venerdì 24 dicembre 2010

Ancora sul Vaticano II: pastorale o dottrinale? Rottura o continuità col passato?

Circa la questione della continuità dei testi conciliari col Magistero precedente della Chiesa, è importante distinguere, come fanno i Papi del postconcilio, negli insegnamenti conciliari un aspetto pastorale da un aspetto dottrinale.
L’idea diffusa che il Vaticano II sia un Concilio solo pastorale è un pregiudizio che denota insufficiente informazione sia dei testi stessi del Concilio come delle spiegazioni che di questi testi sono state date dal successivo Magistero della Chiesa, è una tesi che fa comodo ai modernisti, i quali relativizzano il fatto dottrinale riducendo tutto a "pastorale", cioè a modernismo e fa comodo anche ai lefevriani per aver modo di sottrarsi al dovere di accettare le dottrine conciliari con la scusa che in pastorale la chiesa può sbagliare.
Bisogna dire invece che l’aspetto pastorale del Concilio riguarda il suo intento di recuperare i valori della modernità e di comunicare all’uomo moderno il messaggio evangelico usando un linguaggio adatto ai nostri tempi e comprensibile dall’uomo d’oggi, suggerendo linee di azione e di attività pastorale.
Ma l’insegnamento conciliare non si limita a ciò. Il Concilio, oltre a confermare molti punti di dottrina cattolica, propone su molti punti, come hanno più volte ripetuto i Papi del postconcilio, una più avanzata conoscenza della divina rivelazione, o in modo diretto e immediato o in forma indiretta e mediata.
Il testo conciliare, nella prima parte della famosa "nota previa" al Segretario del Concilio Mons.Pericle Felici, dice bensì che il Concilio non intende proporre esplicitamente nuove definizioni dogmatiche; ma questo non toglie che di fatto, come lascia intendere chiaramente la seconda parte della "nota" e come di fatto è avvenuto - basta per accorgersene un’attenta lettura dei testi col dovuto criterio teologico – il Concilio contenga pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite, come per esempio quando definisce l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa.
Stando così le cose e tornando al problema della continuità, bisogna distinguere il riferimento ai documenti pastorali da quello ai documenti dottrinali. Quando il Papa ci ha ricordato la "continuità nella riforma" fra il Vaticano II e il precedente Magistero, evidentemente si è riferito agli insegnamenti dottrinali e li suppone, giacchè non è pensabile per un cattolico che un Concilio smentisca nella dottrina della fede o prossima alla fede quanto ha detto il Magistero precedente, perché ciò supporrebbe la convinzione ereticale che Cristo, quando ha promesso alla sua Chiesa di assisterla fino alla fine del mondo affinchè non venga meno nella verità, ci ha ingannati.
Indubbiamente la continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche - è utile anche questo: si pensi solo alla continua ripetizione del Credo che noi cattolici facciamo in ogni Messa domenicale -, ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli.
Se invece facciamo riferimento agli insegnamenti pastorali del concilio, in questo campo il Magistero non è infallibile, per cui non è proibito al cattolico ben preparato avanzare delle prudenti riserve per non dire critiche a certi indirizzi o modalità di comportamento o di linguaggio pastorale proposti dal Concilio. Io stesso come molti altri cattolici, mentre accolgo con assoluta adesione gli insegnamenti dottrinali, mi sento di dover avanzare delle rispettose critiche a certi orientamenti pastorali, i quali, dopo un’esperienza di quarant’anni, hanno dato prova di ottenere cattivi risultati e sono certamente una delle cause dell’attuale crisi della Chiesa. Dunque sono orientamenti che vanno corretti o abrogati e sostituiti con altri migliori e più saggi.
Per ottenere questo al limite si potrebbe indire un nuovo Concilio, ma può essere sufficiente una correzione di rotta nella pastorale da parte dell’episcopato, oggi ancora troppo legato a quegli orientamenti non più adeguati per non dire dannosi.
Mi riferisco ad un’ormai ben nota mentalità buonista, troppo accondiscendente nei confronti degli errori, delle ingiustizie e degli scandali, ad un certo ecumenismo irenista, opportunista, inconcludente e reticente, ad un rapporto col mondo moderno basato sull’equivoco e il cedimento, ad un linguaggio che a volte può essere strumentalizzato dai modernisti e ad altre cose.
La proposta di Mons. Gherardini di "un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti" prima di "metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità", mi sembra dettata – se non interpreto male il pensiero dell’illustre teologo – da una certa pretesa di sottoporre i documenti ad un esame per verificare se questa continuità esista o non esista, quando invece il teologo cattolico deve dar per scontato che esiste, pena la messa in dubbio dell’assistenza dello Spirito Santo, alla quale accennavo sopra, sempre che Gherardini si riferisca, come mi par di capire, ai documenti dottrinali, giacché per quelli pastorali, come ho detto, non esiste l’infallibilità, per cui almeno in linea di principio possono essere criticati o abrogati.
Quanto a ciò che afferma il prof. Corrado Gnerre ("mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso"), in realtà, come dimostra la storia del dogma, la Chiesa è sempre successivamente intervenuta a chiarire, esplicitare o interpretare pronunciamenti precedenti che avevano dato occasione a dubbi, controversie o false interpretazioni. E il postconcilio non fa eccezione. Per questo il riferimento che noi cattolici dobbiamo avere davanti allo sguardo non è l’interpretazione di questo o quel teologo o vescovo o cardinale - neppur il Papa come dottore privato è infallibile -, ma è l’interpretazione ufficiale del Magistero che nel corso di questi quarant’anni è intervenuto moltissime volte ad offrirci la retta interpretazione di singoli passi o documenti, sia per bocca del Papa che degli organi della Curia Romana o con lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica o col nuovo Codice di diritto canonico.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Messainlatino.it, 18 dicembre 2010)

C'era una volta l'università italiana, quella che la Gelmini vuol far rinascere

«…C'era una volta l'università italiana: la più bella del mondo, la più antica, la più nobile. Essa poggiava su due pilastri: la separatezza e la cooptazione. Erano gli anni di Enrico Fermi, di Giulio Natta, dei giovani fisici di via Panisperna o dei giovani chimici di via Mezzocannone che tutto il mondo ci ha invidiato.
Signore presidente, quella che era l'orgoglio dell'Italia è oggi una bellezza decaduta. La separatezza è diventata astrazione, estraneità, incomprensione del mondo moderno, dei suoi meccanismi di sviluppo economico, culturale e sociale. La cooptazione è diventata privilegio. Le incrostazioni si sono stratificate, le baronie consolidate, e col passare del tempo si è giunti a un'università pensata in funzione della collocazione dei docenti e non della preparazione degli studenti. Con tutto quello che ne consegue in termini di sprechi o di autentici scandali.
Qualche dato:
- In Italia esistono 95 università, oltre 320 sedi distaccate, ma si laureano meno studenti che in Cile.
- Sono attivi 37 corsi di laurea con un solo studente e 327 facoltà con 15 iscritti. Nel 2001 i corsi di laurea erano 2.444, oggi sono arrivati a 5.500. Negli altri Paesi europei, la media è la metà.
- Le materie insegnate nelle università italiane sono circa 170mila, la media europea è di 90mila.
Come stupirsi dunque se nessun ateneo italiano figura tra le 150 università migliori del mondo?
Abbiamo detto, innanzi tutto ai giovani, che è necessario cambiare. Ed è necessario farlo soprattutto per il loro futuro, introducendo valutazione, merito, concorrenza.
Sappiamo che i giovani tracciano una diagnosi dei mali dell'università molto simile alla nostra. Ma non si fidano del fatto che la strada da noi intrapresa possa davvero migliorare le cose, e ritengono che l'avvio di un percorso nuovo necessiti di finanziamenti in una quantità tale che la situazione del Paese non consente.
Noi rispettiamo questa opinione, quando viene espressa nelle forme di un confronto civile. Ma affermiamo con chiarezza che molte delle tesi che sono state sostenute per contrastare la riforma Gelmini tradiscono una lettura forse disattenta o pregiudiziale della riforma stessa.
Faccio qualche esempio.
Gli studenti dicono che questa legge colpisce i giovani ricercatori e aumenterà il precariato. La verità è che da domani un ricercatore inizierà il suo percorso con un contratto a tempo determinato, e lo inizierà in un momento della vita in cui ancora può spendere energie e tempo per costruire il suo futuro professionale. Fino ad oggi, di norma, si iniziava portando una borsa, e si poteva continuare così anche per vent'anni.
Gli studenti dicono che questa riforma nega il diritto allo studio perché non ci sono i fondi per garantirlo. E invece non solo per la prima volta in Italia gli studenti saranno determinanti per l’attribuzione dei fondi agli atenei, attraverso meccanismi di valutazione che orientino le scelte economiche nella maniera più virtuosa possibile: risorse da utilizzare per le borse di studio, per i prestiti d’onore e non per mantenere cattedre inutili, corsi semideserti, sedi distaccate pletoriche. Va anche detto che nonostante la recrudescenza europea della crisi che richiede ora più che mai fermezza nella tenuta dei conti pubblici, il governo ha mantenuto la promessa: gran parte dei tagli sono stati recuperati, sia sul fronte del funzionamento degli atenei che sul versante degli stanziamenti per le borse di studio e i prestiti d'onore, ai quali con la legge che oggi approviamo verrà affiancato un nuovo "fondo per il merito".
Gli studenti dicono che aprendo i Consigli di amministrazione degli atenei a membri esterni di fatto si privatizzano le università. La verità, invece, è che non solo la presenza di membri esterni nel Cda farà uscire l’Accademia dal quel cono d’ombra che troppo spesso ha consentito l’autoreferenzialità. La verità, soprattutto, è che l'apertura alle energie di non diretta derivazione statale consentirà all'università italiana di attrarre investimenti privati, colmando quel gap che su questo fronte ci vede molto lontani dall'Europa, alla stregua di un Paese da socialismo reale.
Se questa è la situazione, noi siamo fermamente convinti che la riforma Gelmini tracci una strada maestra per invertire la rotta. Una strada che si snoda su tre tappe: la valutazione delle università; il merito e, quindi, il finanziamento proporzionale ai risultati conseguiti; la concorrenza fra i diversi atenei e anche all'interno delle medesima strutture. Una concorrenza che non è conflitto ma collaborazione, perché solo se le tante università italiane riusciranno a competere tra loro diversificando gli ambiti di ricerca e raggiungendo l'eccellenza invece di duplicare gli interessi condannandosi alla mediocrità si potrà sperare che l'università italiana torni ad essere ciò che era un tempo.
Questa legge rappresenta una svolta. Dovrà essere approfondita e anche perfezionata dopo la fase di rodaggio, ma non deve assurgere a simbolo negativo come si sta tentando invece di fare con il contributo irresponsabile di novelli cattivi maestri.
Sappiamo bene che esiste oggi un diffuso disagio giovanile, che affonda le sue radici in ragioni ideali ed economiche. Siamo a pochi giorni dalla fine del primo decennio del nuovo secolo: un decennio che si è aperto con la crisi dell'11 settembre, che ha messo a nudo la fragilità delle nostre radici e della nostra identità; e si è chiuso con la crisi finanziaria del 2008, che ha evidenziato lo scollamento tra l'economia reale e l'economia virtuale.
Il combinato disposto delle due crisi ha conclamato le responsabilità delle precedenti generazioni nei confronti dei giovani di oggi. Dobbiamo dire con chiarezza a questi ragazzi che se oggi si trovano in una situazione di insicurezza è perché le generazioni passate hanno sacrificato il futuro dei loro figli e dei loro nipoti in nome di falsi miti e ideologie fallimentari. E hanno anche ipotecato il loro avvenire alimentando un debito pubblico con cui oggi noi dobbiamo fare i conti. E, operando scelte sconsiderate in ambito occupazionale, hanno reso la macchina dello Stato un apparato pachidermico, al tempo stesso inefficiente e costoso.
Questa realtà è stata a lungo dissimulata sotto una patina di paternalismo, perché ai giovani conveniva dare sempre ragione, e questo ha rappresentato un comodo alibi per non assumersi mai le proprie responsabilità.
È la zavorra di queste scelte sbagliate ad impedirci oggi di investire sulla ricerca e sull'innovazione al pari di altri Paesi; a imporci oggi di dover chiudere innanzi tutto le falle dalle quali si disperdevano fiumi di denaro prima di poterci permettere di riaprire i rubinetti per orientare virtuosamente l'impiego del denaro…».

(Fonte: Gaetano Quagliarello, L’Occidentale, 24 dicembre 2010)

Una meditazione natalizia: contro Babbo Natale

Ma l’onnipresente Babbo Natale, e con lui il misterioso “spirito natalizio” di cui tanto parlano i film che arrivano da oltre oceano, è cristiano? Qualcuno troverà la domanda sconcertante, qualcun altro buffa; qualcuno semplicemente idiota; altri sostanzialmente indifferente e non andranno nemmeno a leggere quel che segue. Per questi ultimi in particolare, il Natale è qualcosa di irrilevante, non li riguarda affatto. Un padre cattolico, però, questa domanda prima o poi se la pone e se la fa anche un cattolico che sia interessato al vero contenuto e significato del Natale.
Allora diamo subito la risposta: sì e no. Sì perché, com’è noto, Babbo Natale non è nient’altro che la trasformazione di un santo cristiano, il vescovo San Nicola. E sì perché incarna valori cristiani, sconosciuti al mondo pagano. Il dono che arriva dal cielo, da un vecchio buono come un padre, è nello spirito del Padre nostro. La bontà stessa, disinteressata, gratuita di Babbo Natale è tipicamente cristiana. Il valore dei bambini e del tornare bambini è un puro figlio del cristianesimo. E il cuore bambino significa attesa. Babbo Natale risponde all’attesa del cuore, a quel desiderio profondo che c’è in ogni uomo e che trova corrispondenza totale nell’annuncio cristiano.
Insomma, Babbo Natale e quello “spirito natalizio” che una volta all’anno porta su questa terra, sono figli di una civiltà cristiana, su questo non c’è dubbio; sono intrisi di cristianesimo.
Ma Babbo Natale, allo stesso tempo, non è affatto cristiano, o meglio, cattolico, come lo era il vescovo San Nicola. È qualcosa che ti lascia a metà. È un bel sogno, una vaga aspirazione che diventa visibile per un po’. Non ha consistenza, non ha carne, e quindi non può proporsi davvero all’uomo con la concretezza di un incontro. È la proiezione piena di desiderio di una meta cui tendere, senza che sia una strada reale da percorrere. Il sogno resta un sogno.
Non a caso in certi film per la famiglia Babbo Natale viene presentato come un essere mitico, che è messo in relazione con un Cupido o una Venere, creature della fantasia umana. Credere a Babbo Natale è un abbandonarsi alla fantasia, all’irrazionale puro. Un tornare a quell’età pagana in cui gli uomini creavano i loro dei. E li creavano buoni o cattivi. Babbo Natale è caciarone e simpatico, ma gli “spiriti del Natale”, come quelli che ci propone Dickens e che tornano in mille varianti diverse, più che ad un sogno assomigliano ad un incubo. In questo caso predomina una visione oscura, inquietante, quasi violenta e vendicativa. Ci risveglia col sudore freddo addosso.
Insomma, o che si abbia a che fare con un pacioccone buono che porta regali, o con una specie di zombie che indica muto una catastrofe futura, sempre di un sogno si tratta. Il giorno dopo il 25 dicembre ci si ritroverà nella vita ordinaria, nel tempo ordinario, nutriti di una breve illusione che è durata solo lo spazio di una notte. Dileguato lo “spirito natalizio”, che ci ha fatti più buoni e cristianamente caritatevoli, bisognerà aspettare il Natale futuro per rifare un pieno d’illusione. E l’uomo resterà con la nostalgia della meta, ma la dovrà mettere da parte, perché non esiste una strada per arrivarvi. Forse dovrà anche confessarsi che è una stoltezza credere che la meta esista davvero, perché, in fondo, tutto è fantasia.
Ecco, in sintesi, cosa c’è di non cristiano, di non cattolico in Babbo Natale e nello “spirito natalizio”. Se c’è qualcosa, infatti, che l’annuncio cristiano supera di slancio è proprio il parto della fantasia umana. L’annuncio del Natale è qualcosa che si muove in una direzione reale. Ai pastori l’angelo dice: “Troverete un bambino in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc, 2, 12). I pastori andarono e trovarono proprio quello che l’angelo aveva detto loro. Non si parla di sogni, né di creature fantastiche, né di spiriti, ma di un bambino in carne ed ossa da vedere, da toccare, di fronte al quale inginocchiarsi. La scena, quella che conta, quella che costituisce il primo incontro dell’umanità col Dio fatto carne, è di una concretezza, di un realismo, di una banalità sconcertante. I pastori fanno visita alla mangiatoia di Betlemme come si va in un reparto di maternità a far visita al nuovo nato di una coppia di amici. Niente effetti speciali: solo la constatazione di un fatto che si è verificato. Un fatto che costringe a guardare, a porsi in rapporto con una realtà ben diversa dai nostri sogni, con un Tu imprevisto che entra nella storia di ognuno.
Questo è il Natale cristiano. E a questo punto si capisce benissimo che Babbo Natale e tutta la sua mitologia di renne, slitte e pacchi regalo è solo una costruzione posticcia, una vera e propria intrusione, addirittura un tradimento dell’autentico spirito del Natale.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 22 dicembre 2010)

AUGURI A TUTTI PER UN SANTO NATALE E UN FELICE ANNO 2011

"Basta con la messa creativa, in chiesa silenzio e preghiera"

La liturgia cattolica vive «una certa crisi» e Benedetto XVI vuole dar vita a un nuovo movimento liturgico, che riporti più sacralità e silenzio nella messa, e più attenzione alla bellezza nel canto, nella musica e nell'arte sacra. Il cardinale Antonio Cañizares Llovera, 65 anni, Prefetto della Congregazione del culto divino, che quando era vescovo in Spagna veniva chiamato «il piccolo Ratzinger», è l'uomo al quale il Papa ha affidato questo compito. In questa intervista, il «ministro» della liturgia di Benedetto XVI rivela e spiega programmi e progetti.
D. Da cardinale, Joseph Ratzinger aveva lamentato una certa fretta nella riforma liturgica postconciliare. Qual è il suo giudizio?
R. «La riforma liturgica è stata realizzata con molta fretta. C'erano ottime intenzioni e il desiderio di applicare il Vaticano II. Ma c'è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio sufficiente per accogliere e interiorizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo bene la mentalità allora diffusa: bisognava cambiare, creare qual cosa di nuovo. Quello che avevamo ricevuto, la tradizione, era vista come un ostacolo. La riforma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinnovamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell'immaginazione e della creatività, la parola magica di allora».
D. Da cardinale Ratzinger aveva auspicato una «riforma della riforma» liturgica, parole oggi impronunciabili persino in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
R. «Non so se si possa, o se convenga, parlare di "riforma della riforma". Quello che vedo assolutamente necessario e urgente, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chiaro e vigoroso movimento liturgico in tutta la Chiesa. Perché, come spiega Benedetto XVI nel primo volume della sua Opera Omnia , nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacramenti. Dio è il soggetto della liturgia, non noi. La liturgia non è un'azione dell'uomo,ma è azione di Dio».
D. Il Papa più che con le decisioni calate dall'alto, parla con l'esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdotti nelle celebrazioni papali?
R. «Innanzitutto non deve esserci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conciliare, che ha portato grandi benefici nella vita della Chiesa, come la partecipazione più cosciente e attiva dei fedeli e la presenza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate delle ombre, emerse negli anni successivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata "ferita" da deformazioni arbitrarie, provocate anche dalla secolarizzazione che purtroppo colpisce pure all'interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebrazioni, non si pone più al centro Dio,ma l'uomo e il suo protagonismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all'assemblea. Il rinnovamento conciliare è stato inteso come una rottura e non come sviluppo organico della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l'orientamento dell'azione liturgica, la croce al centro dell'altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell'arte sacra. È anche necessario e urgente promuovere l'adorazione eucaristica: di fronte alla presenza reale del Signore non si può che stare in adorazione».
D. Quando si parla di un recupero della dimensione del sacro c'è sempre chi presenta tutto questo come un semplice ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come risponde?
R. «La perdita del senso del sacro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conseguenze per un vero umanesimo. Chi pensa che ravvivare, recuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della celebrazione, sia un semplice ritorno a un passato superato, ignora la verità delle cose. Porre la liturgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futuro».
D. Come giudica lo stato della liturgia cattolica nel mondo?
R. «Di fronte al rischio della routine, di fronte ad alcune confusioni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa crisi.
Per questo è urgente un nuovo movimento liturgico. Benedetto XVI indicando l'esempio di san Francesco d'Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramento, ha spiegato che il vero riformatore è qualcuno che obbedisce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congregazione di promuovere un rinnovamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza dimenticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità per la Chiesa, con l'avvertenza che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organicamente da quelle già esistenti».
D. Che cosa intendete fare come Congregazione?
R. «Dobbiamo considerare il rinnovamento liturgico secondo l'ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Benedetto XVI per leggere il Concilio.
E per far questo bisogna superare la tendenza a "congelare" lo stato attuale della riforma postconciliare, in un modo che non rende giustizia allo sviluppo organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di portare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensione del vero significato delle celebrazioni della Chiesa.
Ciò richiede un'adeguata e ampia istruzione, vigilanza e fedeltà nei riti e un'autentica educazione per viverli pienamente. Questo impegno sarà accompagnato dalla revisione e dall'aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (praenotanda). Siamo anche coscienti che dare impulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnovamento della pastorale dell'iniziazione cristiana».
D. Una prospettiva che andrebbe applicata anche all'arte e alla musica...
R. «Il nuovo movimento liturgico dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad "Arte e musica sacra" al servizio della liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orientamenti per l'arte, il canto e la musica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazione».
D. Nelle chiese spariscono gli inginocchiatoi, la messa talvolta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano persino le parti più sacre del canone: come invertire questa tendenza?
R. «La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve essere considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbiamo rendere tutti coscienti dell'esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del "diritto di Dio"».
D. Esiste anche il rischio opposto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sembra ignorare il cuore della liturgia...
R. «La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvolta si cade. Esiste il rischio di credere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ricchezza o dall'antichità dei paramenti. Ci vuole una buona formazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando anche il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quando si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l'hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».
D. Può dare qualche indicazione concreta su che cosa potrebbe cambiare nella liturgia?
R. «Più che pensare a cambiamenti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, seguendo l'insegnamento di Benedetto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, mettendo Dio al centro di tutto. Dobbiamo dare impulso all'adorazione eucaristica, rinnovare e migliorare il canto liturgico, coltivare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo scaturiranno i cambiamenti...».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 24 dicembre 2010)

venerdì 17 dicembre 2010

Il Papa: laicisti pericolosi come gli integralisti

L’anno che si sta concludendo è stato segnato «dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa», soprattutto a danno dei cristiani. Ma accanto a questi tragici episodi emerge anche la presenza di «forme più sofisticate di ostilità contro la religione», quelle dei governi laicisti che in certi Paesi dell’Occidente «fomentano l’odio e il pregiudizio» contro il cristianesimo.
Sono forti le parole che Benedetto XVI scrive nel messaggio per la prossima Giornata mondiale della pace, che sarà celebrata il 1° gennaio 2011. Il tema scelto, quest’anno, è «Libertà religiosa, via per la pace». Il Papa attira innanzitutto l’attenzione sulle persecuzioni e sulle gravi violazioni della libertà religiosa in quelle regioni del mondo dove non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita o della libertà personale.
«Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale - scrive il Papa - nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita».
Ma Benedetto XVI si sofferma anche sull’ostilità che si va affermando in Occidente, su quelle «forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini».
Queste forme, spiega il Papa, «fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi».
Nel messaggio Ratzinger afferma anche che «la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e che «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto». Questa dimensione religiosa della persona, infatti, non è «una creazione dello Stato» e dunque «non può essere manipolata», dovendo piuttosto ricevere «riconoscimento e rispetto». Ecco perché «anche la società - dice Benedetto XVI - in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere e organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».
Il Papa ribadisce dunque quello che la Chiesa cattolica ritiene essere la vera nozione di libertà religiosa, che «non va intesa solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Una concezione che esclude «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso», che sono fenomeni diversi dal dialogo sincero tra le religioni portato avanti nella fedeltà alla propria identità. La vera libertà religiosa, spiega Benedetto XVI, permette di evitare sia il fondamentalismo che il laicismo: «Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo». «La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza - conclude il Pontefice - è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 17 dicembre 2010)

giovedì 2 dicembre 2010

Liturgia: Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?

In merito alla colletta della Messa di Sant’Alberto Magno, Padre Augé, nel suo blog Liturgia Opus Trinitatis, faceva notare le differenze fra l’orazione del Messale del 1962 e quella presente nel Messale rinnovato. Può essere utile riportarle entrambe:
«Deus, qui beatum Albertum, Pontificem tuum atque Doctorem, in humana sapientia divinae fidei subjicienda magnum effecisti: da nobis, quaesumus, ita ejus magisterii inhaerere vestigiis, ut luce perfecta fruamur in caelis» (Messale 1962);
«Deus, qui beatum Albertum episcopum in humana sapientia cum divina fide componenda magnum effecisti, da nobis, quaesumus, ita eius magisterii inhaerere doctrinis, ut per scientiarum progressus ad profundiorem tui cognitionem et amorem perveniamus» (Messale 1970-2002).
Padre Augé si pone la domanda (è il titolo del post): “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. E nel post sembrerebbe optare per la discontinuità: «Ecco un caso tipico in cui i due Messali esprimono due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse».
Che dietro i due testi ci siano diverse sensibilità, mi pare che non lo si possa negare. Vogliamo chiamare tali “sensibilità” «due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse»? Non è un problema; lo si può fare tranquillamente. Ma questo significa che ci troviamo di fronte a un caso di “discontinuità”? Non lo credo: quando oggi parliamo di continuità e discontinuità non ci riferiamo tanto alle sensibilità, alle teologie o alle “comprensioni” della fede; ci riferiamo piuttosto alla sostanza della fede stessa. Le teologie possono variare, e di fatto variano, a seconda dei tempi e dei luoghi; esse sono necessariamente condizionate dalla cultura e dalla sensibilità proprie di ciascuna epoca e di ciascun popolo. Ciò che invece non deve mutare è il depositum fidei.
Bene, nella fattispecie, c’è stato un mutamento dottrinale? Direi proprio di no. Nel Messale preconciliare si diceva che Sant’Alberto divenne grande (“Magno”) nel sottomettere la sapienza umana alla fede divina; nel Messale attuale si afferma invece che egli divenne grande nel comporre (= mettere insieme) quelle due virtú. C’è contraddizione fra i due modi di esprimersi? Non mi sembra. Fra i due verbi, ce n’è uno giusto e uno sbagliato? Non direi; entrambi sono corretti. Quale è meglio usare? A questo punto entrano in gioco le diverse sensibilità: un tempo si preferiva affermare — correttamente — che la ragione deve sottomettersi alla fede; oggi si preferisce dire — altrettanto correttamente — che ragione e fede devono armonizzarsi fra loro. Ecco, ho l’impressione che questo caso specifico ci faccia capire molto bene che cosa ha realmente fatto il Concilio Vaticano II: lasciando immutata la dottrina, ha mutato il linguaggio, dal momento che nel frattempo era mutata la sensibilità dell’uomo contemporaneo. Un’operazione, dunque, esclusivamente pastorale.
Che cosa rispondere dunque alla domanda: “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. Non so se in questo caso si possa parlare di reale progresso nella continuità. Forse si tratta, molto piú semplicemente, di continuità nell’apparente discontinuità

(Fonte: P. Giovanni Scalese, Blog “Senza peli sulla lingua”, 16 novembre 2010)

Luca era gay... per davvero!

Il gay della canzone di Povia esiste davvero e non è uno qualsiasi. Ballerino a Miami, crocierista per il mondo, frequentatore degli ambienti dell’alta moda a Milano, organizzatore del Gay Pride di Napoli, Luca di Tolve era un attivista dell’Arcigay che si occupava di turismo gay. Un attivista omosessuale convinto, come dice di se stesso in un’intervista rilasciata a Tempi (11/09): “Convinto sì, credevo che quella fosse la mia condizione, irreversibile”. Ed ancora: “Ero un egocentrico, palestrato, schiavo dei locali notturni, ossessionato dai soldi, convinto di provare attrazione unicamente per i maschi e finito nel vortice del sesso compulsivo”. Ciò nonostante, come ormai da tempo è noto, Luca si è sposato con Teresa e sogna di poter avere da lei un figlio.
Questa storia vera, di vita vissuta, ha destato (chissà perché) scandalo e rabbiosa ostilità nella parte più politicizzata del mondo omosessuale italiano. La cosa lascia interdetti. Non è forse da quel mondo che ci giungono di solito le richieste più estreme in nome di un concetto assoluto di libertà personale? Luca di Tolve ha fatto una scelta diversa, non era forse libero di farla? Dell’omosessualità ha dato una lettura un poco differente da quella oggi a la page e maturata sulla propria stessa pelle, non era forse libero di intervenire su questo?
Sono fioccate invece le invettive e le accuse da parte dell’organizzazione di cui pure aveva fatto parte: hanno detto che era stato sottoposto ad un lavaggio del cervello; hanno tirato fuori il concetto equivoco di omofobia per screditare il suo punto di vista e zittirlo. Interpellato dal Giornale (10/08), Luca ha risposto: “Sono una persona in grado di intendere e di volere come lo ero quando ero un gay. La vera violenza è dire che è impossibile uscire dall'omosessualità”. Ed ancora: “Basta con questa accusa di omofobia. Chi discrimina è chi pensa che gay si nasca. La mia scelta ha richiesto coraggio, anche perché non ho dovuto lottare solamente contro le mie abitudini (…) ma rinunciare anche ai privilegi di una società in cui essere gay è trendy e ti serve a trovare un lavoro e a fare soldi più in fretta”.
Purtroppo la lunga consuetudine della più politicizzata associazione omosessuale italiana con i partiti di ispirazione comunista alimenta, evidentemente, delle reazioni violente in stile staliniano: si deve militare senza porsi (e porre) domande; l’omosessualità è condizione che non necessita di ulteriori analisi o approfondimenti; la verità è quella già scritta a lettere indelebili nei sacri testi del movimento e, come per le vecchie verità del marxismo-leninismo, ha pure la pretesa di essere “scientifica”. Peccato che per costoro scientifico sia diventato sinonimo di immobile, indiscutibile, dogmatico...
Ma contro le teorie si ribellano i fatti della vita, e Luca non è solo il personaggio di una canzone, ma uno che ci mette la faccia e paga un prezzo. Racconta infatti a Tempi: “I miei genitori si separarono quando ero piccolo, mio padre se ne andò di casa. Rimasi da solo con mia madre, in un ambiente solo femminile (…) mi sentivo molto rassicurato quando stavo con le donne e spaventato, anche se attratto, dalle figure maschili” Ed ancora: “Avevo tredici anni e nessun padre che mi spingesse a entrare nel ‘gruppo dei maschi’ da cui, invece, venivo respinto perché avevo interessi diversi, perché non ero dei loro, perché non giocavo a pallone come tutti. Questo mondo che pure mi attraeva, al tempo stesso mi spaventava, mi lasciava ai margini, solo. A quell’età questa mia infelicità e, al contempo, la necessità, come tutti, d’affetto, si manifestò in pulsioni omosessuali”.
Trascorsa l’adolescenza, Luca si integra perfettamente nella comunità gay e, da un certo punto di vista, diventa un personaggio di successo… ma allora perché, ad un certo punto, questo desiderio di tirarsene fuori? La risposta è nell’intervista rilasciata al Giornale: “Non ero felice e volevo capire il perché”. Come ciascuno di noi, Luca ricerca una verità e (perché no) una felicità che trascenda il piacere effimero. Non ne aveva forse il diritto? Non ne vale forse la pena? Ci vuole comunque del tempo per capire, racconta infatti: “Ci ho messo cinque anni per realizzare di avere sofferto dell’assenza di un padre, di aver idealizzato i maschi perché li sentivo più forti di me e per cominciare ad incuriosirmi dell’universo femminile”.
Quando Luca era gay era forte il desiderio di trovare un partner ideale, ma dopo i primi momenti di intensa attrazione fisica, dopo la consumazione del rapporto, percepiva che non restava nulla, solo un senso di vuoto che alimentava la notevole precarietà delle relazioni affettive e giustificava un elevato tasso di infedeltà. Le organizzazioni che credono di rappresentare l’universo omosessuale (e non semplicemente i propri iscritti) asseriscono che il frenetico nomadismo sentimentale dei gay è frutto dell’assenza di leggi specifiche sul matrimonio omosessuale… vendono con ciò l’illusione che la politica possa risolvere un problema che ha invece una ragione profondamente relazionale.
Luca non tarda a comprendere quali siano le vere cause della difficoltà a mantenere una relazione stabile e pienamente soddisfacente, lo racconta al Giornale: “Credevo di essere io lo sfortunato che non trovava mai l'anima gemella. Poi mi sono reso conto che attorno a me tutto era impostato in modo frivolo, superficiale, che ero circondato da persone infelici, molti delle quali ossessionate dalla pornografia e dal sesso. E poi la morte: l'ho vista consumarsi negli amici attorno a me e alla fine ho dovuto farci i conti anch'io dopo aver scoperto di essere sieropositivo”.
Sieropositivo… ad un certo punto l’HIV fa breccia nella vita di Luca e lui lo racconta con disarmante sincerità. Chissà quanti di quegli attivisti che si sentono in diritto di esercitar pressioni su altri cittadini perché “si dichiarino” sarebbero capaci di raccontar loro, con sincerità, una cosa come questa? Ma la malattia o la morte sono l’ultima parola per il “mondo”, non certo per il cristiano, e l’incontro con la sofferenza segna una svolta nella vita di Luca (una svolta di cui nemmeno Povia ci aveva mai parlato). Luca riconosce oggi che l’esperienza del dolore lo ha aiutato a non eludere quelle domande fondamentali ed insopprimibili che per tanti anni aveva trovato il modo di nascondere od esorcizzare: le domande sul senso ed il significato della vita.
Impressionante il punto di svolta. Caduto in uno stato di profonda depressione, trova appesa al contatore della luce della sua abitazione una coroncina del rosario. Luca, che si definiva buddista, si aggrappa al rosario con tutte le forze, ripensando al significato che questa preghiera aveva avuto in tempi lontani per i nonni e per sua madre. Racconta di essersi accasciato a terra improvvisamente, alla terza decina di Ave Maria, e di aver avvertito una profonda sensazione di pace. Racconta di aver percepito in quel momento la presenza della Madonna ed una serenità ed una forza interiore mai prima d’allora conosciuta.
Non si affretti a giudicare chi più è avvezzo a ripetere che “tutti siamo liberi e che nessuno deve giudicare”, questo è quanto è accaduto a Luca di Tolve, quanto racconta lui stesso. Vorrei anche dire che questa, in quanto storia di dolore, di ricerca, di conversione, è in verità la storia di ciascuno di noi e pertanto una storia che sfonda i muri dei nuovi ghetti gender-culturali con cui, anche per legge, si pretenderebbe oggi di riclassificare e compartimentare il genere umano (etero, omo, lesbo, trans e quant’altro). Siamo tutti e solo esseri umani, come la storia di Luca ci mostra.

(Fonte: Stefano, La Cittadella, 19 novembre 2010)


Democrazia in pericolo

L’opinionista, in diretta telefonica sulla radio nazionale, tira un sospiro di sollievo e commenta: “Finalmente! Sono vent’anni che ci ha rotto i coglioni!”. Questo signore della comunicazione risponde al nome di Giorgio Bocca (foto). L’oggetto della discussione di altissimo livello giornalistico è, ovviamente, la fine di Berlusconi.
L’analisi è un po’ rozza, un po’ tanto rozza, ma per lo meno dice le cose come stanno: non ne potevano più di Berlusconi. Loro, l’establishment culturale, quello che ha in mano, veramente in mano, i mezzi di comunicazione di massa (si veda il recente connubio Fazio-Saviano, evoluzione chic del più rozzo Santoro-Travaglio), per quasi vent’anni si sono esercitati nello sport del tiro al bersaglio contro questo strano uomo nuovo che aveva fatto irruzione sulla scena politica italiana. Si era all’inizio degli anni Novanta: la sinistra era lì lì pronta per il grande slam. Fatti fuori la DC e il PSI, fatti fuori tanti personaggi, tra cui anche degli innocenti, non restava che il PCI, uscito più o meno miracolosamente indenne dall’epopea di Manipulite. Ma che succede? Che arriva Berlusconi ad intercettare, a calamitare i voti di tutti quegli italiani che di stare sotto la sinistra non ne volevano proprio sapere. E così è cominciata la guerra contro il rompicoglioni.
Da allora sono quasi vent’anni di stress per tutti. Le elezioni, ogni volta, si sono trasformate in una sorta di referendum: Berlusconi sì, Berlusconi no, con il puntuale, inconcepibile (per questi intellettuali di sinistra che capiscono tutto e sanno tutto) successo di mister B, nonostante l’aggressione continua, pianificata, da parte della magistratura e dei mezzi d’informazione, televisione in testa. Tutto inutile: addirittura nell’ultima tornata elettorale gli italiani mandano fuori dal Parlamento la sinistra, quella dura e pura. Si può capire l’astio velenoso e il sospiro di sollievo tirato dal grande Bocca. Ora forse è il momento buono, la fine del grande Nemico.
Stiamo ai fatti: il problema è sempre lui. Il problema di Casini, di Fini, di Bersani, ovviamente di Di Pietro, e di tutti gli scherani di costoro è Berlusconi. Bisogna farlo smettere. Si può fare anche maggioranza col PDL, purchè non ci sia lui. È un circoletto di bambini che non vogliono far giocare quello più bravo di loro, che sennò li infinocchia tutti quanti. Sarà un’interpretazione rozza, ma è precisamente quello che vede l’italiano medio, al quale il personaggio in questione non risulta poi così antipatico, così ridicolo, così inconcludente come quelli della cricca lo rappresentano di continuo. Non so a che punto stia il gradimento di Berlusconi, a livello di sondaggi, ma lo credo sempre abbastanza alto, nonostante le bordate che gli vengono tirate di continuo.
Già: abbiamo un Parlamento che non vede l’ora di sfiduciare una persona che invece ha il gradimento della maggioranza degli italiani. C’è qualcosa che non va, non vi pare? Come non ricavarne l’impressione che nei sacri palazzi si stia consumando una specie di brutto golpe? Si dice a Berlusconi che è ora di dimettersi, ma quest’ora chi l’ha stabilita? Casini? Bersani? Fini? Di Pietro? Non bisognerebbe avere il tatto e la delicatezza di chiederlo almeno agli italiani, se l’ora è scoccata o no?
Troppe cose brutte e strane stanno avvenendo. Come il gravissimo conflitto d’interessi che vede protagonista il Presidente della Camera, il quale va a fare le consultazioni da un Napolitano, stranamente (?) consenziente, nella veste non di neutrale osservatore, ma di parte attiva, direi principale, nella crisi di governo verso la quale stiamo andando. E non c’è nessuno (a parte certi organi di stampa di area) che se ne scandalizzi. Non c’è nessuno nei posti che veramente contano, perché sono tutti occupati da quelli che condividono il giudizio di Bocca.
Il quale ha visto in Berlusconi, in tutti questi anni, un pericolo per la democrazia, un danno per la democrazia. Sarà. Ma intanto ci ritroviamo con un Presidente della Camera che dice e fa cose mai fatte da nessun altro in quella posizione; con una TV interamente occupata da personaggi che fanno dei monologhi senza uno straccio di contraddittorio; con una magistratura invadente e onnipotente grazie a puntuali “fughe di notizie” che appaiono sui giornali; con la prospettiva di un “governo tecnico” che altro non sarà se non l’ennesimo ribaltone alla faccia di chi ha votato.
La democrazia è in pericolo? Sì, ma non quella che intende Bocca. Quella vera!

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 16 novembre 2010)

L’inverno conciliare. Se il gelo del mondo fosse causato dalle "tenebre" del Vaticano II? Cosa leggere per capirne di più.

Da alcuni anni uno spettro si aggira nel mondo cattolico. Uno spettro che inquieta molti, benché assuma la forma di una semplice e inevitabile domanda: e se la scristianizzazione incalzante dell’occidente fosse anche il frutto di una crisi della chiesa? E se la crisi della chiesa avesse a che fare con il Concilio Vaticano II, con alcuni suoi documenti un po’ ambigui, oppure, quantomeno, con la sua estesa interpretazione?
La domanda, a ben guardare, dovrebbe essere spontanea: non è più possibile infatti non accorgersi del gelo, del buio, della disumanizzazione che ci circonda. Nello stesso tempo non è più lecito non rendersi conto di quanto il sale sia divenuto insipido. Di quanto sia divenuto arduo, anche per chi si sforza di rimanere cattolico, trovare un vescovo del livello di monsignor Caffarra, o di monsignor Negri, o di monsignor Crepaldi; oppure, un sacerdote vivace e appassionato come padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria; oppure, un semplice parroco di paese che ami la liturgia, il decoro della casa di Dio e il confessionale.
Giustamente monsignor Nicola Bux ha appena dato alle stampe un bel testo intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede” (Piemme). Perché il problema non è solo che la fede, fuori, nel mondo, non c’è più, e neppure il fatto che i credenti vengano derisi dagli atei di professione e dai nichilisti di ogni tipo: il problema vero è che questi stessi nemici della fede, come coloro che invece la conservano ancora gelosamente, non trovano nessuno con cui veramente confrontarsi, a cui lanciare in volto i loro dubbi, le loro fatiche, o persino la loro luciferina ribellione. Non è colpa solo dei media il fatto che a rappresentare un pensiero cattolico sul più importante quotidiano italiano sia chiamato il cardinal Martini. Il problema è la scarsità, nella chiesa di oggi, di uomini di Dio, di uomini di fede intelligenti, appassionati; dirò più, dopo tante esperienze personali: di uomini, punto e basta. Ma questa realtà, questo tradimento piuttosto generalizzato, che confonde e avvilisce anche chi vorrebbe stare, con la sua miseria, accanto al Maestro, anche nell’ora del Getsemani, non può non avere una radice, una causa.
All’epoca della Controriforma, gli uomini di chiesa più santi capirono che vi erano da fare due cose: condannare fermamente le eresie di Lutero; riformare la chiesa stessa, ammettendo errori, vizi, tradimenti, viltà di molti… Oggi penso debba accadere la stessa cosa: non si può continuare con il mantra del Concilio Vaticano II “primavera della chiesa”, “profezia” o altre amenità. Se c’è l’inverno, bisogna finalmente accorgersene, e mettersi il cappotto. Ecco perché ritengo una benedizione di Dio, un segno dei tempi, l’opera di stimate personalità della chiesa che si interrogano sul Vaticano II e sulla sua attuazione: penso a “Iota unum” di Romano Amerio, ristampato recentemente; agli scritti di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga; a “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, di un insigne teologo come monsignor Brunero Gherardini (con prefazione del neo cardinale Albert Malcolm Ranjith, uomo di fiducia di Benedetto XVI).
Un quadro completo.
Penso, soprattutto, allo straordinario lavoro del professor Roberto de Mattei, “Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta”, edito in questi giorni da Lindau. Si tratta di un volume di oltre 600 pagine densissime, puntuali, in cui finalmente si analizza un grande evento della chiesa, insieme a ciò che lo ha determinato, alle attese, alle delusioni e alla ricezione che ha avuto. Un quadro completo, non ideologico, che senza dubbio mancava e che contribuisce a parer mio a riportare il discorso Vaticano II nel giusto alveo, confutando il mito di un Concilio “superdogma”, sempre e immancabilmente “profetico”. Il Vaticano II, ricorda de Mattei, si auto qualificò come “pastorale” e “fu privo di un carattere dottrinale definitorio”: proprio questa sua caratteristica lo rende soggetto, almeno per alcuni documenti, ché non tutti hanno lo stesso valore, a differenti interpretazioni, che non sarebbero invece possibili per definizioni dogmatiche, di per sé infallibili e irreformabili. Non essendoci qui lo spazio per illustrare un testo così ricco, basti un assaggio: l’autore parte dal pre Concilio, da una crisi che i più avveduti vedevano già in azione. Nota però come la gran maggioranza dei vescovi, invitata a esprimere i propri “vota” in vista del Concilio, avesse chiesto riforme moderate e la chiara comprensione e condanna degli errori del proprio tempo: comunismo e marxismo in primis (e poi esistenzialismo ateo e relativismo morale). Ma i “vota” dei vescovi, anticipa de Mattei, sarebbero stati ostacolati dalle “rivendicazioni di una minoranza”, che in nome dell’“aggiornamento” dimenticò, talora, che l’aspetto pastorale non può finire per soffocare quello dottrinale; che la carità nell’annuncio non significa il silenzio sui mali del presente (vedi il silenzio sul comunismo); che sminuire la Verità, “scandalo e follia”, a causa della sua sapidità, del suo gusto talora amaro e inquietante, non la rende più digeribile e appetibile, ma al contrario, finisce per nasconderne la lucentezza, la bellezza e la forza intrinseca.

(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 2 dicembre 2010)

L’uso estremo di un estremo gesto. Se si strumentalizza anche un suicidio

È stato un «estremo scatto di volontà» quello che ha portato Mario Monicelli a uccidersi? Chi può dirlo? Il suicidio è un gesto troppo tragico, troppo solitario, troppo estremo per poter essere decifrato e definito in modo perentorio e univoco. A questo si aggiunga che anche gli stati d’animo più frequenti nella vecchiaia, nella vecchiaia avanzata, come quella cui era giunto Monicelli, possono essere decifrati nelle loro molteplici valenze solo con estrema difficoltà. Di una cosa sola possiamo essere certi: tutti gli uomini sentono il bisogno di non essere lasciati soli, di non essere abbandonati; gli anziani e i malati più di tutti gli altri. Per questo il suicidio è un gesto sconvolgente, perché di norma chi si uccide lo fa in una situazione di totale e spesso disperata solitudine, attivando nei familiari, negli amici e in genere nei suoi "prossimi" la domanda angosciosa: si sarebbe ucciso se io gli fossi stato vicino?
Ecco perché utilizzare il suicidio di Monicelli come argomento per perorare l’approvazione di una legge eutanasica è scorretto e fuorviante. È scorretto, perché la legge, qualsiasi legge, per sua natura non è chiamata a regolare situazioni estreme, ma standard, ordinarie, normalmente ripetibili, valutabili con fredda pacatezza: non è questa la condizione in cui si trova un suicida, così come non sono queste le condizioni in cui si trovano i malati terminali, gli anziani colpiti da grave disabilità e più in generale i soggetti afflitti da forme depressive gravi, che alterano la volontà e possono attivare desideri patologici di morte, che è doveroso che i medici combattano.
Ma soprattutto è fuorviante pensare che possa davvero essere giusta una legge sull’eutanasia, anche la più severa possibile e immaginabile, quella cioè che legalizzi l’eutanasia solo quando questa fosse espressione dell’autonomia della persona, solo quando fosse richiesta con piena coscienza e adeguata informazione dal malato terminale. Nei Paesi in cui sono state approvate leggi del genere si è ottenuto un solo autentico effetto: quello di burocratizzare il processo del morire, incrinando profondamente la deontologia ippocratica, favorendo l’abbandono dei malati e inducendoli a proiettare sul medico l’immagine inquietante di chi è disposto, e non solo in linea di principio, a porre intenzionalmente termine alla loro vita.
Non è corretto continuare a ripetere, come si fa da parte di tanti, che il medico che pratica l’eutanasia altro non fa che rispettare la volontà del paziente, perché l’esperienza ci dimostra che questo non è vero: a parte il fatto che accertare rigorosamente la volontà dei pazienti terminali è pressoché impossibile, è un dato di fatto che, dovunque si pratica legalmente l’eutanasia, si assiste all’inevitabile e arbitraria dilatazione burocratica di questa prassi, che viene posta in essere anche quando il consenso del malato non può esserci (come nel caso dell’eutanasia neonatale a carico di bimbi malformati) o non può avere alcun valore giuridico e morale (come nel caso dell’uccisione eutanasica di malati di mente o di malati di Alzheimer).
Non è attraverso l’esaltazione di inquietanti legislazioni eutanasiche che va espresso il rispetto che tutti dobbiamo alla memoria di Monicelli. L’impegno per la vita, per la salute, per la cura di tutti i pazienti, anche e soprattutto di quelli inguaribili e di quelli terminali deve esprimersi in ben altro modo: moltiplicando l’impegno sociale, giuridico, finanziario e morale nei confronti di quegli esseri umani che sono i più fragili di tutti: i malati e gli anziani. È indubbio che la malattia e la vecchiaia costituiscano i problemi cruciali non solo del nostro tempo, ma soprattutto degli anni a venire, ma è altrettanto indubbio che a questi problemi le spinte per la legalizzazione dell’eutanasia offrono non una risposta, ma una scorciatoia intellettualmente disonesta.

(Fonte: Francesco D’Agostino, Avvenire, 2 dicembre 2010)