lunedì 21 dicembre 2020

Giuseppe e il matrimonio con Maria, mistero di salvezza

Delineando la genealogia di Gesù, all’inizio del primo dei quattro Vangeli, la prima espressione che Matteo usa per riferirsi a Giuseppe è «lo sposo di Maria». È da Lei che «è nato Gesù chiamato Cristo», come subito aggiunge l’evangelista nel prosieguo del medesimo versetto (cfr. Mt 1, 16). Fin da qui, dunque, è chiaro che dal matrimonio con la santa Vergine discendono i diritti paterni di san Giuseppe e il suo ruolo straordinario, preordinato dall’eternità, nel servire il mistero della Redenzione.

Nel ricordare i motivi per cui il capo della Santa Famiglia è patrono speciale della Chiesa, Leone XIII sottolineò - insieme alla paternità - proprio il matrimonio: «[…] poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei» (Quamquam Pluries, 15 agosto 1889).

Un secolo più tardi Giovanni Paolo II spiegava che Dio ha voluto incarnarsi, nella pienezza dei tempi, in una famiglia. Questa decisione divina doveva essere preceduta, nella sua concreta attuazione, dalle nozze di Maria e Giuseppe. «Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l’umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena libertà il dono sponsale di sé nell’accogliere ed esprimere un tale amore» (Redemptoris Custos, 7).

Riguardo alla piena libertà di tale dono sponsaleva richiamato il fatto che mistici e dottori della Chiesa insegnano che entrambi i santi sposi avevano fatto voto di verginità già nella loro fanciullezza, ribadendolo poi nel matrimonio. Lo sapeva bene un noto e compianto josefologo, padre Tarcisio Stramare (1928-2020), religioso degli Oblati di San Giuseppe e tra i principali collaboratori di Giovanni Paolo II alla stesura della RC. «Il matrimonio di Maria con Giuseppe, che era destinato ad accogliere ed educare Gesù, comportava necessariamente - scrive padre Stramare - la massima espressione dell’unione coniugale, ossia il grado supremo del dono di sé. La verginità, che esprime e garantisce l’assoluta gratuità del dono, va dunque candidamente ammessa in quel matrimonio, riconoscendo che essa non solo non compromette l’essenza del matrimonio e della paternità, ma la evidenzia e la difende, secondo il duplice assioma agostiniano: “sposo tanto più vero quanto più casto” e “padre tanto più vero quanto più casto”» (La Santa Famiglia di Gesù, Shalom, 2010, p. 75).

Maria e Giuseppe, desiderando realizzare la sola volontà di Dio, si rendono docili strumenti nelle Sue mani e compiono dunque ciò che Adamo ed Eva non avevano saputo fare, cadendo per la loro disobbedienza nel peccato originale, da cui deriva il disordine della concupiscenza. Il santo matrimonio che precede l’incarnazione del Verbo è quindi una realtà talmente legata ai misteri salvifici da essere fondamentale in ogni autentica catechesi familiare. Come spiegò Paolo VI il 4 maggio 1970 nell’allocuzione al movimento Équipes Notre-Dame: «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all’inizio dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita».

Per quanto detto, è oggi quantomai necessario dare il giusto risalto al legame sponsale tra Maria e Giuseppe, sottolineandone la naturale reciprocità, in accordo ai Vangeli. In questo senso, padre Stramare notava per esempio che perfino nelle Litanie Lauretane manca ufficialmente un titolo che onori la Madonna quale «sposa di Giuseppe», quando questo sarebbe conveniente, a maggior ragione per rimediare alla liquidità di certa teologia contemporanea che ha tra le sue vittime proprio la scomparsa del ruolo di Giuseppe, «specchio questo dello squilibrio sociologico e culturale della famiglia moderna, dove la figura “maschile” sta scomparendo sia come “padre” sia come “sposo”» (San Giuseppe - Dignità. Privilegi. Devozioni, padre Tarcisio Stramare, Shalom, 2008).

 (Fonte: Ermes Dovico, LNBQ, 19 dicembre 2020)

Giuseppe e il matrimonio con Maria, mistero di salvezza - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

 

martedì 17 novembre 2020

Gene blasfemo in Duomo, ma per il vescovo è solo gossip

Sketch triviali in Duomo al convegno sul beato Focherini. Ecco cosa ha detto Gene Gnocchi a Carpi nella performance di cui parla tutt'Italia: «Cerco lavoro, sono la controfigura di Rocco Siffredi, dopo che è rimasto amputato col ciak. Per stare svegli servono le palle del toro... e del torero. Paola Ferrari? Per Brosio è la Madonna di Medjugorje». A più di un mese dall'esibizione blasfema in Cattedrale, il vescovo di Carpi, Castellucci, presente e sorridente all'evento, non ha ancora chiesto scusa ai fedeli per le allusioni sessuali pronunciate dal comico sul presbiterio mentre la diocesi derubrica l'episodio a gossip. Il dramma di una Chiesa ossessionata dallo stare al passo coi tempi che svilisce il sacro e si fa caricatura di se stessa. 

 Nella grottesca vicenda di Gene Gnocchi in cattedrale a Carpi colpisce il fatto che il solo a farne le spese sia stato il prete che ha denunciato la “performance” mentre i vertici della Chiesa locale, con in testa il vescovo, ridevano per le blasfeme battute del comico, che non facevano neanche ridere.

I fatti sono usciti in questi giorni, ma risalgono al 10 ottobre. Per celebrare i 75 anni del martirio in campo di concentramento del beato Focherini, la diocesi di Carpi aveva promosso, attraverso un comitato apposito presieduto dal vicario diocesano don Ermenegildo Manicardi, una serie di iniziative tra cui un convegno storico sulla figura del martire carpigiano.

Al termine delle relazioni storico-teologiche, per alleggerire la mattinata, sul presbiterio della Cattedrale è salito in scena il comico con uno spettacolo chiamato Pandemia. Che c’entra con il tema di Focherini? Niente, ed è anche questa una delle tante stranezze che la diocesi avrebbe dovuto spiegare e invece non ha fatto.

Comunque, i giornali hanno riferito dell'accenno di Gnocchi su Rocco Siffredi perché un sacerdote che era in diocesi fino a un anno fa, don Ermanno Caccia (ora è a Chioggia), ha scritto sul suo profilo Fb che la battuta volgare di Gnocchi sul re del porno aveva dissacrato l’evento.

L’Adnkronos ha rilanciato la notizia e la cronaca di giro ha fatto il resto. Il Resto del Carlino ha pensato bene anche di intervistare il comico che si è limitato a dire che in realtà il vescovo e tutti gli altri ridevano di gusto e che era stato chiamato proprio dal vicario, il quale al termine dell’esibizione si è anche lanciato in un peana di ringraziamento al comico.

E ha ragione, in fondo ha fatto il suo mestiere di giullare. Il grande colpevole in questa squallida storia invece è proprio la Chiesa carpigiana, rappresentata dal vicario don Manicardi e dal vescovo di Modena Erio Castellucci, che ha preso la responsabilità pastorale della Chiesa di Carpi e Mirandola dopo le dimissioni improvvise di monsignor Francesco Cavina. Anche ieri dall’ufficio stampa della diocesi ci si è limitati a derubricare la cosa come un semplice gossip.

Invece quello che viene chiamato gossip in realtà, è stata una profanazione della Cattedrale, faticosamente restaurata dopo il sisma del 2012 e visitata da Papa Francesco nel 2017, che è stata teatro della performance di Gnocchi, il quale in 15 minuti di show ha fatto almeno tre battute impronunciabili in una chiesa. 15 minuti regolarmente fatturati, ma il cui importo la diocesi non ha voluto svelare.

Ma che cosa ha detto di preciso il comico? I giornali non lo hanno detto, anche perché il video dello “show” non  è mai stato pubblicato sul sito diocesano.

La Bussola oggi è in grado di ricostruire le parole del suo intervento e i passaggi più sconci, scoprendo, tra l’altro, che le battute irriverenti, del luogo e del contesto, erano almeno tre.

La prima è quella incriminata: Gene Gnocchi ad un certo punto si chiede: “Perchè mi trovo qui?”. Fa un monologo sul lavoro e sugli annunci di lavoro e poi informa il pubblico: “Non so se sapete che io sono la controfigura ufficiale di Rocco Siffredi”. Risate del pubblico. Poi prosegue: “Sì, perché una volta Siffredi è andato troppo vicino al ciack e… (lascia intendere che il ciack gli ha mozzato gli attributi ndr.) così hanno chiamato me”. Risate del pubblico, il vescovo Castellucci, probabilmente ignaro di quanto sarebbe stato elevato il valore spirituale della performance, si limita a ridere a denti stretti.

Ma non è niente di originale: si tratta di una battuta di un vecchio schetch del comico sul cercare lavoro disperatamente, scritto molto prima della pandemia, comunque. (Eccolo al minuto 3)

Prima però, Gnocchi, per aiutare il pubblico a rimanere sveglio al convegno, aveva apparecchiato il tavolo dei relatori, in presbiterio, dove ogni giorno si celebra la Messa, con acqua, bottiglie di lambrusco, un panino al prosciutto, una polvere che chiama “coca” e una Redbull. E così è partito: “Sapete come si fa la Redbull in casa?”. Il pubblico attende. “Ve lo dico io: prendete le palle del toro (la bevanda energizzante ha come simbolo proprio un toro ndr) e se non le avete, prendete le palle del torero”. Il pubblico ride, qualcuno si rende conto che l’intervento da osteria è irriverente del luogo, il vescovo Castellucci continua a fare buon viso a cattivo gioco. Ma anche questo è uno schetch già visto, per lo meno su youtube dove non sembra aver riscosso particolare successo. 

Infine, la performance, ormai un supplizio perché non c’è niente di più triste di un comico che non fa ridere, figurarsi se si esibisce in una chiesa, vira sull’avanspettacolo con battute che neanche al Bagaglino avrebbero partorito: “Quando lavoravo alla Domenica Sportiva, per illuminare Paola Ferrari (la conduttrice ndr.) lo studio rimaneva al buio, una volta entrò Paolo Brosio e urlò: Oddio, la Madonna di Medjugorie!”.

Nei giorni seguenti, la Diocesi ha diffuso tutti gli interventi tranne quello di Gene Gnocchi, evidentemente subodorando eventuali reazioni contrariate dei fedeli. Ma la voce dell'esibizione triviale di Gnocchi ha iniziato a circolare lo stesso sotto il portico di Piazza Martiri e volando veloce di bocca in bocca, è volata come una freccia scoccata dall'arco anche da don Caccia, come a tanti altri preti della diocesi. E qui il prete, che è stato l’ex direttore del settimanale diocesano prima che una polemica politica (un apprezzamento al leader leghista Salvini) lo azzoppasse, ha fatto il suo j’accuse.

Ieri mattina la Bussola ha cercato gli uffici della diocesi per un chiarimento. Ma nessuno è voluto intervenire, limitandosi a derubricare l’episodio a gossip e stupendosi del fatto che un giornale come il nostro potesse occuparsi di una notizia del genere.

Forse perché, a differenza di altri, abbiamo capito la notizia: in quei pochi minuti sono state commesse diverse profanazioni di cui qualcuno, magari lo stesso vescovo, dovrebbe chiedere scusa: al beato martire Focherini, il cui ricordo è stato lordato da uno spettacolo di bassissima qualità artistica, avulso dal contesto e già visto, e alla Cattedrale di Carpi, che dopo la ferita del sisma è assurta agli onori della cronaca non per esigenze di culto, ma per l’egocentrismo di un comico in crisi di ascolti e di una Chiesa in crisi di idee.

Una Chiesa che è ormai ossessionata dallo stare al passo coi tempi, in spasmodica ansia di parlare il linguaggio del mondo, ma che si trova fuori tempo massimo ad abbracciare anche le storture di quel mondo del quale non si accorge di andare al guinzaglio, specchiandosi nella caricatura di se stessa e svilendo quel sacro di cui dovrebbe essere custode. 

Il sesso: da tabù a pornografia. Qualcosa di cui finalmente si può ridere. C'è qualcosa che esprime un disagio e un'incompiutezza di fondo. Sorridere si può, ma senza dissacrare e senza prendere in giro i fedeli con i quali si è fatto finta di nulla quando ci si è accorti che lo spettacolo aveva travalicato i confini della decenza. Sconcertante che i primi a non rendersene conto siano proprio alcuni pastori.

 

(Fonte: Andrea Zambrano, LNBQ, 17 novembre 2020)

https://lanuovabq.it/it/gene-blasfemo-in-duomo-ma-per-il-vescovo-e-solo-gossip

 

lunedì 16 novembre 2020

McCarrick e omosessualità, c'è un problema dottrinale

La vicenda dell'ex cardinale americano e l'impostazione del Rapporto ratificano un cambiamento dottrinale nella valutazione morale e religiosa della pratica omosessuale. La cosa più preoccupante, frutto di Amoris Laetitia, è che l'obiettivo non è più difendere la fede, ma le persone coinvolte.

Il Rapporto McCarrick della Segreteria di Stato è stato finora analizzato dal punto di vista della ricostruzione dei fatti. La cosa è perfettamente comprensibile dato che si tratta di precisare le responsabilità personali dei diversi attori della vicenda. Non andrebbe però trascurata un’altra dimensione, più ampia anche se giornalisticamente meno attraente, che fa da contesto dentro cui collocare anche la ricerca delle responsabilità e la comprensione di quanto è avvenuto.

Mi riferisco alla dimensione dottrinale circa la valutazione morale e religiosa della pratica omosessuale. È infatti plausibile pensare che se nella Chiesa cambia la valutazione degli atti omosessuali e se si indebolisce la loro condanna dal punto di vista dottrinale, allora anche la tolleranza pratica può trovare maggiori giustificazioni. Questo indebolimento del rigore risulta in modo molto evidente dal Rapporto, nonostante le sue parzialità e lacune.

Questo passaggio dall’esame della questione in base a criteri di politica ecclesiastica al piano dottrinale va quindi fatto, perché, tra l’altro, anche qui ci sono senz’altro delle responsabilità. Ci si chiede se sia più censurabile un rettore di seminario che tace su certi avvenimenti immorali interni al seminario stesso o un docente/teologo di quello stesso seminario che nelle sue lezioni sostiene ammissibile e lecita la pratica omosessuale. Un vescovo è da considerarsi responsabile di omissione solo quando non interviene su un sacerdote della sua diocesi o anche quando conserva nel loro posto teologi che dalla cattedra negano e sconvolgono la dottrina morale della Chiesa su questi argomenti?

Benedetto XVI aveva attirato l’attenzione proprio su questa dimensione quando, l’11 aprile 2019, aveva reso note le sue osservazioni sulla Chiesa e gli abusi sessuali. Dal 21 al 24 febbraio precedente si era tenuto l’incontro dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali del mondo, un evento più di propaganda che di sostanza che aveva distolto l’attenzione dai veri problemi. Benedetto XVI, invece, centrò il problema, parlando del “collasso della teologia morale cattolica” avvenuta nel ventennio 1960-1980, un “processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti” a seguito del quale “i criteri validi in tema di sessualità sono venuti meno completamente”. A ciò fece progressivamente seguito un altro collasso, quello della “forma vigente fino quel momento” della preparazione nei seminari.

Questa trasformazione della teologia morale cattolica e della morale sessuale è ancora in atto anche oggi e, dopo Amoris laetitia, ha ricevuto una nuova spinta dall’alto. Se la situazione dei divorziati risposati, come dice l’Esortazione di papa Francesco, non si presta ad una valutazione morale in sé come azione intrinsecamente cattiva ma va valutata “caso per caso” mediante il metodo del “discernimento”, non si capisce perché questi criteri non possano essere applicati anche alla situazione di un sacerdote, di un vescovo o di un cardinale che si siano abbandonati a pratiche omosessuali. Se la pastorale del discernimento sostituisce quella della dottrina perché poi lamentare queste ondate di immoralità nel clero?

La trasformazione della teologia morale in atto da decenni, trattenuta con grande fatica dalla Veritatis splendor di Giovanni Paolo II e ora ripresa e confermata autoritativamente dall’alto, ritiene che la norma morale sia rigida e astratta se non viene fatta propria dalla coscienza, la quale avrà quindi un valore “creativo” della stessa norma.
Ritiene che il discernimento non si debba applicare solo alle azioni buone, ma anche a quelle intrinsecamente cattive – come sono l’adulterio o l’attività omosessuale – anzi elimina la nozione stessa di azioni intrinsecamente cattive. Pensa che le circostanze che delineano la situazione in cui si agisce non siano solo accidentali, ma che concorrano a determinare la bontà o meno dell’azione, da cui deriva il metodo del “caso per caso”, ossia l’impossibilità di definire l’adulterio o l’esercizio dell’omosessualità come azioni cattive in sé e quindi sempre riprovevoli e condannabili.

Ma c’è qualcosa anche di più preoccupante. Se si legge Amoris laetitia si vede che la prima preoccupazione non è di proteggere i sacramenti nella fede della Chiesa, ma di proteggere le persone coinvolte nelle vicende esistenziali. Allora, analogamente, anche nei casi di immoralità sessuale accertata di sacerdoti si può procedere non nel proposito di difendere prima di tutto la fede, ma le persone coinvolte. Questa distorsione nel modo di vedere le cose rende molto difficile applicare il codice di diritto canonico, come si è verificato nei casi di omosessualità, che non sono più visti come delitti contro la fede ma situazioni da valutare caso per caso nella garanzia dei soggetti coinvolti.
Se la norma morale è fatta anche dalla coscienza e costruita nella ricerca, non sarà più possibile intenderla come oggettiva, assoluta e – per la morale cattolica – fondata sulle due rocce della legge naturale e della rivelazione.

Quando cerchiamo di valutare i fatti relativi alla vicenda Mc Carrick, anche a seguito del recente Rapporto del Vaticano, non dimentichiamo che in essi si vive una contesa non solo di tipo personalistico, con ecclesiastici che tentano di proteggersi, ma dottrinale. Allora potremmo anche capire meglio i singoli fatti.


(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 16 novembre 2020)

https://lanuovabq.it/it/mccarrick-e-omosessualita-ce-un-problema-dottrinale

 

  

lunedì 9 novembre 2020

Come Francesco prepara il conclave, con i cardinali suoi favoriti

Non è più un’ipotesi ma una certezza. Ora sappiamo che papa Francesco “per primo” tiene ben fisso il pensiero “a quel che sarà dopo di me”, cioè al futuro conclave, vicino o lontano che sia. L’ha detto lui stesso in un’intervista di pochi giorni fa all’agenzia ADN Kronos. Nella quale ha anche applicato a sé il memorabile “Siamo in missione per conto di Dio” dei Blues Brothers, con queste testuali parole::

“Non temo nulla, agisco in nome e per conto di nostro Signore. Sono un incosciente? Difetto di un po’ di prudenza? Non saprei cosa dire, mi guida l’istinto e lo Spirito Santo”.

In effetti le ultime sue promozioni – e destituzioni – di cardinali vecchi e nuovi sembrano mirate proprio ad allestire un conclave di suo gradimento.

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Per cominciare, Francesco ha messo brutalmente fuori gioco – degradandolo da un minuto all’altro il 24 settembre – un cardinale come Giovanni Angelo Becciu, che in un conclave, se non un candidato alla successione, sarebbe stato sicuramente un grande elettore capace di giocare in proprio, forte dei suoi otto anni da “sostituto” della segreteria di Stato, a contatto quotidiano col papa e con in pugno il governo della Chiesa mondiale.

Spogliato dei suoi “diritti” di cardinale, Becciu non potrà infatti neppure entrare in un conclave, nonostante uno storico della Chiesa come Alberto Melloni sostenga il contrario.

Il movente della sua caduta in disgrazia sarebbe il suo cattivo uso dei soldi della segreteria di Stato e dell’Obolo di San Pietro. Ma Becciu sa anche che né il papa né il proprio diretto superiore, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, possono dirsi estranei alle colpe che gli vengono caricate addosso. Sono già di dominio pubblico, infatti, sia un documento della magistratura vaticana nel quale risulterebbe che Becciu agiva informando il papa delle sue mosse, anche le più arrischiate, ricevendone ogni volta l’approvazione, sia un recentissimo scambio di e-mail di lavoro tra il cardinale Parolin e la sedicente esperta di servizi segreti Cecilia Marogna, reclutata anni prima da Becciu tra i “pubblici ufficiali” della segreteria di Stato e ora imputata di peculato e di appropriazione indebita dei denari vaticani a lei incautamente devoluti.

A riprova dello stretto legame fiduciario che fino a pochissimo tempo fa legava il papa a Becciu va anche notato che Francesco l’aveva nominato suo “delegato speciale” presso l’ordine dei Cavalieri di Malta. E chi il papa ha ora nominato al posto di Becciu? Un altro dei suoi favoriti, il neocardinale Silvano Tomasi, già rappresentante vaticano presso le Nazioni Unite, ma soprattutto parte in causa nello scontro fratricida interno all’ordine che nel gennaio del 2017 portò l’innocente gran maestro Fra’ Matthew Festing alle forzate dimissioni, impostegli dal papa in persona.

Tomasi, molto vicino al cardinale Parolin, è appunto uno dei tredici nuovi cardinali che Francesco rivestirà della porpora il prossimo 28 novembre.

Una lista nella quale è istruttivo vedere non solo chi c’è dentro, ma anche chi ne è fuori.

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Ne sono fuori, ad esempio, due arcivescovi di prima grandezza: quello di Los Angeles José Horacio Gómez, che è anche presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e quello di Parigi Michel Aupetit.

L’uno e l’altro hanno qualità non comuni e godono di ampia stima, ma hanno lo svantaggio – agli occhi di Francesco – di apparire troppo lontani dalle linee direttrici dell’attuale pontificato. Aupetit ha anche esperienza come medico e bioeticista, al pari dell’arcivescovo e cardinale olandese Willem Jacobus Eijk. E non è un mistero che sia Gómez che Aupetit, se fatti cardinali – ma non accadrà –, entrerebbero, in un conclave, nella rosa dei candidati di solido profilo alternativi a Francesco, rosa di cui già fanno parte Eijk e il cardinale ungherese Péter Erdô, ben conosciuto per aver guidato con saggezza e fermezza, nel doppio sinodo sulla famiglia di cui era relatore generale, la resistenza ai fautori del divorzio e della nuova morale omosessuale.

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Tra i cardinali elettori di fresca nomina, tutti debitori a Jorge Mario Bergoglio delle rispettive carriere, sono almeno tre quelli che fanno spicco.

Negli Stati Uniti ha fatto rumore la promozione alla porpora di Wilton Gregory, arcivescovo di Washington, primo cardinale afroamericano della storia ma anche avversario acerrimo di Donald Trump.

Dall’isola di Malta proviene l’altro neocardinale Mario Grech, acceso fautore della sinodalità come forma di governo della Chiesa e recentemente promosso da Francesco a segretario generale del sinodo dei vescovi. Fresco di nomina, Grech si è subito prodotto in un’intervista a “La Civiltà Cattolica” nella quale ha tacciato di “analfabetismo spirituale” e “clericalismo” quei cristiani che soffrono per la mancanza della celebrazione eucaristica durante i “lockdown” e non capiscono che dei sacramenti si può fare a meno perché ci sono “altri modi per agganciarsi al mistero”.

Ma ancor più strategica, per papa Francesco, è la promozione di Marcello Semeraro, il neocardinale che egli ha collocato nel posto lasciato vuoto dal defenestrato Becciu, quello di prefetto della congregazione per le cause dei santi.

Semeraro è un personaggio chiave della corte di Bergoglio, fin dalla sua elezione a papa. È stato fino a poche settimane fa il segretario della squadra degli 8, poi 9, poi 6 e ora 7 cardinali che coadiuvano Francesco nella riforma della curia e nel governo della Chiesa universale.

Pugliese, 73 anni, Semeraro è stato professore di ecclesiologia alla Pontificia Università Lateranense e poi vescovo, prima di Oria e poi di Albano. Ma la svolta decisiva è stata per lui la partecipazione al sinodo del 2001 come segretario. Fu lì che si legò all’allora cardinale Bergoglio, improvvisamente incaricato di tenere la relazione introduttiva di quell’assise al posto del cardinale Edward M. Egan di New York, costretto a rimanere in patria per l’attentato alle Torri Gemelle.

Il legame tra i due si fece presto saldissimo e ogni volta che Bergoglio veniva a Roma non mancava di fare una puntata nella vicina Albano. Finché arrivò il conclave del 2013 e i due – ama ricordare Semeraro – si incontrarono per un paio d’ore il giorno prima delle votazioni, con Bergoglio “stranamente silenzioso”. Il primo vescovo che il nuovo papa ricevette in udienza dopo la sua elezione fu proprio Semeraro, presto nominato segretario della neonata squadra dei cardinali consiglieri. Quando nel dicembre del 2017 Semeraro compì 70 anni Francesco gli fece la sorpresa di comparire ad Albano all’ora di pranzo e far festa con lui (vedi foto).

Ma c’è dell’altro. Sia Gregory, sia Grech, sia ancor più Semeraro sono da anni attivi sostenitori di un cambiamento della dottrina e della prassi della Chiesa cattolica in materia di omosessualità. Nella diocesi di Albano, Semeraro ha ospitato ogni anno il Forum dei cristiani LGBT italiani. Ed è sua la prefazione al recente saggio “L’amore possibile. Persone omosessuali e morale cristiana”, di don Aristide Fumagalli, docente alla facoltà teologica di Milano ed emulo in Italia del gesuita americano James Martin, ancor più celebre banditore della nuova morale omosex, al quale anche papa Francesco non ha mancato di manifestare il suo apprezzamento.

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Vanno inoltre registrate le mosse che Francesco ha compiuto in queste ultime settimane a vantaggio di altri cardinali a lui cari.

La più singolare è stata il 5 ottobre la nomina del cardinale Kevin Farrell a presidente di un nuovo organismo vaticano con competenza sulle “materie riservate”, cioè estranee alle norme ordinarie e coperte dal più rigoroso segreto.

Farrell, 73 anni, nato a Dublino e poi vescovo negli Stati Uniti, in gioventù membro dei Legionari di Cristo, è dal 2016 prefetto del dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita, e dal febbraio 2019 anche “camerlengo” del collegio dei cardinali, cioè deputato a reggere il governo della Chiesa nel periodo tra la morte di un papa e l’elezione del successore.

È chiaro che con queste promozioni in serie papa Francesco ha attribuito a Farrell, evidentemente suo beniamino, un cumulo inusitato di poteri.

E questo è avvenuto nonostante la biografia di questo cardinale abbia dei lati oscuri, tuttora non chiariti.

I suoi anni più nebulosi sono quelli in cui, come vescovo ausiliare e vicario generale di Washington, fu il più vicino collaboratore e fiduciario dell’allora titolare dell’arcidiocesi, il cardinale Theodore McCarrick, con il quale tra il 2002 e il 2006 condivise anche l’abitazione.

In quegli stessi anni le due diocesi di Metuchen e Newark delle quali McCarrick era stato precedentemente vescovo pagarono decine di migliaia di dollari per chiudere le vertenze con ex preti che lo avevano denunciato d’avere abusato sessualmente di loro. E già circolavano contro McCarrick accuse molto più estese di abusi, quelle accuse che successivamente accresciutesi e accertate avrebbero portato nel 2018 alla definitiva sua condanna e riduzione allo stato laicale.

Ma nonostante quella sua forte prossimità a McCarrick, Farrell ha sempre sostenuto di non aver mai avuto, in quegli anni, “alcuna ragione di sospettare” alcunché di illecito nei comportamenti del cardinale che era suo capo, mentore e amico.

Nell’ottobre del 2018 papa Francesco ha promesso la pubblicazione di un rapporto che dovrebbe gettare luce sulle coperture e complicità di cui McCarrick avrebbe goduto in campo ecclesiastico fino ai più alti gradi.

Ma la nomina di Farrell a custode delle materie più riservate non assicura che quel rapporto – la cui pubblicazione è annunciata per domani, 10 novembre – farà piena chiarezza.

Come prefetto del dicastero per la famiglia, Farrell si è anche distinto nel chiamare come relatore all’incontro mondiale delle famiglie tenuto a Dublino nel 2018 il gesuita Martin, del cui libro pro LGBT “Building a bridge” aveva scritto la prefazione.

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Un’altra mossa di Francesco ha riguardato la cosiddetta “banca” vaticana, lo IOR, Istituto per le Opere di Religione.

A sovrintendere allo IOR c’è una commissione cardinalizia, nella quale il papa ha compiuto il 21 settembre alcuni ricambi.

Tra i nuovi membri ha immesso due suoi pupilli: il cardinale polacco Konrad Krajewski, suo “elemosiniere” attivissimo nelle opere di carità, e il cardinale filippino – un po’ cinese per parte di madre – Luis Antonio  Gokim Tagle, prefetto di “Propaganda Fide” e universalmente ritenuto l’uomo che Francesco più vorrebbe come suo successore.

Tra i membri rimossi c’è invece un nome di spicco, quello del cardinale Pietro Parolin. Il che ha fatto pensare a un declassamento sia suo che della segreteria di Stato.

In realtà la fuoruscita dalla commissione dello IOR è per Parolin un vantaggio. Il cardinale sta facendo di tutto per accreditarsi come estraneo ai malaffari finiti sotto processo nella segreteria di Stato, e quindi ha interesse a tenersi lontano anche da una tempesta che potrebbe presto investire lo IOR, accusato da due fondi di investimento di Malta di aver procurato ad essi un danno di decine di milioni di euro, in conseguenza della rottura di un accordo per l’acquisto e il restauro dell’ex Palazzo della Borsa di Budapest.

Intanto, però, Parolin ha subito un altro rovescio, e molto più pesante: l’ingiunzione del papa alla segreteria di Stato di spogliarsi dei suoi cospicui beni mobili e immobili, da dare tutti in custodia alla banca centrale vaticana, l’APSA, e da sottoporre al controllo della segreteria per l’economia, cioè proprio di quell’organismo presieduto in origine dal cardinale George Pell al quale né Parolin né il suo sostituto Becciu vollero mai sottomettersi.

Parolin era da tempo classificato tra i “papabili”, dai quali ora può ritenersi depennato. Ma era almeno da due anni che i consensi a una sua candidatura erano in netto declino. Come uomo di governo, i malaffari dei suoi subalterni in segreteria di Stato gli hanno giocato pesantemente contro. Come diplomatico, non c’è scacchiere su cui abbia registrato un minimo successo, né in Medio Oriente, né in Venezuela, né tanto meno in Cina. E anche le sue decantate capacità di arginare ed equilibrare lo stato di confusione indotto nella Chiesa dal pontificato di Francesco sono risultate alla prova dei fatti troppo modeste, se non inesistenti.

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In effetti, come uomo di comando, papa Bergoglio mostra di preferire a Parolin un altro cardinale, l’honduregno Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, che ha riconfermato a metà ottobre nella carica di coordinatore del “C7”, la squadra dei sette cardinali suoi consiglieri.

Ma come Francesco possa continuare a fidarsi di Maradiaga resta un mistero. Oltre che fatto segno da tempo di pesanti accuse di malversazioni finanziarie già indagate da una visita apostolica nella sua diocesi, Maradiaga ha avuto per anni come suo vescovo ausiliare e pupillo Juan José Pineda Fasquelle,  destituito nell’estate del 2018 a motivo di continuate pratiche omosessuali con suoi seminaristi.

Non solo. In quella stessa estate del 2018 Francesco ha nominato nel ruolo chiave di sostituto della segreteria di Stato – al posto di Becciu promosso cardinale – l'arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, già consigliere di nunziatura in Honduras tra il 2002 e il 2005 e legatissimo a Maradiaga e Pineda, di cui propiziò la nomina a vescovo ausiliare di Tegucigalpa, oltre che lui stesso fatto segno di accuse di cattiva condotta mai fatte oggetto in Vaticano di una imparziale verifica.

*

Resta dunque Tagle il vero successore che Francesco ha “in pectore” e che tutte le mosse descritte sembrano ancor più favorire?

Che il cardinale sino-filippino sia il “papabile” più caro a Bergoglio è fuor di dubbio. Ma che un futuro conclave lo elegga papa è tutt’altro che scontato. Proprio perché troppo replicante di Francesco, è facile prevedere che Tagle finirà triturato dalle molteplici insofferenze per l’attuale pontificato che inesorabilmente verrano allo scoperto.

Quindi non è escluso che Bergoglio abbia in mente anche un altro successore di suo gradimento, forse più capace di essere eletto. E costui potrebbe essere il camaleontico cardinale di Bologna Matteo Zuppi, già per contro suo con varie frecce al proprio arco, il mese scorso persino vincitore di un premio come filosofo, ma la cui forza elettorale è data soprattutto dalla Comunità di Sant’Egidio, di cui è cofondatore e che è indiscutibilmente la più potente, influente e onnipresente lobby cattolica degli ultimi decenni, a livello mondiale, molto introdotta nelle alte gerarchie della Chiesa.

Con Bergoglio papa, la Comunità di Sant’Egidio ha toccato il suo apogeo anche in Vaticano, con Vincenzo Paglia alla testa degli istituti per la vita e la famiglia, con Matteo Bruni a capo della sala stampa, col capo supremo della comunità Andrea Riccardi alla regia dello scenografico summit interreligioso per la pace presieduto dal papa lo scorso 20 ottobre, e soprattutto con Zuppi fatto cardinale un anno fa. “Cardinale di strada”, come ama essere definito, oltre che autore di quell’infallibile biglietto d’ingresso nella corte di Francesco che è la prefazione all’edizione italiana del libro pro LGBT del gesuita Martin.

 

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 9 novembre 2020)

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/11/09/come-francesco-prepara-il-conclave-con-i-cardinali-suoi-favoriti/

 

 

martedì 27 ottobre 2020

Nota sul riconoscimento giuridico delle unioni civili omosessuali

Il nostro Osservatorio Cardinale Van Thuân sta seguendo la discussione sul riconoscimento giuridico delle unioni civili omosessuali dopo la recente diffusione del parere di papa Francesco in proposito. Esprimiamo qui di seguito i punti a cui la Dottrina sociale della Chiesa si è sempre attenuta e che dovrebbero continuare ad essere punto di riferimento per i cattolici e tutti gli uomini che amano la verità.

Il magistero della Chiesa si è già pronunciato ampiamente sulla questione, negando la legittimità giuridico/morale del riconoscimento civile delle unioni omosessuali e la liceità per i fedeli cattolici di concorrere ad approvarle. Ciò è avvenuto in vari documenti e soprattutto nelle Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali della Congregazione per la Dottrina della Fede,

I motivi insegnati dal Magistero sono di ordine soprannaturale e di diritto divino, in quanto esprimono il dato rivelato, ma contengono anche elementi di ordine naturale in quanto anche la retta ragione, se non indebolita nelle sue convenienti pretese, ha la capacità di comprendere che il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali non è possibile a stabilirsi perché contrario al bene comune.

L’esercizio delle pratiche omosessuali è da considerarsi un grave disordine rispetto all’ordine naturale e finalistico. Esse sono espressione di un desiderio non sostenuto da alcun dovere finalistico e non finalizzato ad alcun bene morale. Tale comportamento è negativo in sé, indipendentemente da intenzioni e circostanze. È ingiusto e apre ad altre ingiustizie: in caso di adozione di minori li priva di una figura genitoriale, in caso di inseminazione artificiale comporta la produzione di esseri umani in laboratorio, il sacrificio di embrioni umani, la commercializzazione dei gameti, la contrattualizzazione della procreazione, l’utero in affitto o, domani, l’utero artificiale e così via.

I diritti delle coppie omosessuali non esistono in quanto i diritti autentici derivano sempre da dei doveri ai quali devono la propria legittimazione. La differenza tra diritto e dovere è che il primo è un poter fare e un poter avere, mentre il secondo è un essere a disposizione. La pretesa d’un diritto può de facto nascere anche da un desiderio infondato mentre il dovere ha una origine oggettiva nella natura finalistica delle cose. I diritti come pretese fondano una società individualistica e relativistica, mentre il dovere finalistico genera una società fondata sulla vocazione naturale delle persone, delle famiglie e dei corpi intermedi.

Nella relazione omosessuale i due individui non si completano, ma si sommano l’uno all’altro. Eventuali loro rapporti di cura e solidarietà sono tali solo apparentemente in quanto conseguenza di una relazione innaturale e essenzialmente ingiusta. Sommandosi senza accogliersi pienamente e facendo solo incontrare tra loro due desideri infondati, i due individui di una relazione omosessuale non esprimono socialità ed essendo naturalmente sterili non fondano nemmeno una società, non essendo in grado di promuoverla e svilupparla procreando nuove vite.

L’autorità politica è legittimata dal bene comune. Essa non può quindi riconoscere giuridicamente tutte le relazioni che i cittadini stabiliscono tra di loro, ma solo quelle che si dimostrano conformi al diritto naturale. La fisicità maschio e femmina non è solo un dato fisico, ma antropologico: mostra il progetto sull’uomo articolato in due poli complementari maschio e femmina. La fisicità maschile e femminile indica quindi un dover essere, è una indicazione su come si deve vivere in accordo con la natura umana. La politica e le leggi non possono prescindere da questo fondamentale dato antropologico e riconoscere dignità e valore comunitario alla sua negazione. Quando l’autorità politica fa questo, contraddice se stessa, si corrompe e si degrada ad altro da sé. Il riconoscimento di un diritto che diritto non è ma è un torto degrada sia il diritto a torto sia la autorità a potere. Il potere si differenzia dall’autorità perché è un puro fare privo di legittimazione morale ma fondato solo sulla forza.

Il riconoscimento giuridico dell’unione civile tra persone omosessuali non è ammissibile nemmeno se dalla legge che lo contempla risultasse chiara la sua non equiparazione alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Infatti la relazione omosessuale è ingiusta in sé. La linea “unioni civili sì, a patto che non vogliano il matrimonio” è sbagliata. Non solo per motivi di fatto: la storia insegna che una volta riconosciuta l’unione civile i suoi sostenitori lotteranno per avere anche il matrimonio ed è una illusione pensare il contrario, ma anche per motivi di diritto: l’unione omosessuale è sbagliata in sé. Essa è in se stessa una forma di violenza e origine, in seguito, di altre violenze.

L’idea di accettare il riconoscimento delle unioni civili omosessuali per impedire la radicalizzazione nel matrimonio omosessuale attualizza nuovamente la perdente e moralmente insostenibile strategia del male minore. Non è lecito fare il male per avere un bene, a maggior ragione non è lecito accettare un male minore per evitare un male maggiore. Oltre a non essere moralmente lecita, una simile strategia è anche miope dal punto di vista politico.

Le unioni civili non possono essere giuridicamente riconosciute anche se sono tra un uomo e una donna. Si tratta delle cosiddette convivenze o unioni di fatto. In questo caso i due conviventi non accettano il matrimonio, che invece è fondamentale per costituire una famiglia degna di questo nome e vera cellula della società. Non c’è vera famiglia se non nel matrimonio. Col matrimonio i due riconoscono pubblicamente che non sono insieme per interessi individualistici ma per una vocazione. Non intendono accostarsi l’uno all’altro ma unirsi reciprocamente e indissolubilmente rimanendo aperti alla vita. Solo così si danno le due caratteristiche della socialità e della società in una coppia.

Il nostro Osservatorio ritiene di non avere espresso in questa Nota delle opinioni personali o di parte, ma i tratti fondamentali dell’insegnamento della Chiesa e delle conclusioni della retta ragione.

 (Fonte: Stefano Fontana, Osservatorio internazionale Van Thuan, 26 ottobre 2020)

https://www.vanthuanobservatory.org/ita/sul-riconoscimento-giuridico-delle-unioni-civili-omosessuali-nota-dellosservatorio/

 

 

sabato 24 ottobre 2020

Famiglie omosex. Ciò che il papa ha detto e ciò che gli hanno fatto dire

Questo è ciò che il papa dice riguardo alle “famiglie” omosessuali, nel docufilm “Francesco” del regista Evgeny Afineevsky (nella foto) presentato il 21 ottobre alla Festa del Cinema di Roma:

“Las personas homosexuales tienen derecho a estar en la familia. Son hijos de Dios, tienen derecho a una familia. No se puede echar de la familia a nadie, ni hacer la vida imposible por eso. Lo que tenemos que hacer es una ley de convivencia civil. Tienen derecho a estar cubiertos legalmente. Yo defendí eso”.

Parole che tradotte in italiano suonano così:

“Le persone omosessuali hanno diritto a stare in una famiglia. Sono figli di Dio, hanno diritto a una famiglia. Non si può scacciare dalla famiglia nessuno né rendergli la vita impossibile. Quel che dobbiamo fare è una legge di convivenza civile. Hanno diritto a essere coperti legalmente. Io ho difeso questo”.

Dal che si apprende che Francesco, per la prima volta nella storia della Chiesa, benedice le “famiglie” e quindi i matrimoni tra persone dello stesso sesso, come benissimo esemplificato, nel seguito del film, dalla coppia italiana “sposata” di omosessuali cattolici, con tre figli avuti in Canada da maternità surrogate, alla quale lo stesso papa esprime tutto il suo incoraggiamento.

*

Eppure, padre Antonio Spadaro, gesuita vicinissimo a Jorge Mario Bergoglio, ha subito dichiarato che in quelle parole non c’è nulla di nuovo e sono le stesse già dette da Francesco in una sua precedente intervista alla giornalista Valentina Alazraki, per la tv messicana Televisa.

Ed è vero. Ma con tagli, cuciture e interpolazioni che di fatto hanno cambiato radicalmente il senso di quelle parole.

Ecco infatti qui di seguito – In italiano, nella traduzione vaticana – il testo originale di quella intervista nella parte utilizzata nel film, nella trascrizione testuale diffusa dal Vaticano il 28 maggio 2019 assieme alla videoregistrazione. Con evidenziate in corsivo le parole salienti, e con sottolineate in neretto le pochissime frasi riprodotte nel film.

 FRANCESCO – Mi hanno fatto una domanda durante il volo – dopo mi sono arrabbiato, mi sono arrabbiato perché un giornale l’ha riportata – sull’integrazione familiare delle persone con orientamento omosessuale. Io ho detto: le persone omosessuali hanno diritto a stare nella famiglia, le persone con un orientamento omosessuale hanno diritto a stare nella famiglia e i genitori hanno diritto a riconoscere quel figlio come omosessuale, quella figlia come omosessuale, non si può scacciare dalla famiglia nessuno né rendergli la vita impossibile. Un’altra cosa che ho detto è: quando si vede qualche segno nei ragazzi che stanno crescendo bisogna mandarli, avrei dovuto dire da un professionista, e invece mi è uscito psichiatra. Titolo di quel giornale: “Il Papa manda gli omosessuali dallo psichiatra”. Non è vero! Mi hanno fatto un’altra volta la stessa domanda e ho ripetuto: sono figli di Dio, hanno diritto a una famiglia, e basta. E ho spiegato: mi sono sbagliato a usare quella parola, ma volevo dire questo. Quando notate qualcosa di strano, no, non di strano, qualcosa che è fuori dal comune, non prendete quella parolina per annullare il contesto. Quello che dice è: ha diritto a una famiglia. E questo non vuol dire approvare gli atti omosessuali, tutt’altro.

VALENTINA ALAZRAKI – Sa che succede, che lei molte volte si stacca dal contesto, è anche un vizio della stampa. Quando lei ha detto nel suo primo viaggio quella famosissima frase: “chi sono io per giudicare”, lei prima aveva detto: “sappiamo già quello che dice il catechismo”. Ciò che succede è che questa prima parte non si ricorda, si ricorda solo: “chi sono io per giudicare”. Allora anche questo ha suscitato molte aspettative nella comunità omosessuale mondiale, perché hanno pensato che lei sarebbe andato avanti.

FRANCESCO – Sì, ho fatto dichiarazioni come questa della famiglia per andare avanti. La dottrina è la stessa, quella dei divorziati è stata riadattata, in linea però con “Amoris laetitia”, nel capitolo ottavo, che è recuperare la dottrina di san Tommaso, non la casistica.

VALENTINA ALAZRAKI – È questo il problema che a volte si crea.

FRANCESCO – Lo capisco, ma non quando tolgono una parola dal contesto come con quel “psichiatra”, non ne avete il diritto. Ed è strano, mi hanno raccontato che è stata una persona non credente a difendermi. Ha detto una cosa mai sentita prima, che la frase “veda uno psichiatra” era un lapsus linguae.

VALENTINA ALAZRAKI – Papa Francesco, c’è una cosa che richiama la mia attenzione. Alcuni suoi conoscenti quando viveva in Argentina dicono che lei era conservatore, per usare sempre categorie, diciamo, nella dottrina.

FRANCESCO – Sono conservatore.

VALENTINA ALAZRAKI – Lei ha fatto tutta una battaglia sui matrimoni con persone dello stesso sesso in Argentina. E poi dicono che è venuto qui, è stato eletto Papa e ora sembra molto più liberale di quanto lo fosse in Argentina. Si riconosce in questa descrizione che fanno alcune persone che l’hanno conosciuta prima, o è stata la grazia dello Spirito Santo che le ha dato di più? [ride],

FRANCESCO – La grazia dello Spirito Santo esiste, certo. Io ho sempre difeso la dottrina. Ed è curioso, nella legge sul matrimonio omosessuale... è un’incongruenza parlare di matrimonio omosessuale.

*

Come si può notare, nell’intervista originale non c’è una sola parola in cui Francesco si discosti dalla dottrina della Chiesa.

La famiglia di cui il papa parla è solo quella di cui l’omosessuale è figlio, nella quale dovrebbe essere accolto con comprensione ed amore.

Riguardo agli atti omosessuali conferma che continua a valere quanto dice il Catechismo della Chiesa cattolica, che li disapprova sempre come “intrinsecamente disordinati”.

E sul “matrimonio” omosessuale dice che già il solo parlarne è “un’incongruenza”, con riferimento alla “battaglia” da lui combattuta da arcivescovo in Argentina contro, appunto, la legittimazione di matrimoni di questo tipo e a favore invece di una semplice legge di “convivenza civile” tra persone dello stesso sesso.

Da uno stacco nella videoregistrazione dell’intervista con Valentina Alazraki si intuisce che su quest’ultimo punto Francesco deve aver detto qualcosa di più, poi tagliato. E sono proprio alcune di queste parole che nel film sono state ricuperate e cucite alle altre, evidentemente con la fattiva collaborazione dei responsabili dei media vaticani:

“Lo que tenemos que hacer es una ley de convivencia civil. Tienen derecho a estar cubiertos legalmente. Yo defendí eso”.

In italiano:

“Quel che dobbiamo fare è una legge di convivenza civile. Hanno diritto a essere coperti legalmente. Io ho difeso questo”.

Non solo. Le tre brevi frasi riprese dall’intervista del 2019 sono state cambiate di posto tra loro nel film, dando il massimo dell’evidenza a quella in cui il papa dice che gli omosessuali “hanno diritto a una famiglia”. Il che, collegato alla sua espressa volontà di conferire a queste unioni una “copertura legale”, finisce col trasmettere il messaggio di un’approvazione del papa proprio dei “matrimoni” tra omosessuali, con tanto di figli come in una normale famiglia.

Insomma, grazie a questo spregiudicato copia e incolla, Francesco si ritrova a dire in questo film cose radicalmente diverse da ciò che aveva detto in origine con le medesime parole.

*

Ebbene, al fragore con cui i media di tutto il mondo hanno dato notizia di questa svolta rivoluzionaria nella dottrina della Chiesa cattolica sull’omosessualità, come hanno reagito le autorità vaticane?

I media della Santa Sede hanno dato brevemente notizia del film – senza fare il minimo cenno ai passaggi sulle unioni omosessuali – solo prima che fosse proiettato e soprattutto prima che le “breaking news” esplodessero.

E dopo la notizia bomba si sono chiusi in un silenzio assoluto. Senza nemmeno riferire che nel pomeriggio di giovedì 22 ottobre, nei giardini vaticani, presente il prefetto del dicastero per la comunicazione Paolo Ruffini, è stato consegnato al regista Evgeny Afineevsky ilpremio “Kinéo” Movie for Humanity Award”, proprio per il suo docufilm “Francesco”.

Ma molto più impressionante è stato il silenzio del papa.

Non è la prima volta che Francesco si vede distorcere talune sue dichiarazioni. Ma in questo caso il rovesciamento di senso che le sue parole hanno avuto è di una gravità inaudita.

E lui lo subisce come pecora muta condotta al macello?

Oppure lo accetta e in silenzio lo sottoscrive, con un ennesimo, improvviso “mutamento di linea”, come se ne sono avuti tanti nella storia ad opera di sovrani assoluti, senza mai dare una spiegazione?

È ciò che lo storico Roberto Pertici ipotizza e commenta nella lettera che segue.

*

I “MUTAMENTI DI LINEA”

Caro Magister, chi cerca di spiegare ai propri studenti quel grande ed effimero fenomeno storico che fu il comunismo novecentesco, ha oggi grandi difficoltà, tanto sono lontane le loro menti e le loro sensibilità da lessico, procedure e idee di quel mondo. In questa generale difficoltà, ancor più arduo è fornire una spiegazione comprensibile dei cosiddetti “mutamenti di linea” di cui è costellata la sua storia. Il fatto cioè che tutti i suoi militanti fossero impegnati allo spasimo nel recepimento, nel commento, nell’attuazione della linea stabilita dal Partito sovietico e quindi dal Komintern, e all’improvviso fossero messi di fronte a un suo capovolgimento e magari all’affermazione della linea contraria, proprio quella contro cui avevano sanguinosamente polemizzato e combattuto per anni (a colpi di espulsioni e, dove potevano, anche con altri mezzi). Non erano per lo più svolte preparate dal basso con un intenso dibattito pubblico, ma decise dall’alto dai vertici di Mosca e spesso comunicate in maniera choccante: chi può dimenticare il famoso “rapporto segreto” di Krusciov e la sua pubblicazione sulle colonne del “New York Times” il 5 giugno 1956?

Ma a sentire i comunisti, loro avevano sempre avuto ragione: prima e dopo. Nel 1929, quando avevano sostenuto la dottrina del “socialfascismo”, quindi i socialisti riformisti eran poco meno che fascisti; nel 1935, auspicando invece larghe intese con loro in nome della difesa della democrazia; nel 1939, quando avevano stretto un patto con Hitler, tanto – si ripeteva ora – fra democrazia e fascismo non c’è differenza; nel 1943, quando veniva sciolto il Komintern in nome delle vie nazionali al socialismo; nel 1948, quando Tito veniva condannato come traditore perché troppo “nazionale”, ecc.

Il problema – così spiegavano – era che erano cambiate le “condizioni” e i comunisti partivano sempre da un’analisi delle “condizioni”, ovviamente condotta con “rigorosi” parametri marxisti. Prima la situazione era quella, oggi è diversa e noi ci adeguiamo. In realtà, nella loro impostazione c’era un opportunismo di fondo, e manovravano la verità secondo gli interessi della casa madre, cioè dell’URSS e del partito sovietico: almeno fino a una certa data.

Posso confessare, da modesto osservatore, che nel “modus operandi” di papa Francesco c’è qualcosa che mi ricorda quanto appena detto?

Dico subito che sono contrario alla pena di morte e favorevole alla regolamentazione, anche giuridica, delle unioni fra persone dello stesso sesso, distinguendole chiaramente dalla famiglia “naturale”. Eppure c’è qualcosa che non mi torna nel vedere posizioni lungamente sostenute, su cui si sono scritte migliaia di pagine e per cui si sono esposte, spesso a caro prezzo, migliaia e migliaia di persone, cancellate così all’improvviso, “ad nutum principis”. E il tutto poi sempre fatto fuori delle normali procedure (credo che anche la Chiesa, come ogni organizzazione, abbia le sue) e in modo volutamente spettacolare.

Allora il recente (del 1992) catechismo della Chiesa cattolica “sbagliava”, quando ancora ammetteva la pena di morte? E le ancora più recenti (del 2003) dichiarazioni della congregazione per la dottrina della fede sulle unioni omosessuali erano carenti di misericordia o legate a una teologia arcaica, come già allora affermavano molti, dentro e fuori la Chiesa? Bene: allora ditelo, se volete trattare i fedeli come esseri ragionevoli, a cui si deve dare una spiegazione di quanto si dice e si fa.

Ma – mi si risponde – la Chiesa non procede per negazioni, ma per approfondimenti: sono i famosi “segni dei tempi” che bisogna saper cogliere e per questo è necessario l’ancora più famoso “discernimento”.

Ho sempre avuto l’impressione che, nei propri tempi, uno ci veda quel che ci vuol vedere: Benedetto Croce ci ha insegnato a distinguere fra “giudizio storico” e “azione morale”. Dare un giudizio storico non significa rassegnarsi al trend che descriviamo o dire che esso è "inevitabile". Altrimenti si cade nel cattivo storicismo della rassegnazione o, peggio, dell'accettazione opportunistica. Non è una distinzione facile, lo so, ma bisogna mantenerla. “Hier stehe Ich, Ich kann nicht anders”, “Io qui sto, e non posso fare altro”, ebbe a dire in un momento difficile Martin Lutero, che le poste vaticane hanno sdoganato qualche anno fa dedicandogli un francobollo riparatore. Il solo fatto di dire "io non ci sto" cambia in qualche modo i rapporti di forza: ed è la sola cosa che, in certi momenti, si possa fare.

Ma – mi dice il solito amico – la Chiesa non è uno Stato parlamentare: il potere non deriva dal basso, ma dal vertice, e il papa può procedere in solitudine con decisioni maturate nella sua coscienza.

Ma neanche nelle famose “monarchie assolute” il potere del re era realmente “assoluto”, cioè sciolto da ogni controllo e da ogni limite: canonisti e teologi mi assicurano che è così anche all’interno dell’istituzione ecclesiastica. Il mio maestro delle elementari, un Fratello delle Scuole Cristiane, ci insegnava che il papa parlava sempre col “pluralis maiestatis” non per alterigia, ma perché voleva costantemente ribadire che la sua individualità si perdeva nella lunga serie dei suoi predecessori e che lui parlava anche a nome loro. Non so se questa affermazione risponda al vero, ma “le moi haïssable” – l’io smisurato fino ad essere odioso, denunciato da Pascal – in bocca a un pontefice da allora mi ha spesso messo a disagio. Roberto Pertici.

 (Fonte Sandro Magister, LNBQ, 23 ottobre 2020)

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/10/23/famiglie-omosex-cio-che-il-papa-ha-detto-e-cio-che-gli-hanno-fatto-dire/

 

  

lunedì 12 ottobre 2020

Fratelli tutti, ma senza più Dio. Un filosofo giudica l’ultima enciclica di Francesco Natoli

Pochi giorni dopo la sua pubblicazione, l’enciclica “Fratelli tutti” è già passata in archivio, vista l’assenza in essa del minimo spunto di novità rispetto alle precedenti e arcinote allocuzioni di papa Francesco sugli stessi temi.

Ma se proprio questa diluviale predicazione francescana della “fraternità” desse vita a un “cristianesimo diverso”, nel quale “Gesù null’altro fosse che un uomo”?

È questo il serissimo “dilemma” nel quale il filosofo Salvatore Natoli vede caduta oggi la Chiesa, con il pontificato di Jorge Mario Bergoglio.

Natoli lo scrive e argomenta in un libro, a più voci, di commento a “Fratelli tutti”, curato dal vescovo e teologo Bruno Forte, che è in vendita da oggi a Roma e in Italia.

Gli studiosi chiamati a commentare l’enciclica sono di prim’ordine nei rispettivi campi: il biblista Piero Stefani, l’ebraista Massimo Giuliani, l’islamologo Massimo Campanini, lo storico del cristianesimo Roberto Rusconi, la medievista Chiara Frugoni, lo storico dell’educazione Fulvio De Giorgi, l’epistemologo Mauro Ceruti, il pedagogista Pier Cesare Rivoltella, il poeta e scrittore Arnoldo Mosca Mondadori.

Natoli è uno dei maggiori filosofi italiani. Si dichiara non credente, ma per formazione e per interessi ha sempre ragionato sul confine tra fede e ragione, attentissimo a ciò che si muove nella Chiesa cattolica.

Nel dicembre del 2009, quando a Roma il comitato per il “progetto culturale” della Chiesa italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini, promosse un imponente convegno internazionale sul tema cruciale: “Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto”, Natoli fu uno dei tre filosofi chiamati a intervenire, assieme al tedesco Robert Spaemann e all’inglese Roger Scruton.

Quel convegno non era una sfilata di opinioni giustapposte, ma mirava dritto a quella “priorità” che per l’allora papa Benedetto XVI "sta al di sopra di tutte", oggi più che mai, in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento".

La priorità cioè – come quel papa aveva scritto nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo di quello stesso anno – "di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell'amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto".

Di questa drammatica urgenza non c’è ombra nelle 130 pagine di “Fratelli tutti”.

Ma lasciamo il giudizio al filosofo Natoli, in questo fulminante estratto del suo commento all’enciclica. (Sandro Magister).

*

“E SE GESÙ NULL’ALTRO FOSSE CHE UN UOMO?” di Salvatore Natoli

La modernità ha dibattuto strenuamente sull’esistenza di Dio; basti pensare alla valutazione delle prove dell’esistenza di Dio da Cartesio a Kant: si può dimostrare, non si può dimostrare? Ebbene, il conflitto sull’esistenza di Dio dimostrava chiaramente che Dio era la questione centrale di quella cultura, sia per i negatori, sia per quelli che la sostenevano. Era il tema dominante, non si poteva tacere di quello.

Ma ad un certo punto Dio è svanito, non ha costituito più problema perché non lo si sentiva più necessario. Oggi, argomentare sull’esistenza di Dio è un problema che non ha nessuno, neppure i cristiani. A caratterizzare il cristianesimo è sempre di più la dimensione della “caritas” e sempre meno quella della Trascendenza. “Fratelli tutti” mi pare lo testimoni con coerenza. E questo è un grande dilemma dentro il cristianesimo, del quale si fa carico “in actu exercito” papa Francesco. La Trascendenza non è negata, ma sempre meno nominata. Ma non c’è bisogno di una negazione esplicita se la cosa diventa irrilevante.

”Et exspecto resurrectionem mortuorum” è un’affermazione – tratta dal Messale romano – sempre più marginale nel vocabolario cristiano. Il camminare in compagnia degli uomini – espressione che ricapitola “Fratelli tutti” (cfr. n. 113) – è sempre stato presente, ma era semplicemente il transito verso un esito ben più radicale: la redenzione definitiva dal dolore e dalla morte. L’una dimensione sosteneva l’altra.

Ma oggi possiamo constatare un singolare slittamento: il cristianesimo si risolve sempre di più e semplicemente nel “Christus caritas”. Non è questo il Cristo di “Fratelli tutti”? Un Cristo che non a caso – si vedano i paragrafi nn. 1-2 e 286 – ha il volto di Francesco d’Assisi, il santo cristiano che più parla ai credenti di altre religioni e ai non credenti.

Questo passaggio – lo domando ai cristiani – è reversibile o irreversibile? E se Francesco – mi permetto di osare – fosse l’ultimo papa della tradizione cattolico-romana, e stesse nascendo un cristianesimo diverso? Un cristianesimo che ha al centro la giustizia e la misericordia e sempre meno la resurrezione della carne. La condivisione del dolore non è la stessa cosa della definitiva liberazione dal male. La promessa cristiana era: “non ci saranno più né dolore né morte, non ci sarà più il male”; mentre adesso pare che il cristianesimo dia per scontato che il dolore accompagnerà sempre gli uomini ed in questo stato essere cristiani vuol dire sostenersi reciprocamente. Sottolineo quest’aspetto dell’enciclica perché mi pare si trovi ad essere del tutto convergente con quanto la parte migliore della modernità laica ha sostenuto, seppure in termini di altruismo e solidarietà e senza alcun riferimento ad una redenzione definitiva altrimenti chiamata “salvezza”. […]

Non so quanto per i cristiani sia ancora rilevante la fede nell’avvento di un mondo senza più dolore e morte e per di più – questo mi pareva fosse decisivo – in un finale di partita in cui gli uomini saranno risarciti da tutto il dolore patito. Ma dico di più: quanto credono ancora in un’eternità beata, in un eterno presente dove non vi sarà più nulla da attendere, ma sarà redento per intero il passato? […]

In ogni caso a chi è cristiano importa comunque e tanto il “Christus caritas”. “Ubi caritas et amor, ibi Deus est. Congregavit nos in unum Christi amor” (sempre dal Messale romano): questo è perfettamente conveniente agli uomini. E se Cristo non fosse affatto il Dio incarnato, ma al contrario fosse proprio l’incarnazione a rappresentare davvero l’inizio della morte di Dio? E se Gesù null’altro fosse che un uomo che, però, ha mostrato agli uomini che solo nel loro reciproco donarsi hanno la possibilità di divenire “dèi” seppure al modo di Spinoza: “homo homini Deus”? Non più, dunque, “tu scendi dalle stelle”, ma piuttosto “il darsi sostegno gli uni degli altri” per dimorare felici sulla terra.

La promessa d’una liberazione definitiva dal dolore e dalla morte forse è solo mito, ma in ogni caso non è nelle disponibilità di coloro che i greci chiamavano appunto i “mortali”. Il reciproco aiuto, al contrario, è nella disponibilità degli uomini e il cristianesimo, riconosciuto e assunto nella forma del buon Samaritano, ci può rendere davvero pienamente umani. Se così è, come direbbe Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani. È questo un dilemma che da non credente pongo ai credenti, ai cattolici.

Infatti, da non credente, sono perfettamente d’accordo, parola per parola, su quanto dice l’enciclica nel capitolo secondo, commentando la parabola del buon Samaritano. Questo è da fare! Da questo punto di vista, Gesù esprime una possibilità degli uomini. Ma il Dio che risorge dai morti è solo una possibilità di Dio, ammesso che ci sia.

 

(Fonte: Sandro Magister, LNBQ, 12 ottobre 2020)

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/10/12/fratelli-tutti-ma-senza-piu-dio-un-filosofo-giudica-l%e2%80%99ultima-enciclica-di-francesco/

 

  

lunedì 21 settembre 2020

Fine del cristianesimo? Un cardinale analizza il caso dell’Olanda

Se c’è una nazione che più di altre rappresenta l’eclissi della fede cristiana in Occidente, questa nazione è l’Olanda.

Fino all’inizio degli anni Sessanta l’Olanda spiccava come una delle nazioni più cristiane, per quantità di fedeli osservanti e per spinta espansiva. Il 12 per cento dei missionari cattolici nel mondo erano olandesi.

Poi, rapidissimo, il crollo. Al punto che oggi l’Olanda è uno dei Paesi più scristianizzati d’Europa. Solo un olandese su quattro dichiara oggi di appartenere a una Chiesa cattolica o protestante, o di professare una fede. Su una popolazione di oltre 17 milioni, i cattolici che si registrano come tali sono calati a 3 milioni e mezzo e di questi non più di 150 mila vanno a messa la domenica, buona parte dei quali immigrati da altri continenti. Non si contano le chiese, sia cattoliche che protestanti, chiuse e trasformate in edifici profani.

Esce in questi giorni in Italia, edito da Ares, un libro che dà voce a un testimone autorevolissimo del caso olandese. È un’intervista di Andrea Galli all’arcivescovo di Utrecht, il cardinale Willem Jacobus Eijk, che è di notevole interesse per almeno due motivi: per l’acutezza con cui egli individua le cause del crollo ma anche per la fiducia che ripone in un’incipiente rinascita, grazie al “piccolo resto” di fedeli “che credono, che pregano, che hanno un rapporto personale con Cristo”, nonostante “chiunque trovi oggi il coraggio di esporre la dottrina cattolica, specie sul matrimonio e l’etica sessuale, si senta dare del pazzo”.

Sulla copertina del libro spicca l’inquietante domanda di Gesù: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18, 8). Ma il titolo, “Dio vive in Olanda”, esprime appunto questa fiduciosa scommessa sul “piccolo resto” di credenti, sul ricambio generazionale che alla tempesta rivoluzionaria degli anni Sessanta e Settanta vede oggi sostituirsi “un carattere veramente cattolico già nel modo di celebrare la liturgia: ‘lex orandi, lex credendi’”.

Più sotto sono riportati alcuni passaggi dell’intervista del cardinale Eijk, nei quali egli riconduce l’eclissi della fede cristiana principalmente alla cultura “iper-individualista” impostasi in Occidente a partire dagli Sessanta, intollerante nei confronti di “un essere che la trascenda, sia esso la famiglia, lo Stato, la Chiesa, o Dio”. Una cultura alla quale l’élite progressista della Chiesa olandese dell’epoca, attivissima nel Concilio Vaticano II, si sottomise, annientandosi.

 

“UNA CRISI DI FEDE MAI VISTA PRIMA”

La caduta della Chiesa olandese può insegnare qualcosa di interessante sulle cause di una crisi di fede mai vista prima come entità. Proviamo a tornare agli anni Quaranta del secolo scorso.

Il 9 ottobre del 1947, per la precisione, un gruppo di nove persone, laici e sacerdoti, si riunì nel seminario minore dell’arcidiocesi di Utrecht per discutere dei cambiamenti inquietanti che venivano osservati fra i cattolici in tutto il Paese. I risultati di quel confronto furono pubblicati in un libro dal titolo significativo, “Onrust in de Zielzorg” [“Fermento nella cura d’anime”]. Costoro constatavano una stanchezza della pastorale, inoltre vedevano che il legame fra i cattolici e la Chiesa non si fondava più sui contenuti della fede, ma era un legame di tipo sociale. La fede era vista come un insieme di comandamenti e un sistema di verità astratte che non toccavano la vita quotidiana. L’appartenenza alla Chiesa era essenzialmente un fattore comunitario: si andava alla scuola elementare cattolica, poi alla scuola media cattolica, si era membri di associazioni cattoliche, soprattutto nel campo sportivo e dello scoutismo. Si era cattolici per motivi di appartenenza sociale, perché si cresceva in strutture cattoliche, non in base a una fede vissuta. […]

Sicuramente la Chiesa olandese, con la sua unità basata su legami sociali più che sulla fede vera, non poteva reggere a cambiamenti culturali così radicali come quelli degli anni Sessanta. In quel decennio crebbe rapidamente la ricchezza pro capite, il che mise le persone in grado di vivere autonomamente e quindi indipendentemente l’una dall’altra. Fu una grande spinta alla cultura individualista diventata poi iper-individualista. […]

L’iper-individualista non vuole un essere che lo trascenda, come la famiglia, lo Stato, la Chiesa o Dio. E se manifesta il bisogno di una di queste realtà, si tratta di un bisogno a scopi utilitaristici, cioè per interessi – in genere economici – che l’individuo stesso non può soddisfare da solo, con le proprie forze. In questo clima non ci si può immaginare appartenenti a una comunità, come la Chiesa, che ha delle convinzioni comuni, meno che mai di avere sopra di sé un papa o una gerarchia che insegnano le verità della fede, inclusa quella morale, guidati dallo Spirito Santo e partecipando dell’autorità di Cristo. […]

Quello che colpisce è il fatto che in Olanda il dibattito sull’introduzione dell’eutanasia ha preceduto quello sulla depenalizzazione dell’aborto, al contrario di ciò che è successo praticamente in tutti gli altri Paesi. Il motivo è probabilmente che nel nostro Paese si iniziò a parlare di eutanasia già nel 1969 con il libretto “Medische macht en medische ethiek” [“Potere medico ed etica medica”] di Jan Hendrik van den Berg, professore di psichiatria dell’Università di Leida, che propugnava la soppressione di bambini nati con gravissime anomalie fisiche causate dal thalidomide, un farmaco preso dalle donne in gravidanza contro le nausee. […]

Cattolici e protestanti hanno saputo mantenere una maggioranza in parlamento fino al 1967. Nel 1980 il partito cattolico e due partiti protestanti si sono fusi nel Christen-Democratisch Appel (CDA), diventato negli anni Ottanta il primo partito con circa un terzo dei seggi in parlamento. Ciò tuttavia non ha impedito al parlamento di approvare la legge sull’aborto nel 1981. il CDA si è secolarizzato e ha perso i suoi tratti originali molto velocemente. […] Oltre a questo partito “democristiano”, il più grande, vi sono due partiti protestanti più piccoli, la Christen-Unie (CU) e la Staatkundig Gereformeerde Partij (SGP). […]

Il CDA ha oggi 19 seggi in Parlamento, il CU 5 e il SGP 3. Cioè i partiti politici cristiani hanno oggi insieme solo 27 seggi su un totale di 150. Ciò non toglie però che il loro influsso politico sia sensibile. I Paesi Bassi hanno adesso un governo che consiste in un partito liberale di destra, un partito liberale di sinistra – avvocato della legge sull’eutanasia del 2002 e della legalizzazione del cosiddetto matrimonio fra persone dello stesso sesso nel 2001 – e inoltre il CDA e la CU. Questi ultimi due partiti cristiani sono un impedimento al piano che aveva il governo precedente, quello di far approvare una legge sulla cosiddetta “vita compiuta”, per permettere l’assistenza al suicidio di persone che dicono di soffrire insopportabilmente e senza prospettive per cause non mediche, come la solitudine, un lutto, l’età avanzata. […] Sebbene i liberali al governo si siano detti favorevoli ad approvare questa proposta legislativa, i due partiti cristiani sono stati in grado di bloccarla. […]

Una delle intenzioni del Concilio Vaticano II era che la Chiesa si aprisse alla società, cosa che ha fatto, ma la società da parte sua non si è aperta alla Chiesa. Anzi l’ha espulsa dalla vita pubblica. La Chiesa poi è caduta in una delle più profonde crisi di fede della sua storia e non si trova oggi nella posizione migliore per trasmettere la fede alla società. Molti laici e molti pastori sono confusi riguardo ai contenuti della fede. Solo dopo aver messo in ordine la propria casa, la Chiesa sarà di nuovo davvero capace di evangelizzare il mondo. […]

Molti parlano del pericolo di uno scisma, ma io penso di no. Penso piuttosto che avverrà in molte parti del mondo quello che è già avvenuto da noi in Olanda. C’è stato un risanamento silenzioso tramite il ricambio delle generazioni. […] Perché chi rimarrà alla fine nella Chiesa? I preti e i laici del ’68, di quegli anni di sbandamento, con idee ultra progressiste, non ci sono quasi più. In Olanda sono rimasti coloro che credono, che pregano, che hanno un rapporto personale con Cristo.

 (Fonte: Willem Jacobus Eijk, LNBQ, in: S. Magister, “Fine del cristianesimo? Un cardinale analizza il caso dell’Olanda, 21 settembre 2020)

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