giovedì 28 marzo 2019

Perché le élites odiano la famiglia?


La violenta, irrazionale, unanime levata di scudi contro il World Congress Family è stata davvero inspiegabile. Si può non condividere una manifestazione, ma basta non andarci. È facile. A me non è mai venuto in mente di farmi venire una crisi isterica per i gay pride, e neanche perché la presidente della Camera, un ministro o un senatore donna gli accordassero la loro compiacente benedizione.
L’Unar, organo della presidenza del consiglio dei ministri, finanziava dei circoli dove si facevano festini a base di sesso (che sia omosessuale o etero non cambia la sostanza, in questo caso), e per lungo tempo, fino a che la cosa non è stata tirata fuori dalle Iene, nessuno ha avuto niente da dire, però se il logo della Presidenza del Consiglio compare sulla locandina di Verona apriti cielo. Addirittura un convegno in cui si parla di famiglia, che schifo! Visto che in Italia le culle sono vuote, le scuole chiudono e ci stiamo estinguendo, magari proviamo a sentire che ha da dire il convegno, o ci affidiamo alla ricetta di Emma Bonino? Vogliamo ascoltare il ministro ungherese che ha risollevato la natalità nel suo paese, o per principio è inascoltabile? (Gli ungheresi hanno la lebbra?) Magari la loro ricetta è sbagliata, ma ascoltare potrebbe anche avere un senso, visto che ha funzionato.
E tutto ciò prima ancora che i relatori abbiano potuto dire una sola parola. Questo odio delle élites per la famiglia è davvero inspiegabile e anche poco lungimirante (l’estinzione non è una bella notizia per nessuno). Da tempo, prima dell’inizio del convegno (quasi) tutti i mezzi di comunicazione come un sol uomo hanno cominciato unanimi a gridare allo scandalo, ma senza circostanziare le accuse. Alcune poi erano false, e sono state oggetto di querela da parte degli organizzatori. Altre erano semplicemente balle, come quella della Cirinnà che in tv ha detto che sarebbe stato scandaloso che si permettesse di parlare a una come me che ha scritto Sposati e sii sottomessa, senza sapere che io non sono relatrice al Forum, e ovviamente senza minimamente immaginare neppure cosa significhi la parola sottomessa nel linguaggio paolino, che è il modo in cui io l’ho usata (un testo senza contesto è un pretesto, cit.). Ma mi rendo conto che è una pretesa esagerata aspettarsi che uno prima di commentare un libro lo legga addirittura. (Anche Calenda parla di spose sottomesse a Verona, vi prego, non lo deludete, venite tutte col capo chino, al guinzaglio del marito, col grembiule da cucina addosso, un mestolo, le ciabatte). Rimane il fatto che una donna che ha studiato legge, dopo avere esibito il cartello “Dio patria famiglia che vita de m…” (ma non è vilipendio?) si permette di dire che qualcuno, che peraltro non ha offeso nessuno, non può intervenire in qualche contesto pubblico.
Non sto scrivendo solo per me, che infatti non parlerò al convegno, ma per tutti i relatori i quali non hanno commesso reati, che io sappia, e che esprimeranno semplicemente delle opinioni, più o meno condivisibili. Magari cretine, non lo so, non è escluso, ma se togliessimo la parola a tutti i cretini il mondo sarebbe un luogo molto, molto silenzioso. Di solito nel mondo civile si fanno convegni, chi è interessato va, chi non lo è non va. Se uno dice cose intelligenti qualcuno applaude, sennò prende delle critiche. Questo nel mondo normale, dove si può sostenere di tutto, anche che la terra è piatta, mentre nel mondo delle élites se solo si parla di famiglia apriti cielo.
Poiché non si riesce a entrare nel merito – spiegando esattamente perché mai certe opinioni non dovrebbero essere espresse e sarebbero così scandalose – allora si passa al piano B, urlando accuse a caso come “medievali”, che è sempre meglio che “grasse”, ma “più che un’offesa è una dichiarazione di analfabetismo”, come ha detto Franco Cardini, aggiungendo fuffa a caso tipo “nel Medioevo si bruciavano le streghe” (casomai nel Rinascimento e dopo la Riforma protestante – esistono anche crimini non commessi prevalentemente da cattolici, incredibile – , ma non è che stai a guardare quei duecento anni in più o in meno; io comunque i miei amici Jacopo e Filippo a bruciare streghe non ce li vedo tantissimo).
Sono uscite dal cilindro altre fantasmagoriche accuse a caso, tipo che la gente del convegno vuole che le donne siano costrette a stare a casa, quando tutte le statistiche dicono che più le donne sono colte e occupate, più fanno figli, e quasi tutte le donne madri numerose che conosco hanno almeno una laurea, fanno lavori importanti oppure hanno scelto liberamente e orgogliosamente di stare a casa, se se lo sono potute permettere. Niente di più lontano dagli sfigati che dice Di Maio: gli sfigati sono quelli che si sono lasciati confondere dall’illusione della realizzazione personale e hanno rinunciato alla figata più grande di tutte, fare figli, o al massimo si sono accontentati di uno solo (ho in mente una carrellata di donne – perché soprattutto le donne poi ne soffrono, che lo ammettano o meno – davvero fregate dalla balla di un sogno da inseguire, e poi spesso un sogno poverino e da quattro soldi, letteralmente, per ritrovarsi a 40 anni completamente prive delle coordinate della realtà). Non mi riferisco a chi invece i figli non riesce ad averli, perché quello che conta è avere messo la propria vita in gioco, essersi resi disponibili ad accogliere, e non avere immolato tutto a inseguire delle cretinate.
Tra l’altro tutte le mamme numerose e superglamour che mi stanno venendo in mente adesso, non mi paiono esattamente sfigatissime, come Agnés Marion, antagonista di Macron, mamma di sei, bella e super intelligente. Più che a loro comunque io penso alle “mie” mamme glamour, quelle non famose ma di riferimento per me, ai lavori che fanno (in casa e/o fuori) tenendo in piedi delle vite da capolavoro, perché la maternità è un master, ti insegna a fare le cose meglio e con meno della metà del tempo delle altre: ci sono segreti che chi non è andata in conferenza stampa dopo essersi tirata il latte e aver pulito vomiti fino all’alba, lanciando figli all’asilo e correndo a 4’30” a km sui tacchi per arrivare prima del ministro e finire prima dell’inizio della recita dell’asilo non può neanche immaginare.
Sono stata a lungo indecisa se andare o no a Verona, dove ho preferito non essere fra i relatori proprio perché, pur essendo un evento di respiro mondiale, e non il primo, la presenza di alcuni politici italiani mi sembrava richiedere un endorsement che io non voglio fare: secondo me un giornalista, soprattutto del servizio pubblico, non dovrebbe. Si possono avere opinioni – le mie, sulla famiglia, la vita, le unioni civili sono abbastanza chiare, credo – ma sul come poi queste vengano declinate politicamente un giornalista serio deve tenere riservate le proprie idee. Ancora più mi preme il mio ruolo di passare parola sulle verità della Chiesa sull’uomo e sulla donna, e anche se qualche vescovo questo diritto se lo arroga, io penso che chi annuncia la Verità non possa dare indicazioni partitiche – ma solo generali, sui grandi temi di riferimento – per non allontanare chi ha un’altra sensibilità. La Chiesa deve dire ai credenti cosa è la vita, chi è l’uomo, dove puntare il mirino della nostra vita, ma sulle scelte ognuno si misura con il magistero e la propria coscienza.
Per quanto mi riguarda andare alla Marcia di Verona – sì, andrò a marciare ma non sarò fra i relatori – non è un endorsement al governo, ma è esattamente il contrario, cioè dire a chi sarà lì: guardate che per quanto mi riguarda il mio voto lo avrete se, al di là dei proclami, farete qualcosa per la famiglia, ma qualcosa di concreto, come abbassare drasticamente le tasse a chi ha figli, fino a portarle a zero a chi ne ha molti. Come ripristinare i fondi per i disabili. Come fare le leggi che diano obbligatoriamente il part time alle donne che lo vogliono. Come combattere l’utero in affitto e impedire che le anagrafi dicano bugie dichiarando padri o madri persone che non lo sono. Andare a marciare significa fare lobbying in modo trasparente e onesto, dire a chi ci governerà – che sia questo governo o il prossimo – che esiste un popolo che chiede cose di buon senso, e che non è rappresentato. Le élites non sanno niente delle esigenze reali, e infatti parlano di donne costrette a stare a casa da fantomatici maschi cattivi, quando le statistiche dicono che sono infinitamente di più le donne che vorrebbero più figli, più tempo per i figli, o almeno un più ragionevole life work balance, come si dice (che in soldoni è: non rischiare l’embolo ogni volta che c’è una ricerca di gruppo a casa tua e un interminabile appuntamento di lavoro, e poi tra te e il letto una lavatrice e una lavastoviglie e sei ciotole di pop corn lasciate dai giovani ricercatori).
Andare alla marcia dunque non è assolutamente firmare un assegno in bianco né a questo governo né a nessun partito, ma rappresentare la realtà, le famiglie che faticano a tenere insieme i tempi, a far bastare i soldi e che pagano tasse proprio come chi invece i soldi li usa per fare shopping, che non sono aiutate in nessun modo dallo Stato, neppure per pagare l’apparecchio per i denti, il corso di inglese, i musei: questo per me è andare a Verona e partecipare a tutte le occasioni in cui si scende in piazza – marcia per la vita, family day, sentinelle in piedi, e poi anche sit in per Asia Bibi, Charlie, Alfie, chiunque organizzi – secondo il principio per cui chi non è contro di noi è per noi. Che tutti quelli che hanno a cuore la vita e la famiglia, il luogo dove la vita nasce, si uniscano, e chiedano spiegazioni ai preti che dicono che la marcia delle famiglie “è una vergogna”, alla rete antirazzista per l’accoglienza che ha raccomandato agli albergatori di non accogliere i partecipanti, ai docenti universitari che hanno raccolto firme contro delle persone prima ancora che parlassero (come fecero anche alla Sapienza di Roma nel 2008 impedendo a Benedetto XVI di parlare).
Io penso che i cristiani non debbano pretendere di essere egemonici (ormai un pensiero velleitario, surreale, direi) ma che non possano certo neanche smettere di essere lievito, e di far fermentare la pasta: non faremmo il lievito se ci limitassimo a vivere nelle nostre case, nei nostri condomini, senza uscire fuori a testimoniare. Non importa se il clero sarà poco rappresentato, è giusto così, ai preti non è chiesto di marciare, ma a noi laici sì, è chiesto di agire sia con la testimonianza silenziosa che con la presenza incisiva, agendo per la nostra conversione personale e silenziosa del cuore, ma nel frattempo chiedendo misure concrete per l’economia e anche culturali – le leggi fanno mentalità.
Il male è sempre negli occhi di chi lo vede, io non lo vedo in questa marcia di amici che non accusano nessuno, ma chiedono misure di sostegno alla vita. Di certo non è uno spot elettorale, perché al prossimo voto manca tempo, e le famiglie non si faranno bastare le chiacchiere.

(Fonte: Costanza Miriano, Il Blog, 27 marzo 2019)
https://costanzamiriano.com/


Dall’adulterio all’omosessualità. Genesi e scopo della strategia del silenzio nella “Chiesa in uscita”


Abbiamo notato nei giorni scorsi che tra l’esortazione apostolica Amoris laetitia (marzo 2016) e il summit vaticano sugli abusi sessuali nella Chiesa (febbraio 2019) esiste un collegamento. Se Amoris laetitia non parla più dell’adulterio, il summit non ha parlato dell’omosessualità. Sembrano questioni distanti l’una dall’altra, ma sono unite dalla strategia adottata dalla Chiesa “in uscita” voluta da Francesco e annunciata già alcuni anni fa dal cardinale Kasper: la strategia del silenzio.  Se un problema si pone come ostacolo verso il tanto invocato “cambio di paradigma”, anziché affrontarlo di petto, esponendosi a critiche e discussioni, meglio ignorarlo. Del resto, lo stesso è successo con i dubia dei quattro cardinali e con le domande poste da monsignor Carlo Maria Viganò sul caso McCarrick: nessuna risposta. L’obiettivo? Lasciare che la questione sparisca da sé, così che se ne perda la memoria e sia possibile vivere come se non fosse mai esistita.
La tesi è sostenuta con ampia documentazione nel contributo che ho il piacere di pubblicare qui di seguito. L’autore, ben noto ai lettori di Duc in altum, è dom Giulio Meiattini, monaco benedettino dell’abbazia della Madonna della Scala a Noci e teologo. Si tratta dell’introduzione alla nuova edizione, ampliata, del libro Amoris laetitia? I sacramenti ridotti a morale, del quale ci occupammo un anno fa e che rimane testo decisivo per un’interpretazione non convenzionale di quei “processi” che secondo Francesco la Chiesa deve avviare.
Aldo Maria Valli

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Ciò su cui mi preme richiamare maggiormente l’attenzione, in questa presentazione, è il cambiamento di toni e di orientamento intervenuto nel dibattito e nella vita ecclesiale soprattutto a partire dalla pubblicazione della Littera apostolica (apparsa nell’ottobre 2017), con la quale Francesco ha dato l’interpretazione autentica delle ambiguità presenti nel cap. VIII dell’esortazione post-sinodale, ambiguità che avevano sollevato una quantità di discussioni. A partire da quella Littera, la situazione sembrerebbe essersi relativamente acquietata, nel senso che si è smesso di discutere su quale sia la vera interpretazione di Amoris laetitia (AL) sulle unioni “cosiddette irregolari”. Ma, acclarato questo aspetto, la situazione, già molto confusa, non è certo migliorata, anzi è ulteriormente degenerata. La relativa quiete, almeno apparente, nasconde infatti un disagio perdurante, fatto di silenzi, di pratiche contrastanti e di punti oscuri non risolti.
Il cambiamento di toni e di orientamenti non riguarda solo questioni inerenti la teologia e la pastorale del matrimonio, ma anche altri aspetti la cui valutazione, almeno sommaria, mi obbliga a uscire per un momento dalla teologia “pura” per occuparmi di fatti, cioè del quadro storico concreto in cui ci troviamo, e che bisogna cercare di capire teologicamente per comprendere meglio anche AL, e la sua connessione con altri campi della fede, della morale e della pastorale attualmente compromessi.
Il card. Kasper, poco prima che AL fosse pubblicata, aveva preannunciato che essa avrebbe rappresentato “il primo” di una serie di cambiamenti all’interno della Chiesa cattolica dopo ben 1700 anni. Ora, dopo tre anni dalla comparsa del documento pontificio, è forse possibile cominciare a capire un po’ meglio il senso delle parole del cardinale, a quanto pare già ben informato in anticipo del “cambiamento di paradigma” programmato.
Il primo cambiamento, che a me ha molto impressionato e che non sembra sia stato colto nella sua effettiva gravità (perché dissimulato), è la completa scomparsa, per non dire il bando, della parola “adulterio”. Essa è del tutto assente nei due Instrumenta laboris previ ai sinodi del 2014 e 2015, assente nelle rispettive relazioni intermedie (relationes post-disceptationem), mai usata dai due documenti finali sottoposti all’approvazione dei padri sinodali, e infine definitivamente seppellita da AL. Non è un dettaglio di poco conto. L’insegnamento della Chiesa, dal tempo dei Padri, ha sempre fatto immancabile riferimento ai testi evangelici e neotestamentari relativi all’adulterio come parte essenziale del suo insegnamento sul matrimonio indissolubile, con le relative conseguenze sulla prassi pastorale e la disciplina canonica. Nei menzionati documenti presinodali, sinodali e post-sinodali, invece, questi passi non vengono mai citati espressamente, a parte una volta un paio di frammenti di Mt 19,8-9, da cui è però censurato proprio il passaggio che fa appunto esplicito riferimento all’adulterio.
Si sa che quando si vuol emarginare o eliminare una qualche verità – lo si fa anche con le persone – non c’è bisogno di contraddirla apertamente, anzi questa sarebbe la strategia peggiore, perché susciterebbe aperte reazioni e richiamerebbe l’attenzione. Molto meglio, invece, passarla sotto silenzio, non parlarne più, confinarla fra le anticaglie in soffitta o in cantina, e nel giro di qualche tempo di essa si perderà del tutto memoria e si vivrà come se più non fosse. Nei due sinodi e in AL, in effetti, il peccato di adulterio è stato cancellato non con un colpo di spugna (sarebbe stato troppo plateale), bensì con un colpo di silenzio: semplicemente non se ne parla più. E di tutti quei passi neotestamentari, soprattutto evangelici, che ne parlano apertamente che ne è stato? Di essi figura solo uno sbiadito rimando fra parentesi preceduto dalla sigla cfr. (cfr. Mt 5,32; 19,8-9; Mc 10,1-12).
Bisogna avere l’onestà di dirlo e di riconoscerlo: già da tempo nella Chiesa si adopera molto raramente la parola “adulterio” nella predicazione o nella catechesi. Adesso poi, in ossequio al cap. VIII di AL, si preferisce usare il termine neutro e innocuo di “fragilità”, che va a rimpiazzare nella maggior parte dei casi anche la stessa parola “peccato”. L’infedeltà coniugale occasionale o le nuove unioni stabili successive all’unico matrimonio celebrato davanti a Dio, non sono più designate col termine appropriato con cui Gesù e la tradizione cristiana le definisce: adulterio. E sono veramente una minoranza sparuta coloro che ancora ricordano che in epoca patristica l’adulterio era considerato uno dei peccati più gravi, accostato all’apostasia e all’omicidio.
Mi si dirà che esagero. Ma vorrei invitare il benevolo lettore a leggere, prima di esprimere il suo giudizio, questa riflessione, ripresa da fonte di lingua inglese sconosciuta, e divulgata senza commenti dal prof. Massimo Faggioli in un suo tweet del 14 settembre 2018. Una riflessione che ci invita a guardare la questione all’interno del paesaggio di cui fa parte.
«Per i non cattolici, questo può sembrare un affare non grosso, ma è la comunione per i divorziati risposati il primo passo teologico che elimina il concetto di adulterio. Se si compie tale cambiamento, la Chiesa cattolica in seguito sarà obbligata a cambiare tutto il suo insegnamento sul matrimonio, la sessualità e la famiglia: divorzio, sesso prima e fuori del matrimonio saranno riconosciuti dalla Chiesa. E così sarebbe – punto cruciale – l’omosessualità e il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Ora forse a voi piacciono queste cose, o forse no. Alcune confessioni cristiane le accettano. Ma la Chiesa cattolica non ha mai dato la sua approvazione a nessuna di esse e l’intero progetto rivoluzionario di cambiare l’insegnamento della Chiesa su famiglia e sessualità comincia necessariamente dalla comunione per i divorziati risposati»[1].
Questa osservazione, che gli ottimisti riterranno eccessiva, non è però una semplice fantasticheria. Basti considerare non solo che nella pratica è già così, senza che i vescovi mostrino di preoccuparsene molto, ma anche il significativo fatto che nella relazione intermedia, letta dal card. Erdö durante il sinodo del 2014, affiorarono espressioni chiaramente tese a “costruire ponti” verso l’omosessualità. Si poteva leggere ai nn. 50-52 di quella relazione:
«50. Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana [domanda: in quanto persone, e su questo non c’è dubbio e vale per tutti senza bisogno di ripeterlo, o in quanto omosessuali?]: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio? [cosa significa questo? Accettare e accogliere la loro omosessualità praticata? Questo comprometterebbe sicuramente la dottrina su famiglia e matrimonio].
51. La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale: si presenta quindi come un’importante sfida educativa. La Chiesa peraltro afferma che le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna [osservazione: non si tratta solo della non equiparazione, ma della loro liceità, come già osservato, ma sul punto si tace!]. Non è nemmeno accettabile che si vogliano esercitare pressioni sull’atteggiamento dei pastori o che organismi internazionali condizionino aiuti finanziari all’introduzione di normative ispirate all’ideologia del gender [invece di preoccuparsi delle pressioni esterne, sarebbe più importante pensare a quelle interne].
52. Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali [si noti la vaghezza dell’espressione: non si negano le problematiche morali] si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners [questo apprezzamento dell’appoggio prezioso significa che il sostegno reciproco rende la relazione omosessuale virtuosa? E la vaga espressione “problematiche morali” evita di dire che dal punto di vista antropologico l’esercizio dell’omossessualità è semplicemente una deformità]. Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli [cosa si vuol dire: che è possibile che un bambino sia adottato e cresciuto da due “genitori” dello stesso sesso, se questo giova al suo bene? La frase può essere interpretata in ogni senso]».
Queste espressioni, soprattutto quelle da me evidenziate in corsivo e commentate fra parentesi, suscitarono consistenti e comprensibili reazioni nell’assemblea sinodale, tanto che nel sinodo del 2015, e infine in AL, si ripiegò su poche frasi molto più “sobrie” e non problematiche. Ma è chiaro che le parole usate in questi paragrafi rappresentavano già un tentativo di legittimazione indiretta e morbida, neanche troppo velata, dell’omosessualità e anche dell’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali. Un sintomo preoccupante di quanto prima accennato: il legame che realmente esiste (almeno sul piano oggettivo) fra cancellazione linguistica del peccato di adulterio (mezzo) e tentativo di legittimazione dell’omosessualità (scopo).
Nel sinodo sui giovani l’argomento è tornato di nuovo a galla. Il documento finale tocca la questione soprattutto nel n. 150, la cui formulazione ha ottenuto, non a caso, il più alto numero di non placet (65 per la precisione, più di un quarto dei votanti). Alla prima lettura sembra trattarsi di un paragrafo in fondo innocuo, a parte qualche sfumatura dubbia. Si parla di rispetto delle persone omosessuali, di iniziative pastorali per la loro integrazione, ecc. È chiaro che nessuno vorrebbe discriminare queste persone e mancare loro di rispetto. Ma quello che colpisce, in queste frasi, ancora una volta non è tanto quello che è detto, bensì il silenzio. Il silenzio intorno alla dottrina comune e di sempre, secondo la quale l’inclinazione omosessuale rappresenta un disordine e l’assecondarla un peccato. Il silenzio, come si vede, sembra diventato un metodo, meglio una tattica, per ammorbidire le coscienze e le intelligenze. Tacendo si apre la strada all’oblio.
Alla luce di tutti questi elementi, l’osservazione di fonte ignota riportata dal prof. Faggioli nel suo tweet non è peregrina, ma appare in tutta la sua coerenza: se le unioni fra uomo e donna «cosiddette irregolari» (come le chiama AL), e dunque da non considerarsi propriamente tali, non sono più chiamate “adulterio” (anzi, neppure rappresentano delle vere irregolarità), ma sono solo “fragilità” o “imperfezioni” rispetto all’ideale coniugale evangelico (sempre secondo il linguaggio usato da AL), viene meno il primo ostacolo per un riconoscimento dell’uso della sessualità al di fuori del matrimonio, almeno come non condannabile. Se a questo aggiungiamo la collaterale pastorale del laissez-faire (come l’affidamento di incarichi pastorali a omosessuali pubblicamente conviventi, ecc.), ecco che la strada a un’ammissione tacita e di fatto delle coppie dello stesso sesso al di fuori del matrimonio, anche se «non equiparabili al matrimonio fra uomo e donna» (cfr. relazione Erdö), è almeno socchiusa. «Non equiparabili» può significare, infatti, che avrebbero semplicemente un valore minore, costituirebbero un esercizio della sessualità certo non pieno, ma comunque possibile e ammissibile. D’altra parte è esattamente questo che già si scrive e si insegna esplicitamente in certi manuali di teologia morale, senza colpo ferire e senza bisogno di aspettare sinodi o esortazioni post-sinodali[2]. E, soprattutto, è quello che già si fa da tempo, in varie parti del mondo, quando preti e vescovi “riconoscono” in pratica, anche col semplice silenzio (di nuovo il silenzio!), le convivenze omosessuali, perfino le benedicono, auspicano la loro regolamentazione civile ed evitano accuratamente di chiamarle per quello che sono: un disordine morale, un peccato che richiede pentimento, conversione e perdono. Perché il sinodo sui giovani, che ha voluto parlare a tutti i costi dell’omosessualità, non ha richiamato questo tipo di abusi perpetrati sulla dottrina e sulla morale, scritta nero su bianco nella Bibbia e nei testi magisteriali, oltre che quelli avvenuti sui giovani stessi? Perché, quando si distorce la verità, non si è più in grado di denunciare nessun’altra distorsione, ma si è al rimorchio dei fatti compiuti.
Se qualcuno ancora avesse dei dubbi su questa valutazione, basterebbe che rivolgesse l’attenzione alla triste realtà dei reati a sfondo sessuale che vedono incriminati sacerdoti, religiosi, vescovi e cardinali, soprattutto nel continente americano. Nonostante sia stato dimostrato da indagini attendibili che la maggior parte dei colpevoli siano non tanto “pedofili” in senso proprio (abusatori di minori in età pre-puberale), ma omosessuali che intrattengono relazioni sia con adulti sia con adolescenti, si continua a usare l’etichetta della pedofilia (o quella del tutto inappropriata del “clericalismo”), per stigmatizzare il fenomeno, ma guardandosi bene dall’additare e denunciare il peccato di omosessualità. Ancora una volta il silenzio!
Il lettore volenteroso faccia un piccolo esperimento. Legga per intero il dossier pubblicato sul periodico Il Regno Documenti n. 15 del 2018, in cui è raccolta un’ampia documentazione sul problema “abusi” nel clero statunitense: una lettera di Francesco, una dichiarazione di numerosi laici cattolici, un comunicato e due dichiarazione del card. Di Nardo, presidente della Conferenza episcopale americana, il comunicato del Consiglio nazionale per il riesame, tutti risalenti all’agosto 2018. In mezzo a tanto sdegno o dispiacere o tristezza per quanto accaduto, in tutte queste pagine il termine “omosessualità” e affini non ricorre neppure una volta. Si parla solo di “abusi”, di “bambini” abusati, e via dicendo. Ma dei seminaristi maggiorenni e dei sacerdoti che hanno intrattenuto, anche consensualmente, rapporti omosessuali, in tutte quelle pagine neppure l’ombra. Il reato è condannato (in omaggio alla legge civile da compiacere, sia pur in ritardo), ma il peccato è ancora una volta taciuto. Dunque, o la paura dell’opinione pubblica o la mentalità pagana dell’omosessualismo o forse l’ipocrisia più incallita sono penetrate a tutti i livelli e non risparmiano neppure coloro che denunciano, indagano e che ancora dicono di scandalizzarsi. Di cosa? Della pedofilia, naturalmente, ma non dell’omosessualità o della sua ideologia.
Il lettore si domanderà: perché scrivere queste cose, d’altra parte abbastanza note, nella presentazione di un libro dedicato ad AL? Perché, come già detto, fra il declassamento dell’infedeltà coniugale e delle unioni illegittime fra uomo e donna da peccato di adulterio a semplice imperfezione o fragilità o “cosiddette irregolarità”, da una parte, e l’inizio di una sottile legittimazione delle relazioni omosessuali (soprattutto se “fedeli”!), dall’altra, esiste un chiaro rapporto di consequenzialità[3]. E di fatto, all’osservatore attento non sfuggirà che il dibattito intraecclesiale si è ormai insensibilmente (anzi: silenziosamente) spostato rispetto al tempo dei due sinodi sulla famiglia: adesso la questione di frontiera non è più la comunione sacramentale a chi vive in situazioni irregolari – come ho detto il dibattito in merito si è praticamente assopito – ma si tratta del riconoscimento e dell’accoglienza della comunità Lgbt (formula che non a caso ha fatto la sua comparsa nell’Instrumentum laboris per l’ultimo sinodo dedicato ai giovani) all’interno della Chiesa. Allora si possono capire meglio le parole del card. Kasper alla vigilia della pubblicazione di AL: essa sarebbe stata (o vorrebbe essere) solo il primo di una serie di cambiamenti epocali nella storia della Chiesa.
Oltre ai cambiamenti qui accennati, ce ne sarebbero altri, già incipienti e ben visibili. Si capirà, leggendo il seguito del libro, che il ruolo centrale che l’enciclica wojtyliana Veritatis splendor riservava al martirio come attestazione paradigmatica dell’assolutezza di certi imperativi morali, è scomparso completamente dall’orizzonte della nuova pastorale. Anche qui si adotta il silenzio per seppellire il martirio come forma suprema della vita cristiana realizzata, come a partire dai Padri della Chiesa la grande tradizione non ha mai smesso di ripetere. L’accordo dai contenuti segreti fra il Vaticano e la Cina comunista, stipulato nel settembre 2018, legittimando la chiesa patriottica (sotto il controllo del regime totalitario) e dando al governo cinese la possibilità di nomina dei vescovi (con una formale e improbabile libertà di conferma o meno da parte di Roma), ha di fatto squalificato la martyria dei cattolici cinesi fedeli a Roma, che hanno sofferto per decenni e soffrono ancora per la libertà della Chiesa, mettendoli in concreto dalla parte del torto e premiando vescovi e sacerdoti asserviti al governo ateo, disumano e comunista di quel paese sfortunato. Anche davanti ai martiri si assiste al metodo del cover up: meglio tacerne! D’altra parte, il martirio era già stato taciuto, purtroppo, dal Vaticano II, che nelle centinaia di pagine dei suoi lunghi documenti, non cita la parola “martirio” che poche volte, sempre di passaggio e marginalmente. Non so se questo sia definibile come capacità di lettura dei segni dei tempi, visto che l’assise conciliare si teneva mentre decine e decine di milioni di cattolici e di altri cristiani, in tutto il mondo, erano imprigionati, uccisi e perseguitati per la loro fede. I vescovi riuniti a Roma se ne erano dimenticati? O erano forse troppo concentrati sul dialogo col mondo liberal-democratico occidentale? Se questo fosse vero, essi non sarebbero stati molto lungimiranti, non avvedendosi che in questo mondo liberal-democratico, con cui si cercava il dialogo, si annidava da tempo la dittatura del relativismo. Il grande silenzio del Vaticano II sulla Chiesa del silenzio è un mistero che qualcuno prima o poi dovrà indagare seriamente[4].
Ma non voglio scivolare nel ruolo dello storico, per quanto importante sia, e abbandono subito questo argomento per segnalare un altro silenzio di AL, col quale giungiamo alla chiusura del cerchio. Il silenzio relativo alla dottrina di Humanae vitae sul rapporto fra sessualità e procreazione. L’enciclica montiniana è sì richiamata da AL (cf nn. 68; 82), auspicando una sua riscoperta (?), ma di fatto il nucleo vero e più importante del suo insegnamento non viene neppure sfiorato e la contraccezione viene richiamata esplicitamente come un male, solo quando parla della sua imposizione o del problema della denatalità (cf n. 42). Per finire, i metodi naturali di controllo delle nascite non vengono richiamati come l’unica possibilità percorribile, ma sono oggetto di un semplice «incoraggiamento» (n. 222), lasciando così intendere (sempre silenziosamente!) che altri metodi non sono necessariamente esclusi.
Per l’ennesima volta, il non dire prende il posto del dire, avvolgendo così questioni capitali dell’insegnamento morale cattolico all’interno di una nebulosa vaghezza. C’è bisogno di ricordare, a questo punto, che la dottrina di Humanae vitae sull’inseparabilità fra aspetto unitivo e apertura alla fecondità dell’atto sessuale, dichiarando non lecita la contraccezione, esclude per ciò stesso l’omosessualità? E che, glissando su questa dottrina, viene meno un altro impedimento, quello più forte, all’ammissione delle relazioni omosessuali, nelle quali è impedita ogni apertura alla procreazione? Cancellato linguisticamente il peccato di adulterio con la pastorale dell’integrazione e taciuto il nucleo della dottrina di Humanae vitae, di fatto non si vede perché la sessualità non possa essere esercitata al di fuori del matrimonio legittimo e senza un riferimento e un’apertura alla procreazione. Considerando che l’omosessualità non urta con questi nuovi e larghi parametri, la porta è aperta anche ad essa. O, se si amano le nuances, non è chiusa! Naturalmente non si dice direttamente che l’esercizio dell’omosessualità sia moralmente lecito. E’ sufficiente affossare silenziosamente alcuni ostacoli che lo impediscono. A varcare la porta, ormai incustodita, ci penseranno altri[5].
La nostra digressione, come ho già detto, ci porta sui confini fra teologia  e interpretazioni dei fatti. Qualcuno potrebbe dire che questa interpretazione dei fatti è opinabile. Forse! Sicuramente non è infondata. In ogni caso, questo inquadramento può servire al lettore come cornice da tener presente nella lettura di questo libro. La nuova disciplina sulla comunione sacramentale ai separati/divorziati e risposati/conviventi inaugurata da AL, se considerata in questo panorama generale, appare purtroppo come una premessa che apre ad altri passi, ancora più inquietanti. Che si tratti di sospetti ingiustificati? Sono il primo ad augurarmelo, ma non ne sono convinto. A prescindere dalle imperscrutabili intenzioni soggettive, i testi e i fatti seguono una loro processualità non priva di intrinseca coerenza. Per smentire la mia ricostruzione basterebbero poche frasi chiare da parte di chi nella Chiesa è chiamato a insegnare, non solo in qualche sporadica intervista, ma con un atto autorevole. Non che l’insegnamento autorevole in materia non esista, ma perché esso è messo in discussione attraverso silenzi e omissioni sempre più frequenti.
Per tutti questi motivi, a mio avviso, è necessario che i punti oscuri e obiettivamente deboli di AL vengano ancora posti sotto la lente, dibattuti, discussi e problematizzati. Insomma, non taciuti! Perché il silenzio da cui sono stati sommersi i cinque dubia posti dai quattro cardinali a Francesco, non è un fatto episodico o isolato, come ho cercato di mostrare brevemente, ma ha tutta l’apparenza di una tattica di cui sospettare e della quale ogni cattolico degno di questo nome dovrebbe stare bene attento a non rendersi complice. Accettare il silenzio di e su AL e la sua improbabile teologia, vorrebbe dire sottovalutare gli effetti incipienti appena indicati. E se questo metodo continuasse ad affermarsi anche su altri fronti, il danno per la verità e per la Chiesa sarebbe enorme. Tutti ne pagheremmo le conseguenze, anzi le stiamo già pagando.
Anche per questo il presente libro viene riedito. Perché tacere sulle “fragilità” di AL significa esporsi ad una serie di conseguenze ad essa connesse. E perché l’autore di queste pagine desidera che, quando tutti i finti ponti costruiti a basso costo e col cemento impoverito dalla mancanza di teologia e di pastorale, ma edificati sui pilastri della “politica”, crolleranno tra grandi nuvole di polvere – il ponte Morandi è triste monito –, nessuno possa annoverare, neppure lontanamente, il suo nome tra coloro che sapevano, vedevano, e hanno taciuto.

[2] Cfr. G. Piana, In novità di vita. Vol. II: Morale della persona e della vita, Cittadella, Assisi 2014, 167-180.
[3] Rimando a un mio contributo su La Nuova Bussola Quotidiana: http://sostienici.lanuovabq.it/it/sessualita-le-parole-in-liberta-di-avvenire.
[4] Su questo aspetto rimando ad alcune pagine del mio studio: La preparazione “teologale” al Vaticano II, in F. Neri (a cura di), Il Concilio Vaticano II e la teologia. Pensare la fede di un popolo in cammino (Atti del II Convegno della Facoltà Teologica Pugliese), Edizioni Levante, Bari 2015, 55-77.
[5] Solo a titolo esemplificativo. In una recente intervista al cardinal Cupich, gli è stato chiesto: «Come lei probabilmente saprà, il vescovo di Springfield, Illinois, Thomas Parprocki, ha decretato che le persone che sono parte di un’unione omosessuale non dovrebbero ricevere la comunione o riti funebri religiosi. Quale è la sua reazione a questo?». Al che il cardinale Cupich ha risposto: «Bene, ci hanno già chiesto qualcosa su questo punto e abbiamo risposto che quella non è la nostra politica e noi, come abitudine, non commentiamo la politica delle altre diocesi». Reperibile in: http://www.lanuovabq.it/it/il-vescovo-cupich-promuove-la-politica-catto-gay [accesso del 23.11.2018]. Interessante cogliere il tipo di linguaggio qui usato: non si tratta di dottrina né di teologia, neppure di morale o di pastorale, neanche – extrema ratio – di diritto canonico. Il buon cardinale non sa far altro riferimento che alla “politica”. Qui i commenti potrebbero correre come fiumi. Che li faccia liberamente il lettore intelligente.
Dom Giulio Meiattini, OSB

by Aldo Maria Valli 

martedì 5 marzo 2019

Lilli Gruber abortista tra insulti e fake news


Nella rubrica che tiene sul magazine “Sette”, Lilli Gruber lancia un attacco contro la Nuova BQ, accusata di diffondere false notizie riguardo ai progetti di legge abortisti negli Usa. Ma a dire falsità è lei che, tra l'altro, mente anche sull'applicazione della Legge 194 in Italia.

Non leggo mai Sette, il magazine del Corriere della Sera, ma un nostro lettore ci ha segnalato che sull’ultimo numero, datato 28 febbraio, c’è qualcosa che ci riguarda direttamente. Nella sua rubrica settimanale, Lilli Gruber risponde a un lettore che cita l’articolo de La Nuova Bussola Quotidiana riguardante dei progetti di legge in diversi stati americani che promuovono l’aborto fino al nono mese e giungono fino all’infanticidio.
Il lettore è giustamente scandalizzato, ma la risposta della Lilli nazionale, decisamente inacidita, è sprezzante nei suoi e nei nostri confronti: ci accusa sostanzialmente di aver inventato la notizia, di porre in essere l’ennesimo tentativo di imporre alle donne quello che vogliono gli uomini e infine, neanche fosse la reincarnazione di Adele Faccio, rivendica le lotte per il diritto all’aborto che sarebbe minacciato dai medici obiettori.
Dopo Enrico Mentana, anche Lilli Gruber dunque: è triste constatare come le vecchie glorie del giornalismo italiano ricorrano a banali trucchetti per salvare la loro ideologia abortista. Quando non hanno più ragioni lanciano l’allarme fake news sperando così di mettere a tacere l’avversario.  Ma ciò che sta avvenendo in diversi stati americani non rientra affatto nelle fake news, è una tragica realtà, tanto che lo stesso presidente Donald Trump si è soffermato con forza su questo tema nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione.
Nell’articolo della Nuova BQ incriminato, non solo si descrive precisamente la proposta di legge HB-2491 presentata dalla democratica Kathy Tran nel parlamento della Virginia; c’è anche il video in cui la stessa Tran spiega che sì, effettivamente, il suo disegno di legge consente di abortire fino al momento immediatamente precedente la nascita. Non solo, il governatore della Virginia, Ralph Northam, ha ulteriormente spiegato che lo stesso disegno di legge permette di rifiutare di rianimare un bambino nato vivo dopo un aborto fallito: chiamasi infanticidio.
Se la signora Gruber dedicasse più tempo a verificare le notizie invece di affibbiare comode etichette a quelli che considera “nemici”, ne guadagnerebbe sicuramente in credibilità e serietà professionale.
Peraltro, tutta impegnata a rispolverare i vecchi slogan degli anni ’70 – “Il corpo è mio e lo gestisco io” – è proprio lei a lanciare fake news sullo stato della Legge 194 in Italia. Secondo la Gruber infatti, la legge che in Italia ha legalizzato l’aborto, «troppo spesso» non viene applicata «perché non ci si preoccupa di garantire il servizio»; con stangatina di rito ai medici obiettori.
Ma la relazione sulla Legge 194 presentata recentemente in Parlamento e riferita all’anno 2017 racconta tutta un’altra storia: il servizio di Interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è più che sufficiente su tutto il territorio nazionale. E questo vale anzitutto per il numero di strutture: basti pensare che sebbene il numero di aborti volontari ammonti al 17.6% rispetto alle nascite, «il numero di punti IVG è pari all’87,8% di quello dei punti nascita».
Stesso discorso per i medici non obiettori, che risultano più che sufficienti a coprire le richieste su tutto il territorio nazionale. Il carico di lavoro per i medici non obiettori è mediamente di 1,2 aborti praticati alla settimana, con variazioni dallo 0,2 della Valle d’Aosta all’8,6 del Molise. Non solo non parliamo di carichi massacranti ma i medici che praticano aborti hanno tutto il tempo di dedicarsi ad altre attività sanitarie e addirittura ci sono diversi medici non obiettori di cui non c’è neanche bisogno per le IVG.
Ah, povera Lilli, che triste declino….

(Fonte: Ricardo Cascioli, LNBQ, 5 marzo 2019)
http://lanuovabq.it/it/lilli-gruber-abortista-tra-insulti-e-fake-news?fbclid=IwAR290RAJjyCsvlvecLKFlkAFJ6gG1ivk1rAi6Kvy3g8hw-dYKfa9M2NHJDc#.XH5DisS9CwI.facebook