giovedì 28 febbraio 2013

28 febbraio 2013: Il saluto di congedo di Benedetto XVI: commozione tra i cardinali

È arrivato con qualche minuto di ritardo, accolto dal lungo applauso dei cardinali riuniti nella Sala Clementina. Papa Benedetto XVI si è presentato per quello che, con ogni probabilità, sarà l'ultimo atto del suo pontificato: l'udienza di congedo dai 'principi della Chiesa', coloro che saranno chiamati tra qualche giorno ad eleggere il successore, a cui Ratzinger ha promesso sin d'oggi la sua “obbedienza”.
Una cerimonia semplice, aperta da un breve saluto del Decano del Sacro Collegio, il cardinale Angelo Sodano, che ha espresso ancora una volta la gratitudine dei porporati per il cammino compiuto a fianco del papa negli ultimi otto anni. Incerto il numero totale delle porpore presenti, ma sicuramente più delle settanta arrivate ieri in piazza San Pietro per l'ultima udienza generale.
Anche se non era previsto dal programma ufficiale dell'incontro, papa Ratzinger ha voluto lasciare ai cardinali un ultimo appello all'unità della Chiesa. Ai cardinali, il papa ha chiesto di essere uniti così che il Collegio che eleggerà il suo successore possa diventare “come un'orchestra, dove le diversità, espressione della Chiesa universale, concorrano sempre alla superiore e concorde armonia”.
Un invito all'unità che il pontefice ha poi ribadito citando il pensiero di uno dei teologi a lui più cari, Romano Guardini: “La Chiesa non è un'istituzione escogitata e costruita a tavolino ma una realtà vivente. Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire come ogni essere vivente, trasformandosi. Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, il suo cuore è Cristo”.
Benedetto XVI ha promesso di pregare nei prossimi giorni per il Conclave. “Tra voi, tra il Collegio Cardinalizio – ha aggiunto -, c'è anche il futuro papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza”.
Poco prima, il pontefice è tornato su alcuni dei punti affrontati durante l'udienza generale di ieri in piazza San Pietro, un incontro che ha permesso di toccare con mano come la Chiesa sia “un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo, e vive veramente dalla forza di Dio”.
“La vostra vicinanza, il vostro consiglio – ha detto il pontefice ai porporati – mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero. In questi otto anni abbiamo vissuto con fede momenti bellissimi di luce radiosa nel cammino della Chiesa, assieme a momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo”.
Al termine del discorso del papa, i cardinali sono lentamente sfilati di fronte al papa per un baciamano e qualche breve parola di saluto. Dopo di loro, anche i capi dicastero vaticani che non hanno la porpora, come il prefetto dell'ex-Sant'Uffizio, e altri monsignori di Curia, hanno potuto rivolgere un breve saluto a Ratzinger. Poi il pontefice ha girato le spalle, pronto per la sua nuova vita “nascosto dal mondo”.
 
(Fonte: Alessandro Speciale, Vatican Insider, 28 febbraio 2013)


 

GRAZIE PADRE SANTO
PER I TUOI INSEGNAMENTI
PER LA TUA UMILTA'
PER LA TUA SPIRITUALITA'
PER IL TUO ESEMPIO
PER LA TUA VITA 
 
RIMARRAI SEMPRE
NEL NOSTRO CUORE DI FIGLI!
 



 

Il cardinale che ama la fede simbolica e il potere reale

Questo ritrattino del cardinale Gianfranco Ravasi inizia con la seguente dichiarazione d’intenti. Dato che il sunnominato cardinale figura tra i papabili più amati dai media per il prossimo conclave e dato che nel corso degli anni ha dato prova di scivolare malamente su questioni dottrinali di capitale importanza, non si vorrebbe che l’eventuale elezione a Pontefice andasse a ricoprire con il sigillo dello Spirito Santo tutto ciò che il Nostro ha detto e fatto in questi decenni.
Detto questo, il ritrattino inizia con la citazione di un giornalista che di sicuro non gli è ostile. Giusto un anno fa, il 28 febbraio, su “Europa”, Aldo Maria Valli descriveva il cardinale Ravasi così: «(…) firma articoli su giornali e riviste di ispirazione cristiana ma anche su testate laiche come “Il Sole 24Ore” (dove ha un seguitissimo blog), è spesso al centro di iniziative culturali (l’ultima, in ordine di tempo, la “Biblioteca universale cristiana” promossa dal settimanale dei Paolini e aperta con un volume, Che cos’è l’uomo?, firmato, manco a dirlo, dallo stesso Ravasi), gira le università di mezzo mondo per promuovere il “Cortile dei Gentili” (una sorta di nuova Cattedra dei non credenti voluta da Benedetto XVI), passa con disinvoltura da una tavola rotonda a una conferenza, scrive recensioni a getto continuo, pubblica libri a ritmi vertiginosi, conduce trasmissioni tv e, non contento, è stato il primo cardinale ad adottare Twitter come abituale strumento di comunicazione diventando in poco tempo un punto di riferimento per tantissimi followers (quasi 14 mila) non solo cattolici, non solo cristiani e non solo credenti. (…) Ma come fa a produrre così tanto?», gli ho chiesto una volta. «Semplice» – ha risposto con understatement – «dormo pochissimo e di notte scrivo».
Ma la domanda da fare sarebbe stata un’altra: Con tutti questi impegni come fa, eminenza, a trovare tempo anche per pregare? O per dir Messa? O per confessare? O per visitare gli infermi? O per assistere i poveri? O per fare il catechismo?. A meno che l’egregio Aldo Maria non abbia trovato come risposta uno dei numerosissimi libri del Cardinale, che si intitola Cinque minuti con Dio. Basta solo fare due conti. La libreria online Amazon accredita a Ravasi 325 titoli. Anche eliminando eventuali ristampe e doppioni, si scende a circa 250 titoli: se il cardinale ha cominciato a produrre appena uscito dalla terza ginnasio saltando la fase delle poesie adolescenziali, fanno 4 libri e rotti all’anno. E che libri. Per fare un esempio, nel suo recente Guida ai naviganti (Mondadori), quando parla del peccato originale, dice che si tratta soltanto di «un’apparente narrazione storica».
E spiega che tale narrazione contiene «eventi e una trama, che hanno però un valore simbolico, filosofico-teologico, quindi sapienziale ed esistenziale». Insomma, il libro della Genesi non intenderebbe «spiegare cosa sia successo alle origini, ma (…) individuare chi è l’uomo nel contesto della creazione: (…) Si risale all’archetipo (…) non per narrare cosa sia accaduto nel processo di ominizzazione in senso scientifico o per scoprire gli atti di un singolo individuo primordiale, ma per identificare nella sua radice iniziale lo statuto permanente di ogni creatura umana».
C’è da chiedersi che fine faccia il principio cardine della dottrina cattolica, riaffermato con forza da Pio XII, secondo il quale tutto il genere umano ha la sua – reale e storica, altro che simbolica – origine in una comune coppia di progenitori, i quali realmente si macchiarono della colpa originale, e realmente, per via genetica, trasmisero il peccato originale a ogni uomo di ogni tempo. Senza questa verità, la dottrina del peccato originale, e quindi della redenzione di Cristo, evapora. Il 31 marzo del 2002, fece scalpore, e forse costò al Nostro il ritardo nella nomina episcopale, un articolo pubblicato sull’inserto culturale del “Sole 24Ore” con il titolo Non è risorto, si è innalzato. Si era a ridosso della Pasqua e, naturalmente, si parlava di Gesù. Ne seguì una polemica e, come accade sempre in questi casi, tutta la colpa ricadde sul povero titolista.
Ma nell’articolo si leggeva: «L’ascensione-esaltazione-innalzamento non è, quindi, da concepire in termini materialistici o “astronautici”, ma secondo categorie metafisiche e teologiche: fra l’altro, in tutte le culture il cielo è l’area della divinità perché trascende l’orizzonte terreno, è il simbolo della superiorità e diversità di Dio rispetto all’uomo. (…) Ora comprendiamo perché gli evangelisti si sono rifiutati di ridurre quello che avviene al sepolcro di Cristo entro i confini di una rianimazione di cadavere e siano invece ricorsi a linguaggi più profondi e simbolici».
Insomma, che i Vangeli narrino fatti storici, al Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura proprio non va giù. Tanto da censurare persino il Papa. Lo ha fatto nell’introduzione all’edizione illustrata del Gesù di Nazaret di Benedetto XVI. Là dove il Papa nella prima edizione scriveva «Ho voluto tentare di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio», Ravasi riportava solo mezza frase: «Ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale». Il Gesù storico è sparito con questo commento: «Notiamo l’aggettivo “reale”: non è automaticamente sinonimo di “storico”, perché noi sappiamo che molti eventi non sono registrati, suscettibili d’essere documentati e verificabili storicamente, anche se risultano profondamente reali. In Gesù coesistono varie dimensioni, storiche, mistiche e trascendenti».
Anche sulla questione omosessuale pare che il cardinale Ravasi abbia, o almeno abbia avuto, idee, per così dire, eccentriche rispetto al magistero. Nel 2004, l’editrice Ancora pubblicò un libro di don Domenico Pezzini, noto allora per essere animatore del gruppo di omosessuali credenti “La fonte” e più tardi per una condanna a dieci anni di carcere per violenza sessuale su un giovane immigrato. Il libro si intitolava Le mani del vasaio. Un figlio omosessuale: che fare? e sosteneva tesi piuttosto ardite, tanto da dover essere riscritto per intere parti a causa delle forti proteste del mondo cattolico e della stessa Congregazione per la dottrina della fede.
Il libro di don Pezzini riportava la prima versione, quella contestata, ma l’allora monsignor Ravasi elogiò il lavoro di don Pezzini sul solito “Sole 24Ore” e anche sul mensile cattolico “Letture”, dove scrisse: «Tre sono le stelle che orientano il suo impegno, e che si riflettono anche in queste pagine: accogliere, comprendere, aiutare. Detta così, questa trilogia sembra generica e moralistico-paternalistica; la lettura delle pagine del libro e le testimonianze finali, compreso il bel messaggio del Comitato pastorale statunitense per il matrimonio e la famiglia».
A coronamento di tutto questo non è possibile non citare “Il cortile dei Gentili”, la ribalta universale con quale Ravasi celebra il suo incontro con il mondo. Qui tiene le liturgie mediatiche in cui compare nelle vesti di gran sacerdote della resa del cattolicesimo alla debolezza del pensiero mondano. Ma lo fa con grandeur, con charme, come si conviene al vero trionfatore postmoderno. Da gran principe del “cattolicismo”, ha predicato pubblicamente gli esercizi all’ateo presidente della repubblica Giorgio Napolitano: contraltare laico della predicazione degli esercizi spirituali al Papa appena terminata. Per farsi un’idea del “Cortile” conviene farsi un giretto nel suo sito internet. Non fosse che per ascoltare l’inno, che si intitola Tu ignoto e propone ritornelli come questo : «Tu Ignoto, Tu Ignoto,/ chi sei, da dove vieni?/ Tu Ignoto, Tu Ignoto,/ sono io simile a Te o forse Tu a me?/ Tu Ignoto, Tu Ignoto,/ parliamo un poco e camminiamo insieme». Da un aspirante Papa, ci si aspetterebbe che ci facesse fischiettare qualche certezza in più.
 

(Fonte: Leandro Mariani, Corrispondenza Romana, 27 febbraio 2013)


Quel “Cortile dei Gentili” che Benedetto XVI non ha suggerito né caldeggiato

Il Card. Ravasi avrebbe dato come fine al suo famoso “Cortile dei Gentili” quello di essere il "laboratorio di un dialogo di pari dignità tra atei e credenti che purifichi gli atteggiamenti profondi di entrambi nei confronti di Dio e della fede".
Ora mi sembra che qui il Cardinale confonda la dignità delle persone con la dignità delle idee. E’ ovvio che tutte le persone, credenti o atee, hanno pari dignità di persone come esseri dotati di ragione, parimenti chiamati alla salvezza, ma questo non vuol dire assolutamente che le idee dei credenti abbiano “pari dignità” delle idee degli atei. Questo è un grave pregiudizio relativista oggi purtroppo assai diffuso e meraviglia molto di trovarlo sulla bocca di un Porporato circa il quale molti fanno il nome come auspicabile nuovo Pontefice.
Infatti ormai da più di due secoli, con l’affermarsi del diritto alla libertà di coscienza e di religione nella sua versione liberal-illuministica favorevole all’indifferentismo ed alla relativizzazione di tutte le religioni, effetto, questo, del soggettivismo e particolarismo protestanti, si è diffusa nella cultura ed oggi in certi ambienti cattolici “avanzati” l’idea che la convinzione dell’esistenza di Dio e quindi la fede cristiana non sono un sapere oggettivo con diritto di essere da tutti accolto e pubblicamente riconosciuto, ma una semplice opinione più o meno particolare o soggettiva tra altre anche opposte, comprese l’irreligiosità e l’ateismo, di pari dignità, parimenti rispettabili e legalmente riconosciuti dalla società civile e dallo Stato.
Ora qui dobbiamo fare un’importante distinzione da una parte fra il diritto civile alla libertà religiosa e dall’altra il valore oggettivo della religione come virtù naturale, comprendente l’idea dell’esistenza di Dio nonché la religione soprannaturale, ossia la fede cristiana. Davanti allo Stato moderno, laico e pluralista, nato dalla collaborazione di credenti e non-credenti (vedi per esempio gli Stati Uniti, la Francia o la nostra Costituzione Italiana), ogni religione o idea religiosa sono legittime ed ammesse, cattolica o non cattolica, compreso lo stesso agnosticismo religioso, salvo il rispetto delle norme fondamentali della convivenza civile stabilite dalla Carta Costituzionale e dai diritti universali dell’uomo (vedi ONU). Tale principio è riconosciuto anche dal Concilio Vaticano II (dichiarazione Dignitatis humanae).
Ma la questione in se stessa del valore della religione e in questo caso dell’idea dell’esistenza di Dio, ossia la questione del teismo o del monoteismo non può assolutamente esser ristretta od omologata a questo ambito, che non entra propriamente nella specificità del problema stesso, ma la sua soluzione spetta alla Chiesa, al di fuori e al di sopra dei termini riservati alla competenza dello Stato e della società civile. Abbiamo infatti qui l’altro essenziale termine della distinzione su annunciata ed è il valore della religione questa volta non relativamente al bene dello Stato, ma alla salvezza dell’umanità, e quindi di competenza della Chiesa.
È questo non il punto di vista dello Stato che tutto sommato non ha autorità di determinare il vero in fatto di religione e soprattutto di religioni rivelate qual è il cattolicesimo, ma è il punto di vista dello stesso cattolicesimo. Da tale punto di vista è evidente per ogni cattolico che teismo o ateismo, fede o incredulità non sono due opinioni entrambe legittime come altre, due optional dove ognuno può scegliere ciò che preferisce senz’alcuna conseguenza importante, positiva o negativa che sia, rispetto alla scelta compiuta.
D’altra parte i valori veri, secondo una visione liberal-indifferentista sarebbero altrove: starebbero nella semplice possibilità di essere liberi e di pensare ciò che si vuole indipendentemente da regole o valori oggettivi religiosi “non-negoziabili”, che non esistono, essendo la verità non un dato oggettivo ed universale ma solo l’effetto di una decisione soggettiva volontaristica (il cogito-volo cartesiano del quale parla Cornelio Fabro).
Bisogna invece ricordare che teismo ed ateismo non sono affatto idee di “pari dignità”, ma occorre dire con tutta la forza possibile, anche sulla scorta dell’importante insegnamento del Concilio Vaticano II, che mentre il teismo è fondato su incontrovertibili prove razionali, l’ateismo è “uno dei fenomeni più gravi del nostro tempo”, quindi niente affatto fondato in ragione, anche se il Concilio, con grande magnanimità e saggezza pastorale, esorta ed indagare, studiare e comprendere quali possono essere i motivi profondi, certo irragionevoli ma pur sempre motivi, che “si nascondono nella mente degli atei”, non per lasciare gli atei nelle loro storte idee, ma al contrario per poterli aiutare a correggersi, a ravvedersi e ad accettare di cuore con convinzione le ragioni inconfutabili e certissime che viceversa conducono la mente umana a sapere che Dio esiste, per poter poi trarre le vitali conseguenze morali che da tale certezza discendono ai fini della salvezza.
Il grave rischio di un certo dialogo tra credenti e non credenti o tra cattolici e non cattolici è oggi quello di un cincischiare inconcludente, di un girare a vuoto o di un menare il can per l’aia, accompagnando il tutto con stereotipate e consunte formule pietistiche di circostanza (“preghiamo per l’unità”…), sotto pretesto dell’evidenziamento di ciò che ci unisce o magari per renderci simpatici, dimenticando che un accordo non fondato su comuni condivise verità non solo non ha nessun valore ma è dannoso per entrambi i dialoganti ai fini di una corretta e salutare vita morale (Probabilmente lo Spirito Santo suggerisce segretamente a questi ecumenisti e dialoganti escursionisti, esibizionisti, confusionisti ed inconcludenti: “Datevi da fare a correggere errori ed eresie ed Io mi farò vivo! Non fatemi venire il latte alle ginocchia! Finitela con i salamelecchi e le sfilate in costume e cominciate a fare sul serio!”).
Per questo bisogna dire a chiare lettere che il dialogo che il credente deve portare avanti con l’ateo, se da una parte deve cogliere comuni valori o verità razionali sulla base del fatto che l’uno e l’altro sono esseri razionali, dall’altra tale dialogo richiede da parte del credente che nei dovuti modi, tempi e circostanze – opportune et importune – egli, con convincenti argomentazioni, fine tatto ed autentica testimonianza di carità, sappia guidare il non credente o l’ateo alla conoscenza di Dio in vista di un rapporto con Dio che possa essere fruttuoso ed utile per la sua salvezza, mentre d’altra parte richiede nel non credente la rinuncia ad ogni orgoglio e una sincera apertura alla verità.
Ciò che va purificato, quindi, non è il convincimento del teista in quanto tale, ma quello dell’ateo. Anzi l’atteggiamento dell’ateo, più che “purificato” (come se fosse qualcosa di sostanzialmente buono che abbia delle impurità da togliere), va semplicemente soppresso e sostituito dalla fede in Dio. Sarebbe come parlare della purificazione di una malattia: va curata e basta, per vivere.
Certo questo non significa che qualunque errore non abbia una parte di verità che può essere recuperata, ma l’ateismo in quanto tale è un errore che come tale va semplicemente respinto: non vi sono aspetti positivi da recuperare, se non forse l’esigenza di un assoluto, con la caratteristica che nell’ateismo l’assoluto è l’uomo anziché Dio, ma l’ateo tuttavia, almeno nelle sue dichiarazioni, respinge ogni idea di assoluto, appunto perché gli richiama l’idea di Dio.
Il convincimento teistico, al contrario, benché accidentalmente possa essere purificato in soggetti non sufficientemente preparati, è sostanzialmente un pensiero purificatore. Il parlare quindi di una “purificazione” di entrambe le convinzioni sia pur orientandole a Dio, mette senza discrezione sullo stesso piano la verità e l’errore, la fede e l’incredulità, cosa che non ha nessun senso e rispecchia una mentalità doppia la quale, per parlare col Vangelo, vorrebbe servire due padroni, contro il perentorio comando del Cristo: “Il vostro parlare sia sì sì no no; il resto appartiene al diavolo”.
Il dialogo teismo-ateismo non è uno scambio di idee tra amici alla pari, con sorrisi, pacche sulle spalle e lodi reciproche, ma va paragonato al rapporto medico(teista)-paziente(ateo), per quanto ciò possa sembrare umiliante per l’ateo. Ma se costui non si ritiene passibile di essere corretto, il dialogo diventa inutile e una perdita di tempo. Certo non deve mancare la cordialità, ma soprattutto non deve mancare la serietà, sincerità e il senso di responsabilità. Non si può escludere a priori la possibilità dello scontro, se c’è in gioco la verità. Meglio la franchezza che una cortesia equivoca e falsa.
Se il credente inoltre dev’essere caritatevole, comprensivo e tollerante verso il non-credente, la fede del credente non può essere un palleggiamento o un barcamenarsi, come si è espresso infelicemente anche il Card. Martini, tra il credere e il non-credere, tra il sì e il no, ma dev’essere atteggiamento chiaro, fermo e deciso di adesione alla verità della Parola di Dio a qualunque costo, fosse pur quello della vita. La fede dei martiri non è certo quella che intende il Card. Martini.
La vera fede che ci insegna il Vangelo è la base di un dialogo proficuo tra credente caritatevole e non credente onesto, che non sia un gioco a rimpiattino dove ci si può permettere di saltellare allegramente da incoscienti tra una mossa e l’altra, mentre nel suddetto dialogo la posta in gioco è troppo alta perchè ci si possa prendere il lusso di mettere repentaglio l’anima propria e quella di chi ci ascolta.
 

(Ma.La. da: P. Giovanni Cavalcoli, Il Cortile dei Gentili, in Riscossa Cristiana, 27 febbraio 2013)


sabato 23 febbraio 2013

Per ricostruire dalle fondamenta

1. La vicenda culturale dell’Occidente è giunta al suo capolinea: una grande promessa largamente non mantenuta. I fondamenti sui quali è stata costruita vacillano, perché il paradigma antropologico secondo cui ha voluto coniugare i grandi vissuti umani [per esempio l’organizzazione del lavoro, il sistema educativo, il matrimonio e la famiglia …] è fallito, e ci ha portato dove oggi ci troviamo.
Non è più questione di restaurare un edificio gravemente leso. E’ un nuovo edificio ciò di cui abbiamo bisogno. Non sarà mai perdonato ai cristiani di continuare a essere culturalmente irrilevanti.
2. È necessario avere ben chiaro quali sono le linee architettoniche del nuovo edificio; e quindi anche quale profilo intendiamo dare alla nostra comunità nazionale. Ve lo indico, alla luce del grande Magistero di Benedetto XVI.
- La vita di ogni persona umana, dal concepimento alla sua morte naturale, è un bene intangibile di cui nessuno può disporre. Nessuna persona può essere considerata un peso di cui potersi disfare, oppure un oggetto – ottenuto mediante procedimenti tecnici [procreazione artificiale] – il cui possesso è un’esigenza della propria felicità.
- La dicotomia Stato–Individuo è falsa perché astratta. Non esiste l’individuo, ma la persona che fin dalla nascita si trova dentro relazioni che la definiscono. Esiste pertanto una società civile che deve essere riconosciuta.
Lo Stato è un bene umano fondamentale, purché rispetti i suoi confini: troppo Stato e niente Stato sono ugualmente e gravemente dannosi.
- Nessuna civiltà, nessuna comunità nazionale fiorisce se non viene riconosciuto al matrimonio e alla famiglia la loro incomparabile dignità, necessità e funzione. Incomparabile significa che nel loro genere non hanno uguali. Equipararle a realtà che sono naturalmente diverse, non significa allargare i diritti, ma istituzionalizzare il falso. «Non parlare come conviene non costituisce solo una mancanza verso ciò che si deve dire, ma anche mettere in pericolo l’essenza stessa dell’uomo» [Platone].
- Il sistema economico deve avere come priorità il lavoro: l’accesso al e il mantenimento del medesimo. Esso non può essere considerato una semplice variabile del sistema.
- Il mercato, bene umano fondamentale, deve configurarsi sempre più come cooperazione per il mutuo vantaggio e non semplicemente come competizione di individui privi di legami comunitari.

- Tutto quanto detto sopra è irrealizzabile senza libertà di educazione, che esige un vero pluralismo dell’offerta scolastica pubblica, statale e non statale, pluralismo che consenta alle famiglie una reale possibilità di scelta.
3. Non possiamo astenerci dal prendere posizione su tali questioni anche mediante lo strumento democratico fondamentale del voto. La scelta sia guidata dai criteri sopraindicati, che sintetizzo: rispetto assoluto di ogni vita umana; costruzione di un rapporto giusto fra Stato, società civile, persona; salvaguardia dell’incomparabilità del matrimonio – famiglia e loro promozione; priorità del lavoro in un mercato non di competizione, ma di mutuo vantaggio; affermazione di una vera libertà di educazione.
Se con giudizio maturo riteniamo che nessun programma politico rispetti tutti e singoli i suddetti beni umani, diamo la nostra preferenza a chi secondo coscienza riteniamo meno lontano da essi, considerati nel loro insieme e secondo la loro oggettiva gerarchia.
4. Raccomando ai sacerdoti e ai diaconi permanenti di rimanere completamente fuori dal pubblico dibattito partitico, come richiesto dalla natura stessa del ministero sacro e da precise norme canoniche.
5. Invochiamo infine con perseveranza e fede i santi patroni d’Italia Francesco e Caterina da Siena affinché, per loro intercessione, la nostra preghiera per il Paese trovi ascolto presso il Padre nostro che “ci libera dal male”.
 

(Fonte: Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, 22 febbraio 2013)
 

giovedì 21 febbraio 2013

«Bonino al Quirinale»: Monti finalmente getta la maschera

Tra una visita “di commiato” al Papa che si svolge in piena campagna elettorale e una trasmissione televisiva in cui parla dei nipotini e coccola un cagnolino, il Presidente del Consiglio per gli affari correnti, non candidato alle elezioni perché non ha voluto rinunciare al suo ruolo di senatore a vita, lancia “l’uomo giusto” alla Presidenza della Repubblica: «Emma Bonino sarebbe una candidata molto buona per il Quirinale», ha detto infatti Mario Monti ieri mattina ai microfoni di Radio Anch’io.
“L’uomo giusto”, così diceva lo slogan della campagna radicale del 1999 che la voleva Presidente della Repubblica. Pannella, a quei tempi, parodiava il Rossini del “Barbiere di Siviglia”: “Tutti la vogliono. Il popolo la voterebbe”, diceva. “Sarebbe – dice ora Monti - una candidata molto buona al Quirinale. In Commissione Ue insieme abbiamo fatto un ottimo lavoro. È una di quelle persone di cui ce ne vorrebbero di più”. Tante di più! Con buona pace di Giuliano Ferrara, che nel 2010 scriveva: “Detesto Emma Bonino, spero che perda le elezioni. E’ una intollerante, un’abortista sfegatata e una militante del torto negatore travestita da libertaria, una innamorata di sé dall’insopportabile accento vittimista, una cercatrice di cariche meticolosa e fatua, la complice non candida, ma molto candidata, del peggior Pannella, una pallona gonfiata come poche, un ufficio stampa ambulante, un disastro di donna en colère e di personalità pubblica”.
Un anno fa, quando il Presidente della Repubblica lanciò l’idea di una donna come suo successore, in molti fecero il nome di Emma Bonino. Dieci attori di gran fama, con un appello accorato sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, scrivevano: "La candidatura di Emma non è solo un cambiamento di 'genere', ma è il ripristino di meritocrazia e di distanza da giochi di Palazzo e interessi di partito. E' un grande e coraggioso passo avanti verso la riconciliazione tra eletti ed elettori". I giornali la inserirono nei sondaggi proposti ai lettori, ricevendo un mare di consensi. Lei, forte di un grande avvenire dietro le spalle – con più di 37 anni di carriera parlamentare, salvo una parentesi di 5 anni, durante i quali fu commissaria dell’Unione europea, con una pensione assicurata di qualche decina di migliaia di euro al mese - si schernì. “Il Paese non è ancora pronto”, disse. A suo favore, intervenne il suo mentore: “La costanza della fiducia del popolo italiano nei confronti di Emma Bonino – affermò Pannella – ne fa ormai da due decenni la persona più adatta per il governo delle realtà, del tempo che stiamo vivendo”.
È proprio questo il punto. Il tempo che viviamo. Quello di Monti e della Bonino. Dei loro circoli esclusivi e riservati internazionali, come il Gruppo Bildelberg, che entrambi frequentano assiduamente. Delle loro amicizie con i potenti della terra, come George Soros, ideologo di quel nuovo ordine mondiale che vuole dominare il mondo. Del loro legame sancito con sorrisi e abbracci nell’emiciclo del Senato, alla prima “salita” di Monti in politica, nominato senatore a vita per fare il Presidente del Consiglio. Poi, guarda caso, sia per il 2012, sia per il 2013, ci fu la decisione del Governo d’inserire nella legge finanziaria l’importo annuale di dieci milioni di euro a favore del “servizio pubblico” di Radio Radicale. Ai diseredati si aumentavano le tasse, ai radicali si garantiva la “pagnotta”. Obiettivo condiviso da centinaia di parlamentari cattolici. Bontà loro!
Ah, i cattolici. Alla creazione del mito Bonino hanno contribuito tanti di loro, sicuramente molti di quelli che fanno opinione. Innanzitutto, quei cattolici che nonostante l’ideologia anti-umana propagandata dai radicali - che riguarda tutti gli aspetti della vita, da quella nascente alla morte naturale – sono pronti, comunque, a collaborare su altri temi, legittimando, di fatto, quella stessa ideologia, di cui è parte integrante la strumentalizzazione della religione. Un esempio recente è l’adesione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana alla campagna pannelliana sull’amnistia.
Ha contribuito anche chi considera i "princìpi non negoziabili" non urgenti, non decisivi. Come il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. Per questo motivo non sono menzionati nell’agenda montiana, sono calpestati dai propositi di coloro che vogliono consentire il matrimonio omosessuale e l’adozione dei figli per le coppie gay e sono “stracciati” dalle sentenze “creative” dei giudici italiani, dalla Corte europea di giustizia, dal Parlamento europeo e dal Parlamento italiano, che equipara i figli nati nel matrimonio ai figli nati da rapporti incestuosi. Si badi, tutte battaglie sulle quali si batte da decenni – insieme all’aborto, al divorzio, all’eutanasia, alla non sepoltura dei bambini mai nati, all’aberrante ideologia della droga libera – la laica Emma Bonino, che ha saputo defilarsi con grande abilità da questa campagna elettorale, per preparare meglio la scalata che si preannuncia al “trono”.
Ma andando un po' più indietro come non ricordare l'attuale direttore di Tv 2000, Dino Boffo, che da direttore di Avvenire, nel 2005, approvò la candidatura della Bonino a Commissaria Onu per i rifugiati, scrivendo: “Piace la fatica di considerare con libertà le persone; di denunciarne le azioni deprecabili e le convinzioni non condivisibili, senza impedirci di scorgere attitudini e qualità quando queste si esplicano sui terreni in cui non riscontriamo conflitti”. Già, quale conflitto vi può mai essere tra un cattolico e chi afferma “Io posso essere un?ammiratrice di quel cristianesimo delle origini, il cristianesimo costantiniano, perché esso ha co-struito, piaccia o no, l'edificio dell'Europa; non è l'unico linguaggio, ma certamente è uno dei linguaggi fondanti della nostra eredità. Credo però che oggi questo cristianesimo abbia esaurito la sua carica vitale, storica” (Emma Bonino, “I doveri della libertà”, Laterza Editore, 2012)? Da queste convinzioni deriva la forsennata battaglia della Bonino e dei radicali sui beni di proprietà della Chiesa, svolta a livello europeo, con tenacia e determinazione, per distruggerla, con un intento analogo a quello espresso, reiteratamente, dal Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, come “La Bussola Quotidiana” fece a suo tempo puntualmente rilevare.
In un editoriale dello scorso mese di gennaio, Marco Tarquinio, attuale direttore di Avvenire, scriveva: “Ci sono fasi della vita dei Paesi nelle quali forze alternative coniugano i propri sforzi anche solo su temi ben definiti nell’interesse nazionale. Ma perché questo accada in Italia, occorre che ci siano almeno due buoni e grandi pilastri in un quadro politico rinnovato”. Ora, quel quadro politico rinnovato è meglio precisato: Bonino al Quirinale, con Monti Presidente del Consiglio o ministro dell’Economia in un Governo con Bersani e Vendola. Con qualche “pennellata” cattolica, pronta a riconoscere agli omosessuali il diritto al matrimonio e alla genitorialità.
Consola sapere che esistono cattolici e cattolici. A questo proposito, correndo il rischio di essere ineleganti, riporto un brano che monsignor Luigi Negri, arcivescovo eletto di Ferrara-Comacchio, ha scritto nella prefazione al mio libro “Da servo di Pannella a figlio libero di Dio” (Fede & Cultura, 2012): “Sappiamo che un progetto egemonico vorrebbe elevare questa donna (Emma Bonino, n.d.r.) a dignità statuali, da cui portare più efficacemente l’attacco alla cultura umanistica, e cioè di difesa dell’uomo, che la fede cristiana da sempre testimonia nel mondo”. Quel progetto egemonico, chiamato dai suoi seguaci “religione della libertà” (!), sta prendendo corpo e se non conoscerà un argine, inquinerà irrimediabilmente le vite di tutti.
 

(Fonte: di Danilo Quinto, Nuova bussola quotidiana, 21 febbraio 2013)


Caro Monti, stiamo impazzendo?

Mario Monti ha candidato al Quirinale Emma Bonino. Ecco una vecchia foto di quando la Bonino faceva aborti illegali e clandestini al pari delle più becere mammane (in epoca precedente alla legge 194) usando una pompa da biciclette per terminare una vita umana.
Delle sue campagne estremiste, diventate ormai “storia”, preferisco non parlarne: ma al di la dei suoi due o tre successi ottenuti in campo europeo e internazionale, la Bonino in tanti anni di politica (ha iniziato nel 1975) che cosa ha concretamente fatto per l’Italia e gli italiani? Mah!
Monti ha motivato così la sua scelta: «…In Commissione UE insieme abbiamo fatto un ottimo lavoro. È una di quelle persone di cui ce ne vorrebbero di più». Bravo! “Ce ne vorrebbero di più”? Ottimo, veramente interessante!
Come se ciò non bastasse, il “buon” Monti, tra i suoi continui voltafaccia, ha inoltre ammesso come possibile un accordo di governo post elezioni con Niki Vendola, i cui punti fermi in termini di principi inalienabili – sui quali i cattolici peraltro non possono assolutamente transigere - sono stranoti a tutti.
È proprio vero: il tempo cancella tutto e restituisce alle persone, soprattutto a quelle vissute sempre “ai limiti”, una credibilità e una dignità altrimenti impensabili.
Di Bonino “ce ne vorrebbero di più”? Perché allora per il Quirinale non altrettanti Pannella, Dario Fo et similia? Del resto si sente dire che sono tutti candidabili a rappresentare nel mondo questa nostra povera Italia!
Poveri noi! Altro che radici cristiane! Vorrei tanto capire a cosa pensano i cattolici sostenitori della “Lista Monti”.
Meditiamo gente, meditiamo… se abbiamo ancora un pizzico di orgoglio nazionale e di amore per la nostra fede.

(Ma.La, 21 febbraio 2013)

mercoledì 20 febbraio 2013

Sanremo: fatuo esibizionismo inutile


Più di 13 milioni di italiani sono rimasti incollati alla televisione per vedere il Festival.
Ok, ci sta, perché “Sanremo è Sanremo”, ma adesso penso che sia anche giunto il momento di farsi qualche domanda su questa kermesse impalcata dalla RAI e strombazzata all'inverosimile (almeno quanto l'avvertimento-minaccia del rinnovo del canone).
La prima domanda è la solita: che senso ha una gara di cui già si sa... dal primo giorno, il vincitore (che, puta caso, si è anche esibito per primo nella prima serata)?
La seconda: ma chi cavolo sono questi big? A parte i fan di Amici e di X Factor, chi li conosce questi “grandi”, quali meriti hanno?
La terza: ma che cavolo è questo festival che sembra solo la finale della finale dei suddetti Amici e X Factor (con inclusi i tuttologi del giorno dopo, che continuano, parlando con i cantanti, a fare i professoroni dicendo loro quello che è andato e quello che non è andato)?
La quarta: che fine hanno fatto i vincitori (come si chiamava quello? Scanu?) delle precedenti edizioni? Che fine hanno fatto le loro canzoni (come quella, orribile, di Emma della scorsa edizione)?
La quinta: che senso ha stoppare per un'ora intera un festival di canzoni con una tirata politica di Crozza? Non c'è già abbastanza politica in TV? Inoltre: obbligare i presenti a ridere e applaudire le solite menate di una Littizzetto, “piccola” in tutti i sensi?
La sesta: che senso ha, a poca distanza dalle elezioni, dare ad alcune personalità dello spettacolo (tra l'altro tutte piuttosto etichettate politicamente al pari del presentatore) il potere di intervenire pesantemente sulla politica del paese?
La settima: che senso ha mettere insieme il voto di una giuria di “qualità” (e anche su questa giuria ci sarebbe da dire…) e il televoto?
E mi fermo qui, perché c’è abbastanza da pensare. È vero che c’è roba in giro più importante di Sanremo. Però 13/14 milioni di italiani incollati davanti alla TV per questa cosa qui sono veramente molti! E questo deve ancora più darci da pensare.
 

(MaLa, tratto da: Gianluca Zappa, FB, 17 febbraio 2013)

 

sabato 16 febbraio 2013

Perché il Papa ha dato le dimissioni: un approfondimento finale a mente fredda

Gli studiosi di storia della Chiesa hanno notato come dai tempi dell’immediato postconcilio, ossia dal pontificato di Paolo VI, il papato abbia cominciato a indebolire la sua autorità nei confronti dell’episcopato e ciò, con tutta probabilità, a causa di alcuni difetti insiti nelle direttive pastorali del Concilio, concernenti il rapporto del Papa con in vescovi. Mi riferisco soprattutto alla figura di vescovo che emerge dai decreti conciliari sull’argomento, alla dottrina della collegialità episcopale e della Chiesa locale, dalla quale sono sorte poi le conferenze episcopali nazionali e l’istituto del sinodo mondiale dei vescovi.
Le direttive del Concilio in merito contengono certamente alcuni elementi validi, come per esempio la responsabilizzazione del vescovo e degli episcopati nazionali come deputati a una creatività pastorale che tenga conto delle situazioni concrete del loro gregge, senza quindi limitarsi ad essere dei semplici interpreti e trasmettitori delle direttive provenienti da Roma, e come dotati di una santa libertà e capacità di iniziativa nei confronti di Roma stessa nel suggerire proposte e addirittura modifiche nella condotta pastorale della Sede Apostolica, nonché nel correggere abusi ed errori per conto proprio senza aspettare l’imbeccata da Roma.
Sennonché, nei medesimi documenti sull’argomento, viene delineato un modello di vescovo che, se da una parte brilla per la sua caritatevole vicinanza al gregge, misericordioso e comprensivo, aperto al dialogo con tutti, credenti e non credenti, dall’altra risulta deplorevolmente assente del tradizionale ed essenziale aspetto del ministero episcopale di collaborazione con la Sede Romana nella vigilanza (episkopos = sorvegliante) nei confronti delle idee false che possono diffondersi nel popolo di Dio in materia di fede e di buoni costumi, e quindi riguardo il suo sacro dovere di correggere gli erranti sia in materia di fede che di morale.
In tal modo, a causa di questa mancata vigilanza o ingenuità o negligenza o eccessiva indulgenza che dir si voglia, come chiunque non schiavo di pregiudizi oggi può constatare, da cinquant’anni a questa parte ha cominciato a sorgere con uno spaventoso crescendo una crisi di fede o ribellione o disobbedienza a Roma nell’ambito della fede a tutti i livelli e in tutti gli ambienti della compagine ecclesiale: fedeli, sacerdoti, religiosi, teologi e moralisti, non esclusi membri dello stesso episcopato e del collegio cardinalizio, senza che Roma sia stata in grado di opporre una valida difesa e di correggere efficacemente i devianti, i quali viceversa, vedendo il successo ottenuto e l’assenza di ostacoli opposti dall’autorità, sono diventati sempre più arroganti e prepotenti, acquistandosi nella Chiesa con l’inganno, l’adulazione e l’astuzia, molti posti di potere, persino negli stessi ambienti romani, da dove adesso hanno la possibilità di contrastare maggiormente il Magistero del Papa e soffocare quelle poche voci rimastegli fedeli, sostenendo o tollerando invece eretici e ribelli sempre più spavaldi e sicuri di se stessi.
Mi riferisco soprattutto a quel nefasto neomodernismo, subito denunciato ma ahimè invano da spiriti acuti come il Maritain, il Siri, il Fabro, il Parente, il Piolanti, il von Hildebrand, il Perini, l’Ottaviani, il Lakebrink, i teologi domenicani Enrico Rossetti, Guido Casali, Alberto Galli, Tomas Tyn ed altri; neomodernismo che, latente nei lavori stessi del Concilio ma lì ovviamente represso, ha fatto capolino con temeraria audacia sin dall’immediato postconcilio ed approfittando appunto del mancato intervento dei vescovi, alcuni dei quali conniventi a tanto scempio, col pretesto ingannevole di realizzare quel Concilio che essi invece falsificavano, si è talmente rafforzato da metter oggi il Sommo Pontefice nelle tristissime e drammatiche condizioni, quasi inaudite, di non sentirsi più in grado di governare la Chiesa. Da qui le dimissioni.
Noi potremmo dire a tutta prima: debolezza personale? Che avrebbe fatto un Papa Wojtyla? E gli altri Papi come hanno fatto a resistere? Ma il fatto è che la situazione è precipitata, e sta precipitando, per eventi gravissimi ed inauditi accaduti proprio in questi ultimi anni e tempi recentissimi: basti pensare allo scandalo della pedofilia coperto da vescovi, alcuni dei quali addirittura implicati; l’inaudito e sacrilego tradimento perpetrato all’interno della stessa Segreteria di Stato dove i mandanti sono riusciti per ora a celarsi dietro il povero Paolo Gabriele; la resistenza episcopale scandalosa al decreto pontificio di liberalizzazione della Messa Tridentina; il recente colpevole silenzio in occasione del blasfemo spettacolo di Romeo Castellucci, senza contare il diffondersi impunito di atti sacrileghi e vilipendi contro la religione; la pure recente penosa controversia sui “castighi divini”, nella quale fu ingiustamente accusato l’illustre storico Roberto De Mattei, che non aveva fatto altro che ricordare la dottrina tradizionale della Chiesa; la generale disobbedienza episcopale che tollera dappertutto teologi, liturgisti ed insegnanti disobbedienti al Magistero della Chiesa in materia di fede e di morale, vescovi e cardinali favorevoli al pensiero ereticale di Karl Rahner; la lunga sconsiderata ed ingannevole attività ecumenica del card. Kasper; interventi recentissimi di Cardinali come Martini o Ravasi del tutto dissonanti non dico dalla linea della S.Sede, ma dalla stessa dottrina della fede, insieme con attacchi vergognosi contro degnissimi prelati come Mons. Crepaldi o Mons. Negri.
Il Santo Padre - si è detto - ha fatto un gesto di umiltà. È verissimo. Ha fatto anche un gesto di coraggio. È vero anche questo, nel senso che, compiendo questo gesto, certamente ha previsto che sarebbe stato accusato di mancanza di coraggio e di “fuggire davanti ai lupi”, per ricordare una sua famosa frase, e ciononostante lo ha compiuto lo stesso. Altri hanno parlato di “libertà spirituale”. È vero anche questo. Infatti il compiere ponderatamente e coscientemente un gesto di tale portata e così insolito, è certamente segno di uno spirito sanamente indipendente che si fa guidare solo da Dio. Ed è stato anche un distacco da se stessi per il bene della Chiesa.
Ma secondo me tutti questi pareri non colgono il motivo di fondo che si può delineare in questi termini: una mossa strategica di prudentissima e coraggiosissima sapienza pastorale. In che senso? Col programma, - così io ritengo, una volta che Ratzinger avrà la possibilità di tornare a fare il semplice teologo - di mettere a frutto le sue straordinarie doti intellettuali, la sua lunga esperienza di pastore, la sua profonda conoscenza della situazione attuale e passata della Chiesa, con i suoi aspetti positivi, le sue speranze e i suoi mali morali e dottrinali, da correggere e da togliere.
Il gesto di Papa Ratzinger ci fa ulteriormente capire, se ancora ce ne fosse bisogno, il cambiamento che col Concilio Vaticano II si è verificato nella condotta del papato: se fino a Pio XII abbiamo avuto un papato potente ed impositivo, nella secolare tradizione che partita dal medioevo era stata confermata dalla riforma tridentina, col Vaticano II inizia, di fatto, non perché voluta dal Concilio, una nuova figura di Papa, che potremmo definire “Papa crocifisso e abbandonato”, sull’esempio di Cristo in croce. Anche a livello organizzativo non esiste più l’esercito pontificio; ci sono solo le guardie svizzere. Ma che ci fa il Papa con esse?
È vero: per il Papa, in linea di principio, è sufficiente imitare la testimonianza di Nostro Signore: che poi prenda un aspetto o ne prenda un altro, è cosa secondaria.
Ma se fino a Pio XII abbiamo l’imitazione di Gesù che dà ordini, disciplina ed è obbedito, a iniziare da Paolo VI appare il Gesù in croce, inascoltato ed abbandonato da tutti, anche se con a fianco la Madonna e S.Giovanni. Del resto, se ci facciamo caso, Gesù stesso nel corso della sua vita terrena, ha bensì insegnato, ma non ha mai avuto a disposizione, anzi li ha rifiutati, dei seguaci che potessero far rispettare, se occorreva con la forza, i suoi comandi e i suoi precetti. Non ha mai dimesso dalla sua carica qualche scriba o qualche dottore della legge.
Ciò vuol dire in linea di principio che il munus del Papa è duplice: l’insegnamento - munus dottrinale - e una forza a sua disposizione, - munus pastorale - che dovrebbero coincidere con la Curia romana e l’episcopato, incaricati di farlo rispettare. Ora invece, a partire da Paolo VI con impressionante progresso sino ad oggi, questa forza è quasi del tutto venuta a mancare. Che cosa resta al Papa? La voce di Cristo, quasi vox clamantis in deserto, che può certo consigliare, esortare, scongiurare, ma anche, come ha fatto Cristo, può comandare e minacciare, s’intende sempre per il bene della Chiesa. È questo quindi quel “bene della Chiesa”, al quale secondo me il Papa si riferisce nella sua dichiarazione di dimissioni.
La Chiesa si trova oggi in una situazione angosciosa che mai finora le era capitata. Essa, come già ebbe a dire Paolo VI , che parlò di un processo di “autodemolizione”, si sta distruggendo dall’interno. Tanti termini del linguaggio cattolico sono rimasti, ma con un significato anticattolico. Lo stesso termine “cattolico” non si capisce più che cosa significhi. Ma i modernisti, che Chiesa vogliono? È in fondo molto semplice: vogliono trasformare la Chiesa in un’associazione semplicemente umana sulla quale poter comandare secondo le loro idee modernistiche.
Il papato in questi cinquant’anni, si è indebolito non per viltà degli stessi pontefici, e neppure per motivi di immoralità, come successe al papato rinascimentale. Invece nel papato moderno abbiamo, come è ben noto, anche dei santi. Si è invece indebolito per causa di forza maggiore, per motivi oggettivi indipendenti dalle forze dei singoli Pontefici, a causa dell’isolamento nel quale sono stati messi da alcuni dei loro stessi collaboratori, finti amici ma in realtà nemici.
Il modello del Papa di oggi sta diventano quello del profeta e del martire, simile ai Papi sotto l’Impero Romano, con la differenza che se a quei tempi il nemico era esterno, oggi purtroppo i nemici li abbiamo in casa.
Penso che il nuovo Papa sarà pieno di energia e al contempo pronto a soffrire e ad accettare di non essere obbedito; ma alzerà la voce con tono terribile, sull’esempio di Cristo che minaccia farisei e dottori della legge. Occorre infatti, a mio avviso, che il papato riacquisti il suo prestigio e la sua autorevolezza dottrinale, anche se non dispone delle forze necessarie per far applicare gli insegnamenti dottrinali e morali.
Quanto a Benedetto XVI sono convinto che il suo gesto di abilissima “ritirata strategica”, gli consentirà di mettere a frutto le sue straordinarie doti di cultura e di saggezza per aiutare il nuovo Papa e la Chiesa a risorgere e a camminare sulle vie del Signore. Sono certo che Joseph Ratzinger, che già da Papa ci ha dato ricchi insegnamenti, nel suo posto più modesto al servizio di Pietro, potrà continuare a darci un aiuto importantissimo sul cammino della vera fede e della pacificazione della Chiesa.
 

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa cristiana, 14 febbraio 2013)
 

giovedì 14 febbraio 2013

Dopo la “rinuncia” di Benedetto XVI. Alcune considerazioni

Penso che nella decisione presa da Benedetto XVI - l’uomo che oggi molti paragonano stupidamente al Wojtyla del calvario coraggioso, della croce portata fino alla fine - abbia giocato un ruolo importante anche la consapevolezza dei danni che può seminare nella Chiesa la mancanza di energie. Benedetto XVI sa che il prezzo del calvario del suo predecessore fu anche un’assenza di governo della Chiesa, lo sa perché ne ha ereditato tutti i problemi irrisolti, insieme alle lotte intestine. Li ha affrontati con coraggio, a partire dalla pedofilia, ma forse anche questa consapevolezza lo ha spinto a ricordarci che ci vuole forza per governare, lo ha indotto a fare un passo indietro, ora, per non lasciare un altro percorso in salita al suo successore. È forse questo il gesto più rivoluzionario che ha fatto.
Adesso comincerà il toto-Papa e tutti a voler dire la loro, dal panettiere al tabaccaio. Su radio e tv per la verità il tormentone è già cominciato. Sia chiaro, non c’è niente di male in sé, la fede è anche un fatto di popolo e la Chiesa comunque è una presenza pubblica che vive nel mondo. Ma, come spesso di dice, non è del mondo. Vive nel mondo ma non è del mondo. E questo cambia tutto. Perché la Chiesa è anzitutto il luogo privilegiato della Grazia, il mezzo indispensabile e necessario della santificazione dell’umanità, con la sua vera sede che è in Cielo e il suo Fondatore, divino, che è Cristo. Ecco, in questi momenti non dovremmo mai dimenticarcelo.
Quando pronunciamo quella parola, “Chiesa”, dovremmo tutti sciacquarci la bocca, contare fino a mille, fare un lungo respiro, pensare a quello che si sta per dire e poi, solo poi, andare avanti con la frase. A quel punto forse, se siamo onesti con noi stessi, come disse una volta un santo sacerdote, capiremmo che nel 90% dei casi quello che stiamo per dire è talmente ridicolo che faremmo più bella figura a tacere. Stiamo parlando dell’unica cosa che Dio ci ha lasciato, l’unica per davvero (perché anche le Scritture sono ispirate, non dettate), e ci permettiamo di sparare la prima cosa che ci passa per il cervello come se stessimo a parlare della nazionale di calcio al bar sotto casa.
Siamo di fronte a un miracolo che si perpetua da oltre duemila per grazia di Dio, alla casa mirabile dove sono passati umilmente, in silenzio e in punta di piedi, Mistici e Dottori, Santi e Beati e poi arriva il primo pinco pallino qualsiasi e dovremmo pure starlo a sentire. Segni dei tempi. Ma il senso profondo e la ragione stessa della vita della Chiesa non è in ciò che si vede, magari superficialmente.
Così, tanto per parlare chiaro, non è nei salotti televisivi, non è nelle interviste ai vaticanisti e non è neanche nei commenti sui giornali di qualche ecclesiastico. Il senso della sua vita è nell’elargizione della Grazia sacramentale che si propaga ogni giorno che il Padreterno manda in terra. Santa Teresina lo espresse icasticamente, in parole mirabili: “se la gente vedesse che cosa accade realmente sull’altare durante la Santa Messa, gli ingressi delle Chiese dovrebbero essere presidiati dalla forza pubblica”.
 

(MaLa, liberamente tratto da Omar Ebrahime, Osservatorio internazionale Van Thuan, 14 febbraio 2013)
 

Una famiglia che famiglia non è… in una chiesa che non sembra una chiesa

Sarà l’età, ma mi è venuta nostalgia di Alberto Manzi. Sì, il maestro che in televisione conduceva il programma Non è mai troppo tardi e le lezioni a distanza per combattere l’analfabetismo. Passano gli anni e i mezzi di comunicazione sociale – tivù in testa – ora son diventati più raffinati (o noi più scemi) e così ti insegnano cosa devi pensare e ti propinano la “pubblicità-progresso”. Progresso secondo loro, si intende.
Non serve infatti essere esperti di comunicazione, basta aver sviluppato una briciola di senso critico per capire come l’informazione interessi zero, e in modo tamburellante e pervasivo, oggi si miri invece alla formazione del pensiero unico e politicamente ineccepibile. Come? Così.
Sevizio delle Iene di qualche sera fa. Telecamere puntate su tre coppie “arcobaleno”: due lui e quattro lei, con relativi figli (industriali, of course).
Nadia Toffa (la curatrice del servizio) inizia con l’intervistare Luciano e Davide: due maschi che si sono sposati a New York e poi siccome gli è «cresciuto il desiderio di avere dei figli», con fecondazione eterologa hanno avuto due gemelli: Andrea ed Elisabetta. In un quadretto da Mulino arcobaleno, si glissa sull’agenzia californiana a cui i due uomini son ricorsi per la «donatrice» d’ovulo e la «portatrice» di bimbi, ed anche sul prezzo elevatissimo dei due gemelli concepiti con lo sperma di solo uno (ovvio!) dei due “genitori”, e che non potranno vedere e conoscere le due donne senza le quali non sarebbero qui. Evidentemente la/le mamme in questa gaia storia non hanno diritto d’ingresso e quindi non se ne parla. Donne-contenitori? Donne affittate?
Nadia Toffa, la giornalista, non pare turbarsi e passa oltre. Intervista due lesbiche: moglie & moglie convolate a nozze a New York pure loro, una delle due incinta al sesto mese, che dice al microfono «sto aspettando un bimbo insieme alla mia compagna». Buon senso vorrebbe che l’intervistatrice le dicesse che no, non è possibile: donna più donna non è uguale a nessun bambino. E invece niente, perché la verità mi fa male lo sai e allora si passa oltre.
Terza coppia: Cecilia e Federica, che spupazzano i gemellini Emma e Valerio, di un anno. Cecilia è la madre biologica; ignoto, impresentabile, il padre (senza il quale, evidentemente, i due fratellini non sarebbero qui), ecco Federica che ne fa le veci. Ma padre non è, madre nemmeno. E si scoccia pure, quando dice che per l’Italia questi bimbi hanno un solo genitore. Come non fosse inconfutabilmente vero.
Gira e rigira, nel lavaggio del cervello quotidiano cui ci sottopongono il punto sta qui. L’ideologia e il politically correct vengono prima rispetto all’evidenza dei fatti. Coprono, cancellano, occultano, distorcono. Fan credere (o così vorrebbero) anche ciò che non è perché non può essere.
Ciliegina sulla torta nuziale. È domenica e le telecamere seguono Luciano e Davide che si recano a messa da «don Santoro, il classico prete di frontiera, critico con la Chiesa ufficiale… non ben visto dai suoi superiori, in una chiesa che non sembra una chiesa…». Ecco, appunto. Dal prete che non è prete, in una chiesa che non sembra una chiesa, una “famiglia” che famiglia non è.
E dunque sarà l’età, ma ora capisco perché di fronte a questo servizio delle Iene mi è venuta una botta di nostalgia del maestro Alberto Manzi. In piena emergenza educativa, ché l’analfabetismo degli anni Sessanta al confronto faceva ridere, qualcuno per favore spieghi agli analfabeti di ritorno che siamo diventati il periodo ipotetico della realtà, della possibilità e della irrealtà. Altro che voli pindarici e arcobaleni: occorre ripartire dalle basi. Occorre ripartire da lì.

 

(Fonte: Saro, Luisella, Cultura Cattolica, 7 febbraio 2013)
 

martedì 12 febbraio 2013

Dietro il sacrificio estremo le ombre di conflitti, manovre e tradimenti

Non essendo riuscito a cambiare la Curia, Benedetto XVI è arrivato ad una conclusione amara: va via, è lui che cambia. Si tratta del sacrificio estremo, traumatico, di un pontefice intellettuale sconfitto da un apparato ritenuto troppo incrostato di potere e autoreferenziale per essere riformato. È come se Benedetto XVI avesse cercato di emancipare il papato e la Chiesa cattolica dall'ipoteca di una specie di Seconda Repubblica vaticana; e ne fosse rimasto, invece, vittima. È difficile non percepire la sua scelta come l'esito di una lunga riflessione e di una lunga stanchezza. Accreditarlo come un gesto istintivo significherebbe fare torto a questa figura destinata e entrare nella storia più per le sue dimissioni che per come ha tentato di riformare il cattolicesimo, senza riuscirci come avrebbe voluto: anche se la decisione vera e propria è maturata domenica.
Quello a cui si assiste è il sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato; e della ribellione di un «Santo Padre» di fronte alla deriva di una Chiesa-istituzione passata in pochi anni da «maestra di vita» a «peccatrice»; da punto di riferimento morale dell'opinione pubblica occidentale, a una specie di «imputata globale», aggredita e spinta quasi a forza dalla parte opposta del confessionale. Senza questo trauma prolungato e tuttora in atto, riesce meno comprensibile la rinuncia di Benedetto XVI. È la lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all'ombra della cupola di San Pietro, a dare senso ad un atto altrimenti inesplicabile; e per il quale l'aggettivo «rivoluzionario» suona inadeguato: troppo piccolo, troppo secolare. Quanto è successo ieri lascia un senso di vuoto che stordisce.
E nonostante la sua volontà di fare smettere il clamore e lo sconcerto intorno alla Città del Vaticano, le parole accorate pronunciate dal Papa li moltiplicano. Aggiungono mistero a mistero. Ne marcano la silhouette in modo drammatico, proiettando ombre sul recente passato. Consegnano al successore che verrà eletto dal prossimo Conclave un'istituzione millenaria, di colpo appesantita e logorata dal tempo. E adesso è cominciata la caccia ai segni: i segni premonitori. Come se si sentisse il bisogno di trovare una ragione recondita ma visibile da tempo, per dare una spiegazione alla decisione del Papa di dimettersi: a partire dall'accenno fatto l'anno scorso da monsignor Luigi Bettazzi; e poco prima dall'arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che si era lasciato scappare questa possibilità durante un viaggio in Cina, ipotizzando perfino un complotto contro Benedetto XVI.
Ma la ricerca rischia di essere una «via crucis» nella crisi d'identità del Vaticano. Riaffiora l'immagine di Joseph Ratzinger che lascia il suo pallio, il mantello pontificio sulla tomba di Celestino V, il Papa che «abdicò» nel 1294, durante la sua visita all'Aquila dopo il terremoto, il 28 aprile del 2009. Oppure rimbalza l'anomalia dei due Concistori indetti nel 2012 «per sistemare le cose e perché sia tutto in ordine», nelle parole anodine di un cardinale. O ancora tornano in mente le ripetute discussioni col fratello sacerdote Georg, sulla possibilità di lasciare. Qualcuno ritiene di vedere un indizio della volontà di dimettersi perfino nei lavori di ristrutturazione dell'ex convento delle suore di clausura in corso nei giardini vaticani: perché è lì che Benedetto XVI andrà a vivere da «ex Papa», dividendosi col palazzo sul lago di Castel Gandolfo, sui colli a sud di Roma.
L' Osservatore romano scrive che aveva deciso da mesi, dall'ultimo viaggio in Messico. Ma è difficile capire quando l'intenzione, quasi la tentazione di farsi da parte sia diventata volontà e determinazione di compiere un gesto che «per il bene della Chiesa», nel breve periodo non può non sollevare soprattutto domande; e mostrare un Vaticano acefalo e delegittimato nella sua catena di comando ma soprattutto nel suo primato morale: proprio perché di tutto questo Benedetto XVI è stato l'emblema e il garante. «Il Papa continua a scrivere, a studiare. È in salute, sta bene», ripetono quanti hanno contatti con lui e la sua cerchia. «Non è vero che sia malato: stava preparando una nuova enciclica». Dunque, la traccia della malattia sarebbe fuorviante.
Smonta anche il precedente delle lettere riservate preparate segretamente da Giovanni Paolo II nel 1989 e nel 1994, nelle quali offriva le proprie dimissioni in caso di malattia gravissima o di condizioni che gli rendessero impossibile «fare il Papa» in modo adeguato. Ma l'assenza di motivi di salute rende le domande più incalzanti. E ripropone l'unicità del passo indietro. Il gesuita statunitense Thomas Reese calcola che nella storia siano state ipotizzate le dimissioni di una decina di pontefici. Ma fa notare che in generale i papi moderni hanno sempre scartato questa possibilità. Eppure, gli scritti di Ratzinger non hanno mai eluso il problema, anzi: lentamente affiora la realtà di un progetto accarezzato da tempo. «I due Georg sapevano», si dice adesso, alludendo al fratello Georg Ratzinger e a Georg Gänswein, segretario particolare del pontefice.
Forse, però, colpisce di più che fosse all'oscuro di tutto il cardinale Angelo Sodano, ex segretario di Stato e numero uno del Collegio Cardinalizio; e con lui altre «eminenze», che parlano di «fulmine a ciel sereno». È come se perfino in queste ore si intravedesse una singolare struttura tribale, che ha dominato la vita di Curia con amicizie e ostilità talmente radicate da essere immuni a qualunque richiamo all'unità del pontefice. Sotto voce, si parla del contenuto «sconvolgente» del rapporto segreto che tre cardinali anziani hanno consegnato nei mesi scorsi a proposito di Vatileaks, la fuga di notizie riservate per la quale è stato incriminato e condannato solo il maggiordomo papale, Paolo Gabriele. Si fa notare che da oltre otto mesi lo Ior, l'Istituto per le opere di religione considerato «la banca del Papa», è senza presidente dopo la sfiducia a Ettore Gotti Tedeschi. Rimane l'eco intermittente dello scandalo dei preti pedofili, che pure il pontefice ha affrontato a costo di scontrarsi con una cultura del segreto ancora diffusa negli ambienti vaticani.
E continuano a spuntare «buchi» di bilancio a carico di istituti cattolici, dopo la presunta truffa milionaria a danno dei Salesiani: un episodio imbarazzante per il quale il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inutilmente cercato la solidarietà e la comprensione della magistratura italiana. È questa eredità di inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari che sembra aver pesato più di quanto si immaginasse sulle spalle infragilite di Benedetto XVI. È come se avesse interiorizzato la «malattia» della crisi vaticana di credibilità, irrisolta e apparentemente irrisolvibile.
Ma nel momento in cui decide di dimettersi da Papa, Benedetto XVI infrange un tabù plurisecolare, quasi teologico. Fa capire alla nomenklatura vaticana che nessuno è insostituibile: nemmeno l'uomo che siede sulla «Cattedra di Pietro». E apre la porta a una potenziale ondata di dimissioni. Soprattutto, addita al Conclave la drammaticità della situazione della Chiesa. Dà indirettamente ragione a quegli episcopati mondiali, in particolare occidentali, che da mesi osservano la Roma papale come un nido di conflitti e manovre fra cordate che da tempo pensano solo alla successione. L'annuncio delle dimissioni avviene in coincidenza con l'anniversario dei Patti lateranensi; e nel bel mezzo di una campagna elettorale: al punto che ieri alcuni leader si chiedevano se interrompere per un giorno i comizi. Ma già si guarda avanti. Bertone ha chiesto di incontrare per una decina di minuti il capo dello Stato Giorgio Napolitano prima della festa in ambasciata di oggi pomeriggio. E il «toto-Papa» impazza, con le scommesse fuorvianti sull'«italiano» o il «non italiano». Stavolta, in realtà, sarà un Conclave diverso. Il sacrificio di Benedetto XVI, per quanto controverso, mette tutti davanti a responsabilità ineludibili.
 

(Fonte: Massimo Franco, Corriere della Sera, 12 febbraio 2013)
 

L'addio del Papa, i tre perché di un gesto umile

Perché ieri? Perché in una riunione di routine? Perché ritirarsi lì?
«Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte»
L'addio del Papa, i tre perché di un gesto umile Perché ieri? Perché in una riunione di routine? Perché ritirarsi lì?
Ci sarà tutto il tempo per analisi, bilanci, previsioni. Oggi, ancora sconcertati, cercheremo solo di dare una possibile risposta a tre domande che ci sono subito sorte. Innanzitutto: perché, un simile annuncio, proprio in questo giorno di febbraio? Poi: perché in una riunione di cardinali annunciata come di routine? Infine: perché il luogo scelto per il ritiro da Papa emerito?
Riflettendoci, dopo la sorpresa quasi brutale tanto è stata imprevista (e per tutti, nella Gerarchia stessa), mi pare si possano azzardare delle possibili spiegazioni. L'11 febbraio, ricorrenza della prima apparizione della Vergine a Lourdes, è stata dichiarata dall'«amato e venerato predecessore», come sempre lo ha chiamato, Giornata mondiale del malato. Ha detto Ratzinger, nel latino della breve e sconvolgente dichiarazione: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Terenzio, e poi Seneca, Cicerone e tanti altri avevano ricordato mestamente: senectus ipsa est morbus, la vecchiaia stessa è una malattia.
Dunque, è infermo comunque chi, come lui, il prossimo 16 aprile compirà 86 anni. Ha aggiunto, infatti: «Il vigore del corpo e dell'animo negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Quale giorno più adeguato, dunque, per prendere atto davanti al mondo della propria infirmitas di vegliardo di quello dedicato alla Madonna di Lourdes, protettrice dei malati? In fondo, anche in questo vi è un segno di solidarietà fraterna per tutti coloro che, per morbi o per anni, non possono più contare sulle proprie forze.
Ma perché (è la seconda domanda) dare l'annuncio, ex abrupto , proprio in un concistoro di cardinali per decidere la glorificazione dei martiri di Otranto, massacrati dalla furia dei turchi musulmani? Non crediamo che vi sia qui un qualche richiamo alla violenza di un certo islamismo, attuale ora come nel XV secolo della strage in Puglia. Crediamo, piuttosto, che in questi mesi Benedetto XVI abbia meditato sul primo e solo caso di abdicazione formale di un Pontefice nella storia della Chiesa, quello del 13 dicembre 1294, da parte di Celestino V. Vi erano stati, nei «secoli bui» dell'Alto Medioevo alcuni casi di rinuncia papale, ma in circostanze oscure e sotto la pressione di minacce e di violenze. Ma solo Pietro da Morrone, l'eremita strappato a forza alla sua cella ed elevato al soglio pontificio, abdicò liberamente ed ufficialmente, adducendo anch'egli soprattutto l'età più che ottuagenaria e la debolezza che ne conseguiva.
Prima di compiere l'inedito passo, aveva consultato discretamente i maggiori canonisti che gli confermarono che la rinuncia era possibile, ma andava fatta «davanti ad alcuni cardinali». È proprio quanto ha deciso di fare Benedetto XVI, che non aveva che quel precedente cui rifarsi: precedente del resto, spiritualmente sicuro, in quanto il buon Pietro fu dichiarato santo dalla Chiesa e non meritava davvero l'accusa di viltade lanciatagli contro dal ghibellino Dante per sue ragioni politiche. Insomma, in mancanza di altre regole, papa Ratzinger, sempre rispettoso della tradizione, si è rifatto a quelle stabilite otto secoli fa dal confratello di cui voleva condividere il destino. Probabilmente, non è casuale anche il fatto che l'imprevisto annuncio sia stato letto solo in latino, quasi per richiamarsi anche in questo a quel precedente lontano.
Ma, per venire alla terza domanda, per quale ragione, dopo un breve soggiorno a Castel Gandolfo (deserto, e dunque disponibile, durante la sede vacante) il già Benedetto XVI si ritirerà in quello che è stato un monastero di clausura, all'interno delle Mura Vaticane? Questo, almeno, il programma annunciato dal portavoce, padre Lombardi. Non sappiamo se quella sistemazione sarà definitiva ma, in ogni caso, neppure questa è una scelta casuale. Dicono le ultime parole dell'annuncio di ieri: «Anche in futuro vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». Negli anni di pontificato ha ripetuto spesso: «Il cuore della Chiesa non è dove si progetta, si amministra, si governa, ma è dove si prega».
Dunque, il suo servizio alla Catholica non solo continua ma, nella prospettiva di fede, diventa ancor più rilevante: se non ha scelto un eremo lontano - magari nella sua Baviera o in quella Montecassino cui aveva pensato papa Wojtyla come estremo rifugio - è forse per testimoniare, anche con la vicinanza fisica alla tomba di Pietro, quanto voglia restare accanto a quella Chiesa cui vuole donarsi sino all'ultimo. Né è casuale, ovviamente, l'aver privilegiato mura impregnate di preghiera come quelle di un monastero di clausura. Comunque, se la sistemazione in Vaticano sarà stabile, la discrezione proverbiale di Joseph Ratzinger assicura che non vi sarà alcuna interferenza col governo del successore. Siamo del tutto certi che rifiuterà pure il ruolo di un «consigliere» carico di anni ma anche di esperienza e di sapienza, pure se ci dovessero essere richieste esplicite del nuovo Papa regnante. Nella sua prospettiva di fede, il solo vero «consigliere» del Pontefice è quello Spirito Santo che, sotto le volte della Sistina, ha puntato su di lui il dito.
Ed è proprio in questa prospettiva religiosa che vi è, forse, risposta a un altro interrogativo: non era più «cristiano» seguire l'esempio del beato Wojtyla, cioè la resistenza eroica sino alla fine, piuttosto che quello del pur santo Celestino V? Grazie a Dio, molte sono le storie personali, molti i temperamenti, i destini, i carismi, i modi per interpretare e vivere il Vangelo. Grande, checché ne pensi chi non la conosce dall'interno, grande è la libertà cattolica. Molte volte, l'allora cardinale mi ripeté, nei colloqui che avemmo negli anni, che chi si preoccupa troppo della situazione difficile della Chiesa (e quando mai non lo è stata?) mostra di non avere capito che essa è di Cristo, è il corpo stesso di Cristo. A Lui, dunque, tocca dirigerla e, se necessario, salvarla. «Noi - mi diceva - siamo soltanto, parola di Vangelo, dei servi, per giunta inutili. Non prendiamoci troppo sul serio, siamo unicamente strumenti e, in più, spesso inefficaci.
Non arrovelliamoci, dunque, per le sorti della Chiesa: facciamo fino in fondo il nostro dovere, al resto deve pensare Lui». C'è anche, forse soprattutto, questa umiltà, nella decisione di passare la mano: lo strumento sta per esaurirsi, il Padrone della messe (come ama chiamarlo, con termine evangelico) ha bisogno di nuovi operai, che vengano dunque, purché consapevoli essi pure di essere solo dei sottoposti. Quanto ai vecchi ormai estenuati, diano il lavoro più prezioso: l'offerta della sofferenza e l'impegno più efficace. Quello della preghiera inesausta, attendendo la chiamata alla Casa definitiva.
 

(Fonte: Vittorio Messori, Corriere della Sera, 12 marzo 2013)