mercoledì 31 ottobre 2012

La disobbedienza al Papa

Il Concilio Vaticano II, come ci dicono gli studiosi, nel campo dell’ecclesiologia ha avuto tra le altre la funzione di completare l’opera del Concilio Vaticano I, il quale, come è noto, fu interrotto a seguito dell’ingresso in Roma delle truppe piemontesi.
Così il Vaticano II, dopo che il Concilio precedente aveva trattato dei poteri del Papa, passò a trattare di quelli delle altre compagini ecclesiali, cominciando, come sappiamo, dalla dottrina del Popolo di Dio, ossia la Chiesa come insieme dei fedeli, e poi le funzioni dei vescovi, dei presbiteri, dei religiosi e dei laici: un corpo di dottrina imponente ed importantissimo, che ci fa meglio conoscere con ordine e le dovute distinzioni, quali sono i vari ministeri, uffici, servizi, missioni e carismi strutturali della Chiesa.
Con ciò il Concilio ha voluto valorizzare, attivare e stimolare, nella loro giusta autonomia ma anche nelle reciproche relazioni, tutte le energie, le forze e le potenzialità della Chiesa, così da assicurarle quel nuovo slancio evangelizzatore e missionario che notoriamente fu, secondo le indicazioni del Beato Giovanni XXIII, uno degli scopi se non proprio lo scopo principale del Concilio. In questa linea di potenziamento delle strutture della Chiesa il Concilio elaborò una più approfondita dottrina del Collegio episcopale e della Chiesa locale. Da ciò poi son nate le Conferenze episcopali nazionali.
Tuttavia, a mio modesto avviso, in questo enorme corpo di dottrina, nel momento in cui si ribadivano con totale chiarezza il primato, le prerogative ed i poteri del Romano Pontefice, si trascurò di proporre una sufficiente dottrina circa quell’indispensabile strumento del suo magistero e del suo governo che è la Curia Roma con l’insieme dei suoi dicasteri e dei suoi uffici, a cominciare dalla Segreteria di Stato.
E’ vero che immediatamente dopo la fine del Concilio vi provvide saggiamente Paolo VI, che pur veniva su dalla Segreteria di Stato, ma - benché io non sia un esperto in questo campo - devo esprimere la mia modesta opinione che non so quanto tale riforma sia stata veramente efficace. Ci si doveva liberare dalla secolare antipatia nei confronti della Curia Romana che risaliva addirittura alla nascita del luteranesimo e forse non si ebbe il coraggio di dare a questo preziosissimo organismo, che media fra il Papa e il Popolo di Dio, la sufficiente funzionalità, energia e chiarezza.
Impressionati dallo stantio luogo comune anticlericale della “prepotenza della Curia Romana”, la riforma ha prodotto una Curia troppo debole e scarsamente utile per una conduzione efficace della Chiesa da parte del Papa, mentre sono eccessivamente emerse le istanze dell’episcopato e dei teologi, i quali in certi casi hanno sottovalutato e visto male quell’organo di governo del Papa.
Questa lacuna, secondo me, è uno dei motivi che sono all’origine della nefasta separazione che sarebbe sorta in modo drammatico dall’immediato postconcilio e che dura a tutt’oggi, fra il Papa e suoi immediati, fidati e fedeli collaboratori da una parte - in fin dei conti la Curia esiste ancora! - e dall’altra il resto del Popolo di Dio, a cominciare del collegio cardinalizio ed episcopale, per arrivare a tutte le altre componenti del corpo ecclesiale.
E’ successo così, e questo tutti lo hanno notato, che la giusta valorizzazione del Popolo di Dio promossa dal Concilio, in molti casi è stata falsificata da uno stile e da un’impostazione di eccessiva autonomia nei confronti della S. Sede, per non dire di aperta disobbedienza e ribellione con contestazioni di ogni sorta, sia nel campo disciplinare che, e ciò è molto peggio, addirittura nel campo della dottrina della fede.
Il Papa ha cominciato a restare isolato, inascoltato, disatteso, addirittura tradito. Basti per tutti l’orrendo episodio di Paolo Gabriele col processo che ne è seguito, dal quale sembrerebbe risultare che egli avrebbe agito “da solo”, cosa assurda solo che qualunque persona di buon senso rifletta sull’accaduto, del resto reso noto dagli stessi organi del Vaticano: come si può pensare che un qualunque oscuro - che però doveva essere fidatissimo - domestico privato del Papa abbia potuto da solo per scopi suoi privati sottrarre furtivamente al Sommo Pontefice per sei anni 82 scatoloni di documenti privati e segreti, probabilmente molto importanti, senza che nessuno in Segreteria di Stato se ne sia accorto? Che cosa se ne faceva Gabriele di tutto questo immenso delicatissimo materiale? Voleva mettere su un archivio storico per conto suo?
E chi vi parla è uno che ha lavorato in Segreteria di Stato per otto anni, dal 1982 al 1990. A chi la si vuol dare ad intendere? Perché non riconoscere piuttosto in quanto è avvenuto un fatto orribile ed inaudito, che certamente ha procurato un’enorme sofferenza al Vicario di Cristo, da lui sopportata con altissima dignità? Perché non si trovano commenti autorevoli di questo episodio? Non è forse il caso di fare ulteriori indagini per togliere quella “sporcizia” della quale parlò il Papa in una famosa omelia?
Non sarà forse questa la punta dell’iceberg della ribellione che da tempo si è insinuata nei confronti del Papa persino tra i suoi stretti collaboratori? Non si nota forse da tempo dissenso e contrasto col Papa persino il alcuni Cardinali? Non c’è ribellione al Papa persino negli Ordini che tradizionalmente sono stati il suo braccio destro, come i Domenicani e i Gesuiti?
Questa volta i modernisti infiltrati persino nella Segreteria di Stato, sentendosi sicuri, hanno fatto un imperdonabile passo falso, per il quale adesso non può essere tutto come prima, benché essi siano riusciti ad far fare un processo giudiziario in un settimana, ingenuamente lodato per la sua velocità da parte di certi giuristi italiani: per forza! si è voluto coprire tutto il più presto possibile, nella speranza (vana) che questo imbarazzante episodio sia dimenticato quanto prima. Ma, come dice il proverbio: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Si è trovato lo zampino, ora bisogna trovare la gatta.
Un giorno in Segreteria di Stato vidi per caso un appunto al Papa del Cardinal Domenicano Luigi Mario Ciappi, degnissima persona che mi onorava della sua amicizia. Era il Teologo della Casa Pontificia. Il biglietto diceva con tono allarmato e la franchezza tipica del Domenicano: “Santità, ci sono deviazioni dottrinali persino nelle Facoltà Teologiche Pontificie”.
La cosa tragicomica è che i modernisti si permettono di disobbedire tranquillamente al Papa anche in materia di fede, mentre guai a chi disobbedisce loro, sempre in materia di “fede”, naturalmente la “fede” come la intendono loro, che comporta ogni genere di deviazione dalla autentica ortodossia. In tal modo essi da una parte lasciano parlare o difendono gli eretici, e dall’altra vorrebbero chiudere la bocca ai difensori del Papa, del Magistero e della sana dottrina. La situazione sta diventando intollerabile. Occorre veramente una “riscossa cristiana”!
Il Papa solo com’è, con traditori in casa, difficilmente è in grado di difendere i buoni e di correggere i ribelli. Egli certo ci dà ottime direttive. Gli strumenti per conoscere la sana dottrina non mancano. E’ carente lo strumento per far osservare la disciplina e per correggere i devianti. Con questo non nego i grandi meriti della Congregazione per la Dottrina della fede. Ma essa va aiutata, sostenuta, incoraggiata, perché più volte è stato notato da saggi osservatori come il personale stesso di questo importantissimo Organismo sembri troppo scarso ed impari alla massa enorme di questi problemi che si accumulano in questo settore fondamentale dell’“obbedienza della fede” (Rm 1,5; 15,18; 2Cor 10,5; 1Pt 1,22).
Obbedire al Papa, quando ci parla come Vicario di Cristo, mette in gioco la nostra obbedienza a Cristo come Mastro della Fede. La nostra fede di cattolici in Cristo ci è mediata dalla nostra obbedienza al Papa, s’intende in quanto ci insegna il Vangelo. E’ ovvio che al di fuori di questo altissimo ufficio che caratterizza il Papa in quanto Papa, egli è una persona fallibile e può fungere semplicemente, come si sul dire, da semplice “dottore privato”, come appare chiaramente dai libri, pur sempre belli e importanti, che Benedetto XVI, “Ratzinger”, come dice significativamente il sottotitolo, ha scritto su Gesù Cristo, invitando il lettore ad entrare in discussione con lui, cosa che evidentemente non farebbe se ci parlasse come Maestro della Fede e dall’altra parte come un teologo così grande come lui non potrebbe avere la libertà di esprimere le sue opinioni?
Indubbiamente questa duplice linea di insegnamento del Papa può essere fraintesa da cattolici sprovveduti. Per questo motivo, credo, i Papi del passato si sono sempre astenuti dallo scrivere libri su quel tono, anche se ovviamente in altri documenti ordinari non sempre hanno impegnato la loro infallibilità pontificia.
Tuttavia oggi possiamo pensare ad un Popolo di Dio abbastanza maturo per saper apprezzare non solo l’insegnamento ufficiale del Papa, ma anche le sue discutibili opinioni, soprattutto se si tratta di un teologo di prima grandezza, come Ratzinger, forte peraltro di una ventennale esperienza fatta alla CDF.
Le istanze autoritative intermedie che stanno tra il Papa e il Popolo di Dio, benché ovviamente non siano dei semplici meccanici trasmettitori delle direttive e degli insegnamenti pontifici, devono oggi comprendere, in molti casi, laddove esse sono inquinate dal modernismo, che se vogliono aver autorità presso i fedeli e i sudditi, esse per prime devono obbedire al Papa e alla S. Sede.
Diversamente il fedele avveduto non potrà seguirli, ed è pronto anche a subire persecuzione, come purtroppo sta avvenendo in molti casi. Per farsi santi occorre saper soffrire anche da parte dei fratelli senza avere la timidezza o l’opportunismo di uscire dal sentiero della verità disobbedendo al Vangelo insegnato dal Successore di Pietro.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa cristiana, 30 ottobre 2012)

 

venerdì 26 ottobre 2012

«Guerre vaticane», il primo libro sui vatileaks

«Vien da chiedersi, innanzi tutto, cosa abbiano a che fare corvi, talpe o veleni con l’annuncio di Cristo, cioè con l’unica cosa che dovrebbe contare per la Chiesa. Niente in apparenza… Ma i soldi, il potere, gli scandali, le maldicenze – e anche le guerre – sono parte della storia dell’umanità, nella quale la Chiesa è immersa… La Chiesa cammina con i fallimenti, che rimandano il bisogno di convertirsi continuamente al Vangelo. E dovrà trarre lezione anche dalle ultime vicende, accelerando quel rinnovamento indispensabile per parlare all’uomo moderno e sottrarlo all’oblio del trascendente».
Sono queste parole introduttive la chiave per affrontare la lettura di «Guerre vaticane» (Rubettino, pp. 272, 13 euro), il libro scritto da Enzo Romeo, vaticanista e caporedattore esteri del Tg2, il primo tentativo di analizzare quanto accaduto nella Curia romana negli ultimi due anni. L’interesse del lavoro di Romeo, che si occupa da molti anni di informazione religiosa e vicende vaticane sta nella lettura complessiva di ciò che è accaduto, una «guerra» fatta di colpi e contraccolpi, di lettere anonime e di un uso spregiudicato dei media, che ha visto confrontarsi varie cordate e gruppi.
Tra le novità contenute nel libro, il coinvolgimento nell’inchiesta sulla fuga di documenti finiti prima su alcuni giornali e poi nel libro di Gianluigi Nuzzi, di un gendarme. Il generale Domenico Giani, responsabile della Gendarmeria vaticana, scrive Romeo «è stato costretto a controllare dappertutto, perfino all’interno della propria caserma, dove – secondo una gola profonda – si nascondeva uno dei corvi, notizia peraltro mai trapelata sui media». È probabile che si tratti di un gendarme che era in contatto con il maggiordomo del Papa reo confesso – e ora condannato – per il furto delle carte segrete dall’appartamento pontificio e per averle fotocopiate e consegnate a Nuzzi. L’uomo, inizialmente sospeso dal servizio in via cautelativa, non è stato poi direttamente coinvolto nel processo contro Paolo Gabriele. Vedremo se lo sarà nel processo-stralcio decisamente di minore importanza che vede imputato il tecnico informatico della Segreteria di Stato Claudio Sciarpelletti e che avrà inizio il 5 novembre. Ma è probabile che gli investigatori vaticani non abbiano trovato prove o riscontri a suo carico e che proprio per questo il suo nome e il suo coinvolgimento siano stati tenuti segreti.
Tornato al quadro complessivo, cioè al vero contributo che offre il libro, la vicenda di «Paoletto» che dallo scorso maggio, dopo il suo arresto, ha ovviamente monopolizzato l’attenzione mediatica, è inserita nel contesto di diverse vicende, che anche se non collegate dal punto di vista giudiziario, costituiscono l’humus in cui vatileaks è avvenuto. E anche se nella sentenza del processo al maggiordomo si legge che non sono emerse complicità o ispiratori-istigatori della violazione del segreto papale e della privacy del Pontefice, soltanto una lettura di comodo può far pensare che «Paoletto» sia stato una mela marcia in un cesto di frutta lucida e sanissima. Romeo dedica capitoli al caso Boffo – che si può forse considerare il capitolo iniziale di queste «guerre vaticane» - come pure al caso del segretario del Governatorato Carlo Maria Viganò e alle vicende dell’Istituto Toniolo, la cassaforte dell’Università Cattolica che ha visto contrapporsi il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone all’allora arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, come pure alle vicende dello IOR e al clamoroso defenestramento del presidente Ettore Gotti Tedeschi: «qualcosa di era spezzato – scrive il vaticanista – e la situazione era deflagrata, mandando all’aria tutto l’assetto interno alla banca».
Alla fine della lettura del libro di Romeo, che ha il pregio di mettere in fila i fatti senza prevaricare con le interpretazioni, si comprende come appaiano inadeguate le tesi di quanti vorrebbero spiegare ciò che è accaduto soltanto come una contrapposizione tra la «vecchia guardia» diplomatica e la «nuova guardia» rappresentata da Bertone e i suoi uomini. O come una questione di gelosie e rancori interni all’entourage tedesco di Benedetto XVI. O ancora soltanto come il frutto di un attacco mirato contro il Papa da parte di chi, all’esterno ma soprattutto Oltretevere, vorrebbe sottrargli il controllo del timone. Tutti elementi certamente presenti nelle vicende che hanno segnato la vita del Vaticano nell’ultimo periodo, ma insufficienti per giustificare un quadro d’insieme che rivela ancora una volta questioni irrisolte di governo. «Proprio la mancanza di coordinamento – scrive Romeo – è stato uno dei problemi riscontrati nella Curia romana in questi ultimi anni, dove c’è stata troppa confusione e poca armonia».
Forse anche per questo, l’autore di «Guerre vaticane», dopo aver parlato delle possibili candidature per la Segreteria di Stato – nel caso il Papa accetti le dimissioni di Bertone – ma anche quelle per la successione allo stesso Benedetto XVI (in un capitolo dove segnala la new entry tra i «papabili» del patriarca di Venezia Francesco Moraglia, non ancora cardinale), cita un brano del discorso che Ratzinger fece nel 2009 ai giovani del Seminario maggiore di Roma: «Invece di inserirsi nella comunione con Cristo, nel Corpo di Cristo che è la Chiesa, ognuno vuol essere superiore all’altro e con arroganza intellettuale vuol far credere che lui sarebbe il migliore. E così nascono le polemiche che sono distruttive, nasce una caricatura della Chiesa, che dovrebbe essere un’anima sola e un cuore solo». Parole illuminanti, che fanno il paio con quelle della preghiera del vescovo Tonino Bello, citate in apertura del libro: «Salvami dalla presunzione di sapere tutto, dall’arroganza di chi non ammette dubbi; dalla durezza di chi non tollera ritardi; dal rigore di chi non perdona debolezze; dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone».

(Fonte: Andrea Tornielli, Vatican Insider, 26 ottobre 2012)
 

mercoledì 24 ottobre 2012

I diritti di Dio e la liturgia dopo il Vaticano II

Tra le riforme del Concilio Vaticano II, quella liturgica è senza dubbio la più discussa. I cambiamenti avvenuti sembrano in effetti costituire una vera e propria rottura con le norme fondamentali della liturgia romana e dello stesso diritto liturgico. Ma cosa è accaduto realmente? A questa domanda cerca di rispondere il giovane studioso Daniele Nigro nel suo I diritti di Dio. La liturgia dopo il Vaticano II (Sugarco Edizioni, pp. 136, € 15, prefazione del card. Raymond Leo Burke).
In questi ultimi cinquant’ anni le norme liturgiche sono state disattese e la vigilanza delle autorità ecclesiastiche è quasi del tutto mancata. Molte formule della tradizione da fisse sono diventate modificabili, la musica liturgica è scaduta in canzonette troppe volte ridicole, l’architettura sacra ha prodotto degli edifici orribili e per nulla adatti alla preghiera, il latino è stato abbandonato, nelle chiese sono scomparse le balaustre e gli altari sono stati trasformati in mense. I ministri di Dio, poi, si sono spesso macchiati di gravi abusi. «Dopo il Concilio non si è trattato più di mitigare la rigidità della legge, ma si è arrivati a minimizzarla al punto che risulta inutile porre il problema dell’osservanza, tanto meno quello della sua forza vincolante; in tal modo l’uso della liturgia ha ceduto il passo all’abuso» (p. 108).
Eppure da sempre la Chiesa ha fissato delle regole ben precise, racchiuse nelle rubriche, per normare quello che è il suo culto pubblico ufficiale, la cui sacralità e santità «comporta un mistero che chiede di essere avvicinato con la massima riverenza» (p. 50). Come diceva San Roberto Bellarmino, infatti, «il fine precipuo dei divini uffici non è l’istruzione o la consolazione del popolo, ma il culto dovuto a Dio dalla Chiesa» (p. 31). Ora, visto che «l’abuso liturgico implica gravi responsabilità personali e sociali, perché può trasformare un mezzo salvifico (…) in una privazione o diminuzione di grazia» (p. 117), è più che mai necessario che i laici facciano sentire la propria voce, a norma del diritto canonico. È un dovere del fedele segnalare gli scempi, «pena l’omissione e in un certo senso un concorso di colpa» (p. 118).
Secondo Nigro, la crisi dello ius liturgicum non è frutto solo di una cattiva interpretazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. «Se si ammette che il principio dello sperimentalismo ha dato luogo alla malintesa creatività (…); che quello dell’adattamento ha dato luogo all’inculturazione selvaggia o meno (…); che quello dell’antirubricismo ha dato origine agli abusi e ai reati, si dovrà ammettere pure che essi sono i punti deboli o almeno ambigui insiti nella Costituzione liturgica e soprattutto nella riforma conciliare» (pp. 112-113).
Il semplice fatto che ad essa siano seguite numerose istruzioni chiarificatrici (tra cui la Redemptionis Sacramentum, del 2004, che però nessuno si è mai preso la briga di far rispettare) significa effettivamente che qualcosa non va. Purtroppo si è cercato di rimediare troppo tardi! Un’ulteriore correzione di rotta, volta a ribadire il principio della continuità dottrinale e liturgica con la tradizione, è venuta da Benedetto XVI col Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, che ha ridato finalmente piena cittadinanza nella Chiesa alla messa in rito antico.
Ma anche in questo caso, mancando seri provvedimenti autoritativi e disciplinari, l’esempio e l’insegnamento liturgico del Papa risultano ignorati e in molti casi addirittura osteggiati. È vero che oggi la liturgia è tornata al centro del dibattito. Ma è pur vero che della cosiddetta «riforma della riforma», la cui realizzazione appare assai remota, in tanti parlano senza però far capire in cosa dovrebbe consistere. ()

(Fonte: Federico Catani, Corrispondenza Romana, 24 ottobre 2012)
 

sabato 20 ottobre 2012

Il caro estinto diventa un diamante

Il dolore per la dipartita di un proprio caro si allevia se lo si porta al collo
Avete capito bene. Al collo come un pendente, un diamante vero e proprio! Per ora la nuova forma di sepoltura è eseguita soltanto in Svizzera e con un procedimento nemmeno complicato: il caro estinto viene cremato (e fin qui cosa abbastanza consueta), poi il parente affranto, tramite deposito del passaporto mortuario del defunto in Svizzera, consegna le ceneri al laboratorio addetto alla trasformazione… e qui avviene il miracolo: il carbonio contenuto nelle ceneri, che in base alla quantità di boro può assumere varie tonalità del blu, viene sottoposto al procedimento stesso che avviene in natura, con le stesse condizioni di pressione e temperatura, che portano alla formazione del diamante. Il costo è più o meno quello di una sepoltura tradizionale e varia da 3.500 a 13.000 € per una pietra da un carato (dipende insomma dalla caratura).
Per ora questa bizzarra forma di sepoltura può avvenire solo in Svizzera, dato che da noi non é prevista dalla vigente legislatura, ma mai dire mai. Sono ormai decine le richieste che provengono dal nord Italia e c’è da credere che l’usanza si diffonderà. Sai che bello per le sconsolate vedove, che magari hanno avuto sempre una bassa considerazione per il povero babbeo che le aveva sposate, poter dire sogghignando alle amiche: “Finalmente vale qualcosa!”.

(Fonte: Silvio Foini, Perfetta Letizia, 18/10/2012)

giovedì 11 ottobre 2012

Studi scientifici contro le adozioni gay: ma dalla D’Urso non si può dirlo!


Il segnale positivo è che certe cose si cominci a dirle. Il segnale negativo è che i mass-media ancora censurino chi non canti col coro.
25 settembre 2012: Canale 5 si è occupato del delicatissimo tema delle adozioni gay nel corso della trasmissione “Pomeriggio Cinque”. Per questo, si è collegato col dottor Giuseppe Di Mauro, Presidente della Sipps, Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale, che, di fatto, non ha potuto esprimere il proprio pensiero. Gli è bastato snocciolare i primi dati realmente scientifici, tali da sconsigliare vivamente le cosiddette “genitorialità” omosessuali, perché la parola gli fosse tolta, senza più aver la possibilità di concludere il proprio discorso.
Ha parlato in tutto 2 minuti e 8 secondi, mentre a Francesca Vecchioni ed alla sua storia lesbica con tanto di gemelline, avute in Olanda con la fecondazione eterologa, sono stati dedicati 18 minuti e 20 secondi ininterrotti con la replica di alcuni brani dopo la pubblicità per altri 2 minuti. In tutto, oltre 20 minuti monodirezionati. In più, l’intervista a Vendola, l’insostenibile dibattito seguito con abili stacchi da un ospite all’altro, applausi e fischi a senso unico in una trasmissione chiaramente faziosa, dove la stessa conduttrice, Barbara D’Urso, si è nettamente schierata, [come suo solito meglio la finzione scenica che la cultura: il pensiero delle potenti lobby è sempre il più trendy!] complimentandosi ad esempio con Francesca Vecchioni per l’iscrizione alle “liste civiche” della Milano di Pisapia ed auspicando ben presto un referendum sulle unioni gay.
In tutto questo bailamme l’unico “silenziato” è stato il dottor Di Mauro. Che, a questo punto, ha giustamente inviato una denuncia all’Agcom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, contro la trasmissione a tutela del pluralismo. Esprimendo «seria preoccupazione per la rapidità e la leggerezza con la quale, a livello mediatico», si diffondono «informazioni superficiali e spesso fuorvianti» in merito.
Perché gli è stata tolta la parola? Cosa avrebbe voluto dire? Che «sulla base della letteratura scientifica disponibile, i bambini sembrano più adatti ad avere una vita adulta con successo, quando trascorrono la loro intera infanzia con i loro padri e madri biologici sposati e specialmente quando l’unione dei genitori rimane stabile a lungo». I dati parlano chiaro, per questo “scottano”. E smentiscono la vulgata permissivista.
L’indagine più autorevole in merito sia per ampiezza, sia per qualità del campione considerato è quella del sociologo Mark Regnerus dell’Università del Texas, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica “Social Science Research”. Ebbene, il 12% dei figli con “genitori” omosessuali pensa al suicidio (contro il 5% dei figli di coppie eterosessuali sposate), il 40% è propenso al tradimento (contro il 13%), il 28% è disoccupato (contro l’8%), il 19% è in trattamento psicoterapeutico (contro l’8%) e più frequente è il ricorso all’assistenza sociale, il 40% ha contratto una patologia trasmissibile sessualmente (contro l’8%). Inoltre, afferma il dottor Di Mauro, «sono genericamente meno sani, più inclini al fumo ed alla criminalità».
Più depressi, più ansiosi, più impulsivi e più esposti alle dipendenze. Questo studio è di luglio. A fronte delle prevedibili reazioni provocate, in agosto il prof. Regnerus ha messo a punto una nuova analisi, sempre pubblicata su “Social Science Research”, in cui, tenendo conto delle critiche mossegli, non solo ha confermato, ma ha addirittura rilanciato, rivelando le notevoli differenze sussistenti tra figli adulti adottati da coppie gay conviventi e figli naturali di coppie eterosessuali. Invece scientificamente invalidi, non empiricamente giustificati e contraddittori sono stati riconosciuti i dati forniti dai fans della “genitorialità” gay, come evidenziato dallo studio di Loren Marks della Louisiana State University. Ma tutto questo non si può dirlo.
(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 10 ottobre 2012)

Un libro da leggere e meditare: “Credo in Gesù Cristo” di Mons. Brunero Gherardini

Si è svolta presso la Fondazione Lepanto [cui ho partecipato con grande soddisfazione] la presentazione del testo Credo in Gesù Cristo. Meditazione teologica sul Cristo della Chiesa (Edizioni VivereIn, Roma 2012, pp. 321 , € 22,00 ) di Mons. Brunero Gherardini, uno dei più noti teologi contemporanei. Sono intervenuti, oltre all’autore, Mons. Renzo Lavatori e il prof. Roberto de Mattei. Il dibattito è stato aperto dal prof. de Mattei, con una riflessione sul ruolo dei teologi: la difesa delle verità della Fede contro gli errori del loro tempo.
In questo senso, individuando nella Teologia la vera Scientia Fidei, la figura del teologo corrisponde indubbiamente a quella di uno scienziato, che deve tuttavia presupporre un sostrato più profondo e imprescindibile: essere uomo di fede. Oggi la Fede attraversa una crisi profonda e di ciò sono corresponsabili i teologi stessi che hanno portato più confusione che chiarezza nei fedeli. Da questo punto di vista l’opera di Gherardini è una luminosa eccezione. I suoi ultimi testi, ben inseriti in una produzione complessiva di parecchie decine di pubblicazioni, hanno il pregio di offrire un orientamento definito, perfettamente coerente con quella che già Benedetto XVI, nel discorso pronunciato il 22 dicembre 2005, ha definito «ermeneutica della continuità».
Ha quindi preso la parola Mons. Renzo Lavatori, docente presso l’Università Urbaniana, che ha subito precisato la natura del libro oggetto della conferenza. Un lavoro che pur essendo scientifico, rappresenta anzitutto una dichiarazione di adesione totale e incondizionata alla Divina Rivelazione. Non un puro trattato cristologico, né una manifestazione di fede inconscia, bensì un’immersione consapevole e critica nel Mistero, attraverso una meditazione – come richiamato nel titolo stesso del libro – che ci accompagna nella contemplazione di quella realtà stupenda che è Cristo. Un Cristo presentato al lettore al di fuori di ogni soggettivismo, che troppo spesso ha contraddistinto la teologia degli ultimi decenni. È il Signore Gesù letto con la lente della tradizione e non secondo l’ermeneutica di una corrente o di un autore, ma secondo l’insegnamento della Chiesa.
Ulteriore grande merito di Gherardini è il superamento della discussione su quale sia prevalente tra natura umana e divina in Gesù. Il Salvatore rappresenta infatti un unicum perfetto: Egli è perfettamente Dio e perfettamente uomo all’un tempo e guardando a Lui ciascuno realizza più a fondo a cosa l’uomo debba tendere. Questo testo assume allora una triplice dimensione: antropologica, teologica e cristologica. Siamo posti di fronte al vero Gesù della Fede, contemplato e meditato dalla teologia della Chiesa da sempre e per sempre, il Gesù dei Cieli disceso sulla terra e non quello della terra elucubrato dai moderni.
La parola è quindi passata allo stesso Mons. Gherardini, il quale, ringraziando ed apprezzando l’analisi di Lavatori, ha ritenuto di aver poco altro da aggiungere, salvo specificare la genesi peculiare che il testo ha avuto. Ha ammesso di aver dovuto vincere una certa soggezione nell’accostarsi ad un soggetto tanto complesso. E poi, cosa scrivere? Nella contemplazione del Cristo tutto è insufficiente. La soluzione è allora quella di rifarsi alla Chiesa. Semplicemente e docilmente alla Chiesa. Seguendo questa via, l’autore ha confidato di essersi trovato a scrivere di getto, quasi sotto dettatura, tanto naturale e fonte di gioia gli è stato lo scrivere. È un libro nato in brevissimo tempo con cui “Gherardini trasmette”, per riprendere le parole di Lavatori, «il frutto di anni di sacerdozio oltre che di studio». Una lettura sicuramente da consigliare; fonte di scienza e spunto di riflessione per l’intelletto e per l’anima.

(Fonte: Andrea Giannotti, Uno studio di Mons. Gherardini che si fa contemplazione, Corrispondenza Romana, 10 ottobre 2012)

 

Ma in che cosa crede il cardinale Ravasi?

L’incontro che si è svolto il 5 e il 6 ottobre ad Assisi ha visto un vero dialogo tra credenti e non credenti, come diceva il programma, o una serie di monologhi tra non credenti, senza la presenza di alcuno che professasse integralmente la Verità cattolica? A farlo pensare sono le ripercussioni mediatiche dell’evento ma anche, spiace dirlo, la fisionomia culturale di colui che dell’incontro è stato l’indiscusso protagonista. In cosa crede infatti S. Em.za il cardinale Gianfranco Ravasi? Limitiamoci alla prefazione che egli ha recentemente apposto a “La vita di Antonio Fogazzaro” (Morcelliana, Brescia 2011) di Tommaso Gallarati Scotti (1878-1940).
Si tratta di un’opera posta allora all’Indice dei Libri Proibiti (Decr. S. Off. 9 dicembre 1920), dedicata ad un autore, a sua volta ripetutamente posto all’Indice (Decreti 5 aprile 1906 e 8 maggio 1911 per i romanzi Leila e Il Santo), quale fu lo scrittore vicentino Antonio Fogazzaro (1842-1911). Due modernisti, Fogazzaro e Gallarati Scotti, i cui nomi si accompagnano nella prefazione del card. Ravasi a quelli di altri modernisti tristemente celebri, come George Tyrrell, Alfred Loisy, Romolo Murri, Ernesto Buonaiuti, tutti scomunicati e tutti ricordati dal cardinale, con queste parole: «A costoro si accostò Antonio Fogazzaro, erede della tradizione cattolico-liberale e interprete dei fermenti che si stavano allora sviluppando nella società e nella cultura» (Prefazione, p. 6).
Non una parola di riserva su tali autori, non una parola di apprezzamento sul papa san Pio X che condannò i loro errori. Fogazzaro, «figura di intensa fede e passione ecclesiale che, come è noto, si trovò immesso in quel flusso religioso e culturale, ora ardente ora turbolento, che va sotto il nome di modernismo», fu oggetto, secondo il cardinale Ravasi di una «prevaricazione» da parte delle autorità ecclesiastiche; prevaricazione «più modesta, ma non per questo meno sanguinante» (Prefazione, p. 5), dei grandi peccati commessi dalla Chiesa durante la sua storia. In questa prospettiva di «purificazione della memoria», Fogazzaro e Gallarati Scotti sono per Ravasi due «personalità straordinarie», che meritano di essere ricordate per «gettare luce anche sul nostro presente ecclesiale e sociale, ben più modesto ma segnato da analogie con quel glorioso passato» (Prefazione, p. 8). Il «glorioso passato» a cui il cardinale si richiama, non è, vale la pena sottolinearlo, il grande Magistero di san Pio X, ma proprio quel modernismo che lo stesso san Pio X definiva «sintesi di tutte le eresie» (Pascendi dominici gregis, Cantagalli, Siena 2007, pp. 94-98).
Vale la pena ricordare che quell’Antonio Fogazzaro, che il cardinale Ravasi presenta come modello di fede per il XXI secolo fu, secondo il suo stesso biografo Gallarati Scotti, un ardente seguace di Charles Darwin e dello scientismo di fine Ottocento. «La teoria dell’evoluzione gli pareva rispondere sempre meglio alle intime esigenze del suo spirito mistico» e «il suo petto si gonfiava di una gioia esaltante, come per una rivelazione di Dio nella natura» (La vita di Antonio Fogazzaro, p. 173).
Cos’altro era del resto il modernismo se non evoluzionismo religioso o, come diremmo oggi, “teo-evoluzionismo”? Gallarati Scotti ci dice che Fogazzaro «non nascondeva la sua illimitata devozione per Giorgio Tyrrell» (La vita di Antonio Fogazzaro, p. 375) in cui sentiva «un nuovo condottiero di anime» (ivi, p. 322). «Comprese che egli avrebbe lasciato un grande solco nel suo tempo: che era della stoffa di coloro che segnano di un segno indelebile la vita religiosa di un secolo. Lo sentì soprattutto più vicino a lui nella preoccupazione centrale della vita cattolica e prese il mistico inglese come ispiratore e maestro di colui che stava per mandare nel mondo col titolo di Santo» (ivi).
Considerato il teologo principe dei modernisti, Tyrrell riduceva la fede ad esperienza del divino che si compie nella coscienza di ognuno e attraverso la prassi liturgica (Lex orandi) pretendeva trasformare la verità dogmatica della Chiesa (Lex credendi), dissolvendola in una «chiesa dello spirito». Tyrrell intendeva rimanere all’interno della Compagnia di Gesù e della Chiesa, per operarvi la riforma modernista dall’interno, ma fu espulso dai gesuiti nel 1906 e scomunicato il 22 ottobre 1907. Morì il 15 luglio 1909 senza essersi riconciliato con la Chiesa e privo di sepoltura religiosa.
Più discreto è Gallarati Scotti sulle pratiche spiritiche e le frequentazioni occultiste di Fogazzaro. Una giovane studiosa, Adele Cerreta, ha dedicato a questo tema un recente volume (Le origini esoteriche del modernismo. Padre Gioacchino Ambrosini e la teologia modernista, Solfanelli, Chieti 2012) in cui, utilizzando gli studi del gesuita padre Gioacchino Ambrosini (1857-1923), ripercorre i rapporti tra il modernismo e lo gnosticismo in Fogazzaro, sottolineando l’analogia delle sue tesi con quelle della Teosofia, la setta fondata dalla contessa ucraina Elena Blavatsky e diffusa dalla femminista inglese Annie Besant allo scopo di creare una sincretistica fratellanza universale. C’è da aggiungere che il discorso di Piero Maironi, protagonista de Il Santo, riassume con esattezza le dottrine di Andrzej Towianski, un visionario polacco che profetizzava una religione dello spirito opposta a quella del dogma. In un recente convegno svoltosi nel dicembre 2011 a Vicenza, Laura Wittman della Stanford University, ha offerto nella sua relazione (Fogazzaro tra occultismo e modernismo) un’ulteriore conferma della dimensione gnostica ed esoterica dell’opera di Fogazzaro.
La parola chiave di Fogazzaro è quella della «purificazione della fede» dalle incrostazioni dogmatiche e liturgiche accumulate nei secoli. Come Tyrrell, scrive Gallarati Scotti, egli «voleva ad ogni costo che la Chiesa diventasse sempre di più atta a rispondere a quei bisogni dello spirito che mutano nella forma, ma rimangono identici nella sostanza» (La vita di Antonio Fogazzaro, p. 322). «L’aspirazione al rinnovamento della Chiesa, all’incontro tra cultura e fede, all’elaborazione di un pensiero e di una prassi pastorale più in sintonia coi tempi, pur nella fedeltà alle sue matrici, – conferma il card. Ravasi – aveva alimentato l’intera sua esistenza e quella del suo grande amico Tommaso Gallarati Scotti» (Prefazione, p. 6).
Sarebbe fare un torto alla mente dialettica e inafferrabile del cardinale Ravasi, se lo si volesse rinchiudere nel recinto di un vetero-modernismo fogazzariano. Ravasi conosce la nouvelle théologie e la teologia della secolarizzazione, è affascinato dal pensiero debole e dal Qohelet ebraico, dialoga con i non-credenti, senza poter essere definito egli stesso un credente. Il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura può essere annoverato tra i “credenti non-credenti”, categoria che egli stesso spiega con le parole del teologo francese Claude Geffré: «Su un piano oggettivo è evidentemente impossibile parlare di una non credenza nella fede. Ma sul piano esistenziale si può arrivare a discernere una simultaneità di fede e di non credenza» (Il fiore del dialogo, in Il Cortile dei Gentili. Credenti e non credenti di fronte al mondo d’oggi, Donzelli, Roma 2011, p. 8).
In che cosa crede allora il cardinale Ravasi? Sicuramente nella propria capacità di unire gli opposti, di tentare spericolate sintesi intellettuali, di dire e non dire, lasciando intendere a chi vuole intendere. Ma cosa c’entra tutto questo con la pienezza e la integrità della fede cattolica, la gloria di Dio e la salvezza delle anime? Glielo chiediamo sommessamente, con tutto il rispetto che si deve a chi resta, comunque, un principe della Chiesa e un successore degli Apostoli.

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 10 ottobre 2012

 

giovedì 4 ottobre 2012

“Cattolici” che rifiutano il peccato originale

L'imminente cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II ha riacceso la disputa su quale sia la corretta interpretazione di quella assise:
- se quella "della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto Chiesa", auspicata dal magistero papale e spiegata in modo semplice e netto da Benedetto XVI nel famoso discorso del Natale del 2005;
- oppure quella "della discontinuità e della rottura", sostenuta sia dai lefebvriani sia, per opposti motivi, dal progressismo cattolico e in particolare dalla storia del Concilio pubblicata in cinque volumi e in più lingue dalla cosiddetta "scuola di Bologna".
Un esempio di come nel cattolicesimo progressista si interpreti il Vaticano II come momento di rottura anche dogmatica riguarda la dottrina del peccato originale.
A tale proposito è sintomatico quanto accaduto a Roma lo scorso 15 settembre in un convegno celebrativo del Vaticano II, che ha visto la partecipazione di un migliaio di persone in rappresentanza di oltre cento sigle della sinistra cattolica italiana.
In quel convegno, titolato “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri”, una delle relazioni principali è stata tenuta da Raniero La Valle, figura eminente della sinistra cattolica, che all’epoca del Concilio dirigeva uno dei principali quotidiani cattolici italiani – in quegli anni ce ne erano più di uno –, “L’Avvenire d’Italia” stampato nella Bologna del cardinale Giacomo Lercaro.
Nel suo intervento, La Valle ha detto che "nella sua narrazione della fede il Concilio non ha riproposto la dottrina punitiva del peccato originale, nella forma depositata nei catechismi. C’era questa dottrina nello schema preparatorio della commissione dottrinale, ma il Concilio l’ha lasciata cadere". E questa "non è una dimenticanza, è un’ermeneutica".
Per La Valle risulta "evidente come il Concilio, nel tacere sul mito del giardino, si sia messo all’ascolto del 'sensus fidei' del popolo di Dio".
A suo dire, dagli anni del Concilio il popolo cristiano avrebbe ormai voltato le spalle al dogma sulla realtà del peccato originale, cosa che invece non avrebbe fatto "il successivo Catechismo della Chiesa cattolica del 1992", il quale "riesuma quella dottrina, segno di una gerarchia resistente al Vaticano II".
L’idiosincrasia nei confronti del dogma del peccato originale è piuttosto diffusa nel mondo cattolico progressista. In modo più o meno spinto.
Per rimanere in Italia basti pensare al caso di Vito Mancuso, che lo rigetta drasticamente in quanto sarebbe, a suo dire, "un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente".
L’Agostino citato da Mancuso ovviamente non è un autore qualsiasi ma è il padre e dottore della Chiesa autore delle "Confessioni", a cui si deve la definizione del peccato originale come "felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem", definizione che anche nelle liturgie postconciliari risuona in tutte le chiese del mondo nella veglia pasquale, quando viene cantato l’Exultet.
Oppure si può pensare al priore di Bose, fratel Enzo Bianchi, per il quale "il peccato originale non consiste in un atto di Adamo ed Eva che ha causato la rovina di tutti noi, bensì nel fatto che ciascuno di noi, venendo alla vita, scopre che il male è già presente sulla scena della vita, nei suoi rapporti con le cose e con gli altri" (così in "AIDS, malattia e guarigione", Edizioni Qiqajon, 1995, p. 14).
O che in una intervista a "la Repubblica" del 3 maggio 2000 dopo aver chiamato "mito" il peccato originale, continuava: "Ma oggi nessuna Chiesa cristiana vede nella storia di Adamo ed Eva il motore di un meccanismo perverso per cui il peccato si eredita senza colpa alcuna".
In realtà il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 parla della "realtà del peccato delle origini" (par. 387). E ribadisce: "Adamo ed Eva alla loro discendenza hanno trasmesso la natura umana ferita dal loro primo peccato, privata, quindi, della santità e della giustizia originali. Questa privazione è chiamata peccato originale" (par. 417).
Il Catechismo del 1992 è un frutto del pontificato di Giovanni Paolo II. Scaturì dalla richiesta fatta dai padri che parteciparono al Sinodo dei vescovi del 1985, dedicato proprio al Concilio Vaticano II, e fu compilato sotto la guida di una commissione presieduta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Ma sulla dottrina del peccato originale, nonostante l’obiezione di La Valle, il Catechismo non si appoggiò esclusivamente sul magistero preconciliare. Il dogma del peccato originale infatti è richiamato in uno degli atti più solenni compiuti da Paolo VI, il "Credo del popolo di Dio", nella cui compilazione ebbe un ruolo non secondario una personalità come quella di Jacques Maritain:
E infatti nel paragrafo 419 del Catechismo si cita proprio il n. 16 del "Credo del popolo di Dio" per affermare: "Noi dunque riteniamo, con il Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso insieme con la natura umana, 'non per imitazione ma per propagazione', e che perciò è 'proprio a ciascuno'".

È vero che negli atti del Concilio Vaticano II la locuzione “peccato originale” non c’è. Ma a questa obiezione ha risposto lo stesso Paolo VI in un discorso citato in nota nel Catechismo del 1992.
Si tratta di un discorso pronunciato l’11 luglio 1966 davanti ai partecipanti a un simposio sul peccato originale che si celebrava a Roma in quei giorni.
In esso papa Giovanni Battista Montini rispose proprio a quella obiezione che ancora oggi riecheggia, come s'è visto, in circoli appartenenti più all’intellighenzia cattolica che al semplice popolo di Dio.
Dopo aver citato e commentato brani delle costituzioni conciliari "Lumen gentium" e "Gaudium et spes", Paolo VI disse: "Come appare chiaro da questi testi, che abbiamo creduto opportuno di richiamare alla vostra attenzione, il Concilio Vaticano II non ha mirato ad approfondire e completare la dottrina cattolica sul peccato originale, già sufficientemente dichiarata e definita nei Concili di Cartagine (a. 418), d’Orange (a. 529) e di Trento (a. 1546). Esso ha voluto soltanto confermarla ed applicarla secondo che richiedevano i suoi scopi, prevalentemente pastorali".
Quanto a Benedetto XVI, ha insistito più volte sulla realtà "di quello che la Chiesa chiama peccato originale", contro i "molti" che "pensano che non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità".
In particolare, papa Joseph Ratzinger ha dedicato al peccato originale due udienze del mercoledì consecutive, quelle del 3 e del 10 dicembre 2008.
Si può aggiungere che, curiosamente, la dottrina del peccato originale trova difensori non soltanto in papi come Paolo VI, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI.
Ad essa si è riferito di recente un non cattolico particolarmente amato dai circoli progressisti di tutto il mondo, un personaggio sicuramente insospettabile di simpatie preconciliari.
Si tratta del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, nel suo celebre discorso del 2009 alla Notre Dame University che gli procurò, proprio per questo riferimento, gli elogi del teologo emerito della casa pontificia, il cardinale Georges Cottier:


(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 4 ottobre 2012)
 

Benedetto XVI: Attenti a certe liturgie, non sono più neppure veramente cristiane

Nell'udienza generale del 3 ottobre 2012, Benedetto XVI ha proseguito il nuovo ciclo della sua «scuola della preghiera» dedicato alla liturgia che - come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica - è «partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. Nella liturgia ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine» (n. 1073). Il Papa ha invitato ciascuno di noi a porsi una domanda: «che posto ha nel mio rapporto con Dio la preghiera liturgica, specie la Santa Messa, come partecipazione alla preghiera comune del Corpo di Cristo che è la Chiesa?».
Non si tratta di una domanda da prendere alla leggera. Infatti, se «la preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo», e se «quella con il Signore è la relazione che dona luce a tutte le altre nostre relazioni», allora come impostiamo la nostra vita di preghiera è una delle questioni decisive per tutta la nostra vita. Il Pontefice lo ripete con chiarezza: «solo in Cristo possiamo dialogare con Dio Padre come figli, altrimenti non è possibile». Dunque, «la preghiera cristiana consiste nel guardare costantemente e in maniera sempre nuova a Cristo, parlare con Lui, stare in silenzio con Lui, ascoltarlo, agire e soffrire con Lui. Il cristiano riscopre la sua vera identità in Cristo».
Ma dove possiamo incontrare Cristo? La risposta del Papa non è meno chiara: «Cristo lo scopriamo, lo conosciamo come Persona vivente, nella Chiesa». Tanto intimamente la Chiesa è il «suo Corpo» che per capire questa «corporeità» abbiamo bisogno di tornare a quel che ci dice la Bibbia sull’uomo e sulla donna: «i due saranno una carne sola». Come per l'uomo e la donna, «il legame inscindibile tra Cristo e la Chiesa, attraverso la forza unificante dell’amore, non annulla il "tu " e l’"io", bensì li innalza alla loro unità più profonda.». Lo stesso avviene per noi, per me nel mio rapporto con Cristo nella Chiesa: «trovare la propria identità in Cristo significa giungere a una comunione con Lui, che non mi annulla, ma mi eleva alla dignità più alta, quella di figlio di Dio in Cristo», e fa nascere e vivere quella «storia d’amore tra Dio e l’uomo» di cui Benedetto XVI ha parlato nella sua enciclica «Deus caritas est».
Ora, per entrare nella vita della Chiesa e quindi incontrare Cristo oggi la liturgia è obbligatoria. Perché «partecipando alla liturgia, facciamo nostra la lingua della madre Chiesa, apprendiamo a parlare in essa e per essa». Naturalmente, «questo avviene in modo graduale, poco a poco. Devo immergermi progressivamente nelle parole della Chiesa, con la mia preghiera, con la mia vita, con la mia sofferenza, con la mia gioia, con il mio pensiero. È un cammino che ci trasforma».
In fondo, alla domanda «Come imparo a pregare?», la riposta è sempre quella di Gesù, che a questa stessa domanda posta dagli apostoli ha risposto insegnando il «Padre nostro». Se esaminiamo con più attenzione questa risposta di Gesù, «noi vediamo che la prima parola è "Padre" e la seconda è "nostro"». Il Signore c'insegna dunque che la preghiera poggia su due colonne. La prima è il riconoscimento di Dio come Padre. La seconda è la comprensione profonda del fatto che a Dio mi devo rivolgere nella preghiera non solo come «Padre mio» ma anche, necessariamente, come «Padre nostro», Padre di un «noi» che è la Chiesa. «Il dialogo che Dio stabilisce con ciascuno di noi, e noi con Lui, nella preghiera include sempre un "con"; non si può pregare Dio in modo individualista». Di qui proviene il carattere essenziale e obbligatorio della liturgia. «Nella preghiera liturgica, soprattutto l’Eucaristia, e - formati dalla liturgia - in ogni preghiera, non parliamo solo come singole persone, bensì entriamo nel "noi" della Chiesa che prega». Dal momento che, per pregare da cristiani, «dobbiamo trasformare il nostro "io" entrando in questo "noi"», nella Chiesa, è del tutto sbagliato immaginare che la preghiera individuale sia sufficiente e possa sostituire la preghiera liturgica.
Ma c'è il rischio che, paradossalmente, la liturgia venga meno alla sua funzione, che è quella di farci uscire da un accostamento individualista alla preghiera, e diventi essa stessa manifestazione d'individualismo e di soggettivismo. Questo si verifica, secondo il Pontefice, quando la liturgia si riduce a «una specie di "auto-manifestazione" di una comunità», che celebra se stessa e le sue piccole idiosincrasie anziché fare entrare chi vi partecipa nella preghiera della Chiesa universale, «nella grande comunità vivente, nella quale Dio stesso ci nutre». La liturgia cattolica «implica universalità e questo carattere universale deve entrare sempre di nuovo nella consapevolezza di tutti». L'universalità della liturgia cattolica ha profonde ragioni teologiche, e perfino cosmiche, che non devono andare perdute: «è il culto del tempio universale che è Cristo Risorto, le cui braccia sono distese sulla croce per attirare tutti nell’abbraccio dell’amore eterno di Dio. È il culto del cielo aperto. Non è mai solamente l’evento di una comunità singola, con una sua collocazione nel tempo e nello spazio». Il Papa lo afferma con parole piuttosto severe: «Se nella celebrazione non emerge la centralità di Cristo non avremo liturgia cristiana». Se vogliamo sfuggire a questo rischio, «deve crescere in noi la convinzione che la liturgia non è un nostro, un mio "fare", ma è azione di Dio in noi e con noi»; che «non è il singolo - sacerdote o fedele - o il gruppo che celebra la liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. Questa universalità ed apertura fondamentale, che è propria di tutta la liturgia, è una delle ragioni per cui essa non può essere ideata o modificata dalla singola comunità o dagli esperti, ma deve essere fedele alle forme della Chiesa universale».
«La liturgia cristiana, anche se si celebra in un luogo e uno spazio concreto ed esprime il "sì" di una determinata comunità, è per sua natura cattolica, proviene dal tutto e conduce al tutto, in unità con il Papa, con i Vescovi, con i credenti di tutte le epoche e di tutti i luoghi». É vero che «la Chiesa si rende visibile in molti modi: nell’azione caritativa, nei progetti di missione, nell’apostolato personale che ogni cristiano deve realizzare nel proprio ambiente. Però il luogo in cui la si sperimenta pienamente come Chiesa è nella liturgia: essa è l’atto nel quale crediamo che Dio entra nella nostra realtà e noi lo possiamo incontrare, lo possiamo toccare».
Per questo, ancora, quando in tema di liturgia noi «poniamo attenzione soltanto su come renderla attraente, interessante bella, rischiamo di dimenticare l’essenziale: la liturgia si celebra per Dio e non per noi stessi; è opera sua; è Lui il soggetto; e noi dobbiamo aprirci a Lui e lasciarci guidare da Lui e dal suo Corpo che è la Chiesa». La liturgia è cristiana quando «dirige il suo sguardo non a se stessa, ma a Dio». Quando invece si ripiega su se stessa, diventa un ulteriore esempio delle deviazioni soggettivistiche contemporanee, che chiudono l'uomo in se stesso anziché aprirlo a Dio.

(Fonte: Massimo Introvigne, 3 ottobre 2012)

Mons. Negri e Massimo Cacciari: Impossibile togliere l’ora di religione nelle scuole

Ancora reazioni alle parole del ministro dell’istruzione Francesco Profumo che ha detto che «l’insegnamento della religione nelle scuole così come è concepito oggi non ha più molto senso». Su Libero Caterina Maniaci ha intervistato monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, che dice come le dichiarazioni del ministro appaiano «frutto di una grave disinformazione; il che non è molto comprensibile per un ministro che dovrebbe avere, tra le proprie competenze, questi temi».
Negri ricorda che la soluzione attuale («di grandissimo profilo culturale e democratico») è figlia di «un lungo cammino e dialogo» partito con i Patti Lateranensi. «L’ora di religione – spiega il vescovo – deve essere impartita secondo la forma della tradizione cattolica, perché rappresenta per tutti i cittadini italiani che lo desiderano la possibilità di incontrare il cristianesimo come avvenimento di vita, di cultura e di civiltà».
L’errore da non commettere, è pensare che l’ora di religione sia un’ora di catechismo. «La catechesi ha altre finalità e altri metodi e si realizza nell’ambito della vita ecclesiale». Tra l’altro, c’è di mezzo il Concordato: «Non c’è nessuno che possa mettere in discussione la funzione della religione cattolica nelle scuole senza aprire un contenzioso a livello internazionale, perché l’ora di religione insegnata nelle scuole fa parte del Concordato esistente tra lo Stato italiano e la Chiesa. La presenza della religione cattolica, poi, è un fatto irresistibilmente esistenziale, non programmatico».
Il vescovo fa riferimento anche alla propria esperienza personale: «Nel liceo che frequentavo negli anni Sessanta – il prestigioso liceo Berchet di Milano – le materie venivano a disporsi positivamente o dialetticamente, nei confronti dell’insegnamento della religione cattolica che, per grazia, ci era impartita da monsignor Luigi Giussani. L’ora di religione non è la Cenerentola degli studi e non è una graziosa concessione al mondo cattolico. Anzi rappresenta il tentativo di realizzare una concreta pluralizzazione della scuola che, soprattutto quella statale, oggi soffre di una crescente omologazione di carattere ideologico a senso unico, in particolare nel senso del progressismo e del tecnoscientismo». (su Corrispondenza Romana, 27 settembre 2012).

In proposito anche il filosofo agnostico Massimo Cacciari non ha dubbi. «La nostra tradizione religiosa deve essere insegnata obbligatoriamente a scuola. Non solo, la teologia dovrebbe essere presente in tutti i corsi universitari di filosofia».
D. Il motivo di tanta perentorietà?
R. Siamo in presenza di un analfabetismo di massa in campo religioso.
D. Dunque lei è per l’obbligatorietà dell’insegnamento, senza se e senza ma.
R. Non lo dico da oggi: sarebbe civile che in questo Paese si insegnassero nelle scuole i fondamenti elementari della nostra tradizione religiosa. Sarebbe assolutamente necessario battersi perché ci fosse un insegnamento serio di storia della nostra tradizione religiosa. Lo stesso vale per le università; sarebbe ora che fosse permesso lo studio della teologia nei corsi normali di filosofia, esattamente come avviene in Germania.
D. La religione, dunque, alla pari della lingua italiana o della matematica. Non può essere un optional…
R. Macché optional. Per me è fondamentale il fatto che non si può essere analfabeti in materia della propria tradizione religiosa. È una questione di cultura, di civiltà. Non si può non sapere cos’è il giudaismo, l’ebraismo, non si può ignorare chi erano Abramo, Isacco e Giacobbe. Bisogna conoscerne la storia della religione, almeno della nostra tradizione religiosa, esattamente com’è conosciuta la storia della filosofia e della letteratura italiana. Ne va dell’educazione, della maturazione anche antropologica dei ragazzi. È assolutamente indecente che un giovane esca dalla maturità sapendo magari malamente chi è Manzoni, chi è Platone e non chi è Gesù Cristo. Si tratta di analfabetismo. La scuola deve alfabetizzare. Quando i ragazzi vanno in giro a fare i turisti vedono delle chiese e dei quadri con immagini sacre. Ma cosa vedono, cosa capiscono? Spesso riconoscono a malapena Gesù Bambino. Non sanno nulla delle nostre tradizioni. La religione è un linguaggio fondamentale. Come la musica.
D. Perché non pensare ad un insegnamento, più democratico, di Storia delle religioni?
R. Non ha nessun senso insegnare Storia delle religioni. Così come si insegna Storia della letteratura italiana e non storia delle letterature mondiali, storia dell' arte italiana e non storia dell' arte cinese, non vedo la necessità di insegnare il buddismo zen o la religione degli aztechi. Chi suggerisce di studiare tutte le storie delle religioni finisce per volere, in pratica, che non se ne studi nessuna. È necessario, invece, sapere bene almeno cosa dicono le grandi tradizioni monoteistiche.
D. A suo avviso non è sufficiente l’insegnamento che oggi viene assicurato?
R. No. Sappiamo benissimo che ora l’ora di religione non conta come dovrebbe contare, viene presa sottogamba.
D. Invece?
R. Vorrei che fosse una materia in cui si studiasse veramente la Bibbia, prendiamo in mano il Vangelo e approfondiamolo come facciamo con l’italiano piuttosto che con la filosofia o il greco o, ancora, il latino. (su: Francesco Dal Mas, Avvenire, 25 settembre 2012)

(Ma.La. 4 ottobre 2012)