giovedì 25 febbraio 2010

“Forum” di Rita Dalla Chiesa: altra chiassata inconcludente

Durante la trasmissione di Forum del 23 febbraio, condotta da Rita Dalla Chiesa, ho assistito ad un ennesimo battibecco televisivo, molto acceso (non dimentichiamolo, le baruffe fanno tanta audience!), anche se questa volta le urla erano smaccatamente scenografiche, molto meno realistiche del solito.
Che i casi trattati dal tribunale di Canale 5 siano una autentica “sòla”, è arcinoto a tutti; che i personaggi siano degli attori o dei volontari istruiti per la parte, regolarmente pagati per le loro prestazioni, è cosa altrettanto universalmente risaputa e pacifica.
Tuttavia anche la finzione, la ricostruzione di fatti più o meno pertinenti con la vita reale, potrebbero offrire l’occasione per trasmettere al pubblico dei valori fondamentali, degli insegnamenti positivi, comunque dei messaggi “veri”, utili per affrontare meglio la vita.
Ma per fare questo, piuttosto dei soliti personaggi sguaiati che urlano e pretendono di imporre le loro convinzioni fatte di niente, servirebbero delle persone preparate, esperte nelle tematiche programmate.
Tema dell’altro giorno era la “pretesa” di un “commesso” di fare festa la domenica per vivere con i figli e la famiglia, e di dedicare del tempo anche allo spirito andando a Messa. Cose che non gli riusciva di fare il lunedì, giornata del suo riposo infrasettimanale.
Non mi dilungo ulteriormente sul fatto in sé, e tanto meno sul come è stato proposto e risolto: anche se mi preme sottolineare come l’aspetto specifico della “santificazione” della domenica, sia stato bersaglio di tante e tali stupidaggini urlate dai soliti fiancheggiatori e avallate dalla stessa presentatrice, da dedurne la loro assoluta e totale ignoranza in proposito; ma soprattutto hanno fatto rimpiangere l’assenza di un qualche ospite preparato (un prete, un professore, un esperto) che potesse illustrare correttamente il pensiero della Chiesa in proposito, risparmiando ai telespettatori una così laida e acefala canizza (potrei anche nutrire una certa simpatia per l’attore Fabrizio Bracconeri fino a quando si limita al suo mestiere di comico. Ma da sbraitante e convinto opinionista è quanto meno da compatire; quindi… “sutor ne supra crepidam!” - Calzolaio, non andare oltre alle scarpe!).
Il tema, di grande attualità, merita infatti alcune considerazioni più pacate e profonde.
Per esempio, l'ambito umano del lavoro e della festa, è stato oggetto di studio da parte di un gruppo di esperti anche nell’ultimo convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona.
Il problema, lo ripeto, non è da poco e riguarda il giusto modo di vivere il tempo.
Tutti siamo impegnati in una battaglia quotidiana che è quella contro il tempo. Chi non ha niente da fare cerca di ammazzarlo e chi invece è oppresso da mille occupazioni e scadenze, fa di tutto perché non gli scappi. “Perdere tempo” è uno dei lussi che più difficilmente ci si riesce a concedere e d'altra parte è uno dei vizi più condannati da chi sà che se si vuole ottenere qualche risultato nella vita, o quantomeno la possibilità di poter sopravvivere in questa penuria di occupazione, bisogna darsi da fare, sempre e comunque.
In tutto questo agitarsi, ovviamente, chi ne scapita è la festa e in particolare il senso cristiano della Domenica. Il tempo è sotto pressione, il lavoro, in certi ambiti, è imposto anche alla domenica, per cui quella “riserva” che più spesso viene invasa dal legittimo diritto al riposo o dalla aspirazione ad un sano divertimento con i figli, è la messa domenicale e la preghiera in famiglia. In certe situazioni purtroppo ci si deve arrendere all'inesorabilità di non poter esaudire il primo precetto della Chiesa: "Udir la Messa tutte le domeniche e le altre feste comandate."
Il lavoro non è solo un diritto è anche un dovere, lo sappiamo; ma allo stesso modo dovremmo riflettere e far riflettere, che la Festa non è solo un dovere, ma anche un diritto.
Se consideriamo la Festa unicamente come astensione dal lavoro, la intendiamo solo in termini negativi. La prospettiva di lavorare sette giorni su sette provoca sconcerto e disappunto in tante categorie di lavoratori. Ma questo è solo un punto di partenza. Perché lo si può fraintendere; si può ritenere infatti che quest'esigenza della Festa, sia dettata soltanto da motivi di comodità.
Invece, positivamente, la Festa è tempo: tempo per fare quelle cose che nei giorni feriali non si riescono a fare; per realizzare ciò in cui la vita umana può trovare il compimento delle proprie aspirazioni interiori. In una parola: per rigenerare il proprio spirito e - perché no? - anche il proprio corpo. Ma, appunto, nella maniera giusta.
In quest'ottica positiva può allora essere compreso il senso del precetto di santificare la festa.
Si tratta precisamente dell'occasione che ci viene offerta di mettere un punto fisso di riferimento allo scorrere inesorabile del tempo, per poter dare un senso anche alla vita feriale; alla nostra settimana manca infatti qualcosa se il tempo lavorativo non sfocia nella dimensione della Festa, della gioia, dello spirito. Il tempo non è tutto uguale, c'è un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione.
Il modo cristiano di intendere Festa ci toglie quindi dalla dispersione e dalla frammentazione del nostro vivere in mille situazioni che poi male si armonizzano le une con le altre, e ci invita al raccoglimento in noi stessi e all'ascolto della Parola di Dio.
Ma la concentrazione interiore, l'incontro con Dio, senza la quale la festa resta monotona e vuota, non significa isolamento dal mondo e dalle relazioni interpersonali. Si può infatti fare Festa solo se si condivide il motivo della Festa, altrimenti si ripiega sul concetto materiale di astensione: astensione dal lavoro, astensione dai soliti impegni feriali, astensione dal solito orario, dalle solite cadenze; ma questo non basta.
Il tempo della Festa cristiana è il pilastro che sostiene la campata del tempo feriale fino al successivo pilastro della prossima festa e questo spazio, tra campata e campata, è fatto per essere abitato da una comunità, una comunità che lavora, una comunità che celebra, una comunità che opera.
In ogni situazione è sempre la stessa comunità che si esprime secondo dei ritmi che superano le esigenze instabili del singolo, per confrontarsi e unirsi con le altre comunità sparse nel territorio, arrivando a costituirsi popolo di Dio in cammino.
Così si realizza la Chiesa: una Chiesa che invita a dare ordine al tempo, una Chiesa che invita a dare a Dio il tempo di Dio. E' quella stessa Chiesa che nel passato è stata determinante anche nel mettere ordine entro il perimetro urbano dei nostri paesi e delle nostre città, grandi e piccole, dando spazi al culto e alla socializzazione: riflettiamo su questo, perché una settimana senza la Domenica, il giorno del Signore, è come un paese senza chiesa, senza piazza; manca il luogo dell'incontro, manca lo spazio della Festa.

(Fonte: Administrator, 24 febbraio 2010)

Sanremo non rispecchia l'Italia: è solo un baraccone in mano ai furbetti.

Adesso rivendicano un po’ tutti. Dopo il successo (così lo chiamano) di Sanremo c’è chi rivendica più attenzione dalla Rai. Chi che si contino bene i voti. Chi d’esser diventato un grande show man. E c’è chi come la De Filippi - con qualche sprezzo del pericolo, visto l’ottovolante del televoto - rivendica di aver guidato il televoto grazie ai fans della propria trasmissione. Io non ho rivendicazioni di nessun genere, ma ho una certezza: l’Italia non si merita un Sanremo così. Non lo meritiamo. La piantino con la storia del “successo” di pubblico. Bastava stare un po’ collegati al social network Twitter durante le fasi finali del programma per vedere cosa pensavano una gran quantità di telespettatori di quello che stavano vedendo.
E non sperino di buggerarci ancora con l’idea che Sanremo rispecchia l’Italia. No, rispecchia quel che i produttori televisivi e i capi bastone del business pensano sia l’Italia. L’Italia dei loro clienti. Dei fidelizzati col televoto che arricchisce i gestori, e la tv. Quel che loro pensano debba essere l’Italia. Non rivendico nulla. Se non che l’Italia non si merita il Sanremo della qualità precotta, della retorica lacrimevole, delle furbate di Costanzo che avvelenano persino un argomento come quello degli operai di Termini Imerese. Non ci meritiamo questa giustificazione della qualità attraverso i meccanismi della popolarità televisiva.
Ci meritiamo un festival della canzone, noi italiani, non un festival pacchiano e furbo della televisione. Non ce lo meritiamo, c’è un limite da porre al kitch, al posticcio, al retorico che in dosi massicce è stato propinato.
Il fatto che sia diventato uno spettacolo carrozzone, che “non si può non vedere” (e invece si può benissimo) è l’indizio del completo imbastardimento di un festival della canzone, trasformato in una specie di circo che alcuni vogliono sia il “Circo Italia”.
No, non ci sto. L’Italia non è questa. Non siamo solo l’Italia della retorica furbetta e insopportabile di alcune canzoni dedicate a temi d’attualità con saccenteria e superficialità. Non siamo l’Italia dove si mischia con disinvoltura il lacrimevole e l’audience. Dove si giustifica ogni fenomeno con il fatto che ha successo, e proprio da parte di coloro che decretano il successo di quei fenomeni. Questo “circo” dove i padroni della tv celebrano se stessi dicendo che celebrano noi è ormai insopportabile. Qualcuno lo dice. Un po’ pochi. Gli intellettuali latitano, snob. Però anche solo a voler usare la logica dei numeri dell’audience, sono certo che l’Italia che ha visto gli sceneggiati su Agostino o su Basaglia non si riconosce in quel baraccone di paillettes e interessi milionari che è andato in scena a Sanremo.
Certo, è più facile chiudere con un “bravi tutti” e poi tutti a casa a godersi popolarità più o meno meritate e più o meno sensate. Il popolo sovrano non è detto che sia quello attratto dal televoto. Ci possono essere altri modi per giudicare quanto ci viene proposto dalla tv di Stato (in evidente stretto intreccio di interessi con quella privata) oltre al decidere se televotare o no.
Ci sono in proposito, non dimentichiamolo, i "sim server": computer collegati a “cestelli” con i quali possono venire gestite anche 10 o 20 mila sim card. Basta dare l’ordine con il computer di mandare un sms a un determinato numero e tutte le schede, a distanza di meno di un secondo l’una dall’altra, entrano in azione. Il servizio che offrono a pagamento i sim server è diretto prevalentemente a concorrenti bramosi di celebrita e con soldi da spendere o magari a manager consapevoli della bontà dell’investimento.
Ci sono poi le forme non solo del dissenso dei telespettatori su Twitter (tra gli altri segnalo un esilarante messaggio: “E ora esiliate Pupo”) ma anche della discussione, della “cultura”.
Sì, perché la faccenda non è solo un problema del mondo dello spettacolo. C’è una faccenda culturale da leggere e da interpretare in questa volontà di dare quel che è a mio avviso, e non solo mio, una caricatura dell’Italia. Far finta di niente, pensare “è solo uno spettacolo” è il primo modo per cedere a chi sa usare grande potere sull’immaginazione. Stanno provando a imporci di pensare a noi stessi in un modo che è una caricatura di quel che siamo.
E io, per quel che conta, non ci sto.

(Fonte: Davide Rondoni, Avvenire, 23 Febbraio 2010)

L’illuminazione divina di Elton John!

Oh, una buona notizia. Finalmente sappiamo chi era in realtà Gesù: era «un gay superintelligente», e se lo dice Elton John possiamo credergli sulla parola.
In una intervista alla rivista Parade sulla spiritualità, la rockstar fa rivelazioni degne di una mente superiore. Chissà quanto deve aver riflettuto prima di arrivare alla sbalorditiva conclusione che Cristo «aveva molta compassione, ha capito i problemi dell'umanità e voleva che noi ci amassimo e perdonassimo, perché sulla croce Gesù perdonò quelli che lo crocifiggevano». Dopo queste originali pensate - che qualunque bambino matura a qualunque latitudine prima dei cinque anni, a prescindere dal credo - è Sir Elton a illuminarci sui gusti sessuali del Signore.
Forse avrà scoperto e tradotto una copia originale del Vangelo o, più semplicemente, si sarà fatto prendere dal delirio di onnipotenza che tocca molte rockstar. Lui è trattato come un Dio, raduna folle che nemmeno l'Onnipotente ci riuscì - tra l'altro nessuno ha mai tentato di tirargli pietre o tantomeno di crocifiggerlo - quindi volete che il Signore non si sia confidato con lui? Gesù è gay e basta; e adesso correte da un prete a dirgli di aggiornarsi, di non bestemmiare parlando di unione tra uomini e tra donne, di piantarla con la balla della coppia Adamo ed Eva.
Di fronte a tali esternazioni, non c'è comunque da scandalizzarsi: in primis perché è una boiata pazzesca (se vogliamo metterla sul fantozziano); poi, più seriamente, perché il lavoro del rock and roll è sempre stato quello di denigrare e infrangere le barriere imposte dalla dottrina cristiana.
Elvis, per esempio, sopravvisse all'indignazione morale della gente sui suoi comportamenti, perché credeva di essere Dio e di poterlo sfidare sul suo stesso campo. La provocazione religiosa è storia vecchia nel rock: nel 1966 John Lennon (forse stufo di esser preso dalla stampa per un capellone imbecille) lanciò una bomba dichiarando: «Il Cristianesimo è destinato a scomparire, raccoglierà sempre meno adepti fino a svanire del tutto. In questo momento siamo più popolari noi di Gesù. Gesù era in gamba ma i suoi discepoli erano gentaglia rozza e poco intelligente». Lennon non aveva tutti i torti, perché in una eventuale hit parade ad opera dei rockettari di quell’epoca, Gesù sarebbe stato sicuramente dietro a Marx, Mao, Che Guevara e i guru indiani che «ipnotizzarono» Beatles, Rolling Stones, Santana e compagnia.
Ma il risultato di queste profonde “intuizioni” fu un susseguirsi di sconfitte ideologiche, una condanna pressoché unanime da un capo all'altro degli Usa. Oggi invece, all’esimio Sir Elton, risponde a malapena la Chiesa d'Inghilterra con un secco: «Le valutazioni sull'aspetto storico della persona di Gesù forse sarebbe meglio lasciarle agli accademici».

(Fonte: © Il Giornale, 20 febbraio 2010)

Prossime elezioni: la Cei dà la scossa ai cattolici “spensierati”

Il dado è tratto. Sulla candidatura della radicale Emma Bonino alla presidenza della regione Lazio, il giornale della conferenza episcopale italiana “Avvenire” ha chiuso definitivamente con ogni “timidezza”, vera o presunta.
Il colpo di grazia contro “l’incredibile pretesa della superabortista e iperliberista candidata a governatore del Lazio di ‘rappresentare’ addirittura i valori cattolici” l’ha dato il mercoledì delle ceneri, 17 febbraio, lo stesso direttore Marco Tarquinio, con un doppio affondo sulle due pagine più lette e più “ufficiali” del giornale dei vescovi: quella degli editoriali e quella delle lettere dei lettori.
Nella pagina degli editoriali, Tarquinio ha risposto così al segretario dei democratici, Pierluigi Bersani, che difendeva la candidatura di Emma Bonino e la “pari dignità” dei cattolici nel suo partito:
«Ringrazio l’onorevole Bersani per le pacate eppure appassionate argomentazioni di questa sua lettera in risposta all’acuto commento di Sergio Soave e, mi pare di capire, al denso lavoro di indagine e di analisi che ha accompagnato su “Avvenire” le cronache del disincanto, del disagio e del distanziamento dal Pd di settori e personalità di cultura politica cattolica dopo l’abbraccio tra questo importante partito e la leader radicale Emma Bonino. Con una battuta potrei dire che se il segretario del Partito democratico è in coscienza tranquillo, non saremo certo noi di “Avvenire” a inquietarci al posto suo e degli altri dirigenti della formazione sognata da Prodi e, poi, fondata da Veltroni…
E invece no, non faccio battute. Perché da molti mesi – proprio a partire da alcuni casi di coscienza estremamente significativi e dagli esigui spazi concessi all’esercizio della libertà di coscienza nei gruppi parlamentari dei democratici – stiamo osservando con rinnovati interesse e attenzione lo svilupparsi del progetto politico generato dalla fusione dei Ds e della Margherita. Interesse e attenzione al tema della libertà di coscienza (e dunque di “cittadinanza”) nel Pd che stranamente ci è toccato di coltivare in sostanziale solitudine, e ai quali si è via via sommato un crescente senso di allarme, largamente condiviso – posso testimoniarlo – dai nostri lettori.
Da qualche settimana, si è aggiunto il caso Bonino. Che ha ovviamente una natura sua propria, anche per l’incredibile pretesa della superabortista e iperliberista candidata a governatore del Lazio di “rappresentare” addirittura i valori cattolici (e di questo mi occupo pure in penultima pagina, quella dedicata al colloquio coi nostri lettori). Ma il caso Bonino, per le modalità con cui si è manifestato e per il senso politico generale che ha assunto, si sta configurando sempre più anche come un caso Pd. Lei, segretario, ha accettato senza batter ciglio l’autocandidatura della fedelissima compagna di battaglia anticattolica di Marco Pannella e, qui sopra, difende di nuovo la corsa di colei che ha più volte esaltato come “una fuoriclasse”, definendo “ingiusto” il giudizio di chi non riconosce a Bonino la “capacità di interpretare un programma di coalizione”.
Ma il nome e la storia di Emma Bonino “sono” un programma. Un programma, onorevole Bersani, incompatibile con altri (per più di un aspetto anche con quello alla base dell’idea di sinistra che lei punta a rivitalizzare e rappresentare) e, in ogni caso, certamente affinato con aperta e spesso aspra ostilità verso la visione cristiana della vita e dei rapporti sociali. Decidere di fare di un simile contributo un “mattone” del muro della casa comune del Pd significa fare una scelta pesante e precisa. Che, infatti, sta producendo contraccolpi, crepe e lacerazioni. Liberi tutti di valutare gli uni e le altre, a maggior ragione chi le subisce. Noi ci siamo permessi di sottolineare che le sottovalutazioni – le sufficienze, appunto – si pagano. E ne restiamo convinti».
Nella pagina delle lettere, lo stesso giorno, il direttore di “Avvenire” ha risposto così a una lettrice:
«Ho poco da aggiungere, cara Cristina, alla sua riflessione. Fatti e misfatti, detti e contraddetti sono sotto gli occhi di tutti. Ma il “caso radicale” sta diventando ogni giorno più curioso e inquietante. Pannella, Bonino & Co. – dopo aver praticato per anni e anni la “politica del cuculo” cercando di insediarsi nei “nidi” partitici ed elettorati altrui – tentano oggi con incredibile e infelice leggerezza una capriola mozzafiato e si candidano ad assumere addirittura la rappresentanza del sentire politico “cattolico”. Dire che si tratta di un’operazione insensata e truffaldina è persino poco. Siamo davanti a un autentico insulto all’intelligenza e alla memoria collettiva degli italiani: su concezione e manipolazione della vita, tutela della famiglia, difesa della libertà educativa dei genitori, solidarietà sociale e visione del mercato e del lavoro i radicali predicano sistematicamente l’opposto di ciò che afferma la dottrina sociale della Chiesa e di ciò che i cattolici italiani si sforzano di testimoniare. Ma una melensa propaganda di stagione – sia pure somministrata a dosi d’urto e con lo scudierato di un partito, il Pd, che si era candidato a essere schietto e originale anche nel rapporto con il mondo cattolico più consapevole e impegnato – non può cancellare decenni di tragiche battaglie radicali contro la visione cristiana della vita. Nessuno può presumere di poterla fare a pezzi. Ed Emma Bonino meno di tutti».
Va detto che il doppio affondo del mercoledì delle ceneri contro la candidatura di Emma Bonino maturava da tempo in “Avvenire” e si era fatto presagire, il giorno precedente, da un editoriale del suo commentatore politico Sergio Soave, accompagnato in una pagina interna da un’intervista col vescovo Arrigo Miglio sui candidati alle prossime elezioni e in particolare su “certe storie personali inconciliabili con i principi cristiani”.
Monsignor Miglio, vescovo di Ivrea, è presidente del comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Socìali dei cattolici italiani.
La presa di posizione di “Avvenire” è quindi da leggersi anche come una scossa volutamente data dalla presidenza della CEI a un mondo cattolico – fatto di laici, di preti, di qualche vescovo – rivelatosi fin qui molto spensierato e accondiscendente nei confronti di candidature ostili alla Chiesa. Delle quali Emma Bonino non è la sola: basti pensare, in Piemonte, a quella di Mercedes Bresso, appoggiata dal partito di Pierferdinando Casini.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 19 febbraio 2009)

Vito Mancuso, un modernista pieno di ragnatele

Come abbiamo già riferito, sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica“, con l’imprimatur delle autorità vaticane, il teologo gesuita Giovanni Cucci stronca senza mezzi termini l’ultimo libro di Vito Mancuso, “La vita autentica”; e conclude: «La prospettiva di un orizzonte impersonale non risulta soltanto insostenibile in sede filosofica. Resterebbe da chiedersi come Mancuso, escludendo dal suo discorso la possibilità di Dio, possa ancora presentarsi come un teologo cristiano, e su che cosa verta a questo punto l’indagine della sua disciplina, ammesso che le parole conservino ancora un senso».
Non pago di ciò, la carovana di Mancuso gira per l’Italia, al traino di quell’astuto imprenditore culturale che è Corrado Augias.
Mercoledì 17 febbraio il “teologo” ha fatto tappa a Firenze. Dove ha incrociato la penna affilata di Pietro De Marco, che l’indomani, sull’inserto fiorentino del “Corriere della Sera”, l’ha sistemato così:
“La macchina del tempo: un confronto sulla fede vecchio di un secolo”. «Le formula “Leggere per non dimenticare”, che intitola a Firenze una nutrita, seguitissima serie di presentazioni di libri e autori, suonava particolarmente convincente ieri al pubblico più provveduto.
Il confronto tra Vito Mancuso, che “insegna teologia” all’università privata Vita-Salute di Milano, e Corrado Augias, giornalista e autore-conduttore di programmi televisivi, ricordava infatti i toni e i contenuti di una tipica discussione d’inizio Novecento, tra un intellettuale cattolico modernista e un divulgatore agnostico e anticlericale.
Mancuso ha ripetuto, con una semplificazione che è già tutta nei suoi libri, qualcosa che il secolo scorso ha conosciuto fino alla nausea e al rigetto, filosofico e teologico. La fede è esperienza vitale, nasce dalla Vita, sussiste, se resta autentica, nella Vita; le religioni vengono dopo, interpretano variamente l’Esperienza, le si aggiungono come sovrastrutture; la Realtà è un tutto energetico, percorso come da una “corrente elettrica” che è la modalità autentica dell’esistere; il Dio personale del cristianesimo è teologia infantile o erronea, da superare, al pari di altri fondamenti della fede cristiana come il peccato, il male, l’immortalità dell’essere personale creato.
In un libretto recente, “La vita autentica”, il nostro “teologo” scrive: “Essendo tutto dominato dalla logica evolutiva, non esiste alcun punto fermo, se con fermo si intende qualcosa di statico e di immobile [...]. Dio è un punto fermo [...] nel senso di immutabile quanto alla dinamica del suo movimento vitale che è l’amore [...]. E va da sé che, non essendo Dio, a maggior ragione non sono punto fermo né la Bibbia [...] né la Chiesa con il suo magistero dottrinale [...], il quale parla veramente nel nome del Dio vivo solo se consente e incrementa il creativo dinamismo della libertà”. Un linguaggio disarmante, che non accetterei nella tesina di uno studente.
Mancuso aggiunge che “il punto in base al quale pensare me stesso e gli altri [...] non è statico, ma è dinamico, e tuttavia è fermo”. Per lui “il punto fermo di tipo dinamico” è una essenziale libertà non anarchica, un principio guida dell’essere. Un punto archimedeo. Sulla sua base, scrive: “sollevo me stesso, posso prendere in mano la mia vita, so cosa sono, attivo la mia natura profonda”.
Questo monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age. La Rivelazione, le Rivelazioni, sono accessorie. Ma il sostrato teorico di Mancuso è ben descritto da molti passi di un testo scritto più di cento anni fa.
L’enciclica “Pascendi“, del settembre 1907, prima che condannare diagnosticava magistralmente derive simili. Per i modernisti, scriveva, “nel sentimento religioso si deve riconoscere come un’intuizione del cuore”; essa “mette l’uomo in contatto immediato la realtà stessa di Dio”, così “chiunque abbia questa esperienza diventa credente in senso vero e proprio”. Il filosofo religioso di tipo modernista divinizza sia il Cosmo sia il suo Principio immanente. Vale la pena di rileggere l’enciclica di Pio X, una diagnosi che fu giudicata in molte cerchie filosofiche un capolavoro. E che, perfetta per l’oggi, rivela il suo valore predittivo.
Da anni, leggendo Mancuso, sono diviso tra lo stupore per una cultura, filosofica e teologica, approssimativa ed esibita, e la riflessione sul suo successo. Che Augias abbia catturato Mancuso in un libro a due, che si vende molto, e che se lo porti dietro in un inesausto calendario di incontri, ha una sua logica. Mancuso produce, infatti, più danni nella religiosità comune e cattolica che la cultura ottocentesca del giornalista de “la Repubblica”. Dopo Adriano Prosperi, e altri, la coppia Mancuso-Augias garantisce una solida continuità di polemica anticattolica. Augias ha avuto persino il cattivo gusto di polemizzare a Firenze col suo “arcivescovo retrivo”.
Ma che la minoranza cattolica che legge di “teologia” accetti enunciati vitalistici che Max Weber avrebbe detto da rivista salottiera (“la vera fede si nutre delle interrogazioni radicali della vita perché sa di essere al servizio della vita”); e li accetti come “metodo” e come via d’uscita da quello che il nostro “teologo” definisce le incapacità teologiche della dommatica cattolica (che non conosce), produce allarme. Chi ha decostruito l’intelletto cattolico a questo punto?»

(Fonte: Pietro De Marco, Carriere della Sera, 18 febbraio 2010)

Ipazia, fra storia e mito anticattolico

Sulla Rete è partita una raccolta di firme per far uscire in Italia il film del regista spagnolo Alejandro Amenabar Agorà, che la solita “subdola censura ecclesiastica” vorrebbe vietare agli italiani. Sì, perché il film parla di Ipazia, la affascinante filosofa pagana di Alessandria uccisa dai cristiani per ordine del vescovo s. Cirillo nel 415.
Ma la "verità" della pellicola di Agorà non è la "verità storica"...
I cercatori professionisti di scheletri nell'armadio cristiano ogni tanto tirano fuori l'episodio e, ovviamente, lo adattano al politicamente corretto corrente. Fino all'Illuminismo nessuno sapeva neanche chi fosse, questa Ipazia. Poi, il positivista John Toland nel 1720 e il solito Voltaire nel 1736 aprono le danze sulla progressista Ipazia vittima dell'oscurantismo clericale. Nel 1776 l'inglese Edward Gibbon consolida il mito nella sua celebre opera sulla caduta (per colpa del cristianesimo) dell'Impero romano. Nel secolo seguente tocca ai romantici: Ipazia è bellissima ed è l'ultima rappresentante dei mondo antico (dipinto come un'arcadia tutta ninfe, zefiri, pastorelle e satiri) trucidata dal fanatismo papista. Naturalmente, nel Novecento, Ipazia, vetero femminista, diventa la preda della misoginia cattolica. L'unica voce un po' fuori coro è quella di Mario Luzi, che le dedica un dramma nel 1978. Adesso, il film (e il cinema, forma di arte totale, si imprime nelle menti con una forza che la parola scritta neanche si sogna la scienza contro la religione, la tolleranza contro il fideismo. E indovinate chi sono i buoni e chi i cattivi. Roba da Odifreddi. Dunque, rassegniamoci al solito minestrone politicamente corretto. E non contate su una cinematografia contraria perché non esiste: Martinelli e il suo Barbarossa sono stati presentati come “leghisti” su tutti i media, così che il pubblico è rimasto a casa.
Coi nostri limitati mezzi, dunque, ecco la verità sul «caso, Ipazia». Innanzitutto bellissima lo sarà stata forse, da giovane, visto che nel 415 la filosofa aveva sui sessant'anni (in un'epoca in cui già a quaranta pochi avevano ancora denti in bocca). Il suo fu un omicidio politico e la religione non c'entrava affatto. Ipazia, figlia di un filosofo - Teone - molto addentro nell'ermetismo e nell'orfismo, era una neoplatonica che teneva scuola ad Alessandria. Una scuola tra le tante, in quella capitale della cultura antica. La parola “scuole” non deve trarre in inganno: si trattava di cenacoli per selezionati adepti. Di lei non è rimasta alcuna opera. Quel che si sa lo si deve ai suoi discepoli. Tra i quali c'erano parecchi cristiani. Uno di questi, Sinesio di Cirene, divenne addirittura vescovo. Secondo il metodo platonico (derivato a sua volta da quello pitagorico) i discepoli apprendevano «misteri» che non dovevano essere divulgati, perché non tutti erano in grado di comprendere. Ipazia non era affatto pagana nel senso di adoratrice di Giove, Giunone e Mercurio; anzi, come neoplatonica era più vicina al cristianesimo che al paganesimo. Infatti, lodava virtù come la verginità (non si sposò mai) e la modestia nel vestire. Ma, come i pitagorici e i platonici, sosteneva che i filosofi, essendo i più sapienti, dovevano occuparsi di politica, anche solo come consiglieri del principe. Infatti, ai suoi consigli ricorreva spesso il cristiano Oreste, prefetto di Alessandria. Oreste, da buon funzionario bizantino, aveva la classica visione cesaropapista dei rapporti con l'autorità religiosa, mentre il patriarca Cirillo cercava di salvaguardare l'indipendenza della Chiesa rispetto al potere politico. Nel 414 il contrasto tra i due divenne plateale; Cirillo cercò un compromesso ma Oreste rimase fermo sulle sue posizioni. Si formarono, al solito, due partiti (cosa normalissima nell'antichità; S. Ambrogio di Milano ne sapeva qualcosa). Tra i partigiani del patriarca, però, c'erano i cosiddetti parabolani, cristiani in odore di eresia per la loro ricerca fanatica del martirio: si consacravano con giuramento alla cura degli appestati, sperando in tal modo di morire per Cristo. Li chiamavano così in ricordo degli antichi gladiatori (aboliti da Teodosio) che affrontavano i leoni nel circo. Cirillo cercava di tenerli sotto il suo controllo ma la città era turbolenta: nel 361 un vescovo imposto da Costantinopoli, Giorgio di Cappadocia, era stato linciato; sette anni dopo la morte di Ipazia stessa sorte era toccata al nuovo prefetto; nel 457 venne ucciso a furor di popolo un altro vescovo di nomina imperiale, Proterio. Fu in questo ambiente e in questo clima che la colpa dell'intransigenza di Oreste venne attribuita a Ipazia e ai suoi consigli. Si sparse la voce che i «misteri» della sua scuola riguardavano pratiche magiche e negromantiche. La donna venne assalita da un gruppo di esagitati mentre gli schiavi la portavano a passeggio in lettiga, tirata giù e trucidata. Oreste e Cirillo, messi di fronte al fatto compiuto (e impressionati dalla piega che aveva preso la loro disputa), si riconciliarono. Il prefetto lasciò Alessandria, forse per fare rapporto alla capitale; comunque, forse sostituito, non tornò più. Un'altra cosa da chiarire: Cirillo non aveva niente contro il paganesimo, sia perché ormai minoritario e praticamente ininfluente, sia perché la sua preoccupazione principale era costituita, semmai, dalle eresie cristiane, che a quel tempo spuntavano al ritmo di quasi una al giorno. Solo anni dopo, con l'avvento di Giuliano l'Apostata, prese la penna per contrastare il tentativo - tutto politico - dell'imperatore di ripristinare l'antica religione civile romana. Il neoplatonismo, col suo desiderio di attingere il divino tramite la filosofia e la pratica delle virtù, continuò ad avere la città di Alessandria come suo centro fino all'invasione islamica. Tra l'altro, quest'ultima fu enormemente facilitata dall'astio accumulato dall'Africa romana contro Bisanzio, la sua gravosa tassazione (in parte giustificata dalle guerre quasi continue contro i persiani, i bulgari, gli avari e infine gli arabi) e la sua politica della mano pesante contro le eresie (che in quelle zone avevano sempre trovato terreno fertile).
Naturalmente, ai cantori del politicamente corretto (il quale, come abbiamo visto, varia di epoca in epoca) tutto questo non interessa. Così, il mondo pagano viene immaginato (e rappresentato) come un'epoca d'oro di scienza e tolleranza, dove la gente viveva in armonia con la natura, un mondo che, ahimé, è stato distrutto dalle religioni monoteistiche, in particolare l'odiato cristianesimo. Quel mondo in realtà disperato in cui pochi campavano alle spalle di milioni di schiavi, sconvolto continuamente da guerre scatenate dalla personale ambizione di uno, quel mondo che accolse con sollievo la religione dell'amore del prossimo e della dignità umana, non è mai esistito per gli intellettuali, gli artisti, i registi e gli scrittori che, fiutato dove tira il vento, si allineano supini al Potere del momento. I milioni di martiri cristiani? Se la sono cercata e se la cercano. I cristiani sono cattivi perché hanno ucciso Ipazia, così come gli statunitensi fanno schifo perché hanno ammazzato Toro Seduto. In effetti, Hitler e Stalin erano battezzati, non si può negarlo. Anche Robespierre. È strano che non siano stati ancora messi tra gli scheletri nell'armadio della Chiesa cattolica. Eh, il Papa dovrebbe chiedere scusa...

(Fonte: Rino Cammilleri, Il Timone, novembre 2009)

giovedì 18 febbraio 2010

Uomini di Chiesa: una domanda angosciante

Mi sono imbattuto in un commento abbastanza tragico sui comportamenti del clero di oggi, così come emergono dalla triste realtà propostaci quotidianamente dai media.
È un’amara constatazione, lo sfogo di un cattolico che non sa capacitarsi del perché tante trasgressioni si possano essere concentrate in questi ultimi anni. Sono parole sofferte, che propongo alla meditazione dei lettori:
«Da cattolico praticante mi pongo una sconvolgente domanda. Non è che per caso stiamo vivendo in questi anni un predominio di satana contro la Chiesa di Cristo?
La domanda può sembrare una provocazione, l’esagerazione di un miope che non vede oltre il proprio naso. Ma dall’esame, anche se grossolano, di una serie di fatti e di andazzi recenti, penso che nutrire qualche dubbio sia più che legittimo.
Solo per restare negli ultimi anni cito quanto è emerso:
- casi di pedofilia pesante in Austria, vasta pedofilia negli USA, pedofilia in Canada, vasta pedofilia in Irlanda, emergente pedofilia in Germania, casi di pedofilia in Italia.
- uno stuolo preoccupante di religiosi consacrati che preferiscono ambienti femminili, in particolare quelli che esibiscono gonne corte e seducenti, piuttosto che le chiese e le sacrestie;
- preti che ingravidano donne sposate, o che addirittura stuprano pie donne e suore,
- vescovi che si dedicano a stregonerie (Milingo docet),
- religiosi maneggioni che inseguono apertamente il vile denaro e il successo personale sui media;
- religiosi a cui stanno a cuore, esageratamente, le prostitute da recuperare e da accudire, ma che poco si occupano della generale cura delle anime nelle loro parrocchie;
- preti che contrastano le direttive del Papa in materia di etica,
- preti che addirittura uccidono o si suicidano.
Vi è poi la gran parte dei sacerdoti che girano in abiti borghesi, esibendo al massimo dei microscopici crocifissi, peraltro sempre più nascosti, in modo da renderli ben difficilmente riconoscibili come "religiosi consacrati"; religiosi che troppo spesso preferiscono alla tonaca indumenti da straccioni, al pari dei contestatori più impegnati dei centri sociali; suore che al posto delle loro tradizionali divise “identificative del loro ordine”, indossano abiti civili a dir poco ridicoli. E non voglio continuare con gli esempi.
È comunque inutile continuare a girare intorno al problema e fingere di non vedere le degenerazioni esistenti. Vien quasi da pensare che nella selezione delle vocazioni, per anni la Chiesa abbia commesso errori macroscopici di valutazione, aggravati da un certo lassismo e permissivismo che ha completato questo quadro devastante.
Superficialità? Scarsità numerica? Le vocazioni sono poche, e quindi avanti tutta? Porte aperte indistintamente a tutti, anche ad elementi emotivamente instabili, con personalità ambigue, poco chiare? Non so: eppure il Papa aveva ben segnalato questo pericolo, aveva messo in guardia per tempo contro tali pericoli. Ma non sia mai : verba volant anche nella Chiesa?».
Coraggio, caro amico: ci rassicuri il fatto che a contrastare tali disastri abbiamo innumerevoli esempi di eroica santità, illuminata ed illuminante. Del resto, le forze del male (inferi) non “praevalebunt”!

(Administrator, 18 febbraio 2010)

Solenne stroncatura dei Gesuiti: Mancuso non si definisca «teologo cattolico»

Un libro «ambiguo» ed anche «equivoco», che invita a fare a meno di Dio nell’arte di vivere bene: così «La Civiltà Cattolica» interviene sull’ultimo lavoro del teologo Vito Mancuso, intitolato «La vita autentica» (Raffaello Cortina editore). La rivista della Compagnia di Gesù, con un articolo di padre Giovanni Cucci che apparirà sul prossimo fascicolo, esprime varie riserve sul volume di Mancuso, uno dei libri più venduti della saggistica nelle ultime settimane. E a conclusione della stroncatura, «La Civiltà Cattolica» sostiene che Mancuso, con le tesi esposte, non dovrebbe più fregiarsi del titolo di teologo cattolico.
Scrive a tal proposito padre Cucci: «Resterebbe da chiedersi come Mancuso, escludendo dal suo discorso la possibilità di Dio, possa ancora presentarsi come un teologo cristiano, e su che cosa verta a questo punto l’indagine della sua disciplina, ammesso che le parole conservino ancora un senso».
Il libro di Vito Mancuso tratta un tema fondamentale della condizione umana, riallacciandosi alla concezione classica della filosofia intesa come arte di vivere bene. L’articolo della «Civiltà Cattolica« presenta i capisaldi essenziali, capaci, secondo l’autore, di favorire l’autenticità della vita (la libertà, la verità di se stessi, la giustizia, il bene).
Analizzando la conduzione generale della ricerca di Mancuso, padre Cucci pone tuttavia alcuni interrogativi e perplessità di fondo circa i suoi presupposti. E conclude: »Mettendo a confronto le varie parti del libro, il meno che si possa dire è che la conduzione del discorso risulta molto ambigua ed equivoca, per non dire contraddittoria. In fin dei conti, per Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’autenticità? Le risposte che giungono dal libro non consentono di stabilirlo, poiché si afferma in una pagina quanto viene negato alla pagina successiva».

(Fonte: Avvenire 5 febbraio 2010)

Il festival di Sanremo, specchio del pensiero unico

Sanremo specchio del Paese. Se è così, il nostro Paese è davvero triste. Io mi concentrerò su due momenti del Festival: la gag di Bonolis e Laurenti e la canzone di Povia su Eluana.
Partiamo dai due grandi gigioni, ai quali è stato assegnato il compito di dare il la a tutta la manifestazione. Laurenti si è scatenato in una cover americana, e uno si chiede: ma non c’era niente di meglio da scegliere nel glorioso patrimonio della nostra canzone italiana? Non è un quesito che denota provincialismo. Semmai è provinciale, culturalmente sottomesso e subalterno, chi non crede alla dignità della propria musica (quella che, fino a prova contraria, Sanremo dovrebbe farci ascoltare) e saccheggia repertori stranieri. Questo non vuol dire che il Festival non debba ospitare i grande talenti internazionali, ci mancherebbe. Ma la sigla è un’altra cosa, è il biglietto da visita.
Poi Bonolis. Spero davvero che non sia lo specchio del Paese, con quelle battute da basso cabaret, da villaggio vacanze, direi, con quei bambini nudi o al cesso, con la monta dei canguri. Bonolis è quello che è, un vanesio che passerebbe sopra anche a sua madre pur di strappare una risata. E non si preoccupa se quello che dice e fa è triste, squallido, vergognoso. Ci sono anche i bambini a guardare Sanremo. E’ giusto che Mamma Rai ci propini tale squallore?
E infine Povia. Qui va ricordato qualcosa. L’anno scorso si presentò con la canzone “Luca era gay” e lo difendemmo contro l’intolleranza della lobby gay. E Bonolis, sempre lui, il bravo presentatore, lo boicottò, prese le distanze, fece intervenire Benigni che ci ammannì la tirata su Oscar Wilde. Povia combattè la sua battaglia contro il politicamente corretto, contro la dittatura culturale che regna in Italia e nel mondo intero, e per questo ci sembrò simpatico, e lo difendemmo.
Quest’anno Povia è rientrato nei ranghi. E non c’è nessuno a Sanremo a fargli da contraltare. E’ la dittatura del pensiero unico. A parte qualche cardinale che ha messo in guardia quelli che sanno pensare, nessuna voce si è levata sul palco dell’Ariston, in diretta nazionale, contro il suo inno all’eutanasia. Stavolta non c’è stato un Benigni a dirci qualcosa di opposto o anche solo di diverso. Mettetela come vi pare, ma le cose sono andate proprio così.
E a questo punto vale la pena entrare nel merito della sua canzone e lo faccio avendo anch’io scritto di getto, molto prima di lui, una canzone dedicata ad Eluana. Io ero stato molto più umile di Povia: avevo fatto parlare Dio. Potrebbe sembrare il contrario, ma non lo è. Mi sono limitato ad ispirarmi a quello che Gesù ha detto e ha fatto così come lo si legge nel Vangelo. In qualche modo, mi sono messo in disparte. Ed ho immaginato che Dio stesso dicesse alla povera Eluana (abbandonata alla morte nella funesta clinica di Udine) che le stava vicino e le stringeva la mano.
Povia no. Povia ha avuto la pretesa di far parlare Eluana. E’ lei che chiede a suo padre di tenerle la mano. Ci vuole del coraggio a scrivere e a cantare questa roba, perché ancora nessuno sa che cosa abbia provato quella donna quando ha capito che intorno a lei si stava armeggiando per la sua morte. Avrà davvero pensato “chiedo solamente di volare / volare sopra le parole, sopra tutte le persone / sopra quella convinzione di avere la verità”? Pensa questo un condannato a morte? Siccome è quanto meno lecito dubitarne, risulta evidente la pretesa di Povia.
Ma bisogna aggiungere ancora una cosa a proposito della “convinzione di avere la verità”. Se Povia giudica chi ha questa convinzione, due sono le possibilità: o lui conosce una verità diversa, che è quella che canta, e allora anche lui è convinto di avere la verità; oppure si sta pronunciando per un completo agnosticismo, ma allora non dovrebbe nemmeno permettersi di scrivere e cantare alcunché, perché quello che canta non è agnostico, ma una sua interpretazione della coscienza di Eluana. Cito Chesterton: “Il giovane scettico dice: io ho un diritto: quello di pensare con la mia testa. Ma il vecchio scettico, lo scettico completo dice: io non ho nessun diritto di pensare con la mia testa. Io non ho affatto il diritto di pensare”.
Voglio dire che non si può affermare una verità (ora Eluana vola, è libera, ama e bla bla bla...) e poi prendersela con coloro che sono convinti di avere la verità. Non è corretto. E’ sleale. Che Povia affermi la propria verità. Ne ha il diritto. Che provi a confutare le verità altrui, se ci riesce. Va bene. Quello che non è ammissibile è giocare sporco e fare il furbo.
Ecco, forse Sanremo più che lo specchio del Paese è lo specchio dei furbi, dei Bonolis e dei Povia, e del pensiero unico che ci vogliono imporre. Voglio sperare che il Paese abbia ancora una sufficiente dignità ed intelligenza per saper giudicare.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 17 febbraio 2010)

San Remo scorretto già in partenza: fare audience a tutti i costi!

Altro che “Grazie dei fior”: sessant’anni dopo, il Festival festeggia il suo compleanno con nervosismo, musi lunghi e temi pesanti come la droga sbandierati fuori luogo.
Ma Antonella Clerici non aveva promesso «una grande festa, un Festival che mi assomiglia, semplice, lineare, allegro»? Di motivi per stare allegri, la bionda conduttrice, che da stasera al 20 febbraio condurrà la kermesse, non ne ha molti. Travolta dall’ansia di fare audience, in una kermesse dove i grandi ospiti faticano ad arrivare perché di soldi ne girano pochi (forfait all’ultimo di Christian De Sica e di Raoul Bova, stasera il Festival si appiglia al duo Bonolis-Laurenti e per sabato hanno messo sotto contratto Tiziano Ferro) la Clerici, spalleggiata dal direttore artistico Gianmarco Mazzi, «gioca» col caso Morgan e i suoi problemi di droga che l’hanno fatto espellere dalla gara. Per la Clerici «Morgan in qualche modo ci sarà». Ma è immediatamente smentita dalla direzione generale della Rai. Svelando apertamente le contraddizioni di questo Sanremo, dove direzione artistica del Festival e dirigenza Rai sembrano navigare a vista. Di certo, non un buon inizio.
Ribatte Antonella, imbarazzata: «Morgan in qualche modo ci sarà: stiamo valutando se far sentire la sua canzone ma senza di lui». Interviene il direttore artistico Mazzi: «Noi non stiamo facendo un teatrino su questa dolorosa vicenda. E comunque possiamo essere misericordiosi?». Vero. Ma non sarebbe più «misericordioso» smettere di tirare in ballo la dipendenza da cocaina dell’artista per il suo bene e per quello degli spettatori? Il direttore di Raiuno Mauro Mazza tenta un’imbarazzante via di mezzo, proponendo «un saluto a Morgan», per poi dire che l’azienda ha «preso una posizione netta«. Se fosse così netta, perché allora invitare Morgan da Vespa (record di ascolti) e dalla Ventura (partecipazione poi saltata)?
Insomma, da una parte Morgan viene considerato inaccettabile e dall’altra è invitato in tutti i programmi. Un «gioco» che fa infuriare tanti. A partire dal presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: «Il caso Morgan è utile per produrre titoli sul festival. Si avvia un ulteriore teatrino che la Rai farebbe bene a bloccare. La droga è un pericoloso veleno. Solo degli irresponsabili trasformano chi ne ha tessuto le lodi in un motivo di attrazione. L’audience non è tutto». Già, ma la Rai «deve» mantenere gli ascolti del Festival in linea con quelli dell’anno precedente (e stavolta sarà dura), pena la restituzione di parte del danaro agli investitori pubblicitari.
Di «strumentalizzazione di un problema grave ai fini dell’audience» parlano altre voci autorevoli: il senatore Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il presidente dell’Aiart Luca Borgomeo, il presidente di Pubblicità Progresso Alberto Contri, il presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, Antonio Marziale, i membri della Commissione parlamentare di vigilanza Rai Francesco Casoli e Vincenzo Fasano. E pure Maurizio Costanzo, protagonista con la Clerici della serata finale del Festival, protesta: «Non si può far passare per saggio che "farsi" di cocaina è antidepressivo». Ma il gran finale è del furbo Bonolis: «Se fossi stato io il direttore artistico Morgan l’avrei invitato». Già, pur di fare ascolto, Paolo non guarda in faccia nessuno.

(Fonte: Angela Calvini, Avvenire, 16 febbraio 2010)

Gad Lerner in tv fa il processo ai cattolici. Con il suo connaturale strabismo


Gad Lerner la settimana scorsa, all’Infedele, con la scusa di parlare del caso Boffo, ha mandato in onda un processo al cattolicesimo italiano mixando furbescamente e a vanvera fatti completamente slegati tra loro. Un dentro fuori tra le vicende di Avvenire, quelle di Marcinkus, con sullo sfondo papi e secoli di storia e di fede. Il tutto, ovviamente, condito con una spruzzatina di Berlusconi e di moralità pubblica e privata. Spalleggiato da due editorialisti di la Repubblica, il teologo Vito Mancuso e lo storico Adriano Prosperi, non ha dovuto faticare per tenere a bada, abile conduttore qual è, Vittorio Messori e Luigi Amicone. Minuto dopo minuto, allusione dopo allusione, Lerner ha composto il quadro di una Chiesa cattolica intrallazzona e corrotta, divorata da lotte intestine, insomma una banda di truffatori immorali dediti agli affari loro.
Inutilmente Messori e Amicone hanno cercato di sostenere la verità, e cioè che in duemila anni di storia non pochi mascalzoncelli e anime fragili hanno attraversato curie e sacrestie ma che la Chiesa è altro e che proprio per questo ha resistito sia all’usura umana che a quella del tempo. Quisquilie. Lerner ha continuato a girare il coltello nella piaga con malcelata soddisfazione. Il tema della serata era un presunto complotto sul caso Boffo, ma una buona parte della trasmissione è stata dedicata a «Vaticano Spa», il libro del giornalista Gianluigi Nuzzi che ricostruisce affari e malaffari dello Ior, la banca del Vaticano guidata per vent’anni dal discusso vescovo Paul Marcinkus.
Cosa c’entrino Feltri e Boffo con le finanze cattoliche lo sa solo Gad Lerner. Che Marcinkus abbia combinato più di un pasticcio è storia nota da vent’anni. Che il libro di Nuzzi sia interessante è fuori dubbio. Ma da questo a imbastire un teorema in base al quale le finanze cattoliche sono marce e quindi è marcio anche buona parte del cattolicesimo, direi che ce ne corre. E comunque è una equazione pericolosa che quantomeno il giornalista Gad Lerner dovrebbe avere il coraggio di applicare con uguale energia sempre e comunque.
Il giornalista, come noto, non è cattolico. È di religione ebraica e non si è mai sognato di imbastire una puntata simile a quella di lunedì sera sul più grande scandalo finanziario degli ultimi anni, quello che ha visto come protagonista Bernard L. Madoff, ebreo, recentemente condannato a 150 anni di carcere negli Stati Uniti per aver truffato 500 miliardi di dollari a investitori di tutto il mondo. Madoff era ritenuto la punta di diamante della finanza ebraica e proprio all’interno della sua comunità, anche quella italiana, ha mietuto il maggior numero di vittime, tra le quali anche il premio Nobel della letteratura Elie Wiesel e il regista e produttore cinematografico Steven Spielberg. Seguendo il teorema Lerner, non solo la finanza ebraica sarebbe marcia, ma anche i suoi riferimenti civili e religiosi sarebbero assai furbetti.
Perché, sia pure con i distinguo dovuti alla non paragonabile organizzazione delle gerarchie delle due religioni, Madoff è stato il Marcinkus degli ebrei. Non potendo sospettare chi si nascondesse dietro quella maschera, in epoca non sospetta, persino il nostro autorevole commentatore R. A. Segre lo aveva definito, «il prototipo della onestà e della generosità della finanza ebraica nel mondo, soprattutto religiosa». Ovvio, visto che l’uomo era stato anche tesoriere della Yeshiva University di New York e presidente della Business School, considerata la più prestigiosa istituzione accademica religiosa ebraica d’America.
Gli esempi potrebbero essere anche altri. Nelle non poche puntate che l’Infedele ha dedicato alle attenzioni per le donne del nostro presidente del Consiglio, Gad Lerner non si è mai soffermato, per analogia giornalistica, sullo scandalo che ha travolto il presidente dello Stato d’Israele, Moshe Katsav, che si è autosospeso dalla carica dopo essere stato accusato dalla polizia di violenze sessuali su una dipendente oltre che di intercettazioni legali e di frodi. Né si è mai sognato di mettere in discussione, per questo episodio, la moralità pubblica e privata dell’intera classe dirigente di Israele.
Ora, essendo La7 una televisione privata può mandare in onda ciò che meglio crede e i cattolici sono altrettanto liberi di cadere nel trappolone e andare a farsi massacrare e spernacchiare in diretta tv. Basta avere sempre presente che non solo la cronaca, ma a volte anche la storia, non è come Gad Lerner ce la vuole raccontare.

(Fonte: Alessandro Sallusti, Il Giornale, 10 febbraio 2010)

Una Lourdes troppo buia per essere vera

La prospettiva di Jessica Hausner nel suo Lourdes è dichiarata subito, sin dalla scena iniziale, coll’inquadratura dall’alto della sala da pranzo per i pellegrini. Nessuna finestra, ma una luce artificiale fioca, su un ambiente claustrofobico: nero il pavimento, nere le pareti cui sono appesi crocifissi neri, nere le gonne e i pantaloni del personale, neri i mantelli delle hospitalières con la croce di Malta, nere le divise dei Cavalieri dell’Ordine, neri i clergyman dei preti. A quei tavoli funerei prende posto,in silenzio, una turba da corte dei miracoli di nani, paralitici, cancerosi, assistiti da volontari tanto formalmente educati quanto distratti o perplessi (“che ci faccio, qui?”), vivi solo nello scambio di sguardi tra ragazze col velo e giovanotti col basco. Poca, pochissima luce in tutto il film, la cui cifra cromatica è il plumbeo: nuvole nere nel cielo persino nelle pochissime scene all’aperto. Anche la benedizione eucaristica del pomeriggio –l’appuntamento quotidiano più amato dai pellegrini, assieme alla processione notturna con le fiaccole– non è girata, come è nel vero, sulla grande, luminosa Esplanade che fronteggia i tre santuari sovrapposti. No, la Hausner ha scelto di ambientarla nell’enorme chiesa sotterranea, dove non penetra alcuna luce. Poca luce pure per la lugubre festicciola finale. E buia, ovviamente, la scena topica della guarigione –miracolosa o casuale che sia– della tetraplegica venuta a Lourdes non per fede, ma per sfuggire dalla casa dove il male la imprigiona.
Crediamo abbia visto bene la Uaar, “Unione degli atei e degli agnostici razionalisti“, nell’attribuire a questo film il suo beffardo premio intitolato a Brian, dal nome di una dissacrante pellicola su Gesù. Dicono, questi atei organizzati, che l’opera della Hausner potrà aiutare a perdere la fede “chi non è ancora approdato a una visione disincantata e scettica“. Pure la Massoneria ha espresso il suo apprezzamento. Che dire, allora, del premio attribuito dagli uomini di cinema cattolici, riuniti in un’associazione riconosciuta ufficialmente dalla Santa Sede? Che dire della diocesi milanese che ha deciso di sponsorizzare quest’opera, diffondendola nelle parrocchie?
Verrebbe in mente quanto mi disse un Umberto Eco ironicamente deluso, quando analoghi premi cattolici (uno, addirittura dalla Loyola University, l’ateneo dei gesuiti americani) furono attribuiti al film tratto dal suo Il nome della rosa: «Io ho faticato per fare un libro radicalmente agnostico se non ateo, sperando di suscitare un dibattito infuocato. E invece no, ‘sti preti mi fregano , applaudendomi e riempiendomi di premi. Quasi quasi ho nostalgia dei bei, vecchi tempi della Santa Inquisizione. Quei tosti domenicani erano meno noiosi del frate e del sagrestano “adulti” che, entusiasti, acclamano il miscredente».
Ma sì, sarebbe facile sorridere del masochismo clericale, cui peraltro siamo ormai rassegnati. Qui, però, occorre forse riconoscere delle attenuanti. In effetti, a una prima lettura il film della regista austriaca (la solita ex-cattolica: l’Occidente ne è ormai pieno) pare accattivante per i devoti. Non c’è nulla dell’anticlericalismo di un Emile Zola che si intrufolò, da anonimo, nel Pellegrinaggio Nazionale francese e ne trasse il suo fazioso romanzo, dove tutto inizia, per lui, da “une pauvre idiote“, da una piccola isterica chiamata Bernadette. Nulla, qui, delle invettive delle Logge ottocentesche, che chiedevano la chiusura manu militari di Lourdes “per abuso della credulità pubblica“, nonché per “ragioni igieniche“. Il vecchio mangiapretismo vociferante ha fatto posto, nella Hausner, a un ateismo radicale, ma politically correct. E una simile negazione della fede -durissima nei contenuti, ma molto soft nei modi può avere depistato i clericali entusiasti. L’ateismo, peraltro onestamente dichiarato nelle interviste, non sta tanto nella barzelletta del capo dei Cavalieri hospitaliers (la Madonna che vuole andare a Lourdes, perché non vi è mai stata), battuta un po’ blasfema che svela l’incredulità di quei volontari. Non sta tanto nei dubbi dei pellegrini, nel loro spiarsi invidiosi, ciascuno temendo che il vicino di stanza sia guarito e lui no. E non sta neppure in quei cappellani che, alle domande dei malati, replicano con slogan, quasi fossero distributori automatici di risposte apologetiche. No, l’ateismo radicale del film sta nell’annuncio che il cristianesimo è morto, perché proprio la cartina di tornasole di Lourdes rivela che sono morte le tre virtù teologali che lo sorreggevano: morta la Fede, morta la Speranza, morta anche la Carità, malgrado le apparenze di chi, come i volontari, sembra esercitarla. Ma per amore di sé, non dei bisognosi. Per sfuggire alla noia, per trovare un senso o un marito, più che per aiutare il prossimo.
Papa Giovanni definì Lourdes, che molto amava, “una finestra che si è spalancata all’improvviso, mostrandoci il Cielo“. La Hausner, quella finestra la chiude: da qui, la mancanza di luce, il senso di oppressione, la claustrofobia, il nero che segnano tutta la sua pellicola. Quel Cielo di Roncalli è ormai sbarrato, uccidendo la Speranza.
L’esplosione gioiosa dell’alba della Risurrezione è rimossa a favore di una routine devozionale grigia, noiosa, segretamente ipocrita. Ma è sul serio così? Chi ha esperienza vera di Lourdes sa (e non è retorica) che questo è il regno del dolore ma anche della gioia; della disperazione e della speranza; del dubbio e della fede; dell’egoismo di mercanti, osti, professionisti dell’assistenza e della generosità di infiniti anonimi. Un impasto contradditorio, certo, ma pieno di vita e plasmato, malgrado tutto, da una fede tenace, che non si arrende. Vi sono talvolta nubi, sui Pirenei. Ma, ancor più spesso, vi splende un sole caldo. La Hausner ha le sue ragioni, cui va il nostro rispetto. Ma, attorno alla Grotta – quella vera, non quella della ex allieva delle suore che ha perso la fede – c’è un braciere che continua ad ardere, simboleggiato dalle mille candele accese giorno e notte, da 150 anni. Non c’è il cero ormai spento, o solo fumigante, che vorrebbe questo film, tanto eccellente nella tecnica quanto unilaterale nei contenuti.

(Fonte: Vittorio Messori, Corriere della Sera, 12 febbraio 2010)

Droga: il maggiore distruttore di identità

Non si parla più di droga, del suo consumo sempre più smodato, degli innumerevoli utenti al fior di latte, degli altri dal folto pelo sullo stomaco.
Non se ne parla e basta, e se proprio siamo obbligati dal chiacchiericcio, lo facciamo quando qualcuno ci lascia le pelle, oppure quando un personaggio assai famoso, confessa di farne uso per i motivi più disparati, mentre si tratta unicamente di un consumo disperato che diventa disperante.
Se ne parla per “colpa” di qualche famoso che dialoga spesso agli altri, quasi mai a se stesso, oppure per qualche sfigato che rimane a terra, esalando un rantolo che somiglia a un crack, siamo bravissimi ad arrabbiarci, scandalizzarci, quando riteniamo sorprendente il comportamento di un nostro “eroe”, ma sul problema vero dell’uso e abuso, della accessibilità ad ogni angolo di strada, facciamo come gli struzzi, e affermiamo di non conoscerne il dramma, mentre ognuno di noi, adulti-genitori-educatori, potrebbe scrivere un trattato sul pericolo che ne deriva e affonda gli artigli sulla carne dei nostri figli.
Drogarsi è reato, ma dentro una corresponsabilità collettiva, per fare comprendere che tutte le droghe fanno male, approcciamo una comunicazione tanto urgente e delicata, con la pseudo-domanda: cosa bisogna dire e cosa fa più paura a un giovane?
Trattare la questione droga equivale a parlare di morte del cuore, della testa, dei polmoni, della sparizione vera e propria di intere generazioni. E’ incredibile come all’abitudine del “calare giù” normale e in bella mostra, al consumo in grande quantità, dalla discoteca alla festa in casa, dall’oratorio all’ufficio, dal fine settimana vissuto da leoni, non siamo preoccupati da questa vita piegata dal disprezzo della morte, dove permane la convinzione di riuscire a esorcizzarla, come se la paura fosse un misero espediente per rimuovere l’angoscia d’impotenza, attraverso la cultura d’evasione, che produce atteggiamenti nullificanti.
Non è con la ricerca di parole che spaventano, con il terrorismo dialettico, con l’imposizione della filippica nazional popolare, che sarà possibile mettere mano all’inquietudine dei giovani, alla loro fragilità quotidiana.
Occorre ridurre il rischio di incappare nelle etiche e morali d’accatto, che durano una trasmissione, un incontro e una convention ben pagata, forse è necessario dare di più e parlare di meno, fare di più per quelle comunità di recupero sul campo da decenni a combattere, a resistere, a consegnare strumenti di aiuto verso chi è imbavagliato dall’inganno delle droghe tutte.
Forse è il caso di dare sembianza e storia alla morte, alle troppe morti che ci portiamo dentro, che abbiamo intorno, forse occorre raccontare la nostra storia personale, quella rapinata di ogni dignità a causa della roba, la nostra storia personale di sconfitti-sopravvissuti-miracolati dalle mani tese, spesso sconosciute, che ci sono venute incontro.
Non è più tempo di elargire ulteriori fragilità, ma di affermare che la droga non lenisce la depressione, rimane il maggiore distruttore di persone, di identità, conduce dalla malattia al suicidio, e quando l’inganno è nudo, c’è la morte ad attendere al varco, e la morte fa sempre paura, soprattutto a chi pensa di non averne.

(Fonte: Andraous Vincenzo, Cultura Cattolica, 15 febbraio 2010)

È nel cuore dell’uomo la bussola di ciò che vale davvero

La decisione della Pontificia Accademia per la Vita, in occasione della sua assemblea annuale, di chiamare a riflettere i suoi membri sul tema del rapporto tra bioetica e legge morale naturale non ha soltanto una valenza dottrinale (peraltro di notevole spessore), ma in senso lato antropologica, o, se si vuole, "biopolitica". Infatti, solo nei limiti in cui si riconosce l’esistenza di una legge morale naturale, presente nel cuore di tutti gli uomini, e tale da donare loro la possibilità di discernere oggettivamente il bene dal male, è possibile difendere uno dei pilastri della riflessione bioetica, cioè il suo fondamentale carattere transculturale.
Se la dignità dell’uomo è inviolabile, è perché la vita umana è bene oggettivo, condiviso da tutti gli uomini, a qualunque cultura appartengano e in qualunque epoca siano chiamati a vivere e per questo le umiliazioni della dignità di ogni essere umano – e in particolare dei più semplici e indifesi – sono sempre e comunque un male, che va denunciato e combattuto. Quando si rinuncia a postulare una legge morale naturale, viene inevitabilmente meno la possibilità di dare un fondamento all’eguaglianza morale di tutte le persone e si apre la via ai mille tentativi, più o meno sofistici (e infinite volte riproposti nella storia) per legittimare indebite discriminazioni, distinzioni, gerarchie, ranghi, graduatorie, priorità tra gli esseri umani: tentativi che, quando sono stati coronati da successo, si sono inevitabilmente trasformati nell’oppressione sui più deboli da parte dei più forti.
Ricevendo i membri dell’Accademia, Benedetto XVI si è mostrato pienamente consapevole della rilevanza di questo tema, al punto da auspicare la promozione di un "progetto pedagogico integrale", per affrontarlo "in una visione positiva, equilibrata e costruttiva, soprattutto nel rapporto tra la fede e la ragione", perché "Dio ama ciascun essere umano in modo unico e profondo". Ed ha insistito nel rilevare come, quando si toglie al tema della dignità il fondamento della legge morale naturale, si corrono rischi gravissimi: si incrina il rispetto che si deve alla persona in ogni fase della sua esistenza, si mette a rischio la possibilità di costruire un coerente sistema dei diritti umani fondamentali, si indebolisce la loro difesa, come diritti assoluti e inalienabili, e si favorisce un uso strumentale della scienza, indotta a operare sul vivente umano, come se fosse riducibile a materia inanimata e manipolabile.
A questi esiti inaccettabili, il Papa ne ha aggiunto un altro, con forza particolare. Quando si nega la legge morale naturale e non si riconoscono principi universali che consentono di verificare un denominatore comune per l’intera umanità, "il rischio di una deriva relativistica a livello legislativo non è affatto da sottovalutare": la storia, ha aggiunto il pontefice, "ha mostrato quanto possa essere pericoloso e deleterio uno Stato che proceda a legiferare su questioni che toccano la persona e la società, pretendendo di essere esso stesso fonte e principio dell’etica".
C’è un ammonimento implicito nel discorso del Papa, di cui dobbiamo prendere adeguata consapevolezza: anche se apparentemente oggi siamo lontani dal rischio che si ripresentino sul palcoscenico della storia Stati "etici", secondo gli infausti paradigmi del Novecento, molto concreto è il rischio che si attivino nuove minacce alla vita e alla dignità umana, attraverso il riferimento a legislazioni formalmente democratiche, a convenzioni e accordi internazionali dotati di vasti consensi, ma giustificati spesso esclusivamente da specifici interessi politici, e sotto ogni altro profilo carenti di legittimazione.
La biopolitica, che si sta facendo strada nel mondo di oggi, sta frequentemente assumendo un profilo "positivistico" e troppo spesso la legalizzazione di prassi bioeticamente ingiustificabili attiva nell’opinione pubblica una pericolosa acquiescenza. La questione "antropologica", su cui il Papa ci invita costantemente a riflettere sempre più appare coincidere con le questioni bioetiche più estreme.

(Fonte: Francesco D’Agostino, Avvenire, 14 febbraio 2010)

Caffarra: «No alle nozze gay. Non si dica cattolico chi le promuove»

«È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso». È chiarissimo il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, in una nota dottrinale dal titolo “Matrimonio e unioni omosessuali” che intende illuminare «quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa».
Il segno di una crescente «disistima intellettuale» nei confronti del matrimonio, afferma Caffarra «è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli». A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento - fosse anche una sola! - una tale equiparazione, osserva il cardinale «costituirebbe una grave ferita al bene comune».
Essa, continua Caffarra «avrebbe il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune. Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene - non solo biologico! - della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite» .
E neppure le possibilità delle nuove tecniche artificiali di riproduzione «mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita». Per non parlare dei figli: «L’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato». L’equiparazione, insiste il cardinale avrebbe «una conseguenza che non esito definire devastante. Significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune».
E con ciò, commenta Caffarra «crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti».
L’arcivescovo smentisce anche che così facendo ci si troverebbe di fronte a una discriminazione. «Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno». L’obbligo dello Stato di non equiparare nasce dalla considerazione, ricorda il cardinale «che in ordine al bene comune il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico. Non svolgendo un tale ruolo le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento».
Il cardinale si rivolge inoltre ai credenti che hanno responsabilità pubbliche. «È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono» E se «la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione» di questa equiparazione, «o vota a favore in Parlamento di una tale legge», esiste anche la responsabilità «di chi dà attuazione ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie».

(Fonte: Stefano Andrini, Avvenire, 14 febbraio 2010)

venerdì 12 febbraio 2010

Un messaggio con due destinatari

Alla fine, il muro del silenzio è franato ed è dovuto intervenire addirittura il Papa, con un duro richiamo all’ordine, per cercare di por fine al logoramento dell’immagine della Chiesa a seguito del «caso Boffo».
La tradizionale tattica della prudenza con la quale, per secoli, il Vaticano è riuscito a soffocare, con il manto del silenzio, il fuoco degli scandali tra le sue mura, delle rivelazioni imbarazzanti sulle lotte tra poteri ecclesiastici, ma anche quello degli attacchi esterni contro la sua autorevolezza e credibilità si era ormai rivelata impotente.
Così, la nota della Segreteria di Stato che esplicitamente richiama l’approvazione di Benedetto XVI sul testo, una precisazione che, in tempi normali, sarebbe inutile perché ovvia, ha un duplice obiettivo: uno rivolto al mondo laico, l’altro a quello cattolico.
Al primo si offre la rappresentazione di una Santa Sede unita nel difendere l’onore dei principali collaboratori del Papa, a cominciare dal segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone e dal direttore dell’«Osservatore Romano», Giovanni Maria Vian, accusati di essere rispettivamente ispiratore e mandante della campagna di stampa con cui Feltri ha costretto Boffo alle dimissioni. Una difesa alla quale, poche ore dopo, la presidenza della Conferenza episcopale italiana si associava, avallando quindi la tesi di un perfetto allineamento del cardinal Angelo Bagnasco rispetto alla segreteria di Stato.
All’interno del mondo cattolico, il messaggio vuol essere altrettanto chiaro, ma molto severo. Benedetto XVI ha inteso dare un solenne «alt» alla perdurante lotta, sotterranea ma durissima, tra l’ala vicina all’ex capo dei vescovi italiani, Camillo Ruini e quella che sostiene il segretario di Stato, Tarcisio Bertone.
Uno scontro di potere senza il quale non si potrebbe capire come mai si sia riacceso, dopo mesi di tregua, il caso delle dimissioni di Boffo dall’Avvenire per la campagna di stampa del Giornale nei suoi confronti.
Un avvertimento inequivocabile: nessuna si illuda che i contrasti si possano limitare ad arrecare danni solamente agli avversari della fazione contrapposta, perché colpiscono, invece, l’intera immagine della Chiesa e arrivano fino alla figura del Papa.
L’invito a serrare i ranghi avviene in un momento molto delicato, perché sono imminenti scelte importanti nella struttura della Curia vaticana e dell’episcopato italiano.
Sono in scadenza, tra gli altri, il prefetto dei vescovi, Giovan Battista Re, il presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, Walter Kasper. Ma anche i capi di due diocesi come quella di Milano e di Torino. Così come si dovrà nominare il presidente della Fondazione Toniolo, l’influente organismo che condiziona anche la scelta di confermare per un altro mandato l’attuale rettore dell’Università cattolica, Lorenzo Ornaghi o di indicarne un altro.
Come è normale in tutte le istituzioni, la decisione per incarichi prestigiosi suscita una fibrillazione di candidature che non agevola la serenità interna, poiché i malumori degli esclusi sono sempre numericamente superiori alla soddisfazione dei prescelti. Ecco perché il protrarsi di una battaglia di logoramento tra gruppi rivali, a suon di ripicche, vendette, maldicenze, potrebbe non esaurirsi nei seguiti del caso Boffo, ma trovare, in un prossimo futuro, ulteriore e ancor più insidioso alimento.
Di qui anche le ripetute, clamorose, pubbliche condanne di Benedetto XVI per il dilagare del vizio di «carrierismo» all’interno del mondo ecclesiastico.
La mossa di far intervenire direttamente il Papa, attraverso la nota «approvata» della segreteria di Stato vaticana, potrebbe riuscire, effettivamente, a interrompere il fiume di indiscrezioni, vere o false che siano, sui retroscena dall’«affaire Feltri-Boffo».
Ma la discesa in campo di Benedetto XVI documenta anche la gravità del rischio di un deterioramento dell’immagine della Chiesa.
L’«esposizione» del Papa sullo scenario mediatico di una vicenda dai contorni sgradevoli e non del tutto chiari indica la necessità di ricorrere alla più alta autorità, in una istanza difensiva ultima e definitiva. Se così non fosse, non ci sarebbe altro riparo.

(Fonte: Luigi La Spina © Copyright La Stampa, 10 febbraio 2010)

“Lourdes”, film gelido da sala chirurgica

Film sulla disperazione e, quindi, antimariano, arriva questa settimana nelle sale italiane “Lourdes” della regista austriaca Jessica Hausner. “Dove giunge Maria è presente Gesù. Chi apre il suo cuore alla Madre incontra ed accoglie il Figlio 
ed è invaso dalla Sua gioia”, dice Benedetto XVI. La Hausner è convinta del contrario. Agnostico e antievangelico fin dalle intenzioni (“Volevo indagare sulla casualità dei miracoli”, dice la regista) il suo film è anche una sorta di riflettore accesso su una nuova ed inedita incapacità dei cattolici di capire e di utilizzare il cinema per la missione pastorale della Chiesa. “Ho trattato il miracolo e la malattia in senso metaforico per comunicare quanto il concetto di salvezza sia relativo – dice la regista -, mi interessava soffermarmi sulla transitorietà della vita”.
Il miracolo, spiega la Hausner “viene considerato come qualcosa di banale perché non racchiude necessariamente una morale o un senso, forse è soltanto una delle tante tappe della vita. Ci possono essere più risposte a un evento di quel tipo: l’autosuggestione e la forza psichica ad esempio; molte guarigioni non sono state nemmeno spiegate dalla medicina, e non capitano soltanto a Lourdes. Dopo essere stata a Lourdes posso dire una cosa: o Dio si è addormentato oppure non esiste”.
Il film è gelido e perfetto nella forma, come un’operazione chirurgica. C’è però anche una barzelletta. Gesù propone a Maria di andare a Betlemme, racconta un prete ad un assistente, la sera, dopo aver messo a letto i “malati”. Sempre Betlemme, replica Maria. Potremmo allora andare a Lourdes, dice Gesù. Carino, risponde Maria, non ci sono mai stata. Curzio Maltese, su “Repubblica”, spietatamente, ha scritto che le organizzazioni religiose del luogo di culto, dopo aver letto la sceneggiatura, hanno dato il permesso di girare anche in luoghi di Lourdes normalmente vietati alle macchine da presa. Il potere censura solo ciò che capisce, ha chiosato con sarcasmo. Il film, a Venezia, ha ricevuto due premi cattolici, il “Signis” (una volta si chiamava Ocic – Organizzazione Cattolica per il cinema) e la “Navicella” dell’Ente dello Spettacolo. È un sintomo di questa sorprendente confusione della cultura cattolica di oggi.
Nel 1944, in piena occupazione nazista, i cinematografari più famosi dell’epoca, per evitare la deportazione, si chiusero in una chiesa romana e, sotto la guida di Vittorio De Sica e grazie alla protezione proprio dell’Ente dello Spettacolo – Centro Cattolico Cinematografico, realizzarono uno dei capolavori della cinematografica cattolica. Si tratta de “La porta del cielo”. Anche in quel caso si narrava della devozione mariana e del mistero del miracolo. Scritto insieme con Zavattini, il film aveva un approccio laico ma non era agnostico. Nel lungo finale, davanti all’esposizione del Santissimo, la gente si inginocchiava e si faceva il segno della Croce. Il film si chiudeva con un miracolo ma, al contrario di quello descritto dalla Hausner, era lo stesso tipo di miracolo di cui parla il Nuovo Testamento, quello caratterizzato dalla conversione e dal perdono. Un film ben diverso, quindi, da quello della Hausner.
In questi giorni, il “Corriere della Sera” ha dato spazio a un dibattito sull’egemonia culturale della sinistra e sull’incapacità della destra di costruire un’alternativa. In un Paese come il nostro, verrebbe da chiedersi piuttosto che fine abbia fatto la cultura cattolica. “Credo che il cinema abbia fallito la sua missione di essere l’arte del nostro secolo. Ha fatto dei tentativi, persino dei tentativi eroici, ma ha fallito. Non solo ma, tra le arti, è forse la più grande responsabile di questa immensa opera di condizionamento, d’abbrutimento che si è compiuta”, scriveva Roberto Rossellini nel 1962. Da allora il cinema si è interrogato ancora mille volte sul senso del trascendente e sui valori umani fondamentali con risultati spesso eccentrici che hanno fatto fibrillare i critici cattolici. Con “Lourdes” invece si è scatenata (si fa per dire) solo una sorprendente e apatica afasia critica. Eppure basterebbe così poco per accendere il dibattito. A cominciare dalla locandina del film. C’è solo la metà del volto di una statua di Maria. Lucida, platinata e parziale. Una sintesi critica involontaria del film che infatti dice, in modo artefatto e plastificato, solo una parte della verità e non racconta l’altra storia, quella che muove centinaia di milioni di persone ogni anno verso i santuari mariani. “Lourdes è una profezia di giustizia e di pace, dove non c’è posto per la superbia e la durezza di cuore, anzi dove questa durezza viene sciolta dalla testimonianza della carità, della misericordia, della serena sopportazione del male, della solidarietà umana, della generosità sincera e toccante”, diceva Giovanni Paolo II nel 1989. Chissà se avrebbe apprezzato il film della Hausner.

(Fonte: Andrea Piersanti, Piùvoce.net, 9 febbraio 2010)

Quello che il caso Eluana ci ha insegnato

Un anno fa moriva Eluana Englaro. Ormai l’anniversario della sua morte è per noi una data quasi sacra. Il caso di Eluana, la sua condanna a morte sulla base di labili dichiarazioni, non controllabili, impossibili da verificare, e comunque troppo lontane nel tempo, è stato un colpo al cuore per tanti.
Bene ha fatto oggi il Presidente del consiglio a portare la sua personale solidarietà alle suore che avevano curato con amore quella sfortunata ragazza per tanti anni. Attraverso l’esempio di quelle suore si è visto fino a quali livelli di forza e di eroismo può giungere la compassione cristiana, quella che Nietzsche irrideva e considerava una manifestazione di debolezza, di decadenza. Per restare fedeli negli anni ad un corpo martoriato, ad un’anima imprigionata, offrendo continuamente cura, attenzioni, amore, ci vuole una forza di dedizione, un coraggio e, in ultima analisi, una speranza che sono davvero sovrumani. La carità cristiana, lo diceva San Paolo, tutto spera, tutto crede, tutto sopporta. La compassione cristiana è la sola in grado di accettare la realtà, di non censurarla, di guardare in faccia le circostanze per quelle che sono e di assumerle coraggiosamente, senza facili vie di fuga.
Non si può più parlare genericamente di compassione, come se questo termine fosse univoco. C’è una compassione cristiana e una compassione nichilista. Una compassione che si alimenta di speranza, ed una compassione che non spera niente. Una compassione che si china sulla realtà, ed una compassione che la cancella, che non sa accettarla. Questa seconda compassione è stata incarnata dal padre di Eluana ed è purtroppo un modello di compassione sempre più diffuso tra gli uomini di oggi, che non hanno forza sufficiente per raccogliere la sfida della realtà. Non è la compassione cristiana quella cui si possono applicare le categoria di Nietzsche. Semmai è l’altra compassione, quella nichilista: Una cosa da uomini deboli, disarmati di fronte al destino.
Il padre di Eluana ha commentato così il messaggio odierno col quale Berlusconi ha chiesto scusa di non essere riuscito a fare qualcosa per quella donna: “Non avrebbe parlato in quel modo se avesse visto Eluana”. In questa frase c’è tanto, veramente tanto di tutta questa storia. Eluana è stata “accompagnata alla morte” perché qualcuno non riusciva più a sopportarne la vista. Perché non rispecchiava più un modello di realtà che è fragile quanto la vita di ogni uomo e che quindi è poggiato su basi troppo labili.
C’è gente che per anni ha sopportato la vista di quel volto e di quegli occhi, che per anni ha stretto e accarezzato quelle mani; che per anni e anni ha parlato con quel volto, a quelle orecchie; che per anni ha lavato, accudito, pulito quel corpo; lo ha profumato, con la stessa cura con la quale si tratta una cosa preziosa. E c’è invece chi, subito dopo l’incidente, ha solo pensato una cosa: il giocattolo si è rotto e non è più possibile accomodarlo. Per alcuni Eluana ha continuato per anni ad essere una donna, un essere umano. Per altri è diventata da subito un vegetale, contro ogni ragionevole dubbio scientifico, con un’ostinazione fideistica degna delle menti più retrive e bigotte.
La compassione nichilista, del resto, non è interessata alla verità. In fin dei conti, non le interessa sapere come stanno veramente le cose. Questo nuovo tipo di etica, corrispondente ad un mondo estetico-virtuale-ecumenico, “smussa gli angoli, colma i crepacci, introduce strade levigate. Invece di fondarsi sull’ontologia, sul riconoscimento del reale, diviene funzionale al suo occultamento” (Massimo Borghesi, Il soggetto assente, Itaca). E’ per questo che, ostinatamente, si è chiusa la porta in faccia ad ogni ragionevole dubbio e ad ogni nuova acquisizione scientifica di fronte al caso di Eluana. Al pregiudizio ideologico ed oscurantista la ricerca scientifica non serve.
Ma accettare questa compassione, questo traviamento nichilistico della compassione cristiana, significa accettare di convivere con la menzogna, con la falsità. Ecco allora quella patente di morta prematura assegnata ad una donna che stava ancora bene in salute, che aveva le mestruazioni, che in qualche modo reagiva agli stimoli, che non era cerebralmente morta. Davanti a certi dati scientifici non si dovrebbe barare. E invece si è barato. Come se la vita e la morte di un essere umano potessero ridursi ad una semplice opinione.
Di fronte al caso di Eluana, come di fronte all’aborto, come di fronte alla soppressione e alla manipolazione dell’embrione, la cultura del nichilismo, la compassione dell’etica-estetica ci chiedono uno sforzo immane: quello di cancellare la realtà e di smettere di interrogarci sulla verità. Perché solo a questo prezzo potremo tranquillamente accettare ciò che la nostra evoluta cultura cristiana ci ha insegnato a considerare disumano, folle, perverso. Falso e menzognero.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 9 febbraio 2010)

Il disarmo dei cattolici in politica

I cattolici in politica non sanno più che pesci pigliare. La Dc, è risaputo, risolveva i problemi con la mediazione: accettava e accompagnava la secolarizzazione dei costumi e delle idee, ma al tempo stesso incarnava e univa in modo liberamente coeso l’intera classe dirigente cattolica, in tutte le sue sfumature. Dopo la scomparsa di quel partito-stato e partito-chiesa, con le sue due facce sempre in evidenza, l’unico progetto sensato era parso quello di Camillo Ruini, uno dei cardinali più interessanti della storia ecclesiastica del Novecento, l’uomo che Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger avevano scelto per rischiare una Chiesa “contestata” ma in grado di uscire dall’irrilevanza nell’arena pubblica.
Le tensioni interne alla Chiesa, denunciate energicamente dal Papa come tendenze pericolose al carrierismo dei vescovi, nascono anche da questa circostanza che sta sotto gli occhi di tutti: la crisi del progetto ruiniano di politica fondata sulla rivalutazione della funzione della ragione, sull’alleanza con i laici non credenti ma consapevoli del ruolo del Cristianesimo nella storia, sulla battaglia intorno ai dogmi nichilisti dell’ultrasecolarismo che nega se stesso e si fa ideologia intollerante, impulso totalitario, libertinaggio di massa nel campo della sessualità della vita umana manipolata e offesa e della famiglia.
In nome del pauperismo, del solidarismo e dell’ideologia astratta dell’accoglienza, come se la politica e l’attività sociale non fossero norme regolative della coesistenza civile ma servizio evangelico, si finisce alla base della Chiesa per votare Emma Bonino, un campione della menzogna sulla vita umana, ma presuntivamente “dalla parte dei deboli” perché schierata a sinistra. La contraddizione con il magistero dei tre ultimi papi, l’“Evangelium vitae”, e con il “sensus fidei” e la tradizione cristiana è patente, esplosiva, ma la tendenza a scavalcare il problema etico centrale del nostro tempo, a infischiarsene, diventa sempre più evidente.
Basta guardare Pier Ferdinando Casini e, con qualche elemento di consapevolezza in più, Rocco Buttiglione, i due cattolici “liberali” che dovrebbero occupare significativamente quel che è il residuo spazio centrale nella struttura bipolaristica e tendenzialmente bipartitica del nostro sistema politico. Sono anche loro in condizione di drammatica subalternità, per quanto tentino di mascherarla, e si consegnano a una strana politica dei due forni: quella della DC era per stare sempre al governo sfruttando l’appoggio degli altri, quella di Casini & C. è offrire il proprio appoggio agli uni e agli altri per finire sistematicamente all’opposizione.
Non parliamo poi dei cattolici cosiddetti democratici, che hanno in Rosy Bindi e Dario Franceschini i loro ultimi portavoce nel mondo postprodiano del Partito Democratico, l’una in maggioranza con Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, l’altro all’opposizione con Walter Veltroni.
Se i popolari di Franco Marini e Giuseppe Fioroni sono pesci fuor d’acqua che fingono di navigare, perché niente di quel che credono e che appartiene alla loro identità si riflette più nella formazione politica che si sono scelti, i cattoprogressisti alzano la voce e sembrano più a loro agio, ma è un gioco di riflessi illusorio. Anche loro sono la debole mediazione culturale cattolica a disposizione del corpaccione d’apparato postcomunista, che decide e dispone secondo i suoi disegni e progetti, senza vera discussione, senza vera fusione di anime e tradizioni politiche.
Il disarmo dei cattolici non deve far piacere nemmeno a chi cattolico non è. Perché quella cultura delle istituzioni e della società è stata il motore della crescita italiana del dopoguerra, ha tenuto alta la bandiera dell’identità nazionale e internazionale atlantica e democratica, dell’Italia repubblicana. La sua scomparsa è un lutto per tutti.

(Fonte: Giuliano Ferrara, Panorama, 8 febbraio 2010)