sabato 27 aprile 2013

L’intolleranza dei tolleranti. Quando dialogare diventa impossibile

Anche quelli che si definiscono tolleranti possono, di fatto, precipitare nell’intolleranza.
Questa semplice frase potrebbe non essere solo un facile e comodo gioco di parole. Ma è quello che vediamo accadere sempre più spesso.
Ha fatto molta impressione in questi giorni l’aggressione all’arcivescovo di Malines-Bruxelles, mons. André Léonard, durante un convegno sulla libertà di espressione. Quattro Femen lo hanno insultato appena ha iniziato a parlare, lo hanno vilipeso e imbrattato con la loro “acqua santa”. L’arcivescovo, con un contegno esemplare, si è distaccato con la preghiera mentre le Femen continuavano a gridargli addosso “omofobo”. Fino a quando non sono state allontanate.
Il gesto ha tutto il sapore della metafora contemporanea. Il mondo insulta e la Chiesa si ritira in preghiera, sperando che il momento passi. Invece, potrebbe non passare tanto rapidamente.
Il problema è come leggere quanto accaduto. Se molti lo interpreteranno come “hanno aggredito un intollerante”, la frittata è fatta. Pur con tutti i però del caso. Però hanno esagerato, però non dovevano farlo così, però però. Però hanno aggredito un intollerante che se lo meritava. Delle buone eroine dei diritti civili, che difendono i gruppi discriminati, hanno contestato un cattivo e oscurantista sacerdote omofobo. Quindi potevano permettersi di tutto.
D’altronde col suo essere sacerdote oggi, mons. Léonard è esponente delle Crociate di ieri, dell’Inquisizione e, perché no?, anche del Nazismo. Sono andato troppo oltre?
Non credo, visti i commenti che di solito si fanno in questi casi. Commenti generati dall’aggiunta di stereotipi storici, messi uno sull’altro. Ma uno in particolare è lo stereotipo principe, almeno in questo momento.

Quello che porta a considerare tutti i cattolici come degli omofobi, quando è palesemente falso. Quella cattolica è la difesa verso la famiglia tradizionale, il nucleo sociale minimo o “cellula fondamentale dello stato” come la definì Paolo VI [Humanae Vitae, 23], non un attacco all’omosessualità in generale.
Qualcuno, però, vuol far passare il messaggio per il quale sostenere un proprio valore sia discriminante verso tutti gli altri. Il claim potrebbe essere più o meno questo: se credi in qualcosa sei un razzista. Ovviamente questo vale solo per i cattolici, che sono cattivi. Quando invece parlano gli omosessuali, che sono buoni ontologicamente, la difesa di un loro valore non è mai discriminazione, ma “diritto”. Anche quando pretendono di squalificare un modello famigliare che, bontà sua, ha garantito la coesione sociale in tutti il mondo e per millenni.
Questo strano modo di pensare che, per includere democraticamente la minoranza omosessuale, è pronta a escludere repressivamente dal dibattito politico tutti i cattolici, è possibile solo grazie ad un gioco di prestigio. Il gioco prevede che tutti i valori abbiano lo stesso valore (mi si scusi il bisticcio), come se in un mazzo ci fosse solo una carta ripetuta 52 volte. Dopo di che estrarre una o l’altra non fa nessuna differenza e chiunque può fare il mago. Ma quando non è più importante il “cosa”, diventa fondamentale il “chi” la estrae. Se la estrae un cattolico, la carta è sbagliata a prescindere, anche perché si ostina a dirmi che non è vero che tutte le carte sono uguali. Se la estrae chiunque altro, allora è giustissima.

In un clima così non è più possibile parlare di nulla. Perché ogni sacerdote che difende la famiglia diventa automaticamente omofobo, ogni cattolico diventa automaticamente un razzista verso gli omosessuali. Lo stereotipo è in grado di fare questo. Ma è un ragionamento molto pericoloso, che porta immediatamente all’intolleranza, all’insofferenza verso tutto ciò che è in odore di Chiesa.
Ed è anche un modo per squalificare a priori ogni accenno di discussione. Già, perché prima di parlare, ogni singolo cattolico è costretto a giustificarsi, a spiegare perché ha il diritto di intervenire nel dibattito, ad allontanare da sé il sospetto di omofobia. In un’ipotetica disputa, tre quarti di una discussione saranno occupati già solo dalla difesa. L’altro quarto dalle risposte alle polemiche che nel frattempo qualcuno avrà fatto. Totale: non c’è stato nessun dialogo.
E facilmente a nessuno verrà in mente che è impossibile dialogare in questi termini, ma subito si concluderà che il cattolico è inconcludente, arroccato, omofobo (perché dovrebbe giustificarsi se, sotto sotto, non lo fosse?).
Il passaggio successivo può essere solo uno: evitiamo di considerare i cattolici come interlocutori. Tanto, a) non ci serve il loro punto di vista non-laico, b) non si può far parlare un razzista.
Ogni riflessione diventerebbe un processo di Norimberga.
Ma il cattolico non è razzista, anche se molti si compiacciono di avere questa opinione. Lo è chi, dall’alto della sua tolleranza, non tollera un’intera fetta di popolazione. Nemmeno quando esprime, con toni pacifici, valori che ritiene fondamentali.

 

(Fonte: Davide Greco, Nocristianofobia, 26 aprile 2013)
 

giovedì 25 aprile 2013

Una preghiera comunitaria per il nostro Paese

Sottopongo all’attenzione dei lettori una lettera inviata al Direttore del quotidiano “Avvenire”, organo di informazione della Cei, dalla signora Vetulia Italia - cui oltretutto mi lega amicizia e stima – sempre molto attenta alle vicende del nostro Paese.
Trovo la proposta suggerita dalla signora Velia molto interessante (è stata pubblicata nella Rubrica “Scripta manent”); e concordo con lei (e con mons. Mattiazzo di Padova, di cui spero tanti altri seguano l'esempio) nel considerare la preghiera di intercessione per la nostra Patria come l’unica via percorribile per “dare una mano concreta” a chi sarà preposto a risollevare le sorti di un paese ormai sull’orlo del collasso:
«Caro direttore, la presente vuole essere un ringraziamento vivissimo al vescovo di Padova, monsignor Antonio Mattiazzo, per aver dimostrato di capire che cosa possiamo e quindi dobbiamo fare noi credenti nel momento di grave difficoltà e di enorme confusione che attraversa il nostro Paese. Ricordando certo che «Se Dio non costruisce la casa, invano si affannano i costruttori», monsignor Mattiazzo ha mobilitato la sua diocesi invitando i fedeli a una preghiera collettiva che si è concretizzata in una veglia di preghiera da lui guidata svoltasi l’11 Aprile (Avvenire ne ha parlato proprio quel giorno), nell'invito ai sacerdoti della diocesi a celebrare nei giorni feriali utilizzando i formulari delle messe ad diversa – “per la patria” o “per le autorità civili” - chiedendo, inoltre, che «in ogni parrocchia, nelle prossime domeniche, sia inserita nella Preghiera dei fedeli un'intenzione per il nostro Paese», che è preghiera specifica, diversa dalla generica per i governanti.
Il vescovo dì Padova non può certo immaginare fino a che punto questa sua sensibilità e questa sua forte iniziativa abbia confortato e sia apparsa come una prima risposta a chi, come me, da anni desidera che simili iniziative vengano prese da tutte le diocesi d'Italia. Chi legge la Scrittura dovrebbe sapere che la salvezza di un popolo non è un "pacco dono" che piove dal cielo sulle nostre teste; dovrebbe avere imparato qualche cosa sulla preghiera di intercessione...
Un Presidente della Repubblica sarà comunque eletto, perché deve essere eletto. Un po’ più in là, un governo, quale che sia, sarà comunque fatto, perché deve essere fatto. Ma poi?
Poi, vengono i problemi difficilissimi da risolvere. La preghiera di intercessione per la patria, preghiera forte, collettiva, non episodica, non può attendere né può arrestarsi.
Concludo con una riflessione: se un Paese di sessanta milioni di abitanti sta a cuore a Dio, almeno come gli stava a cuore la città di Sodoma, chi prega per la salvezza di questo Paese prega secondo il cuore di Dio. Vetulia Italia, Roma

(Ma.La. 25 aprile 2013)

mercoledì 24 aprile 2013

Partito Omosessualista Clericale

Riconosciamo le unioni delle persone dello stesso sesso, ma non chiamiamole matrimonio. L’ultimo a sostenere questa bizzarra posizione è stato l’arcivescovo Piero Marini, delegato pontificio per i Congressi Eucaristici, in una intervista rilasciata al quotidiano La Naciòn il 20 aprile a margine del Congresso Eucaristico in Costa Rica.
Rispondendo a una domanda sulla laicità dello Stato, monsignor Marini – che è stato per molti anni cerimoniere di papa Giovanni Paolo II – ha detto testualmente: «E’ necessario riconoscere le unioni delle persone dello stesso sesso, perché ci sono molte coppie che soffrono perché non vedono riconosciuti i loro diritti civili; quello che non si può riconoscere è che questa coppia sia un matrimonio».
L’uscita di monsignor Marini è sconcertante, ma non è affatto sorprendente. Perché prima di Marini altri eminenti ecclesiastici si sono fatti portavoce di questa posizione, a dimostrazione che nella Chiesa sta prendendo piede una preoccupante cultura omosessualista. Il che non significa che chi sposa queste posizioni abbia necessariamente tendenze omosessuali, semplicemente manifesta una sudditanza al pensiero oggi dominante e cerca di trovare un compromesso tra questo e la dottrina della Chiesa.
Del resto si ricorderà che all’inizio di febbraio era stato monsignor Vincenzo Paglia a esporre la stessa teoria nella sua prima, infelice, uscita da presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. E’ davvero curioso – per non dire altro - che di fronte all’attacco globale contro la famiglia cui stiamo assistendo, che arriva da potentissime lobby internazionali, il presidente del Pontificio Consiglio si senta in dovere di esordire spezzando una lancia per il riconoscimento delle unioni gay. Unioni che notoriamente sono il cavallo di Troia per distruggere la famiglia fondata sul matrimonio. Pensare che quel Pontificio Consiglio per la Famiglia era stato voluto da Giovanni Paolo II proprio per fare fronte in quella che lui stesso aveva definito la battaglia decisiva del Terzo millennio; e aveva messo a dirigerlo il cardinale colombiano Alfonso Lopez Trujillo, sulla cui dedizione alla causa non ci potevano essere dubbi.
Ma né l’uscita di monsignor Marini né tantomeno quella di monsignor Paglia sono casuali o estemporanee. Questa infatti è ormai diventata la posizione ufficiale della Chiesa italiana, e lo dimostra l’editoriale pubblicato da Avvenire lo scorso 13 aprile a commento delle inaudite parole del presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo, che invitava il Parlamento al riconoscimento delle unioni gay. Nell’occasione il professor Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani ed editorialista di punta del quotidiano della Conferenza Episcopale, cercava di minimizzare le parole di Gallo affermando che in effetti non aveva richiesto la parificazione delle unioni gay al matrimonio, ma semplicemente di garantire i diritti civili delle stesse.
E D’Agostino aggiungeva che la cosa andava sicuramente bene a patto di riconoscere tutte le convivenze: «Esistono infatti molteplici forme di convivenza espressive di bisogni umani autentici,- affermava D’Agostino - a volte accompagnate anche da rilevanti interessi economici: in questo novero possono farsi rientrare le convivenze tra fratelli, tra genitori e figli, quelle comunitarie (ad esempio a ispirazione religiosa), quelle attivate da e tra studenti universitari negli anni (non brevi) necessari a conseguire una laurea, quelle tra lavoratori immigrati, eventualmente in attesa di un ricongiungimento familiare... tutte queste forme di convivenza hanno una loro legittimità proprio perché si basano su istanze sociali e non sulla pretesa di possedere una valenza para-coniugale». E poi concludeva: «Se il legislatore ritiene che alcune convivenze siano socialmente meritevoli di tutela patrimoniale (in specie per la possibilità che un convivente possa trovarsi senza sua colpa in una situazione di difficoltà economica) intervenga pure, anche con urgenza, ma lo faccia per tutti i conviventi e non solo per quei conviventi che danno rilievo sessuale alla loro unione».
E’ lo stesso concetto che sta dietro al disegno di legge sui “contratti di solidarietà” proposto da alcuni parlamentari cattolici, evidentemente fuorviati da qualche monsignore. Questo approccio, in realtà, fa acqua da tutte le parti.
Anzitutto, hanno mai visto D’Agostino e Paglia manifestazioni o petizioni di studenti, fratelli, lavoratori immigrati per vedersi riconosciuto il diritto non si sa bene a quale scambio patrimoniale? No, semplicemente perché per situazioni di questo genere ci sono già abbondanti strumenti di diritto privato, come del resto La Nuova BQ aveva già dettagliato a suo tempo. Casomai sono le famiglie, soprattutto quelle con figli, ad avere bisogno dell’intervento del legislatore. Curiosamente anche il professor D’Agostino ne era consapevole almeno fino al 13 marzo scorso. In quella data, infatti, intervistato dal sito Aleteia, a una domanda sulle tutele patrimoniali per le coppie gay rispondeva: «I membri di una coppia gay hanno già a disposizione diversi strumenti di tutela: possono nominarsi reciprocamente eredi testamentari, istituire polizze sulla vita a favore del partner, intestare contratti di affitto ad entrambi. Molte situazioni della vita quotidiana sono risolte dal diritto comune». Chissà perché nel giro di qualche settimana dice qualcosa di diverso. Comunque quello che vale per i gay vale per chiunque altro.
Però ve li vedete due o tre studenti universitari intestarsi reciprocamente le polizze sulla vita o due immigrati in attesa di ricongiungimento familiare nominarsi eredi testamentari, cosa che peraltro potrebbero già fare adesso senza bisogno di una legge ad hoc?
Allora a cosa dovrebbero servire i “contratti di solidarietà” o come altro li vogliamo chiamare? Cerchiamo di non essere ipocriti, i “contratti di solidarietà” servono semplicemente a mascherare il primo passo verso il pieno riconoscimento delle unioni gay.
C’è poi un secondo punto su cui D’Agostino equivoca. Commentando le parole del presidente della Corte Costituzionale, egli infatti si appoggia all’articolo 2 della Costituzione che «parla genericamente di tutela di formazioni sociali nelle quali si svolga la personalità dell’uomo» per affermare che «tra queste è ben possibile far rientrare le convivenze».
Spiacente, ma non era questa l’intenzione di chi ha scritto e discusso quell’articolo, e non soltanto perché allora le convivenze non andassero di moda. Il professor D’Agostino, ma anche monsignor Paglia e monsignor Marini farebbero bene ad andarsi a rileggere la relazione di Giorgio La Pira della I Sottocommissione della Costituente in cui spiega i “principii relativi ai rapporti civili”, tenendo presente che la formulazione dell’articolo 2 si deve proprio a La Pira.
Ebbene, per chi ha scritto la Costituzione le “formazioni sociali” hanno anzitutto il loro fondamento nei diritti naturali della persona e sono tutti quei corpi intermedi che tutelano la persona dall’invadenza dello Stato: comunità familiare, di lavoro, religiosa, e così via. La preoccupazione evidente era allora quella di evitare un nuovo totalitarismo, per questo si blindavano le formazioni sociali a tutela della persona. Tutto il contrario di quello che si vuole fare oggi riconoscendo le unioni gay: distruggere la famiglia per costruire un rapporto individuo-Stato. Ed avviarsi così a una nuova forma di totalitarismo.
E’ la famiglia la prima formazione sociale che intende l’articolo 2 della Costituzione, e non si può riconoscere giuridicamente una qualsiasi convivenza senza elevarla – esplicitamente o implicitamente - al rango di comunità familiare. Smentendo così clamorosamente il punto di partenza da cui partono D’Agostino e co., ovvero che sia possibile riconoscere le convivenze senza intaccare il valore della famiglia fondata sul matrimonio.
Vale a dire: chi sta portando i cattolici su questa strada si sta assumendo una responsabilità gravissima.

(Fonte: Riccardo Cascioli, Nuova Bussola Quotidiana, 23 aprile 2013)
 

I libri del ritorno all’ordine: “Avrò cura di te” di Padre Lanzetta

Ma come si è ridotto a vivere e a morire l’uomo del nostro tempo? Vive morendo e muore vivendo: è un omicidio continuo, attraverso l’aborto; attraverso la strage della ragione e l’annientamento della fede; attraverso l’eutanasia.
Perversità e vizio sono diventati i pilastri di questa civiltà che, rinnegando la sua matrice cristiana, si va autodistruggendo. Abbandonato Dio, l’uomo è in balia del grande Tentatore, che si contorna di depravazione, corruzione e dissolutezza, dando in pasto le sue vittime al caos e alla disperazione. Dove «si andrà se continua a predominare il soddisfacimento di sé, la ricerca di sé e del proprio appagamento, checché ne deriva agli altri e soprattutto ai più indifesi come i bambini?», una cultura siffatta genera una «guerra tra il soddisfacimento senza futuro e la voglia di vivere per soddisfarmi ancora. Una divisione interna alla persona è alla radice d’ogni altra oppressione» (pp. 21-22), parole amare, parole crude, parole sagge che leggiamo nel bel libro di Padre Serafino Lanzetta F.I. dal titolo Avrò cura di te. Custodire la vita per costruire il futuro (pp. 140, € 12.00); un libro che rientra nella importante collana di Fede & Cultura «I libri del ritorno all’ordine», diretta da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.
Il corpo è idolatrato, ma nel contempo viene soppresso prima del suo iniziale vagito al mondo. Siamo nell’era delle più assurde ed illogiche contraddizioni, dove le azioni politiche hanno la volontà di sovvertire ciò che è secondo natura: «Le politiche non hanno più niente di politico e gli obiettivi più caldeggiati sono appunto quelli della sfera dei valori morali della persona. Perché? Si desidera una rivoluzione non delle sfere dell’amministrazione del bene pubblico ma del concetto stesso di bene e di male, un suo ridisegnamento» (p. 27). L’obiettivo è quello di ribaltare i principi fondamentali della vita e della convivenza: molti figli di questa ideologia, per esempio, non dovranno più avere un padre ed una madre come da normalità, ma un genitore A ed un genitore B, come il copione di un film dell’horror.
Può essere ben fiera la rivoluzione culturale sessantottina: i suoi risultati sono andati ben oltre le sue stesse aspirazioni. Dal canto suo la Chiesa non è più riuscita ad incidere sulla cultura e sulle coscienze: con il “dialogo” e l’ “aggiornamento” ha sempre più inseguito il consenso mediatico e virtuale, perdendo di vista la sua reale identità. La persona non è più fatta a immagine e somiglianza di Dio, ma ad imitazione del demonio; si ribella, dunque, al Creatore e con la superbia si fa beffe dell’Amore Infinito e della salvezza della propria anima. Con la superbia Lucifero scelse di perdere amore, bontà, bellezza; oggi, con la superbia, l’uomo sceglie di essere divorato dalle fauci del peccato a tutti i costi, chiamandolo «diritto» e «dignità». Ma come destare l’umanità occidentale da questo immane inganno? «Bisogna ripartire (…) dalla verità. Altrimenti ci autodeterminiamo a essere sterili, a vedere una Chiesa che si autocondanna a prendere il primo posto nei dibattiti pubblici ma che ha smarrito la sua identità. Dobbiamo ripartire da questa consapevolezza: la verità è per ognuno e il Vangelo è la salvezza di tutti gli uomini» (p. 33).
Non c’è altro metodo, per condurre questa folle e peccaminosa società del XXI secolo al rinsavimento e alla salvezza, che la volontà missionaria, quella che vestirono i primi Apostoli sul comando di Cristo. Si parla di «nuova evangelizzazione»; ma essa, in questi tempi di dissoluzione e decomposizione, deve essere eroica, altrimenti sarebbe vanificata. Ha detto nell’omelia papa Francesco il 14 aprile scorso nella basilica di San Paolo fuori le mura: «Non si può pascere il gregge di Dio se non si accetta di essere portati anche dove non vorremmo, senza riserve, senza calcoli, a volte anche a prezzo della nostra vita».

(Fonte: Cristina Siccardi, Corrispondenza Romana, 18 aprile 2013)


giovedì 18 aprile 2013

Una Storia Clerical-Pop

E così, nell’Orbe cattolico è scoppiata la pace. Salvo qualche fisiologico bastian contrario, l’elezione di papa Francesco I pare aver messo d’accordo tutti e sopito ogni sentimento di disfida. Un evento unico in duemila anni di storia della Chiesa, se si pensa che il bello dell’essere appassionatamente cattolici, ammesso che si possa ancora dire, è sempre stato il picchiarsi martellate teologiche in testa tra scuola e scuola, tra ordine e ordine, tra carisma e carisma.
Dal 13 marzo 2013, il popolo cattolico, con grande concorso di mondo, ha messo da parte diversità, contese e rancori per partecipare a una interminabile ola da concerto pop in onore del nuovo papa. Tutti protagonisti di un grande happening in cui, come in ogni evento del genere, domina la voglia di sentirsi uguali, di identificarsi in qualcosa e in qualcuno, dimentichi di ciò che si era fino a un secondo prima di aver comprato il biglietto.
Tanto basta perché ognuno si senta in diritto di profetare radiosi orizzonti della “Chiesa di papa Frascesco”. Senza un briciolo di memoria per i drammi che, fino a poc’anzi, pesavano sulla barca di Pietro minacciando di affondarla. Pedofilia, affarismo, immoralità, lotte di potere e tutto quanto avrebbe costretto alle dimissioni Benedetto XVI è sparito dalle prime pagine dei giornali e dai pettegolezzi di sacrestia: non esistono più. Basta azzardare un semplice “Speriamo…” in coda dal pizzicagnolo, dove naturalmente anche il più anticlericale degli avventori spiega quanto gli piace questo nuovo papa, per passare per pericolosi deviazionisti. Quei puntini di sospensione dopo il timido e precauzionale “Speriamo” non vanno proprio giù e ci vuole un niente per finire sul banco degli imputati, senza possibilità di appello, in nome di una misericordia e di una tenerezza che il mondo cattolico pare aver scoperto solo ora.
Ma questa voglia di misericordia e di tenerezza così intransigente e intollerante non suona contraddittoria a nessuno. E’ la dura legge del pop, verrebbe da dire parafrasando Max Pezzali i vecchi 883. Anzi, vista l’unanime attitudine a leggere questo inizio di pontificato all’insegna di contraddizioni che non infastidiscono neppure quei cervelli cattolici che regnante Benedetto XVI tanto amavano il rigore della ragione, forse è giunto il momento di parlare della dura legge del clerical-pop. Un fenomeno nuovo di zecca che, quanto a sberleffi al principio di non-contraddizione, non è secondo ad altri. Per fare solo un esempio, basta pensare a quella folta schiera di conservatori che nel 2005 si sentirono al settimo cielo perché era stato eletto Joseph Ratzinger al posto di Jorge Maria Bergoglio e ora sono al settimo cielo perché c’è Jorge Maria Bergoglio al posto di Joseph Ratzinger.
E se qualcuno fa tanto di analizzare l’inedito unanimismo che presiede a tali contraddizioni gli viene subito opposto l’inossidabile argomento dell’assistenza dello Spirito Santo durante il conclave. Che però, brandito così malamente e senza giudizio, non spiega perché tale unanimismo sia, appunto, inedito. Per capire le stranezze del mondo d’oggi, persino di quello cattolico, non basta aver orecchiato distrattamente qualche lezione di teologia dogmatica, servirebbe avere almeno un po’ di pratica di Max Pezzali.
Ammesso che prima si viaggiasse tre metri sopra il cielo, bisogna scendere qualche gradino, avendo pazienza di arrivare fino al livello degli uomini. Qui giunti, sporcandosi le mani con giornali, siti internet, televisioni, radio, chiacchiere da bar, da ufficio, da navata centrale di cattedrale o da cappelletta fuori mano, si scopre che cattolici e non cattolici hanno negli occhi le stesse immagini e sulla bocca le stesse parole d’ordine. Poche, semplici e indiscutibili come si conviene a ciò che forma l’immaginario collettivo. Cibo fresco per l’ingordigia dei media, ai quali non può essere imputato di svolgere diligentemente il loro compito. Quando si alimentano questi mostri insaziabili, magari con l’illusione di servirsene, si finisce per venirne divorati, ruminati e rigettati così come pare a loro, sotto altre spoglie e in altra natura.
Negli anni Settanta, Marshal McLuhan aveva un bell’avvertire che “il mondo disincarnato in cui ci troviamo a vivere è una minaccia formidabile alla Chiesa incarnata”. O che il mondo creato dai media elettronici è una “un ragionevole facsimle del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”. Ma nessuno lo ha ascoltato. “I teologi” diceva “non si sono ancora nemmeno degnati di gettare uno sguardo su un simile problema”.
Così l’immagine religiosa si è fatta sempre più immaginario collettivo sino a presentarsi in una sorta di indefinita e indefinibile aspirazione universale in perfetto stile pop. L’icona esemplare di questo esito è l’immagine dei due papi, Francesco e Benedetto, uno accanto all’altro. Un frammento visivo così straniante da sembrare un quadro di Andy Warhol, una replica dei celebri ritratti multipli di Marilyn Monroe o di Mao. D’altra parte, Warhol era molto religioso, un parrocchiano così fervoroso e diligente da riuscire incontrare papa Giovanni Paolo II nel lontano 1980.
Al di là del merito, di pertinenza di storici e teologi, sul piano formale del linguaggio la visione dei due papi insieme è l’architrave dell’inedito unanimismo che aleggia attorno a Francesco I. In purissimo spirito pop-art, le due figure possono essere lette simultaneamente secondo criteri diversi. Possono essere sovrapposte l’una all’altra, interpretate una come il negativo dell’altra, oppure una come l’attenuazione o il rafforzamento dell’altra, ma anche come sfumature diverse di una possibile terza figura e via di questo passo. È chiaro che, a questo punto, si è innescato un meccanismo irreversibile di repliche e di rimandi di cui finisce per godere i frutti l’immagine dominante. Non a caso si dice immagine, poiché qui giunti poco conta che cosa sia veramente la realtà.
L’effetto più interessante di tale fenomeno sta nella corsa affannosa ad attribuire un proprio significato ai gesti e alle parole di papa Francesco illudendosi di escludere tutte quelle antagoniste. Ma in tal modo, poiché si lavora solo sull’immagine e non sulla realtà, si sta solo partecipando alla realizzazione di un’opera collettiva. Chi pensa di fornire una propria esclusiva interpretazione del fenomeno pop per appropriarsene non fa altro che aggiungere la propria pennellata di colore a un’immagine ben più forte della somma di tutte le pennellate. Tanto forte che potrebbe persino fare a meno anche del più piccolo segno colorato. Da questo punto di vista è genialmente funzionale la rinuncia del nuovo papa ai paramenti tradizionali che richiamerebbero forme a cui ripugna la pennellata pop. Molto meglio quel bianco sotto cui si intravvedono in controluce i pantaloni neri, così apparentemente privo di personalità da indurre al tentativo di appropriarsene senza capire di esserne assorbiti.
Attribuire un proprio significato a ciò che ha detto, ma soprattutto fatto, sinora Francesco I non è altro che esercitare a vuoto l’intelligenza per il semplice motivo che i piani su cui ci si muove sono diversi. Scrive Lucio Spaziante in un saggio che, a dispetto di un titolo come Sociosemiotica del pop, si mostra di grande godibilità e intelligenza: “La cultura pop si contraddistingue come una cultura del fare piuttosto che del sapere, dove per lasciare spazio alla spontaneità si preferisce non sapere., dove la pratica conta più della teoria. Chi ascolta rock sa che in quel mondo è per la prima volta padrone di un territorio. Non ci sono professori, non ci sono migliaia di libri da leggere, la cultura e la politica da capire. Basta amare un cantante, a volte imitarlo, indossare gli stessi abiti mentali e fisici e ‘ci si auto genera socialmente’. Nel pop non c’è un reale sforzo di teorizzazione. I contenuti, per essere esplicitati, devono essere estratti”. E poi ancora “Il pop riesce a sfondare, in Italia come altrove, nonostante la barriera linguistica dell’inglese. Il motivo risiede probabilmente nel fatto che il senso della parola è l’ultima cosa che si coglie”.
Questa dismissione del senso della parola spiega quel desiderio di identificarsi nella pop star di turno che domina attualmente nel mondo cattolico. Una breve indagine tra parrocchie, oratori, associazioni e movimenti mostrerebbe che ogni singolo fedele ha una propria immagine del papa. E, se si andasse in fondo, si scoprirebbe che il collante di questa grande ola è un vago sentimento, poco più che elementare, molto, troppo, anteriore a fede, dottrina e morale.
Eppure, la pratica del cattolicesimo ha sempre richiesto l’esercizio dell’intelletto e della volontà. È con questa esigentissima ascesi della ragione, assieme alla preghiera e al sangue dei martiri che la Chiesa ha cresciuto i propri figli e convertito il mondo: non andando nell’arena per un concerto, ma per affrontare i leoni in nome del Logos. “La culla della Chiesa” scriveva McLuhan “è stato l’alfabeto greco-romano, che non è stato preparato dall’uomo, ma disegnato dalla Provvidenza. Il fatto che la cultura greco-romana abbia contraddistinto da sempre la maggior parte dell’umanità, poi divenuta cristiana, non è mai stato messo in discussione. Si dà per scontato che i missionari abbiano probabilmente ricevuto la fede dalla parola scritta”.
Era la metà degli anni Settanta, quando lo studioso canadese scriveva queste note. Era il periodo d’oro del pop che il mondo cattolico si avvia drammaticamente a sposare con i soliti quattro o cinque decenni di ritardo. Il pontefice era un fior di intellettuale come Paolo VI e perciò suona tanto più profetico tagliente quanto lo McLuhan aggiungeva a conclusione del suoi discorso: “Vorrei che la gerarchia parlasse di più della nascita della Chiesa nella culla dell’alfabeto greco-romano. Questa eredità culturale è indispensabile. Il problema è che essi stessi non conoscono la risposta: proprio non lo sanno. Non c’è nessuno nella gerarchia, Papa incluso, che sappia queste cose. Nessuno”.

(Fonte: Alessandro Gnocchi–Mario Palmaro, Il Foglio, 14 aprile 2013)

venerdì 12 aprile 2013

Le donne di Berlusconi e la Bonino al Quirinale

Non è delle olgettine, di feste, “signore” o “escort” – reali o meno – che si vuole parlare in questo articolo, già fin troppo si è detto a riguardo. Chi scrive fa di mestiere il docente e il ricercatore di storia, e conosce la storia: è bene specificare questo perché chi conosce la storia non può far finta di meravigliarsi perché un uomo di potere, per giunta fra i più ricchi del mondo, abbia amanti e si diverta immoralmente: un conto infatti è la piena condanna morale del fatto in sé, sulla quale non possono esservi dubbi, un conto la consapevolezza empirica dell’animo umano: chi conosce la storia sa molto bene quale presenza ingombrante siano molto spesso state le donne per gli uomini di potere di tutti i tempi e luoghi.
In tal senso, ben più insopportabile riesce l’intollerabile ipocrisia di schiere e schiere di politici, giornalisti, “opinion-men and women” che si scandalizzano per Berlusconi mentre da una vita si fanno paladini del sesso emancipato, della famiglia allargata, della droga libera, dell’aborto, dell’omosessualismo, della pornografia, ecc. ecc.
Ma chi scrive è anche e anzitutto cattolico e ritiene che il problema che invece deve scandalizzare non solo moralmente ma anche politicamente è il fatto che con Berlusconi la rovina sta sempre nelle donne, ma non tanto quando si chiamano Polanco, Minetti, D’Addario o chissà come, quanto soprattutto quando si chiamano Prestigiacomo, Brambilla, Carfagna. Perché la colpa di costoro non è quella di essere andate o meno a qualche festa di Berlusconi, ma quella di cospirare, nel loro ruolo di ministre della Repubblica Italiana prima, e di onorevoli (con non lievi possibilità di ritorno alle cariche ministeriali) oggi, contro ogni residuo di civiltà cristiana ancora rimasto.
Minetti e D’Addario sono quello che sono, ma non cospirano contro l’ordine cristiano e naturale; le tre suddette deputate non sono invece Minetti e D’Addario, ma cospirano contro l’ordine cristiano e naturale.
E questo è il vero imperdonabile vulnus che Berlusconi, da sempre dichiaratosi cattolico, ha inferto ai cattolici italiani.
Nel 2011 il ministro Brambilla diede il patrocinio del Ministero del Turismo all’Expo del Turismo Gay che si tenne a Bergamo il 23-24 settembre. La motivazione era la seguente: «Trovo che nel nostro Paese il pregiudizio nei confronti dei gay sia ancora radicato oltre che ingiusto. Quindi anche il patrocinio ad una fiera specializzata può servire ad agevolare un cambiamento culturale di cui c’è davvero bisogno». Testuali parole della ministra, che, come noto, è anche convinta animalista, sempre in prima linea nella guerra alla caccia, nella guerra al Palio di Siena e perfino alle carrozzelle delle nostre città d’arte… In una parola, sempre in prima linea nella guerra alle nostre più antiche e sane tradizioni.
Ci sarebbe piaciuto poter rivolgere in quei giorni al Presidente del Consiglio la seguente domanda:
una ministra che è contro la caccia (come se i cacciatori fossero assassini, o come se prima o poi dovessimo tutti smettere di mangiare la carne per sempre: è forse questa la reale volontà della ministra? Vogliamo forse dirla la verità, e cioè che la Brambilla è un’animalista estremista, di quelle che odiano l’umanità in quanto tale e vogliono sovvertire l’ordine del creato?), che è contro il Palio di Siena, uno dei maggiori simboli per antonomasia della civiltà italiana, che è contro anche le carrozzelle, che da secoli accompagnano cittadini e turisti alla scoperta degli angoli meravigliosi e poco conosciuti delle nostre città d’arte, e di contro è a favore dell’omosessualismo e ha utilizzato un ministero della Repubblica per favorire la diffusione organizzata e perseguita di tale pratica, chi rappresenta? Gli Italiani? In particolare, gli italiani che hanno votato centro-destra? Soprattutto, i cattolici?
E non dimentichiamo la ormai più datata ed esperta Stefania Prestigiacomo, che in tempi non sospetti già si faceva paladina delle coppie di fatto e dei diritti degli omosessuali (quando era lei ministro delle Pari Opportunità assumeva specificamente “gay” al suo ministero). Chi rappresentava la ministra Prestigiacomo? Chi l’aveva voluta? Chi la vuole?
Stesso discorso per il ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna, che dopo una iniziale presa di posizione in difesa della famiglia naturale nel 2007 passò dall’altra parte della barricata, divenendo anch’ella (forse per consiglio del suo amico Italo Bocchino?) fiera e coerente sostenitrice dei cosiddetti “diritti” degli omosessuali.
Oggi la Carfagna, non è più ministro ma sempre sulla breccia berlusconiana, ne ha fatta un’altra delle sue: ha ufficialmente sostenuto la candidatura di Emma Bonino alla Presidenza della Repubblica.
Credo che atto politico peggiore di questo non possa essere facilmente immaginato. I radicali stanno scomparendo da anni, e se non scompaiono è solo grazie all’aiuto dei media e di occulti e non occulti finanziatori. Ma, a parte questo, rappresentano quell’Italia degli anni Sessanta che oggi nessuno vuole più ricordare, nemmeno i più progressisti. La foto della Bonino che con una pompa di bicicletta attua un aborto a una donna è segno inequivocabile di cosa fossero (e siano) i cosiddetti “diritti civili” propugnati dalla cosiddetta “società civile” legata ai radicali, a Repubblica e al progressismo – anche “cattolico” – in genere.
La Bonino è assolutamente non solo indifendibile umanamente, ma anche insignificante politicamente ormai. Eppure, la si vuole rilanciare ancora una volta, come sorta di espressione mummificata del radicalismo femminista, abortista e antiproibizionista, simbolo di un mondo assolutamente minimale in termini numerici ma ancora potente mediaticamente ed economicamente. Quello che però è scandaloso, è che sia ancora una volta un’esponente del centro-destra a lanciare – addirittura verso il Colle del Quirinale – il sasso dell’aborto e della droga liberi, dei manicomi spalancati e dei terroristi assassini in parlamento, della dissoluzione di ogni forma di ordine naturale e civile.
Questo è intollerabile, e occorre che il mondo cattolico, che ancora vota per Berlusconi (anche magari solo per disperazione) se ne renda conto, pena la complicità morale.
Non basta dire che Berlusconi deve tenere i piedi nelle due staffe del mondo laico liberale da un lato e cattolico dall’altro nella speranza di tornare al governo. Proporre la Bonino al Quirinale non vuole dire tenere un piede in una staffa: vuol dire avallare il peggio della politica italiana per porlo al gradino più alto della Repubblica: e questo è inaccettabile e intollerabile, non trova alcuna giustificazione di alcun genere, tantomeno politica.
Sia ben chiaro: le tre ex ministre sono in fondo anche tre frustrate (come ogni tanto, cedendo alla loro natura femminile, danno a vedere), in quanto alla fine i governi Berlusconi non hanno ceduto quasi in nulla alle loro aberranti richieste. Ed è anzi loro merito l’avere almeno in parte costituito un muro all’avanzata delle lobby omosessualiste. E, sappiamo tutti molto bene, che un prossimo governo di centro-sinistra segnerebbe la catastrofe per l’Italia anche e anzitutto da questo punto di vista. Ma proprio per questo una Bonino al Quirinale sarebbe come aggiungere benzina all’incendio devastatore della sovversione anticristiana e antinaturale sempre più in atto.
Rimane quindi il problema di Berlusconi e delle sue donne, quelle delle feste e quelle dei ministeri. Sulle prime, possiamo indignarci, ma è un’indignazione morale e, in fondo, la sapienza della vita cristiana ci insegna che spetta a Dio il giudizio; sulle seconde invece dobbiamo indignarci, e il nostro senso morale, naturale e cristiano, ci impone di non accettare mai più la possibilità politica (ancor prima che morale) che simili deputate (e magari nuovamente ministre) possano usufruire dei fondi – che sono le tasse che noi paghiamo – e del potere mediatico e politico per sostenere ciò che è sempre moralmente e politicamente inaccettabile e condannabile. E in questo non possiamo e non dobbiamo aspettare il giudizio di Dio: questo è compito nostro.
Altrimenti saremo anche noi complici: non dell’Olgettina, ma complici del processo di distruzione della nostra civiltà.
Ciò che stiamo vivendo giorno dopo giorno, anno dopo anno, governo dopo governo, è un vero e proprio sconvolgimento della nostra identità spirituale, morale, civile, politica: mentre ci vogliono togliere la carne dai nostri piatti, il gusto del tutto naturale e virile della caccia, i cavalli dalle nostre carrozzelle, il Palio di Siena (e quindi tutte le altre tradizionali feste con animali, che sono decine e decine in tutta Italia) dalle nostre contrade, le feste dei santi patroni dalle nostre piazze, ci vogliono rifilare l’omosessualismo di massa come “progresso” doveroso, per raggiungere “un cambiamento culturale di cui c’è davvero bisogno” e ora anche l’abortismo e l’antiproibizionismo al Quirinale.
Per questo, alle prossime elezioni (vicine o meno che siano), dovremmo riuscire a far sentire tutto il peso del voto cattolico che ponga come ultimatum allo schieramento di centro-destra la cancellazione politica delle ministre e dei politici, sindaci e intellettuali arrivisti e di tutti coloro, maschi e femmine, che si rendano complici costruttori, dall’alto dei loro potentati, di un mondo rovinato, immorale e a-civile.
Non è più il tempo di indulgere sui valori non negoziabili, anche troppo lo abbiamo fatto. È tempo di lottare per salvare il nostro futuro, quello dei nostri figli e della nostra società e civiltà.
Qualcuno pensa che il centro-destra sia ormai immodificabile? Allora non si può più restare a guardare. E nemmeno soltanto a scrivere articoli su riviste o siti web di settore. Occorre iniziare a pensare e realizzare nuove forme di organizzazione civile e politica per porre freno allo sfacelo generale della nostra povera Italia. Non solo per ragioni – oggi giustificatissime e più che mai impellenti – economiche, quanto anzitutto per ragioni morali e civili. Occorre che i cattolici si organizzino per costruire di nuovo una società umana, senza dare fiducia a nessuno che non sia certamente e pienamente dalla parte di Gesù Cristo, della Chiesa e della nostra Tradizione.

(Fonte: Massimo Viglione,Giudizio Cattolico, 6 aprile 2013)
 

domenica 7 aprile 2013

Suore ribelli: un problema in più per Papa Francesco

Da libere donne di Dio a schiave dell’ideologia. Kunigunde Furst non è il nome di uno yogurth, di un frullato o di una birra, ma è il nome di una suora francescana, appartenente ad una diocesi austriaca. Non una suora qualunque: la Furst è, infatti, superiora generale delle francescane, di un istituto di Diritto Pontificio (perciò maggiormente responsabile) ma anche dottore in teologia. Questa religiosa sta impegnando di recente – e non poco – la Congregazione per la Dottrina della Fede per le sue recenti uscite non solo poco ortodosse, ma proprio eretiche. Tanto che, seppur francescana, potremmo associarla forse più al francescanesimo eretico di Pietro Valdo (da cui derivano i Valdesi) che non al povero santo patrono di Assisi.
Qui non intendiamo anticipare quelle giuste sentenze ecclesiali che verranno, ma ci par ragionevole approfondire l’argomento riguardo al tema “suore di oggi” e chiederci il perché di certa inquietudine, cosa vogliono alcune di queste sorelle e dove pretendono di arrivare.
Come riporta il “Foglio” di qualche mese fa, in un articolo di Rodari, Sr. Furst si è espressa in questi termini: “Prendiamo la questione del diaconato per le donne: perché non deve essere possibile che delle donne vengano incaricate e ordinate per questo incarico nella chiesa? Perché le si esclude? È la paura da parte delle gerarchie che le donne si avvicinino troppo al presbiterato, o addirittura alla funzione di vescovo”. E alla domanda se le donne debbano essere ammesse al presbiterato, la suora risponde: “Posso immaginare che sia possibile, anche se non per ogni donna. Le cose cambiano. Le religiose sono sempre state viste come domestiche del clero. Ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero, e lo diciamo anche”.
O qui c’è malafede oppure Sr. Furst ha cambiato Chiesa. Ciò che lei “può immaginare” glielo lasciamo con gioia, ma non è ciò che la Chiesa insegna. Ora, non è questo certo lo spazio adatto per una “lectio” sul tema: tuttavia, è sufficiente chiarire alcuni punti per comprendere l’eresia della suora.
In sintesi, una premessa: al sacramento dell’Ordine (episcopato, presbiterato e diaconato) la Chiesa latina accosta il carisma del celibato obbligatorio, senza eccezione. Solo per il diaconato “permanente” la Chiesa accetta e tollera i candidati sposati, ma a condizione che venga mantenuta la stabilità nello stato di vita al momento dell’ordinazione (il diacono celibe deve rimanere tale, lo sposato se rimane vedovo, non può accedere a nuove nozze). Il diacono non deve mai tendere ad imitare il presbitero perché egli riceve un mandato che lo legittima ad un “ministero specifico” a servizio di chi ha bisogno nelle comunità.
Il diaconato, dunque, ha le sue radici, fin dal primo secolo, nell’organizzazione ecclesiale del presbiterio a servizio del Vescovo e del presbitero stesso, ma soprattutto è suo il servizio specifico della carità. A Roma, nel sec. III, periodo delle grandi persecuzioni dei cristiani, appare la figura straordinaria di san Lorenzo, arcidiacono del papa san Sisto II e suo fiduciario nell’amministrazione dei beni della comunità. Di lui così ne parla il nostro amato Papa Benedetto XVI: “La sua sollecitudine per i poveri, il generoso servizio che rese alla Chiesa di Roma nel settore dell’assistenza e della carità, la fedeltà al Papa, da lui spinta al punto di volerlo seguire nella prova suprema del martirio e l’eroica testimonianza del sangue, resa solo pochi giorni dopo, sono fatti universalmente noti” (omelia nella Basilica di san Lorenzo, il 30.11.08).
La sacramentalità del diaconato va quindi compresa nella prospettiva unitaria del sacramento dell’Ordine. Una forma di “diaconato” al femminile c’era, è vero, ma già nel secolo X non veniva più praticato in tutta la Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, ed in verità non era mai stato appoggiato dalla Chiesa fin dal secondo secolo.
Ma torniamo alla disobbedienza di queste suore. Il problema non è solo Sr. Furst, ma anche tutta una associazione di suore statunitensi aderenti alla Leadership conference of women religious (Lcwr), la cui battaglia contro i vescovi e Roma è aperta, conclamata. Queste, di recente, hanno ricevuto una condanna da parte della Congregazione per la dottrina della Fede a riguardo delle loro idee stravaganti sull’etica, sulla morale e sui ministeri.
Iniziata già con Paolo VI, l’inquietudine di certe religiose e laiche si era meritata l’attenzione di Giovanni Paolo II. Su un articolo di Avvenire del 1993 leggiamo: “Il Papa riceveva ieri in visita “ad limina” i vescovi americani delle province ecclesiastiche di Baltimora, Washington, Miami e Atlanta. Ancora una volta Giovanni Paolo II ha ripetuto il suo fermo “no” ad ogni ipotesi di aprire alle donne le porte del sacerdozio, come continuano a reclamare molte femministe degli Stati Uniti.
Nello stesso tempo, e per la prima volta in modo così esplicito, ha accusato certe religiose di alimentare un femminismo esasperato e dannoso, in un momento in cui in altri Paesi occidentali le donne cattoliche e le stesse suore impegnate vanno ricercando la via di “rivendicazioni” più realistiche.
In un discorso, il pontefice ha affrontato due temi particolarmente delicati: il ruolo della donna nella Chiesa e la corretta concezione del rapporto fra sacerdozio ordinato e sacerdozio comune, quello cioè dei fedeli battezzati.
La Chiesa – ha affermato – considera i diritti della donna un passo essenziale verso una più giusta e matura società ed essa non può non far proprio questo giusto obiettivo. Ma ha voluto puntualizzare che nella Chiesa vi sono dei limiti. E per indicarli, ha preferito lamentarsi del clima di insoddisfazione che alcuni circoli cercano di rafforzare contro la posizione della Chiesa sul problema femminile ed in particolare sul sacerdozio delle donne, ormai accettato nel mondo anglicano e da altre Chiese cristiane negli Stati Uniti.
Giovanni Paolo II ha invitato a ben distinguere fra i diritti civili e umani di una persona e i diritti, i doveri, il ministero e le funzioni che gli individui hanno o godono all’ interno della Chiesa. Una ecclesiologia manchevole, ha affermato, può facilmente condurre a presentare false questioni o a sollevare false speranze.
Ciò che e’ certo è che la questione non può essere facilmente risolta attraverso un compromesso con un femminismo che si polarizza lungo linee aspre e ideologiche. Non e’ solo il fatto che alcune persone reclamano un diritto per le donne di essere ammesse al sacerdozio nella sua forma estrema: è la stessa fede cristiana che rischia di essere compromessa. Sfortunatamente – ha sottolineato Papa Wojtyla, concludendo – questo tipo di femminismo e’ incoraggiato da alcune persone nella Chiesa, comprese alcune religiose i cui atteggiamenti, convinzioni e comportamenti non corrispondono a ciò che il Vangelo e la Chiesa insegnano. Spetta ai vescovi affrontare la sfida che persone con queste convinzioni rappresentano ed invitarle ad un sincero e onesto dialogo sulle aspettative delle donne nella Chiesa“.
Questa mania anni ‘70 della discussione su tutto, continua ancora a produrre divisione ecclesiale.
Mi si conceda però di fare un appunto che ci porta alla radice di certe contestazioni, nelle quali non c’entra solo il femminismo. A causa di una falsa ermeneutica sull’ecumenismo, che è meglio chiamare “ecu-mania” e che ha imperversato fino a poco tempo fa, siamo stati spettatori impotenti di circostanze al limite del buon senso.
Non c’è dubbio quindi che il fascino di emulare “ecumenicamente” certe situazioni “ministeriali”, già in essere nel mondo protestante, abbia dato forza e linfa alle rivendicazioni di queste suore già ammalate di femminismo. Nonostante il magistero, anche recente, della Chiesa abbia condannato senza mezze misure ogni lettura femminista della dottrina cattolica, escludendo in via definitiva ogni velleità da parte femminile di accedere al sacramento dell’Ordine.
E se queste sorelle, invece di lamentarsi, prendessero esempio da Maria?
Possiamo notare una certa inadeguatezza e sguaiatezza intellettuale da parte di certe religiose che vorrebbero fare la voce grossa, come se fossero “affrancate” da ogni legge. Confesso che è difficile comprendere certe pretese e certa disinvoltura intellettuale da parte di queste religiose moderniste-femministe! C’è stato in molte di loro un grave cambiamento che sta pregiudicando il carisma dei fondatori o fondatrici degli ordini religiosi a cui appartengono.
Mi ritengo fortunato per la testimonianza di santità di ieri e di oggi, che ho potuto cogliere in molti membri di ordini e congregazioni religiose; ma proprio per questo, non è possibile minimizzare il danno che sta provocando una Sr. Furst, o quello dell’Associazione delle religiose ribelli in America, come pure quello di quanti nella Chiesa le sostengono!
Dice Benedetto XVI, il Papa emerito: “La Chiesa è stata sempre riformata dalla santità, non dalla ribellione”. La suora in quanto tale, proprio perché ha assunto come modello principale ed assoluto la Beata Vergine Maria, non ha alcun diritto di ribellarsi alla Chiesa. Del resto, cosa è la vocazione religiosa? È una chiamata di Dio, è vero, ma è anche molto di più: è un rapporto materno particolare ed unico con il Signore.
Vediamo un po’ di storia. Le suore (termine latino che significa “sorelle”) di “vita attiva” si svilupparono nel XVI sec. quando l’attività evangelizzatrice della Chiesa cominciò ad espandersi, oltre che in Europa e nel Vecchio continente, anche nelle terre d’oltre Oceano; lo scopo era quello di occuparsi delle attività caritative, affiancandosi ai sacerdoti missionari, spesso diventati poi fondatori di congregazioni e santi. Ben presto si moltiplicarono e, in una forma allora nuova per la Chiesa, si prodigarono, oltre che alle opere caritative, anche nell’attività più impegnativa dell’insegnamento. Fino ad allora erano i laici aggregati alle Confraternite o agli Ordini Terziari ad occuparsi di tali attività.
Pochi forse sanno però che, prima delle suore di vita attiva, furono fondate, e presenti nella Chiesa, le monache di clausura. Lo stesso san Benedetto intorno al 500, e altri santi fondatori, nel dare vita agli ordini maschili, si prodigarono perché fosse presente anche il ramo femminile, a cui affidare una interrotta lode a Dio. Papa Paolo VI a chi gli chiese “perché farsi monaca di clausura?”, rispose: “È necessario che ci siano al mondo persone che trattino il Signore da Signore”.
La monaca di clausura in particolare è colei che ha avuto la chiamata di vivere alla lettera il messaggio evangelico. Essa ha Maria quale modello di vita silenziosa e nascosta, tuttavia mai oziosa e mai distaccata dalla missione terrena del Figlio. La monaca di clausura è presente nella vita di ogni uomo perché il suo umile “Si” si è fuso nel “Si” di Maria: se Maria è in attesa del Figlio di Dio per la salvezza dell’umanità, la monaca di clausura è in “attesa” della ri-nascita spirituale di ogni uomo, vivendo attraverso e mediante il sacrificio di Gesù sulla Croce. Ecco perché il silenzio, la dura disciplina, l’Eucarestia, sono il fulcro della vita claustrale, così come lo sono per tutta la Chiesa, così come dovrebbe esserlo anche per noi, seppur nei modi propri a ciascuna scelta di vita. Le suore di clausura, perciò, sono sì “separate” ma mai “divise” dal resto del mondo; nel silenzio delle loro mura, sono il battito del cuore orante perpetuo della Chiesa; sono la sua linfa, attaccata ai tralci i quali, a loro volta e come ci dice il Cristo, sono attaccati all’intera Vite, cioè Lui stesso, “pietra angolare” della Chiesa, su cui poggiano le sue fondamenta. Famosa, in proposito, e profondamente vera, risuona la frase programmatica di santa Teresina del Bambin Gesù: “Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò l’amore”. Altro che l’attuale contestazione, ribellione, disobbedienza, esibizionismi, e ore passate in internet e su Facebook!
Tornando a Sr. Furst: c’è un’altra frase, già riportata, che merita comunque una spiegazione. Dice la suora: “Le religiose sono sempre state viste come domestiche del clero. Ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero, e lo diciamo anche”.
Non conosco la fondatrice o il fondatore della Congregazione a cui appartiene questa suora, ma so per certo che questo termine “domestiche” non può corrispondere a verità. Quindi lo ripeto: o c’è mala fede o c’è ignoranza.
Gesù venne “per servire”, lo ha ampiamente dimostrato: e su questo carisma della Chiesa, Papa Francesco ha ampiamente dimostrato di poggiare il suo ministero pastorale.
Ora se il presbitero “serve” il Signore attraverso il ruolo pastorale che gli è proprio, la “monaca di clausura” attraverso atti che sono propri della sua professione monastica, quali il “quaerere Deum” con la preghiera, l’obbedienza, la povertà e castità, “donando” cioè l’intera sua vita, la “suora” di vita attiva lo fa attraverso una maternità che è propria del servire i figli rigenerati dalla Chiesa mediante il Battesimo, lo fa concretamente attraverso l’insegnamento, la catechesi, il servizio a favore dei malati, dei poveri, nelle Case Famiglia -che si occupano di bambini abbandonati, ragazze madri, ecc - e in tutti gli altri compiti specifici previsti dalle Congregazioni in cui sono state chiamate secondo la volontà di Dio.
Nella consacrazione di ognuna di loro (come anche per le donne spose e madri, così come per le “consacrate” laiche non sposate) c’è alla base l’essere “serve” proprio sul modello della Beata Vergine Maria che disse: “L’anima mia magnifica il Signore (…) perché ha guardato l’umiltà della sua ancella, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata…”.
Penso: come fa Sr. Furst, cantando il Magnificat ogni sera ai Vespri, a pronunciare quella parola “ancella” e poi affermare una balordaggine simile: “…ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero”?
C’è invece da sottolineare, in tutta onestà, quanta libertà ci sia nel consacrarsi e nel servire il Signore. Le suore, le monache, per il loro carisma, sono votate infatti ad una autentica libertà che non è altro che un assaggio, ma anche una prova in questo mondo, di quella pienezza promessa da Nostro Signore a chi, lasciando tutto, ma proprio tutto, si sarebbe fatto servo dei servi di Cristo.
Vi ricordate chi usava molto questa frase? Santa Caterina da Siena. La patrona d’Italia scriveva: “Io Catharina, serva dei servi (i Presbiteri, i Vescovi, il Papa) di Cristo, nel Suo preziosissimo Sangue, voglio!…”. Come fa una monaca, una suora oggi, a rigettare tale grande chiamata, rifiutare quel “fiat” con il quale la Beatissima Vergine Maria fu la prima serva, correndo dalla cugina Elisabetta per portarle il suo aiuto, per servirla?
Non diciamo che un tale decadimento è colpa del Concilio… Qui il Concilio non c’entra nulla.
Le avvisaglie erano state colte da tempo. Già Paolo VI, infatti, nell’omelia del 30 giugno 1968, per la chiusura dell’Anno della Fede e prima di pronunciare il solenne Atto di Fede della Chiesa (che sarebbe bene riproporre anche nel corrente Anno della Fede!), disse: “Noi siamo coscienti dell’inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. […] Pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli.”
Scriveva Giovanni Paolo II: “Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. È per questo che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere. (…) il mio Predecessore Paolo VI ha esplicitato il significato di questo «segno dei tempi», attribuendo il titolo di Dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena, ed istituendo, altresì, su richiesta dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971, un’apposita Commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei riguardanti la «promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle donne». In uno dei suoi discorsi Paolo VI disse tra l’altro: “Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti (…); appare all’evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità” (discorso citato nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II, n.1).
Nella Lettera ai Vescovi dell’allora cardinale Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, sulla collaborazione fra l’uomo e la donna, così esordisce: ” Esperta in umanità, la Chiesa è sempre interessata a ciò che riguarda l’uomo e la donna. In questi ultimi tempi si è riflettuto molto sulla dignità della donna, sui suoi diritti e doveri nei diversi settori della comunità civile ed ecclesiale. Avendo contribuito all’approfondimento di questa fondamentale tematica, in particolare con l’insegnamento di Giovanni Paolo II, la Chiesa è oggi interpellata da alcune correnti di pensiero, le cui tesi spesso non coincidono con le finalità genuine della promozione della donna“.
Quali sono queste “correnti di pensiero” che non coincidono con l’autentica promozione della donna? Eccole, nei passaggi salienti del suddetto documento:
a) “Una prima tendenza sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della donna, allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione. La donna, per essere se stessa, si costituisce quale antagonista dell’uomo. Agli abusi di potere, essa risponde con una strategia di ricerca del potere. Questo processo porta ad una rivalità tra i sessi, in cui l’identità ed il ruolo dell’uno sono assunti a svantaggio dell’altro, con la conseguenza di introdurre nell’antropologia una confusione deleteria che ha il suo risvolto più immediato e nefasto nella struttura della famiglia.
b) Una seconda tendenza emerge sulla scia della prima. Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa”.
“L’utero è mio e lo gestisco io” di infelice memoria, nel cuore della protesta femminista degli anni ’60, non ha fatto altro che offuscare il ruolo della donna facendola precipitare in una pietosa solitudine sfociata in una ribellione contro l’uomo. La prima vittima di questa assurda ed incomprensibile rivendicazione è stata proprio la donna stessa, il suo ruolo, la famiglia, la vita umana, i figli concepiti che vengono uccisi (per legge) per rivendicare una libertà che è diventata una autentica schiavitù del nostro tempo. Vittima di se stessa anche la società, che ha permesso la deriva dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità sull’identità dell’essere maschio e dell’essere femmina. Se è vero che la donna ha dovuto combattere contro una certa misoginia dura a morire, è anche vero che nessuna suora o monaca (ma neppure una donna laica) può accusare la Chiesa di essere misogina, rispondendo ad una sua inquietudine, sollevando la bandiera del femminismo più sfrenato dalla presunzione di azzerare o equiparare, al fine annullandole, l’identità delle persone e dei ruoli.


(Ma.La. da una ricerca a firma Dorotea Lancellotti, Papalepapale, 1/2013)
 

giovedì 4 aprile 2013

Il vescovo di Roma e le conferenze episcopali

E se, contrariamente a quanto stabilito dall’onda mediatica, gli ostacoli più coriacei all’azione del nuovo Pontefice non sorgessero nella curia romana ma nel resto dell’Orbe cattolico? Certo, è sin troppo facile ipotizzare la resistenza della burocrazia vaticana a qualsiasi genere di riforma che ne metta in dubbio la conservazione. Ma quante burocrazie simili si trovano nel resto del mondo ecclesiale? Basta immaginare, anche solo approssimativamente, a quante sono le Conferenze Episcopali nazionali e regionali che da decenni vivono di vita propria o quasi, spesso come se Roma non esistesse.
La burocrazia è sempre una brutta bestia per qualsiasi innovatore. Figuriamoci quando si manifesta in centinaia di esemplari che ormai hanno preso a funzionare al contrario rispetto al compito originario. Pensate e nate come cinghia di trasmissione del governo romano nelle più diverse regioni, le Conferenze Episcopali si sono trasformate in organismi che si permettono di dare i voti a Roma. Anzi, letteralmente, si permettono di mettere ai voti quanto stabilito da Roma. E non si parla di qualche sperduta Conferenza sperduta in qualche regione equatoriale.
Basta pensare alla Conferenza Episcopale Italiana, l’unica ad avere un presidente che non viene eletto dai propri membri, ma nominato direttamente dal Papa. Una sicurezza, verrebbe da dire. Eppure, nel non lontano 2010, la Cei mise ai voti l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino che, su indicazione del Papa, chiedeva che nei messali nazionali venisse sostituita la traduzione «per tutti» con il più corretto «per molti» nella formula di consacrazione del Sangue di Nostro Signore là dove il testo latino recita «pro multis». Risultato: su 187 votanti, solo 11 si espressero a favore di quanto chiesto per conto del Papa.
Al di là del merito, evidentemente gravissimo, in vista di quanto dovrà fare il nuovo Pontefice, non si può tacere il metodo. E se tale metodo viene adottato in Italia per una materia così delicata come la formula di consacrazione delle specie eucaristiche, viene da pensare che cosa può accadere nel resto del mondo per altre questioni, a cominciare da quelle morali. È di poco più di un mese fa la notizia che la Conferenza Episcopale Tedesca, presieduta da monsignor Robert Zoellitsch, ha espresso parere favorevole all’uso della cosiddetta pillola del giorno dopo per le donne che lo richiedano dopo essere state vittime di una violenza.
Ma la resistenza a cui dovrà far fronte un’eventuale azione del nuovo Pontefice non riguarda solo le materie dei singoli casi, quanto l’origine di tale atteggiamento. Ormai le Conferenze Episcopali si sono trasformate in organismi che puntano alla propria sopravvivenza esprimendo a maggioranza una linea dalla quale non è possibile deflettere e usurpando i singoli vescovi di quella autonomia che aveva sempre caratterizzato la loro azione. Sottratto di fatto il rapporto con Roma, un vescovo finisce per adattarsi alla linea decisa in una seduta plenaria o in qualche commissione di cui magari non conosce neppure l’esistenza e il funzionamento. Tutto questo, lungi dall’essere uno strumento che sorregge e rafforza l’azione del Papa, si mostra sempre di più un ostacolo all’effettivo governo della Chiesa.
Il fatto che Francesco I insista sulla sua qualità di vescovo di Roma potrà forse aiutarlo nei rapporti con la Conferenza Episcopale Italiana, di cui deve nominare il presidente. Ma viene da chiedersi se porre l’accento su questo aspetto non lo metta in una difficoltà ancora maggiore rispetto alle altre Conferenze Episcopali. A meno che, in nome e per conto della povertà francescana che pare aver improvvisamente conquistato un consenso unanime dentro e fuori la Chiesa, le Conferenze accettino di auto smantellarsi e risparmiare sul costo dei tanti uffici che mantengono. Ma arriverà a tanto il carisma di Papa Francesco? (


(Fonte: Leandro Mariani, Corrispondenza romana, 23 marzo 2013)