessi dominanti del momento. E’ il caso di una comunicazione usata per fini ideologici o per la collocazione di prodotti di consumo mediante una pubblicità ossessiva. Con il pretesto di rappresentare la realtà, di fatto si tende a legittimare e ad imporre modelli distorti di vita personale, familiare o sociale. Inoltre, per favorire gli ascolti, la cosiddetta audience, a volte non si esita a ricorrere alla trasgressione, alla volgarità e alla violenza. […] Si constata, ad esempio, che su talune vicende i media non sono utilizzati per un corretto ruolo di informazione, ma per “creare” gli eventi stessi».)
Ricordato questo, credo però che l’urgenza, oggi, sia una corretta educazione del popolo: bisogna che la Chiesa ritorni ad essere quella Mater et magistra che abbiamo imparato a conoscere ed amare. Che sia il luogo di una vera testimonianza della Vita buona del Vangelo che sola può ridare all’uomo speranza e rispetto.
Ateismo razionalista e materialista, consumismo sfrenato, libertarismo relativista schiacciano l’uomo e ne umiliano la dignità. Per questo vale il richiamo della Scrittura: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. E' meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male.» (I Pt 3, 15ss)
Possiamo dire anche, col Card. Ratzinger: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini» [Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture].
Allora diciamo basta ad uno stile di vita cristiano che non abbia a cuore il bene della Chiesa, che non si accorge che lo scandalo (e non solo quello ‘morale’ – a volte schifoso –, ma una riduzione mondana della fede) non edifica nulla, anzi, rende fragile la presenza cristiana nei diversi ambienti in cui si vive e si opera; diciamo di sì alla testimonianza della santità, fatta di carità e verità, che molti, nel popolo cristiano, sanno dare. Abbiamo a cuore che trionfi il Regno di Dio nel mondo, e per questo siamo disposti a dare tempo e risorse, fino alla vita.
In una lettera della Segreteria di Stato vaticana si legge: «Sua Santità auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori». Saremo capaci di reagire in maniera ferma e composta di fronte alla guerra contro Cristo e la sua Chiesa? E sapranno i Pastori guidarci in questo impegno, come già il Papa Benedetto sta facendo dall’inizio del suo Pontificato? Come sempre, noi non ci tiriamo indietro di fronte al compito che ci attende, e ci mettiamo al servizio di questa nobile causa.

(Fonte: Gabriele Mangiarotti, Cultura Cattolica, 3 febbraio 2012)


sabato 4 febbraio 2012

Siamo ritardati culturali

Un governo si chiama “tecnico” perché ha il compito principale di sistemare un determinato problema, nel nostro caso l’economia. È ovvio però che in due anni di mandato, deve fare anche tutte quelle altre cose che sono necessarie per gestire il paese, e per le quali si impongono scelte politiche; in tal caso, non essendo stato scelto dal popolo, per gli elettori risulta molto problematico condividere le iniziative di tale esecutivo. È il caso dell’ultima uscita del ministro del Welfare Elsa Fornero.
Cosa ha fatto dunque il ministro Fornero? Parlando alla Commissione Affari Costituzionali e Lavoro della Camera, esponendo il suo programma per le pari opportunità, ha espresso con forza il suo impegno contro la discriminazione di omosessuali e transgender: “Un dato che è sotto gli occhi di tutti è il grave ritardo culturale, di apertura mentale, che il nostro Paese rappresenta in tema di pari opportunità… La diversità è un valore, deve essere tra le cose che i bambini imparano da piccoli. I semi si gettano tra bambini e soprattutto nelle scuole”, e su questo ha parlato di collaborazione già avviata con il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo: “Bisogna superare i ritardi culturali enormi, anche geografici”, ha concluso.
Dunque, questo governo ha deciso di mettere la questione omosessuale al centro della sua azione, e non – contrariamente a quanto si dice – per eliminare presunte discriminazioni, ma per imporre la “normalità” dell’unione omosessuale. In altre parole, non si tratta di intervenire legittimamente per evitare eventuali discriminazioni – che so – nell’accesso al lavoro: da nessuna parte infatti oggi in Italia si devono riempire formulari in cui si deve dichiarare il proprio orientamento sessuale, in base al quale si fanno poi delle scelte. Si tratta invece di riconoscere le unioni gay e parificarle a quelle tra uomo e donna, e tutte e due al matrimonio. Cioè si tratta di portare a compimento quella rivoluzione antropologica già iniziata in Occidente che, negando la legge naturale, vuole superare la divisione oggettiva in sessi (maschio e femmina) per affermare l’autodeterminazione dell’orientamento sessuale (mi sento maschio, femmina, trans, travestito a prescindere da ciò di cui la natura mi ha dotato).
Come ognuno può capire non si tratta di questioni “tecniche” ma culturali e politiche. Ad onor del vero anche il precedente ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, era sulla stessa lunghezza d’onda ma la maggioranza in cui era stata eletta, e il doverne rispondere agli elettori che avevano votato per tutt’altro, aveva impedito che le intenzioni del ministro si traducessero in realtà. Così, ad esempio, fu bocciato il disegno di legge sull’omofobia, che ora possiamo immaginare verrà ripresentato, ovviamente dando anche dei “ritardati culturali” a coloro che vorranno continuare ad opporsi. Ricordiamo al proposito che la proposta di legge contro l’omofobia non combatte le discriminazioni ma crea una categoria di privilegiati, discriminando tutti gli altri. In particolare, tacciando di omofobia tutti coloro che ritengono il riconoscimento delle unioni omosessuali contrarie alla legge naturale, Papa in testa.
Ma la Fornero va ben oltre e parla di educazione da impartire a scuola ai bambini, e già ci starebbe lavorando insieme al ministro dell’Istruzione. E’ qui che la rivoluzione antropologica può davvero vincere: lo Stato si appropria dei bambini – tanto con il tempo pieno o prolungato già dall’infanzia spendono più tempo con maestre e assistenti che non con i genitori -, e fin dalla più tenera età insegna loro che essere attratti da persone di un altro sesso o dello stesso sesso non fa differenza, anzi una singola persona può essere diverse cose nella sua vita, si indossa il sesso così come si indossa un vestito. Vuoi mettere che bello poter scegliere tra tante opzioni diverse invece che essere costretto dalla nascita alla morte a un solo sesso, che ci troviamo addosso senza aver potuto neanche esprimere la propria opinione?
La realtà è che mentre siamo tutti attenti a spread e pensioni, nel frattempo va avanti un altro programma, altre riforme che incideranno maggiormente sul nostro futuro, anche rispetto alle scelte economiche. Anzi, avranno tra l'altro la conseguenza di minare alla radice ogni serio tentativo di far ripartire l’economia di questo paese. Perché la promozione delle unioni gay, la loro equiparazione al matrimonio, la riduzione dell’amore a sentimento, costituisce la strada per il definitivo disfacimento della famiglia, come l’esperienza dei paesi scandinavi ci insegna. Se alla radice della crisi economica c’è il bassissimo tasso di fertilità, se la strada della ripresa passa dal rafforzamento della famiglia, è ovvio che quanto vuole realizzare la Fornero va esattamente nella direzione opposta.
Sicuramente non sarà la Fornero a decidere da sola, pur essendo titolare di un ministero chiave. Per questo è urgente che gli altri ministri si pronuncino su questo punto, perché il silenzio in queste cose – si sa - vale come assenso, come dare il via libera, magari girandosi dall’altra parte facendo finta di non vedere. E in particolare è urgente che prendano posizione coloro che più dovrebbero avere familiarità con le nozioni di diritto naturale, visto che il Papa su questo punto sta intensificando i suoi interventi. A meno che non siano troppo distratti dai preparativi per creare il nuovo partito cristiano.

(Fonte: Riccardo Cascioli, La bussola quotidiana, 2 febbraio 2012)


«Sii sempre fiero di essere ebreo» lo esortò Pio XII

«Non dimenticarlo mai, sii sempre fiero di essere ebreo!». Così nell’autunno del 1941 Pio XII esorta a voce alta il ventunenne Howard “Heinz” Wisla — da poco sfuggito alla persecuzione nazifascista — nel corso di una drammatica udienza in Vaticano alla quale sono presenti anche diversi soldati tedeschi in uniforme. Il Pontefice, di fronte all’impaccio dell’interlocutore che cerca di esprimersi in stentato italiano, lo mette a suo agio, lo incoraggia a parlare in tedesco, ne ascolta il racconto. La storia del rifugiato è inquietante; riguarda molti prigionieri ebrei bisognosi di aiuto, dopo un naufragio nel mar Egeo e ora internati in campo di prigionia. Papa Pacelli non perde una parola. Conosce i fatti, loda il giovane e lo esorta a tornare il giorno dopo con una memoria scritta. Poi a voce più alta, in modo che tutti possano sentire, gli dice: «Figlio mio solo il Signore sa se tu sei più degno di altri uomini, ma credimi, tu sei altrettanto degno di ogni altro essere umano che vive su questa nostra terra! E ora, o mio amico ebreo, vai con la protezione del Signore, e non dimenticare mai, devi essere sempre fiero di essere un ebreo!».
Lo straordinario incontro è stato documentato da William Doino Jr. nell’articolo Pope Pius XII: Friend and Rescuer of Jews che appare nel numero di gennaio di «Inside the Vatican» (pp. 10-18), il magazine fondato e diretto da Robert Moynihan.
Wisla era stato tra gli scampati al naufragio della nave «Pentcho» affondata nel 1940 nel Mar Egeo durante il trasporto di cinquecento ebrei rifugiati dalla Slovacchia verso la Palestina. I naufraghi dopo undici durissimi giorni passati in un’isoletta disabitata, furono soccorsi da una nave italiana che però li deportò nel campo di concentramento di Rodi. Se non fosse stato per l’intervento di Pio XII la loro sorte sarebbe stata segnata. Nell’inverno tra il 1941 e il 1942 infatti, una nave della Croce Rossa raccolse i rifugiati affamati dal campo di concentramento di Rodi e li fece trasferire in terra italiana al campo Ferramonti di Tarsia presso Cosenza. Un campo atipico, com’è noto, tanto da essere stato definito qualche anno fa «un paradiso inaspettato» dal «Jerusalem Post» o «il più grande kibbutz del continente europeo» dallo storico Jonathan Steinberg dell’università di Cambridge.
Wisla, dopo molte peripezie, nella primavera del 1944 raggiunse la Palestina e poté ricostruire la vicenda nell’articolo A Papal Audience in Wartime pubblicato il 28 aprile 1944 su «The Palestine Post» (oggi «The Jerusalem Post») e firmato con lo pseudonimo «Refugee» (p. 6). Già nel 2006 «Inside the Vatican» ne aveva dato parziale notizia, e ora — come scrive Moynihan — abbiamo più ampia e corretta informazione sulla condotta e sul vero atteggiamento tenuto da Pio XII nei confronti del popolo ebraico.

(Fonte: Raffaele Alessandrin, L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2012)