giovedì 27 maggio 2010

In tv c'è una pubblicità pro-aborto che si ispira ad Adolf Hitler

Ieri sera alle 22.10, per la prima volta nel Regno Unito, è andata in onda un’allusiva reclame abortista sulla rete televisiva Channel 4. L’occasione ghiotta è stata il debutto di una nuova trasmissione di gioco a premi, “The Million Pound Drop”, condotta dalla nota presentatrice Davina MacCall, destinata a far salire l’indice di ascolto alle stelle.
Con una cinica e astuta operazione di marketing, la potente lobby abortista Marie Stopes International (MSI) ha colto al volto l’opportunità di farsi pubblicità, approfittando dell’audience elevata e con il pretesto di «aiutare le donne a compiere una scelta più consapevole circa la propria gravidanza e salute sessuale».
Così, tra un intervallo e l’altro della seguitissima trasmissione, si è reclamizzato l’aborto come fosse un normale detersivo. Solo che al posto di un fustino, l’immagine che è andata in onda era quella di una ragazza dallo sguardo preoccupato, ferma alla fermata dell’autobus, sulla quale campeggiava la scritta «Jenny Evans è in ritardo». Allusione, di pessimo gusto, al ciclo mestruale. Seguiva la scena, in pieno stile politically correct, di una donna frettolosa con due bimbi piccoli, accanto alla scritta «Katty Simons è in ritardo», e poi di una solitaria ragazza di colore seduta al bar, accompagnata dalla scritta «Shareen Butler è in ritardo». Seguivano, infine, i riferimenti per contattare telefonicamente o via e-mail MSI, mentre una voce fuori campo spiegava: «Se hai un ritardo mestruale potresti essere in cinta, e se non sei sicura di cosa fare in caso di gravidanza, Maries Stopes International ti può aiutare». Tipico esempio di pubblicità ingannevole, dato che MSI non dà nessun altro “aiuto” se non quello di praticare l’interruzione di gravidanza, e per di più (circostanza occultata nello spot) a pagamento.
Per comprendere, del resto, le reali intenzioni dei promotori, è sufficiente leggere il titolo del comunicato stampa che annunciava l’iniziativa sul sito ufficiale di MSI: «Per la prima volta assoluta in Gran Bretagna una pubblicità televisiva sugli “abortion services”».
Questa vicenda impone alcune riflessioni. La prima di carattere legale. È interessante, infatti, capire come sia stato aggirato il divieto di pubblicità commerciale per le cliniche abortive, espressamente previsto dal codice della pubblicità (advertising code). Il Broadcast Committee of Advertising Practice (BCAP), l’ente che si occupa della materia, in questo caso ha stabilito che il termine “commerciale” possa escludere l’applicazione del divieto alle organizzazioni non profit. Ciò significa, secondo il BCAP, che la stessa natura giuridica di Marie Stopes International, formalmente una fondazione senza scopo di lucro, la esclude dal divieto, nonostante il fatto che essa effettui anche servizi privati a pagamento. È grazie a questa generosa interpretazione benevola delle norme sulla pubblicità da parte del BCAP, che ieri sera è potuta andare in onda la reclame che abbiamo visto. Interpretazione tanto benevola, quanto decisamente forzata.
Per capire, infatti, l’esatta natura “non profit” di Marie Stopes International, basta considerare alcuni dati. I “volontari” dell’aborto pretendono ben 80 sterline per una consultazione telefonica. La cifra, ovviamente, aumenta in caso di consulto di persona. Inutile ricordare, peraltro, che tutte le consultazioni fatte dalle associazioni pro-life sono, invece, assolutamente gratuite.
I prezzi di MSI arrivano anche a 1.720 sterline per un aborto da eseguirsi tra le 19 e le 24 settimane. Gli ultimi dati ufficiali di bilancio relativi al 2008 indicano che l’organizzazione abortista riceve circa 100.000.000 di sterline l’anno, molte delle quali (circa 30 milioni) attraverso fondi pubblici, a titolo di rimborso per «servizi sanitari in campo sessuale e riproduttivo». Marie Stopes International pratica circa 65.000 aborti l’anno, più o meno un terzo di tutti gli aborti realizzati nell’Inghilterra e nel Galles, con un giro d’affari decisamente significativo.
Mi hanno colpito anche i numeri relativi alle retribuzioni degli operatori di MSI. Ben ventidue di loro percepiscono uno stipendio superiore a 60.000 sterline l’anno (lo stipendio medio nel Regno Unito si aggira attorno alle 25.000 sterline), mentre un dirigente arriva a prendere persino 210.000 sterline l’anno. Niente male davvero per una Charity!
La seconda riflessione cui ci induce l’episodio di ieri sera è relativa all’opportunità di una simile reclame. Bisogna innanzitutto partire dal dato statistico secondo cui in Gran Bretagna una gravidanza su cinque si conclude con un aborto. È difficile, pertanto, immaginare che le donne siano completamente all’oscuro in materia, e che sia necessaria un’adeguata opera di informazione. Il numero impressionante di 200.000 aborti l’anno dovrebbe, semmai, porre un problema contrario, ovvero quello di un’opportuna informazione circa le possibili alternative all’interruzione della gravidanza.
Per questo mi è apparsa davvero insopportabile la faccia di bronzo di Julie Douglas, direttore Marketing (già questa carica la dice lunga sulla natura non profit) della Marie Stopes International, quando ha dichiarato che «nonostante il fatto che una donna su tre nel Regno Unito abbia avuto almeno un aborto nella propria vita, il tema non è ancora oggetto di un’aperta ed onesta discussione».
La pubblicità di ieri sera, a prescindere dal cinismo utilitaristico di chi l’ha commissionata, si è tradotta, di fatto, nell’inaccettabile banalizzazione di un tema estremamente delicato. Non è questo, certamente, il metodo più appropriato per affrontare la traumatica esperienza dell’interruzione di una gravidanza. Per non parlare dei rischi di una possibile escalation al ribasso. Chi può ora negare, ad esempio, alle organizzazioni pro-life di chiedere una pubblicità televisiva sui rischi dell’aborto per la salute delle donne? O sulle possibili alternative all’aborto?
Dio ci risparmi lo squallido spettacolo di una guerra televisiva sulla tragedia dell’aborto, a colpi di spot nell’intervallo pubblicitario di una banale trasmissione a quiz. Preoccupa anche il cupo futuro cui potrebbe condurci una simile deriva. Non mi meraviglierei, infatti, se il prossimo passo dovesse essere la pubblicità per l’eutanasia e per le cliniche in cui si pratica il suicidio assistito.
Quest’ultima affermazione introduce la terza riflessione che intendevo proporre. In Italia, probabilmente, ad un’organizzazione come Marie Stopes International non sarebbe mai stato erogato un solo euro di fondi pubblici e sarebbe stata bandita dalla televisione di Stato, per il solo fatto del nome che porta.
Tutti dovrebbero sapere, infatti, che Marie Stopes (1880-1958) è stata una delle più deliranti figure nel campo dell’eugenetica del XX secolo. Nella sua opera Radiant Motherhood (1920), tanto per fare un esempio, la Stopes ha invocato la sterilizzazione «dei soggetti totalmente inadeguati alla riproduzione», mentre nell’altro suo capolavoro, The Control of Parenthood (1920), vero e proprio manifesto degli eugenisti, ha teorizzato il concetto di «purificazione della razza».
Letteralmente affascinata dalle farneticazioni eugenetiche naziste, nel 1935 Marie Stopes ha partecipato al Congresso Internazionale sulla Scienza della Popolazione tenutosi a Berlino ed organizzato dalla propaganda razzista del Terzo Reich. Anche le posizioni antisemite della Stopes furono aspramente criticate, persino da altri pionieri del movimento per il controllo delle nascite, tra cui Havelock Ellis. Non per nulla Marie Stopes si dichiarava una devota fan del Führer. Nel 1939, esattamente un mese prima che la Gran Bretagna entrasse in guerra con la Germania, la pasionaria della razza pura inviò al dittatore nazista alcune poesie accompagnandole da queste compiacenti parole: «Carissimo Herr Hitler, l’Amore è la più grande cosa del mondo: vorrebbe accettare da me questi versi e permettere ai giovani della Sua nazione di leggerli?».
Per capire meglio il personaggio, basti dire che Marie Stopes è arrivata a diseredare il proprio figlio Harry per il fatto di aver sposato una donna miope, ovvero un «essere geneticamente difettoso».
Non mostrò mai nessunissimo segno di pentimento neppure in punto morte, avvenuta nel 1958, e lasciò la maggior parte del suo patrimonio personale alla Eugenics Society, organizzazione i cui scopi ben traspaiono dal nome. Per chi voglia approfondire il tema consiglio la lettura dell’interessante articolo di Gerard Warner pubblicato sul Telegraph del 28 agosto 2008, dal titolo significativo: «A Marie Stopes si perdona il suo razzismo eugenetico perché era anti-life».
In Gran Bretagna, in realtà, non si sono limitati a perdonarla. Nel 2008 le regie poste britanniche hanno dedicato un’emissione di francobolli celebrativi proprio a Marie Stopes, in quanto Woman of Distinction. Ci si può ancora meravigliare di ciò che sta accadendo al di là della Manica?

(Fonte: Gianfranco Amato, Il sussidiario.net, 25 maggio 2010)

Elio Germano sembrava simpatico finché non ha vinto a Cannes

Sembrava simpatico Elio Germano, classe 1980, attualmente residente a Corviale, il “serpentone” della Roma postpasoliniana, lui che proletario non è. Che usa la tv per guardare i dvd e si divide tra judo, motociclette e la carriera di attore cinematografico. Carriera iniziata giovanissimo, quando la scelta fu tra cinema e teatro e lui scelse il primo, la pagnotta, esattamente come fa il protagonista di "La nostra vita", regia di Daniele Luchetti, con cui Elio ha vinto la Palma d'Oro per il miglior attore protagonista. Lui che in passato è stato anche un giovane e indimenticabile Padre Pio, recitato come se fosse all’Actors Studio.
Poi la lenta discesa nel malstrom della Gilda di Castellitto & Co., dove se non sei o se non fai il compagno, se non t’indigni o ti ribelli al potere costituito, vieni subito tacciato di servilismo. Arriviamo così alla serata del Festival di Cannes, il regno dell'impegno sottoforma di nobile disimpegno. Scelto dalla giuria, Germano avrebbe potuto ispirarsi al regista nordcoreano “dal nome impronunciabile” (così scrive l’Unità) vincitore della rassegna: salire sul palco, ringraziare il pubblico pagante e andarsene, senza mettere becco sulla devastante crisi politica che attanaglia da settimane il Paese dell'Estremo Oriente. Misura, sobrietà e cordialità. Elio invece riceve il premio, prende il microfono e sbraca: “Siccome i nostri governanti rimproverano sempre i cineasti perché parlano male di questo Paese, dedico il mio premio agli italiani che fanno di tutto per rendere l’Italia migliore, nonostante la loro classe dirigente”. Un classico dell’antipolitica da bar dello sport anni Novanta.
L’italiano vero fa sempre così, appena si trova in mano un microfono gode a cantare piove governo ladro. Atteggiamento banale, volgare, qualunquistico, soprattutto per chi ha recitato in film sponsorizzati dallo Stato (circa 3 milioni di euro fra “Mio fratello è figlio unico” e “Tutta la vita davanti”) ma adesso si ribella perché il governo sembra deciso a tagliare i FUS. La storia non finisce qui. Ieri il “Fatto quotidiano” interviene per denunciare la vergognosa censura operata dal Tg1, reo di aver tagliato sul più bello la frase incriminata di Germano, con la scusa che era saltato il collegamento. Secondo il giornale di Padellaro, rotto a ogni complotto, ci sarebbe stato addirittura un piano, preparato a tavolino dal Belzebù-Minzolini, per telecomandare il mezzobusto di turno: “Non ci sono prove,” scrive il quotidiano dei teoremi, “ma ciò che desta sospetto è che Romita (il mezzobusto, nda) avesse già pronto il foglio con il testo su Elio Germano da leggere”.
Incarognito, Germano rincara la dose: “Se quello del Tg1 non è stato un errore direi che è un segno di paura”. La Rai? “E' scivolata in un'atmosfera un po’ totalitaria”, ma solo un po', quel tanto di dittatura mediatica che basta alla Gilda per costruire l'immagine di un Paese allo sfascio e senza valori di riferimento. Il governo non reagisce, il ministro Bondi tace rinchiuso nei suoi uffici, e allora ci pensa Mariastella Gelmini a rilasciare questa dichiarazione a SkyTg24: "Rispetto la polemica," spiega, ma “la classe dirigente non è solo quella politica, c’è quella imprenditoriale, accademica, occorre da tutti una responsabilità per il futuro dell’Italia”. Non è chiaro se sia una critica o un modo per confortare l'attore: “La politica non sempre dà il buon esempio," insiste la Gelmini, "ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio". Figurarsi. Come in ogni buon film della nouvelle vague italiana che si rispetti, generazionista, denunciataria e pallida fotocopia del neorealismo che fu, puntuale arriva l'happy end: “Non mi riferivo ai politici – conclude un Germano ormai soddisfatto – ma a chi comanda in generale, chi sta nei posti importanti”. Capito? "Chi comanda", "Chi sta nei posti importanti". Se non fossimo sulla Croisette sembrerebbe di essere tornati alle scuole medie, traccia libera, svolgimento a piacere. Quando per simpatia ti salvavi con la sufficienza.

(Fonte: Roberto Santoro, l’Occidentale, 25 Maggio 2010)

La normalizzazione della transessualità

Sebbene qualcuno tenti di negarlo, è in atto nel nostro Paese una vera e propria operazione culturale per rendere la transessualità un’altra normalissima categoria distintiva degli esseri umani. È il tentativo di creare una società aperta e civile in cui dovunque saranno presenti tre toilette per uomini, donne e transessuali.
Alcuni segnali in questo senso sono inequivocabili. Un noto transessuale, Vladimir Luxuria - già sdoganato nel mondo della politica -, partecipa ad un seguitissimo reality televisivo (“L’isola dei Famosi”) e, guarda caso, vince pure il premio in palio, grazie al televoto del pubblico. Un altro transessuale viene accolto nella casa virtuale del “Grande Fratello”, altra trasmissione nazionalpopolare. Così ai narcotizzati videodipendenti viene trasmesso un preciso messaggio culturale, non proprio subliminale e non limitato al mondo dello spettacolo e dell’entertainment. Persino seriose e paludate trasmissioni del servizio pubblico Rai vengono coinvolte nell’operazione. Tutti abbiamo assistito, durante l’affaire Marrazzo, le incursioni sullo schermo, per giorni e giorni dalla mattina alla sera, di transessuali di ogni provenienza - ma quasi tutti del medesimo antico mestiere -, persino in programmi di una certa levatura. Non è stata risparmiata neppure la “terza camera del parlamento” di Bruno Vespa, in cui l’ennesimo trans di turno si è ritagliato un ruolo debordante, con tanto di imbarazzanti dettagli circa il proprio costume “professionale”.
La questione diventa allarmante quando si passa dal tubo catodico al piano istituzionale. Io che ho l’avventura di vivere nella regione Toscana, sono stato tra quei cittadini italiani che per primi hanno trovato un esplicito riferimento normativo alla transessualità. Mi riferisco alla Legge regionale 15 novembre 2004, n. 63, ed in particolare all’art.2, terzo comma, il quale testualmente recita che «i transessuali e i “trans gender” sono destinatari di specifiche politiche regionali del lavoro, quali soggetti esposti al rischio di esclusione sociale di cui all’articolo 21, comma 2, lettera c), della l.r. 32/2002».
Non mi sono quindi meravigliato quando tempo fa sul sito ufficiale della Regione ho letto dell’iniziativa di «una card prepagata per transessuali e transgender». L’annuncio recitava testualmente: «Scoprire che il proprio corpo appartiene a un sesso diverso da quello cui si sente di appartenere può creare pesanti difficoltà. Transessuali e transgender rischiano più di altri di perdere il lavoro o non trovare una nuova occupazione, soprattutto nella delicata fase di passaggio da un sesso all’altro. La Regione ha deciso di intervenire con una card che mette a disposizione di ciascuno 2.500 euro, da spendere in due anni: serviranno per attività formative da scegliere liberamente, con l’ausilio di tutor, secondo il proprio personale progetto». I transessuali come i maiali di Orwell: un po’ “più uguali” degli altri.
La Regione Toscana ha anche finanziato, ovviamente con soldi pubblici (e quindi anche miei), il primo consultorio transgenere che ha, fra i suoi obiettivi, quello della «tutela e affermazione dei diritti di quanti si riconoscono transessuali e transgender».
Meno che mai, quindi, mi sono meravigliato quando, a novembre dell’anno scorso, ho saputo del congresso formativo tenuto all’Ospedale Versilia di Lido di Camaiore dal titolo «Tra anima e corpo. Percorso attraverso l’identità di genere». Scopo del congresso era quello di «approfondire il difficile percorso fisico e psichico che i transessuali devono affrontare per accettarsi ed essere accettati, in quanto la non corrispondenza tra sesso biologico e identità di genere può produrre gravi disagi e sofferenze costringendo i transessuali e i transgender a vivere la propria condizione esistenziale con molta difficoltà». L’iniziativa era, ovviamente, patrocinata dalla Regione Toscana, dall’Ausl12 di Viareggio, dal Comune di Viareggio e dalla Provincia di Lucca. Al termine della kermesse è stato pure consegnato ai partecipanti iscritti un bell’attestato di partecipazione.
Per capire dove andremo a finire di questo passo, basta dare un’occhiata, come sempre, a quello che sta accadendo in Gran Bretagna. Il ministero dell’istruzione, infatti, ha appena emanato delle linee guida che, con il pretesto di combattere odiose forme di bullismo, impongono ai bambini, fin dall’età di cinque anni, l’insegnamento sui «transsexual rights». Dietro tutto ciò, ovviamente, sta la potentissima lobby gay Stonewall.
Il ministero non è stato in grado di indicare quanti siano i ragazzi transgender (potenziali obiettivi di atti di bullismo da parte dei compagni) che frequentano le scuole, ma ha comunque giustificato l’iniziativa con l’esigenza culturale di prevenire forme di discriminazione nei confronti dei transessuali presenti in famiglia, tra gli amici e nel personale adulto della scuola.
In una dettagliata guida di 46 pagine, il ministero spiega come evitare e punire qualunque tipo di linguaggio o comportamento che possa comunque qualificarsi come «sexist, sexual or transphobic».
Si arriva persino ad incoraggiare gli istituti scolastici ad utilizzare tutta la vasta gamma di punizioni a loro disposizione contro i ragazzi che non si adeguino alla “guideline” ministeriale. Le sanzioni vanno dalla limitazione dell’orario di ricreazione alla restrizione in classe, dalla stretta sorveglianza fino alla sospensione ed espulsione. Nei confronti dei genitori che si rifiutassero di accettare tali sanzioni, potrà essere emesso un provvedimento giudiziario («civil court order») che li costringa a partecipare ad un corso rieducativo per un periodo superiore a tre mesi.
Finché avremo in Italia un ministro dell’Istruzione come Maria Stella Gelmini siamo sicuri che simili assurdità ci verranno risparmiate. Non sappiamo, invece, cosa potrebbe accadere con un governo di sinistra. Magari con un ministro del genere (indefinito) di Vladimir Luxuria. Probabilmente per quest’ultima affermazione, in Gran Bretagna, potrei essere accusato dalla polizia di “hate incident”. Beh, anche per questo sono contento di essere italiano.

(Fonte: Gianfranco Amato, Il sussidiario.net, 14 maggio 2010)

“Annozero” sulla pedofilia (dei sacerdoti, of course!)

Ieri Michele Santoro ha condotto una puntata di Annozero dedicata allo scandalo degli abusi sui minori perpetrati da preti e religiosi. Ad attirare l’attenzione mediatica è stato il lungo intervento che il conduttore ha fatto all’inizio, per spiegare la sua posizione con la Rai, e che dunque non c’entrava nulla con il tema proposto. Il tono degli interventi durante la trasmissione è stato pacato, civile, ci si è potuti confrontare. Erano presenti Niki Vendola, Antonio Socci, il vescovo Domenico Sigalini, una delle vittime di don Cantini, Marco Travaglio e Corrado Formigli, che ha firmato i reportage dagli Stati Uniti. In studio c’erano anche due vittime dei preti pedofili maltesi, che qualche settimana fa avevano incontrato il Papa. Mi è piaciuto come Socci ha spiegato la novità della posizione di Benedetto XVI, che non ha gridato al complotto né si è difeso dietro le statistiche, ma ha parlato del “terrificante” fenomeno presentandolo come una persecuzione che viene dall’interno della Chiesa. Mi sarei aspettato qualche parola in più dal vescovo Sigalini, che ha affrontato bene il caso italiano di don Cantini, ma che poteva essere più incisivo sui casi americani. Due le considerazioni che sono mancate e che avrebbero, a mio avviso, permesso di giudicare meglio i reportage americani (toccanti per le testimonianze delle vittime della pedofilia, le cui vite sono state segnate indelebilmente; ma al tempo stesso un po’ troppo orientati sulle posizioni dell’avvocato dell’accusa Anderson): in primo luogo, nessuno, nei servizi né in studio, ha ricordato che nel caso - terribile! - di padre Lawrence Murhpy, il violentatore seriale di bambini e ragazzi nell’istituto per sordi di Milwakee, la Congregazione per la dottrina della fede è stata coinvolta solo alla metà degli anni Novanta, senza che in precedenza i vescovi avessero fatto alcunché (c’era stata, tra l’altro, anche un’inchiesta civile arenatasi con un non luogo a procedere). Nessuno ha ricordato che l’indicazione della Congregazione - come risulta dalle lettere dell’allora Segretario, Tarcisio Bertone, fu quella di fare il processo. E che alla fine, nel 1998, si decise di sospendere il processo a motivo delle gravi condizioni di salute di padre Murphy, che morì poche settimane dopo la riunione romana dov’era stata presa la decisione. Non è un particolare insignificante, eppure non è emerso, non è stato ricordato. Inoltre non si è detto che padre Murphy viveva nella casa di famiglia dalla metà degli anni Settanta e dunque al momento in cui la denuncia arriva a Roma, si discute la sua riduzione allo stato laicale, ma il sacerdote non ha incarichi pastorali che lo avvicinino ai ragazzi. Come pure non si è detto, dopo aver citato la testimonianza accusatoria verso il Vaticano dell’ex arcivescovo Rembert Weakland, che quest’ultimo ha ammesso di aver avuto una lunga relazione omosessuale con un giovane (maggiorenne) per comprare il silenzio del quale ha spesso ben 400mila dollari della diocesi. Weaklan non ha nulla a che fare con la pedofilia, ma forse questo particolare non secondario andava citato. Ancora, Formigli ha ripetuto la solita storia della “segretezza” prevista dai documenti vaticani nell’affrontare questi casi, lasciando intendere che questo abbia contribuito all’occultamento della verità e alla copertura dei colpevoli. Va ricordato che i documenti vaticani trattano solo - ovviamente - del processo canonico e dunque la riservatezza prevista è a tutela delle vittime degli abusi e anche dell’accusato, che prima di essere sanzionato o messo alla gogna ha il diritto a un processo che stabilisca le sue vere responsabilità. E’ innegabile, purtroppo, che per decenni si sia agito badando più a non creare scandali pubblici e non sia prestata la dovuta attenzione al dramma delle vittime. Ma attribuire questa incapacità di governo e questa superficialità ai documenti della Santa Sede, non è giusto. Infine, sono rimasto molto colpito dalla testimonianza di una delle vittime di Malta. Io ero là, e ho parlato proprio con loro, intervistando Joseph Magro (che ieri era presente in studio ma non è intervenuto). Ebbene, le dichiarazioni che ho ascoltato a Malta dalla stessa persona che ha parlato ad Annozero, erano di tutt’altro tenore. Le vittime ringraziavano la Chiesa maltese per l’appoggio ricevuto ed erano entusiaste per l’incontro con il Papa. Ieri, invece, hanno detto che la Chiesa ha avvocati potenti e che continua a proteggere gli stupratori.

(Fonte: Il Blog di Andrea Tornielli, 21 maggio 2010)

Bose: Fratel Enzo, priore ma non troppo

Prima, la notizia buona: chi avesse già speso nove euro per acquistare La differenza cristiana di Enzo Bianchi, ora può risparmiarne dieci evitando di mettere nel carrello Per un’etica condivisa, appena dato alle stampe sempre da Bianchi.
Complessivamente, un euro guadagnato poiché, se La differenza cristiana è zuppa, Per un’etica condivisa è pan bagnato. Anche in quest’altro libretto, il Priore di Bose mena il torrone del cristianesimo minimale buttandoci dentro come canditi tutti quei termini che colpiscono nel profondo i cattolici, tentati dall’esserlo sempre meno: l’Ultimo, lo Straniero (in maiuscolo), polis, agorà, ananké (in corsivo), parresia (in tondo) e poi profezia. Tanta profezia, anch’essa in tondo, ma scritta con forza tale da creare un vortice che trascina il lettore in un mondo nuovo, un cristianesimo altro, una spiritualità purissima che manifesteranno il regno di Dio qui e subito, perfettamente.
Purché si faccia come insegna fratel Enzo. Anzi, come impone fratel Enzo. Perché la sua scrittura, contrariamente al messaggio minimale che contiene, è tutt’altro che mansueta. Si prenda un suo libro e si contino le frasi che iniziano con un “Sì,”. Quando il ragionamento perde qualche colpo, quando bisogna imprimere nelle testoline dei lettori il concetto giusto, fratel Enzo, come un vecchio marpione dell’omiletica che incespica sul pulpito o un navigato caporedattore di giornale popolare che non riesce a venirne fuori con un titolo, ci infila il suo bravo “Sì,”. Dopo il “Sì” ci vuole sempre la virgola, che irrobustisce la pagina.
Provare per credere. La differenza cristiana, pagina 77, settima riga: «Sì, l’annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo». Togliete quel “Sì,” e avrete ridotto a un decimo la forza del messaggio, che, detto per inciso, suona tanto come un insulto ai milioni di martiri.
Il Priore di Bose è tutto qui, nel suo dire il quasi nulla con molta forza, nel suo attaccare il dogma mostrandolo intatto ma vuoto. Un “vivere doppio”, come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa tessendone l’elogio. Un «vivere doppio che è piuttosto un vivere-tra. Tra il mondo e ciò che non è del mondo. Tra adesione alla polis e distacco».
E come si potrebbe definire, se non un vivere-tra, quello di fratel Enzo? Fa l’editorialista del giornale storico della famiglia Agnelli e combatte il capitalismo, scrive sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana e bersaglia la gerarchia, commenta il Vangelo su Famiglia Cristiana e proclama le verità altrui, fa il monaco solitario ed è sempre in viaggio ai quattro angoli del mondo, profetizza nell’iperuranio della teologia engagé e si occupa della legge sugli immigrati.
Un vivere-tra che segna fin dal principio la comunità fondata a Bose, tra Ivrea e Biella, da Enzo Bianchi, classe 1943, dottore in economia e commercio. Era un simbolico 8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Concilio Vaticano II. Bose divenne punto d’incontro tra persone di entrambi i sessi appartenenti al cattolicesimo, al protestantesimo e al mondo ortodosso. E subito ne scaturì il carisma di punta avanzata dell’ecumenismo, di un vivere-tra teologico che fino a oggi non ha avuto alcun riconoscimento ecclesiastico. Non esiste istituto del diritto canonico della Chiesa cattolica che contempli un’entità di tal genere. Se al cattolico ordinario questo può apparire strano, a Bose vi diranno che è profetico. Il fatto che la loro comunità non possa essere contemplata dentro la struttura di questa Chiesa significa solo che la struttura di questa Chiesa deve mutare: troppo gerarchica, costantiniana, fondata sul potere, vecchia.
Insomma, non è profetica, non è in grado di comprendere e trasmettere il vero messaggio evangelico. Tanto che, nella Regola di Bose si legge: «Nessuna comunità e nessuna persona possono realizzare ed esaurire tutte le esigenze dell’Evangelo. Solo la chiesa universale nella sua completezza storica può esprimere la totalità degli appelli contenuti in esso».
Dal che parrebbe che «la chiesa universale nella sua completezza storica» non corrisponda alla Chiesa cattolica. Tanto che la Regola si affretta a dire al fratello e alla sorella di guardarsi bene dall’abbandonare la confessione di provenienza per farsi cattolici. Ma tutto ciò viene detto con tale mitezza e tale soavità e suona tanto bene che il cattolico poco accorto finisce per rimpiangere di essere stato battezzato nella Chiesa di Roma. Se non è così, bisogna che a Bose riscrivano la Regola e usino termini comprensibili a tutti. Però riesce difficile pensare di essersi sbagliati quando, poco più avanti si legge che il Priore, il «compaginatore della koinonía», è colui che «spezza e interpreta la Parola per la comunità nelle varie congiunture in cui essa si viene a trovare». Il povero cattolico medio, qui, è costretto a cogliere la contrapposizione tra lo spezzare il Pane Eucaristico e lo spezzare la Parola che spaccò in due la Cristianità ai tempi di Lutero. Ma l’abilità di Bose, della sua Regola e del suo Priore sta nel non arrivare fino in fondo: suggeriscono. E il colpo da maestro di Bianchi sta nell’usare questo linguaggio e nel praticare questi temi come se la vita della Chiesa fosse già mutata. «Ma come» sembra dire ai poveri cattolici medi «siete ancora tanto indietro? Non soffia ancora in voi lo spirito della profezia?».
Davvero bravo, perché con questo metodo è arrivato ovunque, dalle parrocchie illuminate alla predicazione degli esercizi per gli alti gradi della gerarchia, da trasmissioni radiofoniche come “Ascolta si fa sera” e “Uomini e profeti” ai viaggi di rappresentanza per conto del Vaticano. Eppure, fonti ben informate dicono che alla Congregazione per la dottrina della fede, sul suo conto c’è un dossier riguardante materie come l’ecclesiologia, la sacramentaria e la cristologia. Ma come si fa a mandare avanti una pratica a carico di un personaggio come fratel Enzo? E il dossier rimane lì, anche perché il pensiero di Bianchi non è così minoritario come si potrebbe immaginare.
È la storia di Bose, fin dai suoi esordi, a insegnarlo. Nel 1967, il vescovo del luogo vietò qualsiasi celebrazione pubblica nella comunità a causa della presenza di un non cattolico. Ma, il 29 giugno del 1968, l’arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino, entusiasta di quell’esperienza celebrò lui stesso la Messa vanificando di fatto l’atto del vescovo. Oggi, che tra fratelli e sorelle di varia provenienza sono ottanta, non è chiaro se l’interdetto sia formalmente ancora in vigore, ma questo conta poco, poiché si troverebbe anche oggi un cardinale epigono di Pellegrino, pronto a correre in soccorso a Bose.
In ogni caso, fratel Enzo tira avanti. Predica esercizi ad alto livello, convoca e presiede convegni internazionali, è nume tutelare delle edizioni Qiqajon, scrive per grandi editori, compila voci di enciclopedie, tiene cattedra di teologia biblica e patristica all’Università Vita-Salute San Raffaele di don Luigi Verzé. E tutto questo con il solo titolo accademico di dottore in economia e commercio. Un autodidatta. Un magnifico autodidatta, ma pur sempre un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, allievo di se stesso.
Adesso qualcuno vorrà spiegare che lo Spirito soffia dove vuole e che la storia della Chiesa è punteggiata da individui che hanno intuito, profeticamente, strade nuove. Basti pensare a san Francesco. Però, chiunque abbia fatto almeno l’esame di “Storia medievale 1” sa che la grandezza di san Francesco stava nell’essersi rimesso al giudizio della Chiesa di Roma e non nell’averla voluta giudicare. Monsignor Piero Zerbi, maestro dei medievalisti dell’Università Cattolica di Milano insegnava che risiede qui la differenza tra Francesco d’Assisi e Pietro Valdo: uno divenuto Santo, l’altro eretico.
Ma fratel Enzo non teme scivoloni e se c’è da menare fendenti su Roma non guarda in faccia a nessuno: «Questo è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà» dice nella Differenza cristiana, citando una frase di Zagrebelsky. E poi rincara: «Io aggiungerei che è un tempo triste per certi cattolici che certo non pensano di possedere la verità, ma pur mettendo la loro fede in Dio e in Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno che la verità eccede sempre i credenti [...]. Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e non minacciato da chi lo avversa o addirittura lo perseguita, bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi».
E così, senza compromettersi facendo nomi, da Papa Benedetto XVI in giù sono sistemati tutti coloro che complottano per depotenziare la nuova Pentecoste avviata con il Concilio Vaticano II, tutti coloro che si oppongono al soffio dello Spirito.
Gli altri, invece, i veri credenti, quelli che, come nei migliori ossimori, «non pensano di possedere la verità», pur se invitati a un generico immergersi «nella storia, nelle sue opacità, nelle sue contraddizioni», in realtà sono chiamati a divenire «comunità alternativa».
Anche qui, Bianchi allude, profetizza, più che marcare nettamente. Ma, presi dal suo ragionare, si può essere indotti a immaginare veramente una nuova Pentecoste annunciata ed evocata da “comunità alternative” in cui “si manifesti pienamente la Venuta del Signore”. Una Nuova Era dello Spirito? Non viene specificato, però, nella Regola di Bose si legge che «nella vita monastica è lo Spirito a chiamare, pur servendosi di mediazioni umane, e non la chiesa tramite il ministero episcopale, come accade per i ministeri ordinati». E certo colpisce questo continuo evocare, anche se non fino in fondo, la contrapposizione tra una Chiesa istituzionale, vecchia e una Chiesa spirituale, nuova. Il tutto sottolineato da una sezione del sito web della comunità che si intitola “Pneumatofori”, portatori dello Spirito, in cui si dice: «Sono passati tra noi...» seguono diciannove nomi per poi concludere «lasciandoci il loro spirito».
Nell’attesa, le “comunità alternative” sono chiamate a evitare di porre Cristo al centro del proprio agire sociale. Niente leggi che sappiano di sacrestia: l’Altro, lo Straniero siano la regola, il nascondimento sia il mezzo, l’umanizzazione, e non la salvezza, sia il fine. Dunque, in Per un’etica condivisa, Bianchi spiega che gli ripugna un mondo in cui «le chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei servizi necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile, chiedendo però un riconoscimento del proprio ruolo».
Per non parlare dei cosiddetti «atei devoti che oggi pontificano». Ai quali Bianchi manda a dire che «non vi è nessuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario come invece vorrebbe far credere una società in carenza di ideali». Alla larga da «un progetto che vede le chiese correre in aiuto e supporto alla società per fornire, alimentare valori di cui esse hanno bisogno per il loro ordine ed equilibrio».
In un colpo solo, fratel Enzo fa fuori gli atei devoti e San Tommaso d’Aquino. Il Dottore Angelico, nella Summa spiega l’utilità delle leggi dello Stato e della repressione penale, che servono ad «abituare a evitare il male e a compiere il bene per timore della pena, in modo che poi esso sia compiuto spontaneamente». Ma è chiaro che, per dei puri destinati a vivere nel nascondimento e nella carità perfetta, la fatica di produrre leggi che conducano gli uomini al bene, invece che benedetta, appare blasfema.
È difficile non far risalire tutto questo a una sottovalutazione dell’Incarnazione di Cristo, da cui scende direttamente l’impegno del cristiano nella vita quotidiana. La Civitas Dei di Sant’Agostino, alla quale appartiene il cristiano, non è un luogo impalpabile e neppure una comunità separata che diventi esempio per la società. L’appartenente alla Civitas Dei ha il dovere mettere mano anche alla città dell’uomo, e il suo impegno è essenzialmente milizia.
Ma se l’impegno è debole, di solito, la cristologia è debole. Il Priore, quando cita Cristo, si affretta a spiegare che è colui che «ha narrato Dio agli uomini». Linguaggio opaco che produce la sensazione di trovarsi davanti a una vicenda incompleta.
Percezione alimentata da Bianchi con un libretto per bambini intitolato Gesù. Il profeta che raccontava Dio agli uomini. È vero che dentro dice che Gesù è Figlio di Dio. Ma poi spiega ai suoi piccoli lettori: «Gesù [...] era un bambino come noi che viveva con i suoi genitori, Maria e Giuseppe, in un villaggio una piccola cittadina della Galilea. Quando aveva dodici anni ha sentito una chiamata più forte [...]. Gesù è stato inviato, mandato, è divenuto un testimone, cioè uno che raccontava Dio agli uomini».
Forse, sta qui la ragione del cristianesimo minimale di Bianchi, che ha un precedente illustre in Giuseppe Dossetti, passato dalla militanza nella Dc alla scelta monastica. Non a caso, il Priore di Bose ha un posto fisso nel Consiglio di amministrazione della dossettiana Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Come quello di Dossetti, il monachesimo di Bianchi è anomalo. Non sceglie la via della solitudine per lodare e adorare Dio, ma per caricarsi di carisma profetico con il fine ultimo di trasformare la Chiesa e renderla più spirituale e democratica attraverso le alchimie della politica. Un ribaltamento di orizzonte che passa dall’influsso della Chiesa sulla società a quello della società sulla Chiesa.
L’unica differenza tra Dossetti e Bianchi sta nel partner. Il monaco bolognese, tra gli artefici della costituzione repubblicana, fece della sua creatura il luogo d’elezione per l’incontro con il Pci di Togliatti. Pensò la carta costituzionale come piattaforma utopica per un progetto che trasformasse la vita politica italiana e, quindi, anche la Chiesa. Dal che discese una visione ideologica della costituzione in nome della quale Dossetti, prima combatté Craxi e poi lasciò il suo romitaggio per fronteggiare il cavaliere nero Berlusconi.
Bianchi, oggi, ha a che fare con gli eredi di un Pci putrefatto, una sorta di partito radicale di massa in cui convive tutto e in contrario di tutto, da Rosy Bindi a Massimo Cacciari passando per Dario Franceschini: come dire il nulla, l’ideale per le profezie minimali del Priore.
Ma l’obiettivo non è cambiato, nel mirino c’è sempre la Chiesa romana e la sua concezione costantiniana. Il che fa tirare una boccata d’ossigeno a Eugenio Scalfari, che, alla Fiera del libro del 2005, disse: «Se tutti i cattolici fossero come Enzo Bianchi io sarei molto rassicurato».
Come dargli torto?

(Fonte: Alessandro Gnocchi - Mario Palmaro, Cronache da Babele, Fede e cultura, Verona 2010)

Da Vienna a Roma? Speriamo di no.

L'arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, che i media dipingono come fedelissimo di Papa Benedetto XVI, ultimamente sta facendo alla stampa dichiarazioni a dir poco sorprendenti.
L’ultima: ha detto di condividere "le preoccupazioni" del suo confratello mons. Paul Iby, vescovo di Eisenstadt nel Burgenland, il quale nei giorni scorsi si era detto a favore della revoca del celibato obbligatorio per i preti, giungendo ad affermare in una intervista al quotidiano austriaco Die Presse: "Per i preti sarebbe sicuramente un sollievo se l'obbligo del celibato venisse revocato".
Dato che c’era, Schönborn ha colto l’occasione per ribadire anche le sue accuse verso il cardinal Sodano: «"Quel che ho detto alla radio Orf lo ho ripetuto in un incontro 'off-the-records' con dei capi-redattori", ha detto il porporato in merito all'accusa di insabbiamento dell'inchiesta per pedofilia a carico del suo predecessore, il cardinal Hans Hermann Groer. "Ciò è poi stato pubblicato, sebbene si trattasse di un incontro 'off-the-records'. Ma rimango della mia opinione e non ho nulla da aggiungere a quello che ho già detto. E' così ed è stato detto tutto"» (Apcom, 18 maggio 2010).
Comunque, non è soltanto che Schönborn ha detto delle cose grosse. E' che queste cose – e qui sta il problema - continua a dirle. Ciò è veramente sorprendente!
Schönborn e il celibato: giusto parlarne...
L'arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schönborn, ha detto di capire "le preoccupazioni" del vescovo del Burgenland Paul Iby, che nei giorni scorsi si era detto per una revoca del celibato obbligatorio per i preti. "Le preoccupazioni sollevate dal vescovo Iby sono le preoccupazioni di tutti noi", ha dichiarato Schönborn a una conferenza stampa, sottolineando però che ciò non vuol dire, tuttavia, che si debba necessariamente condividere le soluzioni prospettate. Le parole dell'arcivescovo, riportate dall'agenzia cattolica Kathpress, sono state pronunciate a una conferenza stampa in chiusura di un congresso delle comunità parrocchiali svoltosi lo scorso fine settimana a Mariazell. Schönborn, che conosce bene e da lunga data Joseph Ratzinger, è considerato piuttosto vicino al Papa. Iby aveva detto che la revoca del celibato obbligatorio per i sacerdoti sarebbe sicuramente una cosa positiva, e che la Chiesa cattolica dovrebbe anche riflettere, in una prospettiva più lunga, anche sull'ipotesi di aprire il sacerdozio alle donne. "Sono felice di vivere in una Chiesa dove esiste libertà di espressione e di opinione", ha detto Schönborn, anche se "non necessariamente" - ha aggiunto - condividerebbe tutti gli approcci presentati dal suo collega Iby.
Nel corso della conferenza stampa, ha affermato che ''è del tutto legittimo parlare di questi temi'' e che i vescovi anzi lo dovrebbero fare non solo in Austria ma a livello di Chiesa universale. L'intervento dell'arcivescovo è stato riportato dall'agenzia cattolica austriaca Kathpress. Nel corso del meeting dei consigli parrocchiali alcuni vescovi, fra i quali mons. Paul Iby, si erano pronunciati a favore dell'abolizione del celibato obbligatorio dei sacerdoti, era inoltre stata sollevato, in prospettiva, anche il tema delle ordinazioni femminili. ''Come vescovi - aveva affermato nel corso del dibattito mons. Alois Schwarz della diocesi di Carinzia -, noi vogliamo parlare del problema celibato e diciamo a Roma che questo tema è sul tappeto''.

(Fonte: Marco Tosatti, La Stampa, 24 maggio 2010)

Piazza San Pietro sta dalla parte del Papa, la Chiesa progressista no

Le scosse dentro la Chiesa cattolica si fanno sempre più complicate e pericolose. Chissà se i 200mila laici cattolici che hanno espresso la solidarietà al Papa in piazza san Pietro erano veramente consapevoli delle difficoltà della compagine ecclesiale in questa fase, se vedevano fino in fondo le tensioni e i marosi che Benedetto XVI deve fronteggiare per tenere la barca in rotta. Non si trattava solo di sostenere il Papa sulla questione pedofilia, fargli sentire il proprio affetto, invitarlo a proseguire sulla via della purificazione della Chiesa - come egli stesso si è espresso - dai peccati dei suoi membri. Ormai si vede che c’è sotto molto di più. Non tutti i fedeli di piazza san Pietro ne erano consapevoli, ma il Papa, che li ha salutati dicendo che il vero nemico è il peccato, certamente sì.
Della questione pedofilia sta approfittando l’ala progressista sia dell’episcopato che dell’intelligenzia cattolica. La tesi di fondo è che essa è soprattutto il frutto di un ritardo nella riforma della Chiesa, data la pervicacia con cui sarebbe stato mantenuto l’assolutismo papale. Una maggiore “collegialità” avrebbe rafforzato i vescovi locali, permesso una maggiore trasparenza, portato alla luce le situazioni scabrose. Collegialità, secondo le proposte del Cardinale Martini del 1999 e, prima ancora, dell’ala dossettiana bolognese, potrebbe voler dire presa di decisioni insieme con il collegio cardinalizio, per esempio, oppure attribuire al sinodo dei vescovi, che potrebbe essere reso permanente, un potere decisionale, mentre oggi, come è noto, i padri sinodali espongono le loro conclusioni al Papa, che emana poi la Esortazione apostolica postsinodale.
E’ difficile comprendere fino in fondo perché mai la questione dell’infedeltà di alcuni preti e vescovi sarebbe stata evitata con una diversa organizzazione della curia romana. Durante il viaggio in Portogallo, parlando sull’aereo con i giornalisti, il Papa ha detto che "Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?". In altre parole: come pensare che una iniezione di democrazia nella Chiesa sia bastevole ad evitare le incoerenze e il male al proprio interno? Può anzi essere detto il contrario: l’unità con il Papa – sub Petro – è garanzia dell’esistenza di una istanza superiore capace di sovrapporsi ai gruppi, alle cordate, ai compromessi, alle eccessive concessioni allo spirito del mondo.
E’ pur vero che in questo ultimo periodo la Curia Romana non è sempre stata all’altezza delle necessità di governo della Chiesa. La Segreteria di Stato ha spesso portato avanti una linea diplomatica con alcuni Stati – si pensi per esempio agli Stati Uniti d’America – che di fatto metteva in difficoltà gli episcopati nazionali nella loro critica ai parlamenti e ai governi sui temi della vita e della famiglia. A proposito del caso della “Bambina di Recife” la Pontificia Accademia per la vita non ha brillato per chiarezza ed infatti esce proprio ora in Belgio il libro-denuncia di Padre Michel Schooyans, esperto di questi temi e Membro della stessa Accademia (“Sur l’Affaire de Refife et quel quel autres… Fausse compassion et vraie désenformation”).
Anche nel ritiro della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani la regia non è stata perfetta. Alla fine, in ogni caso, è stato il papa a dover intervenire per metterci una pezza, soprattutto con il fatto assolutamente inusitato di scrivere una Lettera a tutti i vescovi cattolici, segno di una notevole difficoltà del potere centrale della Chiesa. E’ però almeno problematico sostenere che una maggiore democrazia risolverebbe tutto questo. L’emorragia di fedeli della chiesa austriaca non è stata causata dai sacerdoti accusati di pedofilia, né potrà essere fermata da un maggiore dibattito democratico. Del resto è stata sotto gli occhi di tutti sia a Fatima che in piazza San Pietro domenica scorsa che i “piccoli” stanno con il papa. La chiesa non è un circolo di intellettuali.
Ma la questione della pedofilia viene adoperata anche per riproporre le vecchie questioni del celibato dei preti, delle donne nella Chiesa, della comunione ai divorziati risposati, della contraccezione e di una nuova valutazione dei rapporti omosessuali. Tornano i vecchi slogan della libertà di coscienza, che la Chiesa non dovrebbe intervenire nelle questioni etiche e che su questo lo spirito del Concilio non è stato rispettato. Le tensioni sono forti e la Chiesa si sta come spaccando in due. L’arcivescovo di Trieste Mons. Giampaolo Crepaldi, in un comunicato dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân di cui è Presidente, ha affermato che "questa divaricazione tra i fedeli che ascolano il papa e quelli che non lo ascoltano si diffonde ovunque e anima due pastorali molto diverse tra loro, che non si comprendono ormai quasi più, come se fossero espressione di due Chiese diverse". Parole forti, ma realistiche. Come non basta la riforma delle strutture, non basta però nemmeno la profezia, come chiede Cacciari, perché anche la profezia senza il Papa non va da nessuna parte.
In questo difficile contesto hanno fatto molto pensare alcuni interventi del cardinale Schönborn. Prima di tutto il suo attacco all’ex Segretario di Stato cardinale Angelo Sodano, accusato di aver impedito per quindici anni ogni indagine sui sospettati abusi del cardinale Groër, suo predecessore a Vienna e poi le sue richieste che nella Chiesa si dibatta apertamente di celibato, di divorziati risposati e di coppie omosessuali. Il cardinale di Vienna, ritenuto un fedele di Benedetto XVI, ha anche fatto tutta una serie di iniziative di apertura alle richieste del cattolicesimo progressista austriaco. I giornali si stanno chiedendo dove voglia andare Schönborn, ma su questo punto sarà meglio attendere i tempi. Può essere che il giovane cardinale viennese si proponga come interlocutore del progressismo proprio per contenerlo e indirizzarlo, ma in sostanziale fedeltà alla linea di Benedetto XVI. Ma per dire questo o il suo contrario i tempi non sono ancora maturi. Maturi, invece, lo sono, per prendere atto che la divisione della Chiesa si sta facendo trasversale, se molti fedeli austriaci chiedono perfino il sacerdozio femminile.

(Fonte: Stefano Fontana, L’Occidentale, 20 maggio 2010)

giovedì 20 maggio 2010

Dalle stelle alle stalle...

Carla Fracci 74 anni, dicasi 74. Una vita piena di successi e immagino di quattrini, di certo non lavora per mantenere la famiglia, la sua reazione contro il sindaco Gianni Alemanno, mi ha ricordato molto quella di un altro "blasonato" intellettual-artista sinostroide, l'arch. Fuksas.
Toccagli l'orticello a questa gente, e perdono tutto l'aplomb.
Alla Fracci, Alemanno ha sfilato il "cadreghino" da sotto il sedere ossuto...e l'étoile, si é trasformata in un arpia.
Ma dico, ma andare in pensione? Così per sbaglio...
Sante parole...quelle dell'articolo di Vittorio Macioce:
Questo è un Paese dove i vecchi si sentono immortali. E sono voraci.
Non rinunciano a nulla. Non smettono mai di ballare.
È una mattina grigia. All’Opera di Roma i sindacati hanno organizzato una giornata di protesta contro il decreto di riforma delle fondazioni liriche. Gianni Alemanno, sindaco di Roma, ha appena finito di parlare. Si muove per tornare al suo posto ed è in quel momento che l’eterna etoile lo intercetta. È il canto di rabbia del cigno. "Vergogna, vergogna, farabutto". L’accusa: «Per due anni non mi hai ricevuto».
La Fracci perde l’equilibrio. È rossa in faccia. Urla.
Guarda Alemanno come un bestemmiatore, uno che insulta le dee, gli intoccabili, le leggende che si ribellano al tempo, in questa Italia dove il presente e il passato non passano mai.
Cosa ha fatto Alemanno?
Ha scelto. Ha detto no alla Fracci. Non ha rinnovato il suo contratto di direttrice del corpo di ballo. La Fracci ha 74 anni, il suo mandato è scaduto dopo 10 anni, ma lei si sente inamovibile.
Alemanno non parla, più tardi dirà poche parole: "Rispetto la sua storia e la sua arte, ma il rapporto con lei è ormai superato. Non è lesa maestà voltare pagina".
Qualche stagione fa Roberto Bolle disse una piccola verità.
La Fracci dovrebbe essere meno egoista, mettersi da parte e lasciare la direzione del corpo di ballo di Roma. "Questo sistema frena il ricambio generazionale, condiziona la resa coreografica, il ritmo". La risposta della Fracci fu al veleno. Disse che Bolle era finito. Non cresce più. Ha perso equilibrio. Non ha credibilità.
Aggiungo che la Fracci, è anche assessore alla Cultura in una terra come la Toscana.
Ma evidentemente non le basta.
Chissà che bel sospirone di sollievo hanno tirato coloro che da decenni aspettano il loro turno, per fare carriera.
Questo è un paese per vecchi, suddivi in caste, attaccati ai loro privilegi come cozze agli scogli: è ora di lasciar spazio ai giovani e di togliere i suddetti privilegi.
Quando la coperta è corta, i soldi si usano per chi ne ha realmente bisogno.

(Fonte: Orpheus, 18 maggio 2010)

Come messer Longstride divenne "Robin della foresta"

In tempi in cui le banche d'affari falliscono dopo aver arricchito con assurdi superbonus i propri manager e mandato sul lastrico ignari investitori e in cui finanzieri senza scrupoli speculano sulla pelle della gente, in società in cui profittatori, corrotti e corruttori trovano comunque spazio e i furbastri evadono le tasse perché tanto ci sono i poveracci a pagarle, un moderno Robin Hood combatterebbe proprio su questi fronti, nascosto nelle inestricabili foreste della finanza e del fisco. E non faticherebbe ad avere un certo seguito. Ma gli eroi, di questi tempi, si vedono solo al cinema. Quindi è lì che bisogna andare anche oggi se si vogliono prendere le parti di un uomo che, rispondendo a un poco ortodosso ma efficace concetto di giustizia, toglie ai ricchi per dare ai poveri. Stavolta a riproporre il leggendario personaggio ci pensa la premiata ditta Ridley Scott e Russel Crowe, regista e protagonista de Il gladiatore per intendersi, che con il loro Robin Hood presentano un aspetto sconosciuto dell'eroe. E l'idea non è affatto male: raccontare una storia diversa, originale, differente dalle altre fin qui narrate; una vicenda che, con diverse libertà rispetto alla nota leggenda, finisce laddove le altre incominciano.
Tutti, infatti, finora, avevano raccontato del giustiziere che, messo al bando da un re avido e meschino, diventa fuorilegge e lotta contro i ricchi prepotenti per aiutare i miserabili vessati. Ma è bene scordarsi di Walter Thomas (Ivanhoe, 1913), di Douglas Fairbanks (Robin Hood, 1922), di Errol Flynn (Le avventure di Robin Hood, 1938), dei simpatici protagonisti del cartoon Disney (1973) e più di recente di Sean Connery (Robin e Marian, 1976) e di Kevin Costner (Robin Hood: il principe dei ladri, 1991). E anche della classica lady Marion, qui mostrata come una battagliera vedova non più giovane (Kate Blanchett), del perfido sceriffo di Nothingam ridotto a insignificante comparsa. L'intento di Scott è quello di umanizzare il mito, spiegando come una persona normale possa trasformarsi in eroe dei diseredati e paladino della giustizia. Il risultato è quanto ci si aspetta da un regista che sembra aver intrapreso con decisione il filone epico e da un attore che nei panni di Massimo Decimo Meridio aveva infiammato gli spettatori scatenando l'inferno prima contro i barbari e poi nel cuore di Roma: un film avvincente, spettacolare, ben girato, con riprese stile Il gladiatore, con un cast di prim'ordine con Max von Sydow e William Hurt al fianco di Crowe a Blanchett.
Gli ingredienti sono più che sufficienti - scenografie grandiose, battaglie spettacolari, intrighi di corte, un grande amore che sboccia dalla dissimulazione, il caso che stravolge le esistenze e indirizza la storia - per un colossal in piena regola, da oggi nelle sale, significativamente scelto per aprire in anteprima mondiale la prestigiosa rassegna cinematografica di Cannes, unica concessione alla spettacolarità in un cartellone contrassegnato dalla tipica autorialità transalpina.
Come ne Il gladiatore e ne Le crociate, anche in questa produzione di Scott non mancano libertà rispetto alla storia, come la sorte di re Riccardo, ed eccessi narrativi, il più evidente l'inatteso arrivo di lady Marion, in groppa a un destriero, con corazza e spada, sulla scena dell'ultima, decisiva battaglia per le sorti del trono inglese: una sorta di sbarco in Normandia, piuttosto inverosimile, trasferito al medioevo. Ma nel complesso lo spettacolo è godibile. E comincia con l'arciere Robin Longstride (questo il cognome del futuro fuorilegge) di ritorno dalla terza crociata in Terra Santa al seguito di Riccardo cuor di leone, re impegnato con le sue residue truppe a saccheggiare la Francia per cercare di recuperare parte di quanto speso nell'impresa. Durante un assedio il sovrano muore. Robin, insieme ad alcuni commilitoni, si sente sciolto dal vincolo che lo lega all'esercito e decide di tornare in Inghilterra, da dove manca da quando era bambino. Qui trova una nazione impoverita da infinite guerre, oppressa da un re inadeguato e interessato solo a spremere i sudditi con innumerevoli gabelle, indebolita e vulnerabile alle rivolte interne, e con lo spettro di un'imminente invasione francese.
Per una serie di circostanze, Robin si ritrova a Nothingam con un pugno di compagni d'armi, divenendo un eroe improbabile e tuttavia perfetto nel ruolo di salvatore di un paese che, sull'orlo di una guerra civile, appare incapace di opporsi all'invasore. Da sconosciuto arciere, si ritroverà, nei panni di un nobile cavaliere del quale assume momentaneamente nome e ruolo, alla testa dell'esercito del re Giovanni al quale restituirà un regno nuovamente glorioso. Ma la riconoscenza non è una dote del nuovo re e ben presto Robin da eroe diventa fuorilegge, assieme ai suoi amici Little John, frate Tuck e gli altri merry men, costretto a nascondersi nella foresta di Sherwood. Occorreva stabilire un retroscena storicamente plausibile e la vicenda personale del protagonista viene fatta ruotare attorno alla prima stesura della Magna Charta, avvenuta a Runnymede nel 1215 dopo la rivolta dei baroni contro re Giovanni. Ma Scott si prende la libertà di attribuirne l'origine nientemeno che al padre di Robin.
Quanti amavano lo Scott di Blade runner si diano pace. Il regista sembra aver trovato una nuova dimensione nel colossal epico. E se narrando la storia del generale romano divenuto gladiatore affrontava i temi della dittatura e della relativa ribellione, e raccontando le crociate descriveva il contrasto tra fanatismo e fede, tra cinica malvagità e senso dell'onore, in questo prequel, come si dice oggi, affronta i temi della giustizia e della libertà. Con una messa in scena maestosa, che però non riesce a emozionare fino in fondo. E un po' si rimpiangono le bravate di Robin Hood e Little John che "van nella foresta".

(Fonte: Gaetano Vallini, ©L'Osservatore Romano, 15 maggio 2010)

Noi stiamo sempre col papa

Noi stiamo col Papa, con questo grande Papa, che Dio ha donato alla Chiesa dopo Giovanni Paolo II. E in questo modo ci uniamo all’abbraccio dei 250.000 che oggi erano in piazza San Pietro.
Ad essi e a tutti i cattolici sparsi nel mondo, nel suo discorso, Benedetto XVI ha ridetto una cosa semplice semplice, che non dovremmo mai stancarci di ripeterci. Il nostro nemico principale è il peccato. Quando l’uomo pecca si “torce” (per usare un verbo dantesco) altrove rispetto alla luce di Dio. E tutto diventa improvvisamente buio e triste. Tutto diventa più difficile, perché l’uomo perde la direzione per la quale è fatto e nella quale trova il senso di sé e del mondo.
Il peccato, dunque, che la Chiesa conosce bene, col quale ha dovuto sempre fare i conti nella sua lunga storia. La Chiesa è nata peccatrice. Basta ricordare i tradimenti e le piccinerie dei suoi primi figli, del suo primo Papa, che il Vangelo non ha mai taciuto, che i primi cristiani non hanno mai taciuto. E oggi il successore di Pietro non tace. Dice apertamente che questo peccato è dentro la Chiesa e che certi peccati, in particolare, sono i più gravi e odiosi. Benedetto XVI non si è limitato a dire, ma ha agito. Ha convocato, ha dato disposizioni, ha rimosso chi doveva essere rimosso, ha chiesto umilmente scusa, ha incontrato chi non era mai stato incontrato.
Per questo risulta tanto più cattivo, violento, preconcetto e falso l’atteggiamento di tutti coloro che hanno sfruttato il dolore della Chiesa universale di fronte al proprio peccato, per un attacco senza quartiere, sfrontato, a tratti ridicolo, sicuramente eccessivo. Non si tratta di tacere, ma di dire con la necessaria discrezione e col necessario rispetto. Invece, nessuna discrezione e nessun rispetto, quando si tratta della Chiesa di Roma. Ci si occupa dei cattolici solo quando fanno del male, non certo quando fanno del bene, né quando vengono massacrati in giro per il mondo per il bene che fanno. E’ questo che non si può accettare.
Sono stati mesi in cui abbiamo percepito l’odio e, con esso, il desiderio, sempre presente in certe persone, che la Chiesa “finalmente” scomparisse, affogasse nel suo stesso male. Direi che molti hanno dato l’impressione di voler vendere la pelle dell’orso prima ancora di averlo ammazzato. E probabilmente sono anche riusciti ad ammazzarlo, questo scomodo “orso”, dentro il cuore di molti, almeno di quelli che bevono tutto ciò che viene diffuso dagli organi di disinformazione.
Voglio ricordare un fatto, un solo fatto, che risale a due settimane fa, al concerto del Primo Maggio in Piazza Santi Apostoli. Sul palco una noiosissima Carmen Consoli dedica una canzone ai bambini vittime della pedofilia, che subiscono violenza (cito a memoria) nelle scuole, nelle case, nelle CHIESE. Le tre parole sono dette in un crescendo d’intensità che volutamente accentua l’ultimo termine. Finalmente la Consoli ha trovato il motivo per sfogare tutto l’odio che prova dentro per la Chiesa, finalmente la cronaca le ha messo in mano l’arma giusta, il coltello da affondare nella piaga. Non dirà una parola, ovviamente, per il bambino che pochi giorni prima è stato lasciato morire, buttato via da qualche parte in qualche ospedale come feto non completamente abortito. Non ci sarà una parola per questi bambini che sono vittime non di qualche malato e criminale, ma di una legge del nostro Stato. No, per quelli non ci saranno parole, anche se la cronaca parla di loro. Perché quello che conta è diffondere l’odio che si prova dentro, come fanno intellettuali, romanzieri, pseudo scienziati che si aggirano lugubri nei salotti dell’intellighenzia di sinistra.
Epperò la Consoli ha detto una cosa giusta, e l’ha ribadita proprio Benedetto XVI, con il quale la noiosissima cantante non pensa forse di essere così in sintonia. E’ giusto quel crescendo, perché i pochi scandali che avvengono nella Chiesa fanno un rumore enorme. Perché la Chiesa è un bosco fatto di grandi alberi, che quando cadono non passano di certo inosservati. La grandezza della Chiesa è la sua debolezza e i suoi nemici sono lì sempre in agguato, in attesa che qualche albero stramazzi al suolo.
Il peggior nemico è il peccato. Quello del Papa è un richiamo alla responsabilità e alla verità delle cose. Per far parte del bosco occorre vigilare, stare in piedi “guardando di non cadere”, riconoscere sempre il proprio male ed essere pronti a riparare. La fortuna del cristiano è che il suo Dio è un padre buono, che non nega mai l’abbraccio al figliolo che torna umilmente a casa e chiede perdono dopo essersi macerato con i porci.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 16 maggio 2010)

Il peccato dei peccati cui inchiodare Chiesa e suoi ministri. Ma spesso è calunnia…

Don Giorgio Carli, don Luigi Giovannini, don Sandro De Pretis: tre sacerdoti della mia regione finiti recentemente nel tritacarne dell’accusa di pedofilia, l’accusa più infamante e difficile da smentire che vi sia.
Il primo, assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste” mentre la vittima, unico teste, è giudicata “inattendibile”. Don Giorgio lavora nella chiesa del Corpus Domini di Bolzano, nella “zona più popolata e popolare della città”, in cui “non è mai aleggiato il dubbio. Innocente, sempre e comunque, per la gente che lo conosce. Invece in appello il sacerdote viene condannato per violenza: “La memoria (della giovane vittima, ndr) riaffiorò dopo 14 anni e un lungo trattamento di 350 sedute chiamato ‘distensione meditativa’”, simile all’ipnosi. La ragazza, dopo tanti anni e tante sedute, dunque, racconta un sogno di stupro, in cui don Giorgio non compare neppure direttamente, ma solo grazie all’interpretazione degli “esperti”. “Modalità particolari, uniche nella giurisprudenza italiana”, recita il Corriere del 26/3/2009. Una cosa assurda, mai vista, mi conferma il professor Casonato, docente di Psicologia dinamica dell’Università di Milano, esperto di pedofilia. Il secondo, don Luigi: ama stare coi ragazzi, lo fa con passione e bontà (era un collega…); viene messo sotto accusa per molestie, il caso finisce sui giornali, come sempre poco delicati, e smette di insegnare. Tutto è nato da una diffamazione, come si scoprirà alla fine delle indagini, da parte di una mitomane che dice di avere le visioni della Madonna: è lei, nientemeno, a rivelarle i peccati del don! L’accusatrice verrà inviata dalla magistratura in un istituto psichiatrico per deboli di mente.
Il terzo, don Sandro: vocazione adulta, dopo aver fatto un’esperienza di volontariato internazionale, finisce missionario a Gibuti, piccola Repubblica del Corno d’Africa. A un certo punto viene imputato per corruzione di minori e pedofilia, poi l’accusa cambia (e cambierà molte volte ancora): detenzione di materiale pornografico. In realtà don Sandro ha le foto di bambini con bubboni sul braccio, che ha archiviato per sottoporle ai medici, da buon missionario. Quello di don Sandro diventa un caso internazionale, tanto che il governo Prodi sospende un finanziamento all’ospedale di Gibuti. Alla fine don Sandro viene liberato: sembra che la sua colpa sia stata quella di essere un testimone scomodo, l’unico occidentale a Gibuti nel 1995, quando venne ucciso il giudice francese Bernard Borrel. “La scia dei delitti porta a Ismail Omar Guelleh, attuale presidente della Repubblica”: la vittima è un prete la cui onestà e la cui presenza fanno paura (Vita Trentina, 5/4/2009). L’accusa è dunque quella usata a suo tempo verso i preti cattolici oppositori al regime dai nazisti e dai comunisti, secondo una logica terribile: screditare l’avversario, è meglio che ucciderlo. Riprendo l’elenco, raccontando qualcuno dei numerosi casi che si possono trovare con qualche ricerca.
Don Giorgio Govoni: condannato a 14 anni in primo grado, la giustizia lo ha del tutto riabilitato quando ormai era già morto di dolore, dieci anni fa: era stato accusato di essere il capobanda di una setta di satanisti feroci, dediti ad abusi su minori e decapitazione di bambini. Per trovare le prove sono stati dragati fiumi e perquisiti cimiteri, alla ricerca di corpi inesistenti. Sulla sua lapide è scritto: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato assiduamente i bisognosi…”. Don Giorgio, ricorda Lucia Bellaspiga, “era un prete particolare, amato dalla sua gente in modo non comune. Il “prete camionista”, era chiamato, perché per sostenere economicamente i suoi poveri, prima i meridionali, poi gli extracomunitari, nelle ore libere guadagnava qualche soldo guidando i Tir” (Avvenire del 3 agosto 2004). Ancora oggi i suoi parrocchiani lo ricordano con affetto e celebrano proprio in questi giorni l’anniversario della sua morte.
Don Paolo Turturro: parroco di Santa Lucia, a Palermo. Una zona difficile: “Nel Borgo vecchio l’anno scorso furono uccisi a coltellate due ragazzi, davanti a centinaia di persone, che dissero di non aver visto niente. La chiesa sta proprio davanti al portone del carcere dell’Ucciardone (di cui don Turturro è stato anche cappellano, ndr), l’aria che si respira è pesante. Possono essere vere le accuse che due bambini hanno scagliato contro padre Paolo Turturro, il prete antimafia incriminato per pedofilia? Uno choc, una cosa inconcepibile, alla quale nessuno sembra voler credere. Ma le imputazioni del sostituto procuratore della Repubblica, Alessia Sinatra, fatte proprie dal giudice per le indagini preliminari, Marcello Viola, sono da brividi”. Per la sua gente “le accuse contro don Paolo sono inventate, i ragazzini sono stati sentiti senza i genitori, li hanno forzati a raccontare cose non vere”. Così “trecento persone hanno espresso pubblicamente il loro affetto al prete in fiaccolata notturna ma, probabilmente, né loro né gli autorevoli esponenti della chiesa che si sono schierati a fianco di don Paolo conoscevano l’ordinanza del magistrato che, nel disporre il suo allontanamento, ha scritto: ‘Padre Turturro, in qualità di vero e proprio benefattore delle famiglie del quartiere e artefice di numerose iniziative in campo sociale, anche a sostegno delle istituzioni che contrastano la criminalità organizzata, è inevitabilmente, da lungo tempo, diventato personaggio di spicco, carismatico e nei cui confronti tutti i ragazzi e le rispettive famiglie nutrono da sempre profondi sentimenti di riconoscenza e rispetto, cui inevitabilmente si accompagna una soggezione psicologica non indifferente’. In sostanza, dice il giudice, il prete è sì quello che tutti sappiamo, un paladino della lotta a Cosa nostra, ma proprio per questo il pericolo di inquinamento probatorio diventa più concreto: ‘E’ altissimo’, scrive infatti il dottor Viola, ‘il rischio che le voci dei minori vengano soffocate dalle pressioni dell’indagato, del quale è indiscutibile il prestigio all’interno della comunità di quartiere’”. Il giornalista Gennaro De Stefano conclude così il suo servizio: “‘La sua attività non poteva rimanere senza risposta’, dicono nel quartiere. ‘Siringhe usate infilzate sul portone della chiesa, telefonate minatorie e uova lanciate contro la parrocchia sono state per anni l’avvertimento della mafia. La vendetta potrebbe essere arrivata puntuale con questa sporca storia di pedofilia’. Speriamo sia davvero così” (Oggi, n. 40, 2003). Don Paolo, che vive scortato perché avversato dai boss, amico di don Puglisi, il parroco ucciso dalla mafia, per tutti “prete antimafia” vicino agli ultimi e soprattutto ai bambini a rischio, viene condannato nel 2009 in primo grado a sei anni e sei mesi per pedofilia e a risarcire 50 mila euro alle vittime, costituitesi parti civili. Sembra abbia avuto nei confronti di due bambini “attenzioni particolari” e che in un caso abbia anche “baciato sulla bocca uno dei piccoli” (http://palermo.blogsicilia.it/2009/07/co ndannato-don-paolo-turturro/). Scrive Repubblica del 18 luglio 2009: “Il presidente Fasciana ha anche deciso la trasmissione alla procura degli atti di un ragazzo, Benedetto P., per la testimonianza resa durante il processo in aula. Per il giovane si profila l’iscrizione nel registro degli indagati… Durante il processo, deponendo in aula, altri ragazzini hanno ritrattato o ridimensionato le accuse mosse al prete durante le indagini. Non hanno cambiato versione invece le due presunte vittime”. Alla notizia della sua condanna, che non è definitiva, nessuno tra coloro che ben lo conoscono, ci crede. Scrive un ragazzo sul blog Live Sicilia, quotidiano on line, sotto la notizia della condanna: “Sono stato con don Paolo Turturro dall’età di 9 (1989) anni fino ai 14 (1994), notte e giorno ed è stato come un padre per me, io che un padre non l’ho mai avuto (era un mafiosetto da quattro soldi) e la madre (alcolizzata), tutti e due morti. Non credo assolutamente alle volgari, ignobili ed infamanti accuse. Eravamo più di cento bambini e ragazzi con i quali si parlava si giocava e si viveva insieme tutti i giorni e mai nessuno!!! ha accennato o ha avuto il minimo dubbio sulla sua moralità ed operato. Non credo che un uomo cambi il suo stile di vita, il suo pensiero, la sua anima col trascorrere del tempo” (http://www.livesicilia.it/2009/07/17/condannato- don-turturro/). Al contrario, su molti siti dei cacciatori di pedofili di professione, degli anticlericali in servizio permanente, dei sedicenti “laici”, si sprecano gli insulti e le maledizioni, contro il don Paolo e, tramite lui, contro la chiesa in generale. Inesistenti i garantisti, i dubbiosi, coloro che si interrogano. Se non tra coloro che don Turturro lo hanno conosciuto e che giurano sulla sua innocenza. Quanto al bacio sulla bocca di don Paolo, divenuto “violenza sessuale”, “pedofilia” (dimostrabile, e come?), fa venire alla mente un altro caso, quello di un altro prete “pedofilo”: don Ilario Rolle, famoso per la sua lotta alla pedopornografia, presidente dell’Associazione Davide onlus per la tutela dei diritti dei minori in rete (attraverso l’invenzione del famoso filtro Davide), consulente del governo per la sicurezza dei minori in rete, fondatore di una casa di accoglienza detta “Pronto soccorso sociale” per l’ospitalità di emergenza di minori e giovani in situazioni di disagio. Don Ilario è stato condannato a tre anni e otto mesi per violenza sessuale su minore: avrebbe baciato sulla bocca un bimbo di dodici anni. “Il pm Stefano Demontis – scrive il Corriere di Chieri e Moncalieri – aveva chiesto un anno e otto mesi, ma il Gup ha deciso di inasprire la pena non condividendo l’ipotesi di violenza lieve sostenuta dalla procura. Nella sentenza il giudice non ha trascurato anche i ‘guai giudiziari’ molto simili avuti in passato da don Rolle. Due episodi che non portarono a nessuna condanna, uno dei quali avvenne quando si trovava ancora a Carmagnola. Era il 1990, don Ilario aveva 39 anni ed era il parroco di Vallongo. Venne accusato di molestie da un ragazzino di 12 anni, ma venne completamente prosciolto. Il prete si era difeso affermando che il minore era uno sbandato che aveva voluto vendicarsi perché non era stato accolto in comunità. Il ragazzino faceva parte del mondo della baby prostituzione di Porta Nuova e a presentarlo a don Rolle era stato un noto avvocato torinese. La difesa, sostenuta dall’avvocato Stefano Castrale, ha già annunciato appello”.
Scrive Repubblica, sotto il titolo “Il bacio proibito del prete antipedofilia: “E’ conosciuto per il suo impegno nella lotta alla pedopornografia, è il creatore di siti Internet con filtri protetti per i bambini, è uno dei preti che ha ricevuto più premi e riconoscimenti, e ha sempre detto che la sua missione è quella di ‘proteggere i minori’. Eppure proprio da un bambino è stato messo nei guai…”. E conclude: “Ma tre anni e otto mesi di carcere sono tanti, e l’accusa di pedofilia rischia di rovinare per sempre una vita dedicata alla lotta contro la violenza sessuale sui minori” (Repubblica, 3/12/2009). Due anziane suore orsoline di Bergamo: lavorano in un asilo, vengono condannate a nove anni e mezzo in primo grado per abusi su otto bambini tra il 1999 e il 2000. Carmen Pugliese, il pubblico ministero che ha chiesto e ottenuto la pesante condanna, ha dichiarato: “Ci siamo sforzati di non farci condizionare dall’abito che portavano le imputate. Abbiamo avvertito il peso di lavorare in una città cattolica, anche per lo scarso rilievo pubblico dato a una vicenda così grave” (http://italy.indymedia.org/news/2005/04 /777565_comment.php, sotto il titolo “Per non dimenticare lo scandalo dei preti pedofili”: uno dei tanti siti, specie di sinistra, che esultano a ogni condanna di preti, e che omettono sistematicamente ogni assoluzione). Nel luglio 2004 le suore vengono assolte in secondo grado, con formula piena, dopo tanta “fortuna” sui giornali. Da mostri sicuri a innocenti certi. Suor Marta Roversi, nota come suor Rosa: qua e là compare come la suora “pedofila”. Avrebbe coperto l’autista di un asilo di Calabritto, colpevole di molestie su minori. Suor Rosa è stata condannata a tre anni in primo grado e appello. La sentenza in appello è stata però annullata dalla Cassazione e quindi si celebrerà un nuovo appello.
Don Aldo Bonaiuto: responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, dedita all’aiuto, tra le altre cose, delle prostitute, e alla lotta contro il traffico di nigeriane, viene indagato nel 2003 per presunta violenza sessuale nei confronti di un bimbo di cinque anni. A chiamarlo in causa è il figlio di una “lucciola” dell’ex Jugoslavia che don Bonaiuto aveva sottratto dal marciapiede e ospitato nella sua casa-famiglia “Papa Giovanni XXIII”. “C’è un episodio nel passato di don Aldo Bonaiuto che merita di esser ricordato. Il parroco cercò di aiutare la prostituta nigeriana Evelyn Okodua, uccisa a Senigallia il 26 febbraio del 2000, mettendosi contro i suoi presunti sfruttatori. Denunciati dalla polizia, non sono mai stati arrestati. La causa del delitto della nigeriana fu la volontà di uscire dal giro della prostituzione, a cui i suoi sfruttatori si sono opposti ferocemente. Evelyn dieci giorni prima della sua uccisione chiese aiuto a don Bonaiuto e a don Benzi. Il suo corpo straziato fu ritrovato in mezzo a una sterpaia di Passo di Ripe dove si prostituiva. Forse quell’accusa infamante di pedofilia potrebbe essere un segno di ritorsione degli sfruttatori danneggiati dall’impegno sociale del parroco. E la procura sta seguendo indagini anche verso questa ipotesi, quella della malavita organizzata sul racket delle prostitute” (http://www.vivacity.it scritto da Anna Germoni). Don Aldo è stato assolto.
Don Giancarlo Locatelli: accusato per possesso di materiale pedopornografico, assolto perché il fatto non sussiste il 7 novembre 2006. Quattro sacerdoti torinesi: accusati di violenza da tale Salvatore Costa, che vive di espedienti, di furti e di ricatti. Se non mi date dei soldi, vi denuncio: questa la sua strategia, allargata poi ad almeno altri tre preti, uno milanese, uno ligure e uno pugliese, nel corso dei suoi vagabondaggi. Salvatore Costa, racconta Repubblica, “dopo un’infanzia per strada, passava le sue giornate a fare il giro delle chiese, tra elemosine e ricatti”. Per strada significa soprattutto in via Cavalli, a Torino: là dove dagli anni Ottanta “uscivano allo scoperto decine di ragazzi di strada. Giovani di 16-17 anni; a volte anche meno. Disposti a tutto… Funzionava così, a quei tempi. Quando si vendeva il proprio corpo per qualche migliaio di lire. Per comprarsi un paio di jeans alla moda, scarpe firmate”. Oggi non è diverso, se non per il luogo: non più via Cavalli, per chi vuole sesso e minori. “Chi cerca minorenni li trova più facilmente in qualche cinema a luci rosse. Ormai sono quelli i luoghi di ritrovo durante il giorno. E quei ragazzini in cerca di soldi facili sono lì già dal primo pomeriggio, fino a sera inoltrata. Se ne stanno sulle scale oppure non lontano dagli ingressi. Per una ventina di euro sono disposti a tutto, o quasi” (la Stampa, 9/8/2007). Costa non ha mai avuto un lavoro. Chiede l’elemosina ai preti, come tanti, e talora ad alcuni estorce denaro, minacciando di infangarli pubblicamente per presunti rapporti con lui quand’era minore. Finché uno di loro lo denuncia. Dei preti ricattati uno viene subito scagionato. Due invece non ne escono benissimo: ammettono di avere avuto rapporti omosessuali, ma mai con minori. Del resto le dichiarazioni del Costa sui suoi rapporti con loro risultano “contraddittorie” e non credibili. Sembra che Costa conoscesse le debolezze di qualche sacerdote omosessuale e puntasse sulla possibilità di retrodatare presunti rapporti, per trasformare in un reato ciò che non lo è. Alla fine la magistratura condanna Costa a quattro anni e sei mesi di carcere. La sua abitudine alla diffamazione è sempre più chiara anche grazie alle intercettazioni. In una di queste egli dichiara alla compagna, riferendosi al suo primo legale (ne cambierà quattro): “Ma lo mando a fanc… e lo cancello come avvocato… te lo giuro, giovedì all’interrogatorio faccio finta che mi ha molestato due bambini davanti a me e lo rovino” (la Stampa, 12/12/2008). Insomma, “un ricattatore di professione”, come lo definisce il gip Emanuela Gai. Parte della pena Costa la passerà agli arresti domiciliari, in una parrocchia. “Salvatore Costa è cambiato, ha mostrato l’intenzione di chiudere questo triste capitolo della sua vita. Certo all’interno della parrocchia darà una mano, ma il suo obiettivo è di cercarsi finalmente un lavoro”: così ha dichiarato l’avvocato del Costa. Intanto il ricattatore sarà aiutato. Da un prete (Repubblica, 6 e 8/2/2009). Don Marco: della sua denuncia per pedofilia parla il Giornale del 2 aprile 2010. Si riportano a grandi caratteri le accuse di un padre: “Pedofilia, la denuncia del padre di una bambina: un padre molestò mia figlia, lo hanno coperto”. Il sacerdote accusato di “semplice” palpeggiamento, ha oltre settant’anni, e nessuna denuncia precedente alle spalle. A inguaiarlo le parole di una bambina di sette anni. Il Giornale spiega che la denuncia della bambina è certamente credibile. Gran parte della letteratura giuridica e psicologica dice il contrario: le testimonianze dei bambini, senza il sostegno di prove concrete, sono del tutto inaffidabili, in quanto i bimbi sono troppo influenzabile, sotto mille aspetti. Ma il giornalista che ha confezionato il titolone e l’articolo, non sa nulla. Chi c’è dietro la bambina? Un uomo con problemi economici e non solo, che era stato sempre aiutato dalla Caritas e dallo stesso don Marco, come dichiara lui stesso: “Prima di allora, io con i salesiani avevo sempre avuto un buon rapporto. Con me erano stati generosi, mi avevano aiutato quando ero in difficoltà. Ero un ‘mammo’, un padre single con due figli, e faticavo ad arrivare a fine mese”. Poi aggiunge: “Dopo la mia denuncia è cambiato tutto. Ci hanno chiuso le porte dell’oratorio… Hanno detto in giro che mia figlia si era inventata tutto perché io volevo estorcere del denaro alla chiesa. Ma quale padre al mondo costringe la figlia a inventarsi un racconto così?”. Nessun padre? La cronaca ce ne offre decine e decine: ad esempio il padre che spinse il figlio Jordan Chandler ad accusare ingiustamente Michael Jackson per estorcergli 20 milioni di dollari. Avvenire del 3 aprile racconta: “Don Marco, il salesiano accusato di molestie a una bambina… è tornato spontaneamente nel 2008 dal Brasile per dimostrare al magistrato la propria innocenza. Ma nessuno lo ha detto… Sulla vicenda è in corso un processo. Tutti sono convinti dell’innocenza di don Marco, a cominciare dalla sua vecchia parrocchia. E l’ispettore dei salesiani di Milano, don Agostino Sosio, ricorda di aver rigettato una richiesta di denaro del padre per non sporgere denuncia. A quel punto la congregazione è andata fino in fondo per difendere in tribunale il sacerdote”. Aspettiamo dunque la sentenza, sebbene per il Giornale, questa volta in perfetta sintonia con i metodi dei quotidiani di sinistra, i preti denunciati meritano già la condanna e il linciaggio, almeno mediatico, ben prima dell’accertamento dei fatti. Solo notiamo che le prove di un palpeggiamento non si troveranno mai. Rimane quindi una domanda: è più credibile il settantasettenne don Mario, una vita al servizio degli altri, o l’accusatore in perenne ricerca di denaro, di cui sopra? Tre preti bresciani: coinvolti tutti e tre nella piscosi collettiva di Brescia, a cui Antonio Scurati ha persino dedicato un romanzo. La psicosi inizia nel 2002: piano piano per contagio vengono coinvolti appunto 23 bambini, tre preti, sei maestre e bidelli d’asilo. I tre sacerdoti sono: don Armando Nolli, don Amerigo Barbieri, don Stefano Bertoni. Scrive Repubblica: “Dodici persone in tutto che rappresentano in un colpo solo tutto quello che Brescia ha sempre portato come modello: il suo sistema educativo, le sue strutture sociali, la sua vocazione di cooperazione e solidarietà, la sua chiesa che da quindici secoli ne costituisce l’anima istituzionale, politica e spirituale. Una macchina sociale che rischia di collassare per aver tradito i suoi figli. Per questo da più di un anno, da quando questo incubo collettivo è incominciato, qualcosa nell’anima della città si è rotto. Difficile pensare che non sia successo nulla, impossibile pensare che sia successo qualcosa” (18/10/2004). L’assoluzione finale per tutti gli indagati, perché “i fatti non sussistono”, arriva il 31 marzo 2009. Ancora una volta esperti e magistrati concludono che le dichiarazioni di bambini sotto pressione degli adulti e delle loro convinzioni, non sono attendibili. Dai casi cui si è accennato, ma se ne potrebbero elencare molti altri, emergono alcune considerazioni. La prima: l’accusa di pedofilia non dovrebbe essere sufficiente a distruggere una persona, prima che la colpa non sia stata provata. Se la colpa è certa, ben venga l’evangelica macina al collo. Lo stato faccia il suo dovere, la chiesa, soprattutto, vigili sui suoi preti e seminaristi: torni alle regole pre Concilio, allorché, prima che uno fosse accettato in seminario, veniva vagliato e controllato con grande scrupolo e severità. I vescovi, soprattutto, facciano il loro dovere: che non è anzitutto quello di denunciare al tribunale un prete che sbaglia, anche perché non è così facile accertarlo, quanto quello di conoscere, frequentare, sostenere come un padre i suoi seminaristi e i suoi sacerdoti (cosa che purtroppo avviene assai di rado). La seconda: in molti casi sacerdoti e religiosi vivono spesso a contatto con situazioni limite, con tossici, poveri, squilibrati, sbandati, emarginati. Da chi vanno a chiedere aiuto immigrati senza lavoro, persone che hanno perso tutto, o in difficoltà di vario tipo? Alla Caritas, alla San Vincenzo, alle mense dei poveri che nascono in moltissime città dal volontariato cattolico, alle porte delle canoniche… Non è dunque raro che proprio da costoro i sacerdoti vengano talora ripagati con accuse infamanti, per estorcere denaro, per malintesi, scontri, ricatti, vendette… Come nei “Miserabili” di Victor Hugo è frequente che il beneficiato approfitti del benefattore, specie quando le sue condizioni sono disperate. Si tratta di una situazione ben conosciuta, per esempio, da chi ha avuto a che fare con le comunità terapeutiche di tossici, in cui non di rado succede che il rapporto di amore-odio tra i drogati e i loro aiutanti-“guardiani”, laici o preti che siano, finisca in accuse terribili nei confronti di quest’ultimi, sovente puramente calunniose. Inoltre la scelta di stare accanto agli emarginati, procura talora nemici pericolosi: magnaccia, mafiosi, sfruttatori, cui l’impegno di un sacerdote coraggioso dà immenso fastidio. In tutti questi casi l’accusa di pedofilia può essere una calunnia, e rende molti sacerdoti, non dei “mostri”, ma delle vittime della loro stessa carità e generosità. Vittime, per di più, infangate e derise dal pregiudizio e dall’odio che la superficialità di molti media alimenta, non senza colpa.

(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 12 maggio 2010)

sabato 8 maggio 2010

«Padre Pio sepolto fra simboli massonici»

Padre Pio da Pietrelcina, il santo stimmatizzato che nel 1913 si lamentava per quei «disgraziati fratelli» che «corrispondono all’amore di Gesù col buttarsi a braccia aperte nell’infame setta della massoneria», sarebbe stato traslato e sepolto in una chiesa zeppa di simbologie massoniche: il nuovo santuario di San Giovanni Rotondo progettato da Renzo Piano. L’accusa non è nuova, già nel 2006 la rivista ultra-tradizionalista «Chiesa Viva» lanciò l’allarme con un polemico studio dell’ingegner Franco Adessa. Più cauto, ma ugualmente severo, anche il fascicolo «L’oltraggio a Padre Pio», pubblicato tre anni dopo da Angelo Maria Mischitelli, autore di vari libri storici sul santo del Gargano. Ora è destinato a far discutere il primo volume che tratta diffusamente l’argomento, Il mistero della Chiesa di San Pio (edizioni Settecolori, pp. 216, 15 euro), da oggi nelle librerie italiane.
L’autore è Francesco Colafemmina, un giovane studioso, laureato in filologia classica, esperto di arte sacra e titolare del blog «Fides et Forma», tra i promotori di un appello a Benedetto XVI per il «ritorno ad un’arte sacra autenticamente cattolica». Colafemmina non è tradizionalista e dice di non condividere «l’approccio apocalittico» degli studi come quello di «Chiesa Viva», pur riconoscendogli il merito di «aver messo il dito su una piaga».
Davvero il nuovo santuario di Padre Pio contiene simboli massonici?
«Dalla mia analisi sembrerebbe proprio di sì. Ad ogni modo, credo che l’aspetto più interessante sia valutare l’effetto che la vista di quel santuario fa sui fedeli, dato che la mia ricerca è nata dopo una visita che ho fatto da semplice devoto del santo».
E quale effetto fa, secondo lei?
«Sicuramente molti fedeli rimangono sconcertati dall’assenza di chiari segni cristiani, a partire dalla forma stessa del santuario, che è un Nautilus, una conchiglia fossile…».
Ma la conchiglia non è un simbolo cristiano?
«La conchiglia di San Giacomo sì, ma il Nautilus no. Quest’ultimo però ha un significato pregnante per la massoneria, dato che simboleggia il percorso iniziatico e la perfezione del Gadu, cioè il Grande Architetto dell’Universo, la “divinità” massonica».
Faccia qualche altro esempio di queste presunte simbologie massoniche.
«Nell’arazzo dell’Apocalisse di Rauschenberg, la Gerusalemme celeste è già scesa in terra mentre su di essa incombe il Drago a sette teste, che appare vincitore, e da nessuna parte c’è Cristo vittorioso. Nel portale di Mimmo Paladino c’è un capretto con le gambe spezzate che potrebbe indicare l’iniziato che è entrato in loggia, e ha una stella a cinque punte. L’altare di Arnaldo Pomodoro ha la forma di piramide rovesciata e nell’alchimia la piramide rovesciata indica il luogo in cui è custodita la pietra filosofale. Mentre nella formella del tabernacolo Cristo ha le mani rivolte verso il basso. Un chiaro segnale massonico che in questo caso simboleggia il materialismo della Chiesa».
Non potrebbe trattarsi di coincidenze?
«Anche se così fosse, il problema resta. Non si ha la sensazione di entrare in una chiesa. E per di più quel santuario è diventato un modello per la nuova arte sacra, concentrata più sulla notorietà dell’architetto che sull’aderenza allo spirito della liturgia e al messaggio evangelico».
Ma chi ha curato il progetto artistico e gli arredi sacri?
«Secondo quanto riportato nelle memorie di padre Gerardo Saldutto, Renzo Piano sin dal 1991 si era prefissato di fare di quell’area di San Giovanni Rotondo “un luogo magico” e “una chiesa aperta”. A scegliere gli artisti è stato un suo collaboratore, Mario Codognato. Lo stesso Codognato che nella famosa mostra “Barock” al museo Madre di Napoli, ha fatto esporre la donna crocifissa di Cattelan».
Eppure il Vaticano ha supervisionato la realizzazione della chiesa…
«Sì, certo, il consulente liturgico è stato monsignor Crispino Valenziano, che fin dal 1994 aveva sancito la necessità di realizzare una chiesa senza inginocchiatoi e nella quale ci fosse sull’altare una croce assolutamente priva del crocifisso, richiamando a giustificazione di queste scelte presunte norme liturgiche post-conciliari».
Perché le definisce presunte?
«Perché non si trovano scritte da nessuna parte e oggi appaiono non in sintonia con il magistero liturgico di Papa Benedetto. Mi riesce perciò difficile capire la ragione per la quale ora si è deciso di traslare nella cripta di quel santuario il corpo di san Padre Pio…».
Non era nell’ordine delle cose che il corpo venisse custodito lì?
«La decisione era già stata presa nel 2002. Ma vorrei ricordare che due anni fa venne pubblicamente smentita dai frati di San Giovanni Rotondo per non suscitare le ire del fedeli. Ora purtroppo è stata messa in atto».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 5 maggio 2010)

giovedì 6 maggio 2010

“Draquila”: una recensione da non condividere

Più che sulle pagine di Avvenire, una recensione così “simpaticamente” positiva dell’ultimo film della Guzzanti, Draquila - L’Italia che trema, a firma di Alessandra De Luca, l’avrei vista meglio su L’Unità o al più su “Repubblica”.
Il film è infatti una lettura a senso unico degli eventi, portata avanti con ostentato disprezzo per tutto ciò che Protezione civile e Governo hanno fatto in occasione del terremoto aquilano; strettamente coerente con la mentalità univoca della Guzzanti - notoriamente schierata politicamente, abituata a travisare la realtà enfatizzandola ai fini della sua satira politica - ha impunemente trasferito questa sua deformazione mentale (che sostanzialmente vede solo un colore e sente soltanto ciò che vuol sentire) in un prodotto che oggi la solita critica "amica" vorrebbe contrabbandare come fedele e professionale ricostruzione dei fatti . Un prodotto invece che professionale e veritiero non è.
Che la troupe, arrivata immediatamente dopo la catastrofe, abbia lavorato in loco per un anno intero, “con 700 ore di girato”, centinaia di “interviste e colloqui, dati, statistiche, documenti ufficiali”, non significa assolutamente nulla, se poi nel montaggio si taglia e cuce soltanto quello che serve ad evidenziare una determinata linea di pensiero, quella e solo quella; è soltanto un modo disonesto di costruire “una” verità, non “la” verità: una verità a servizio esclusivo di convinzioni soggettive; non importa poi se per farlo si omette di proposito tutto ciò che potrebbe in qualche modo contraddirle o renderle meno credibili.
E la Guzzanti, si sa, è maestra in questo.
Ecco perché mi ha molto deluso vedere su Avvenire - che dovrebbe essere esempio di limpidezza, di equidistanza, di obiettività - un commento così semplicistico e superficiale, in cui l’autrice si schiera e condivide in maniera evidente il messaggio di un lavoro falsato dall’ideologia politica. La contestazione è giusta, libera e permessa a chiunque: ma va fatta su basi serie e su provate motivazioni, con un onesto approccio ai fatti. C’è sempre un pro e un contro, in tutte le cose: ma proporre e giustificare sempre e comunque, ad ogni costo, “il contro”, è solo un modo di fare informazione strumentalizzata, disfattista e partitica.
Nella fattispecie sfruttare un evento catastrofico semplicemente per contestare e criticare ferocemente il governo, servendosi dei soliti ripetitivi luoghi comuni , ormai stantii, non è offrire al pubblico una lettura serena dei fatti, e tantomeno fare della storia o costruire una documentazione appena accettabile: si scade semmai in una sceneggiatura da avanspettacolo. Ripeto: servirsi della tragedia di una città, del dolore autentico e straziante di tanta povera gente, per perorare ad ogni costo un proprio credo politico, comunque discutibile, è vile e spregevole. Come del resto lo è tutta la produzione della Guzzanti, nota mangiapreti anticlericale, che non ha mai disdegnato di mettere alla berlina la Chiesa e il Papa nei suoi scosciati e scurrili siparietti. Nihil novi sub sole!
Quindi, prima di osannare questo film, esternando il proprio compiacimento sul tipo: questa volta “Sabina Guzzanti non punta per niente a far ridere"; come dire: finalmente è arrivato il giusto giudice, è arrivata la vendicatrice, colei che metterà ogni cosa al posto giusto, fustigando le malefatte altrui (quando sarà la fustigatrice delle proprie?), pensiamo che la De Luca, firmataria del pezzo, avrebbe potuto porsi qualche altra domanda, guardando il film con un occhio più professionale, adulto e smaliziato.
Del resto, di opinionisti alla Guzzanti, malevoli, in cattiva fede, univoci, tendenziosi, vacui e calcolatori, ne abbiamo piene le televisioni e la carta stampata. E anche le tasche! Ne siamo veramente stufi! Per cui sarebbe quanto mai opportuna una moralizzazione del settore, introducendo nello spocchiume e nella saccenteria imperanti, una buona dose di umiltà e di obiettività, per il bene della verità, nel rispetto di tutti.

(Mario, Administrator, 5 maggio 2010)

[P.S. Per correttezza ritratto quanto ho scritto più sopra riferendomi ad "Avvenire". Una nota chiarificatrice, inviatami gentilmente dal direttore in data odierna, tra l'altro dice testualmente: "l’articolo di Alessandra De Luca era un pezzo di cronaca e non un “commento” di approvazione o disapprovazione. E il "dietro le quinte" di Gigio Rancilio completava il quadro con le “attese” (da noi disattese) di Sabina Guzzanti. Grazie a lei per l’attenzione e un cordiale saluto. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire".
Ricambio di cuore i saluti, caro direttore, e la ringrazio per il chiarimento. La sua precisazione mi fa ricredere con sollievo sul giudizio negativo espresso più sopra nei confronti del suo giornale. E faccio ammenda con piacere. Buon lavoro. M.L.]

(Mario, Administrator, 7 maggio 2010)