mercoledì 9 agosto 2017

Abuso di Marcinelle

Lasciate stare l’indecente demagogia nel ricordo della tragedia di Marcinelle, dove morirono nel 1956 duecentosessantadue lavoratori in miniera, di cui la metà italiani, quasi tutti meridionali.
Lasciate stare, gufi, sinistreria e autorità, inclusi voi presidenti Mattarella e Boldrini, il paragone tra quei lavoratori morti sul lavoro e gli immigrati clandestini che arrivano a fiumi sulle nostre sponde.
Il paragone è totalmente infondato: quei minatori andarono in Belgio richiesti al nostro governo dalle autorità di Bruxelles e furono il frutto di un accordo di dieci anni prima tra i due paesi. Carbone per l’Italia a prezzi agevolati in cambio di 50mila lavoratori per le miniere del Belgio.
Uno scambio pattuito tra due paesi europei che necessitavano l’uno di energia e l’altro di braccia-lavoro.
Non clandestini ma richiesti, non disoccupati ma lavoratori dal primo giorno in cui arrivarono, non in fuga dal proprio paese ma costretti a lasciarlo per aiutare casa, non manovalanza disperata per la criminalità o business per Ong e centri di accoglienza, ma gente che partiva sapendo di finire in miniera, non per strada.
E di sbarcare su richiesta dello Stato-ospite, in un paese che era pur sempre figlio della stessa civiltà, della stessa religione, dello stesso universo di valori.
Entrambe sono tragedie, ma di tutt’altro tipo.
È una vergogna star lì appollaiati come sciacalli a cercare ogni occasione per rilanciare l’ideologia dell’accoglienza, con relativo traffico di imbarchi, sbarchi e con la prospettiva di lucrare qualcosa politicamente ed elettoralmente per aver detto e fatto “una cosa di sinistra”.
Persino a teatro, da noi, rifanno l’Eneide e attualizzano Enea come un immigrato ed esule per ragioni politiche: con la trascurabile differenza che Enea secondo il mito è un principe, proviene da una civiltà distrutta e viene a fondare una civiltà, Roma; mentre i poveri migranti sui gommoni si affidano agli scafisti e vengono qui per aggrapparsi a una civiltà, sfuggendo dalla barbarie e dalla miseria.
In tema d’immigrazione, la sinistra in Italia cerca di coprire tutte le posizioni e si presenta come un armadio quattrostagioni per tutti i gusti e i climi: cavalca un giorno l’accoglienza, un giorno i respingimenti, un altro dice che vuole aiutarli a casa loro, un altro ancora li carica sulle nostre spalle.
E adotta, da Crozza a Calabresi de la Repubblica, lo stesso ragionamento capzioso. Isola un episodio, una storia o un singolo sbarco per toccare l’emotività di ciascuno, per suggestionare con un’immagine anziché far ragionare.
Per poi dire: vedete che cento migranti in una città o centomila in una nazione sono una percentuale irrisoria. Ma certo che è irrisoria quella fetta, se si paragona un dato parziale e provvisorio a un dato generale e permanente, certo che non fa impressione se si isola il fotogramma; se invece vedi il film per intero, in tutte le sequenze e in prospettiva, se ti affacci davvero nella realtà, per le strade, per le piazze, nei mezzi pubblici, allora ti accorgi che si tratta di un fiume e non di una pozzanghera.
Prima che giungesse il freno alle Ong stavano sbarcando a decine di migliaia a settimana, i nostri centri d’accoglienza sono pieni. Il flusso non è una fallace “percezione” indotta dagli impresari della paura più di quanto sia una fallace percezione indotta dagli impresari del traffico di vite umane, l’impressione opposta, che sia una piccola, inerme minoranza di casi umani che possiamo agevolmente contenere nel nostro Grande Paese.
E ora si attaccano pure a quella tragedia di 61anni fa, al dolore di una storia, per cercare tramite una tragedia di dar corso a un’altra. Siete voi ad abusare del mercato delle emozioni, a speculare sui ricordi e sui lutti.
La tragedia di Marcinelle riemerse dopo anni di oblio grazie a Mirko Tremaglia che guidava i comitati per gli italiani all’estero. Fu una tragedia che strinse tutto il nostro popolo attorno a loro; ricordo da bambino un altro funerale di ragazzi che erano andati a lavorare dal mio paese nel nord Europa ed erano morti sul lavoro.
Giorni fa in piazza Maggiore a Bologna ho visto uno splendido documentario di Vittorio de Seta nei primi anni cinquanta sui lavoratori nelle miniere sarde e siciliane. Sembra preistoria, ma quei lavoratori umili, ignoranti, invecchiati precocemente, ti sembrano giganti rispetto a noi per i sacrifici immani che facevano per portare il pane a casa e mantenere le loro numerose famiglie, accontentandosi di poco.
E l’altra sera ho visto un film dedicato ai minatori in Cile, The 33, una storia vera, a lieto fine, di trentatrè minatori che furono salvati dopo un lungo calvario nelle viscere della terra che durò due mesi.
Storie di umanità, di pietà, di dedizione. Di quelle che rendono drammatico e non retorico l’articolo uno della costituzione, la repubblica fondata sul lavoro.
Non sporcate quelle storie e quelle memorie con le vostre prediche ideologiche, i vostri miserabili calcoli politici, le vostre insopportabili tirate finto-moralistiche.

(Fonte: Marcello Veneziani, Il Tempo, 9 agosto 2017)



La crisi del prete. Accettare “lo scarto”

L’attuale crisi del prete tocca l’identità e, di conseguenza, chiede di rivedere il modello ministeriale e pastorale, ritornando all’essenza della chiamata e all’essenziale del ministero. Siamo partiti da qui, solo per una breve fotografia e per iniziare a toccare qualche nervo scoperto.
Ritornerò sulla problematica, su alcuni dei suoi aspetti principali e sulla tipologia di prete che, almeno oggi, sembra entrare in crisi, invocando piste nuove e creative su come ripensare questa figura; tuttavia, proprio partendo dalla convinzione che prima di ogni “ricetta” pragmatica occorrono la riflessione e il pensiero – cosa che, peraltro, non convince molto neanche i preti! – è bene soffermarci sulla questione già accennata dell’identità presbiterale. Non si riuscirà ad affrontare la figura del prete se le possibili soluzioni, anzitutto, non partono dalla domanda sull’identità: chi è davvero il prete?
Quello “scarto” incolmabile
La domanda non vuole essere retorica né limitarsi ad offrire una qualche meditazione di taglio spirituale. Essa nasce da una semplice convinzione: sulla crisi in atto, vi sono motivi contingenti e contestuali, come i cambiamenti socio-culturali degli ultimi decenni, la crescente disaffezione nei confronti della fede cristiana, le nuove sfide rivolte all’annuncio della fede o il calo delle vocazioni che sovraccarica alcuni e aumenta l’età media del clero; tuttavia, essa coinvolge per così dire la “totalità dell’essere prete”, cioè quella sua identità profonda e radicale, che trascende ogni aspetto storico particolare.
Nessuno si spaventi se affermo che… la domanda sulla crisi del prete è strettamente “teologica”, cioè non potrà essere davvero affrontata se ci soffermeremo epidermicamente sull’analisi sociologica o su facili soluzioni di tipo pastorale.
C’è una parola che, più di tutte, ci rappresenta: scarto.
La avvertiamo dentro, quasi come un brivido, per la sua capacità di fotografare ciò che sperimentiamo ogni attimo sulla nostra pelle e ci rimanda, appunto, al contenuto teologico dell’identità presbiterale. Non si tratta di un semplice sentirsi “inadeguati” – anche un medico in parte lo è rispetto alla gravità di certe situazioni da prendere in cura, o un giudice rispetto a una decisione difficile – e né, tantomeno, dobbiamo scivolare in un certo moralismo depressivo che si fissa sulle fragilità e sul peccato. Saremo sempre dei preti peccatori.
Qui c’è molto di più: lo scarto è iscritto in modo costituzionale in ogni vocazione cristiana e, in generale, nell’esperienza di fede: Dio e l’uomo, Colui che chiama e il chiamato, il Maestro e il discepolo, il Vangelo e il cuore dell’uomo, non saranno mai sullo stesso piano. La rivelazione di Dio in Gesù Cristo abbatte i muri di separazione e colma tale distanza ma, tuttavia, ciò non significherà mai un annullamento della “differenza”. Tra Dio e noi essa continuerà ad esistere.
È Dio che invia e sostiene Mosé, che purifica le labbra di Isaia, che rassicura il giovane Geremia, che affida a un pescatore impulsivo la guida della Chiesa; tuttavia, ciò non avviene a prezzo di un “salto” della loro umanità, che di colpo cancellerebbe l’essere impuro, o giovane o impulsivo ma – come confesserà splendidamente san Paolo – proprio dentro le debolezze e le spine della carne.
Perciò, la questione dell’identità del prete ci rimanda alle origini della vocazione e a quella “differenza” che segnerà sempre uno scarto rispetto a Colui che ci ha chiamati e al compito affidatoci; si tratterà di restare sempre in cammino – mai arrivati e appagati – aperti a come il Signore, pur conservandoci in questo scarto talvolta difficile da portare nella carne, ci consolerà, ci rafforzerà e ci farà vedere, seppur in lontananza, “il paese dove scorrono latte e miele”.
Non siamo chiamati a fare “tutto”
Ogni volta che il ministero stesso ci colloca altroveci chiama e ci ridefinisce, ci invita a ricominciare sempre da capo, facendoci cambiare destinazioni pastorali e modelli precedentemente acquisiti, la nostra identità di preti cambia, si evolve, matura e si apre a paesaggi inediti. A patto che non ci chiudiamo rigidamente in uno schema precostituito e ci lasciamo – con grande fatica – interrogare dallo Spirito e dalla vita.
Dello scarto nella vita del prete ha scritto con grande efficacia Antonio Torresin, affermando che il ministero sacerdotale “è segnato da uno scarto, da un insuperabile contrasto che segna l’esperienza di essere discepoli, la missione e il mandato ricevuti. Meglio, che segna ogni chiamata, fino all’umano stesso. Non siamo all’altezza del compito assegnato, esso ci trascende in modo insuperabile, ci travolge e ci supera: è troppo per noi. Eppure è proprio ciò che meglio ci corrisponde, è ciò senza il quale la nostra umanità si perde. Questo eccesso che è il ministero è la nostra unica salvezza; non solo la via alla santità, ma la grazia per non perderci. (A. Torresin, «Il paradosso del ministero. Quando la missione ridefinisce il prete», Il Regno/Attualità 2/2010, 22).
Questo scarto è vissuto in modo diverso non solo da ciascun prete – cosa che rimane ovvia – ma anche a seconda delle fasi della vita sacerdotale, degli anni di messa, delle esperienze pastorali vissute nel tempo e, non da ultimo, dei contesti ecclesiali in cui siamo posti.
Senza voler negare alcune problematiche esistenti e inedite, che invocano un’ampia riflessione ecclesiale, credo che riconciliarci con questo scarto, accoglierlo e farselo amico nella vita sacerdotale di ogni giorno e, forse ancor prima, formarsi e prepararsi ad esso e a come conviverci, potrebbe essere un primo antidoto alla crisi e un punto di forza per la “tenuta” del prete.
Non è forse vero che, piccoli o grandi momenti di crisi nella nostra vita, dipendono talvolta dal non aver compreso che al prete non è richiesto “tutto”, che non è chiamato “salvare il mondo” (già fatto, ci ha pensato Nostro Signore), che non è e non dovrebbe essere il centro, la fonte e il culmine della comunità e dell’azione pastorale? Non sarà che molte frustrazioni, sofferenze e depressioni, dipendono anche dall’aver sopravvalutato noi stessi e fatto delle richieste eccessive (o almeno troppo numerose) al nostro ministero?

(Fonte: Francesco Cosentino, Settimana News, 14 luglio 2017)