lunedì 23 febbraio 2015

Divorziato, risposato, comunicante. Una testimonianza

Quello che segue è un nuovo intervento, il terzo, stimolato dal saggio di Guido Innocenzo Gargano su matrimonio e seconde nozze nel Vangelo di Matteo, pubblicato su “Urbaniana University Journal” e rilanciato da www.chiesa: Per i “duri di cuore” vale sempre la legge di Mosè (che consiglio di leggere per entrare con cognizione di causa nel problema).
Mentre i primi due commenti, di Silvio Brachetta e di Antonio Emanuele, entravano nel merito dell’esegesi delle parole di Gesù, questo di Valentino Bobbio ha il sapore della testimonianza personale.
Bobbio descrive la sua esperienza di divorziato e di risposato civilmente che ha avuto “la fortuna di trovare comunità ecclesiali accoglienti e inclusive”, oltre che un direttore spirituale che lo “ha invitato a continuare nell’impegno ecclesiale e nell’eucarestia”. In piena consonanza, quindi, con la prevalenza della misericordia sulla legge, messa in luce da padre Gargano nelle parole di Gesù.
Il caso qui descritto mostra come la comunione ai divorziati risposati non sia solo una questione teorica in attesa di una soluzione futura, affidata all’esame del sinodo, ma sia già anche una realtà di fatto, attuata con il conforto e l’incoraggiamento di non pochi pastori e con l’ammirato riferimento alla prassi delle Chiese orientali.
Questa prassi è ritenuta più “misericordiosa” di quella della Chiesa cattolica per il suo ammettere le seconde nozze. Ma va anche tenuto presente che essa è storicamente molto più debitrice al prepotere dei tribunali civili che al dettato evangelico, come mostra la dettagliata ricostruzione che ne ha fatto alla vigilia del sinodo l’arcivescovo di rito greco Cyril Vasil, gesuita, segretario della congregazione vaticana per le Chiese orientali, già decano della facoltà di diritto canonico presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma:
> Divorzio e seconde nozze. La cedevole “oikonomia” delle Chiese ortodosse
Ma lasciamo la parola a Valentino Bobbio.
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«Gentile Sandro Magister,
la mia dolorosa e faticosa esperienza personale – oltre che la riflessione sui testi pubblicati sul suo blog – mi porta a condividere le fini e documentate argomentazioni di Guido Innocenzo Gargano nell’intervento su “il mistero delle nozze cristiane”, ed a concordare con il suo approccio, che unisce alla giustizia di Dio la misericordia, ed anzi ci ricorda che quest’ultima connota tutto l’insegnamento di Gesù, che la fa sempre prevalere sulla legge.
Il mio primo matrimonio, con una donna di grande valore e fede, è stato una sofferenza indicibile, fatta di incomprensioni continue e profonde. Dieci lunghi anni di dolore, rifiuto e torture psicologiche, anche se con la gioia di due splendidi figli. Innumerevoli i tentativi di risanare il rapporto con l’aiuto di psicologi, sacerdoti ed amici. La verifica del processo di nullità del matrimonio mi aveva fatto rinunciare, perché le modalità mi parevano offensive per mia moglie. Ero talmente distrutto che pensavo fosse impossibile un rapporto sereno e di condivisione tra uomo e donna.
Poi ho incontrato Francesca, mia moglie attuale: ero spaventato, tendevo a fuggire e attendevo spaventose tempeste che non sono mai arrivate. Ogni giorno sereno, di dialogo e condivisione mi pareva un miracolo unico destinato, immaginavo, a finire nella tragedia. Invece sono passati venticinque anni bellissimi di crescita insieme. In un clima di sostegno reciproco, rispetto e fiducia, abbiamo una casa aperta agli amici ed alle persone che hanno bisogno, e a cui Francesca è di grande conforto. Abbiamo un altro figlio, ma anche i due altri figli della mia ex moglie sono quasi nostri figli, ed i cinque fratelli vengono sovente, ancora adesso che sono grandi, tutti insieme in vacanza con noi.
Il mio confessore, don Arturo Ferrera che aveva seguito anni di tormenti e dolore – un grande biblista che aveva studiato al Capranica, emarginato a suo tempo dal cardinale Siri (quando poi, lasciato il ruolo di arcivescovo, don Ferrera andava a trovarlo, si chiedeva: “Perché vieni a trovarmi tu che avevo messo da parte e non vengono gli altri, che erano di mia fiducia e che ho fatto crescere?”) –, quando ho conosciuto Francesca mi ha detto: “Ora basta, approfondisci seriamente il rapporto con lei: nella Chiesa orientale è consentito un secondo matrimonio, in tono minore” e mi ha invitato a continuare nell’impegno ecclesiale e nell’eucarestia. Francesca è buddista, ma don Ferrera mi ha confortato, e confermo che la sua fede costituisce un grande valore e un’occasione importante di approfondimento e di intesa.
Anche la mia ex moglie, risposata civilmente come me, svolge il ruolo di catechista e di animatrice in parrocchia e suo marito è diventato anche lui studioso di teologia, molto impegnato. Abbiamo avuto tutti la fortuna di trovare comunità ecclesiali accoglienti ed inclusive, che ascoltano e cercano di capire i problemi, evitando di giudicare il cuore ed il comportamento delle persone, rispettose della coscienza e delle faticose e dolorose esperienze.
Non cambia la nostra visione della famiglia: l’attenzione, il desiderio di comunione vanno coltivati in una prospettiva di fedeltà al progetto comune, consapevoli delle nostre fragilità e limitatezze, e questo richiede impegno e indubbio superamento di ostacoli.
Purtroppo non hanno trovato comunità accoglienti e, direi profondamente ispirate e permeate dal Vangelo, sia quell’amico ginecologo che, avendo rifiutato di fare obiezione di coscienza per mantenere un dialogo credibile e non settario con le sue pazienti (pur essendo riuscito a non fare aborti), è stato cacciato dalla Chiesa; e così pure quel nostro amico gay che si è sentito giudicato, disprezzato, respinto e buttato fuori dalla Chiesa.
Dobbiamo veramente come comunità ecclesiali convertirci al Vangelo superando le nostre paure e timori (quelli che rendevano così rigidi e chiusi i farisei) e ricordarci, come ci dice padre Gargano, che la Nuova Alleanza proposta da Gesù è fondata non più sulla legge, ma risiede nel cuore. La Chiesa, egli ci ricorda, ha sempre affermato il primato della coscienza (il che non toglie che molto spesso non lo abbia rispettato, compiendo misfatti ed efferatezze), perché il giudizio sulle cose interne appartiene solo a Dio, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45). E Gesù non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo (Gv 12, 47), perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (Mt 9, 12). Infatti la Chiesa, ricorda padre Gargano; ha sempre ritenuto suo compito formare le coscienze, rispettando comunque l’autonomia del foro interno, fino al paradosso che, anche nei momenti più bui dell’inquisizione, la Chiesa condannava il comportamento esterno (e purtroppo quindi il corpo), lasciando alla misericordia di Dio la valutazione della coscienza e delle motivazioni dei condannati.
L’insegnamento della Chiesa orientale, sempre molto attenta a rispettare l’annuncio evangelico, legge le parole di Gesù sul matrimonio con più misericordia e in modo meno formale e meno giuridico, con meno paure rispetto alla nostra Chiesa ed a molte nostre comunità ecclesiali.
La fede ci deriva, e viene rafforzata, dalla testimonianza e dall’attenzione alla persona che viviamo nelle nostre comunità (Dio non ha mani, ha solo le nostre mani, dice una preghiera fiamminga; San Francesco diceva: Signore fai di me uno strumento della tua pace). Quante persone perdono la fede perché isolate e perché la loro comunità non le ascolta, non le capisce, ma, piena di paure le giudica e le condanna?
Credo proprio che il Dio della vita, come dice padre Gargano, abbia l’obiettivo di portare l’uomo, tutti gli uomini, “alla pienezza della vocazione originaria”, ossia alla pienezza di una vita di relazioni profonde, di comunione e di rispetto reciproco, e questo è quello che ci insegna la nostra Chiesa che vogliamo costruire come comunità inclusiva e accogliente. Valentino Bobbio». (Cfr. http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/)
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A questo punto mi siano concesse alcune personalissime considerazioni.
Non voglio entrare in sterile polemica con l’autore della lettera: quello che descrive è una sua personale esperienza, e se lui è tranquillo di essere nel giusto, intendo lasciarlo nella sua irenica tranquillità.
Questo non mi esime tuttavia dal definire le corbellerie descritte (chiedo scusa per il termine, ma io le vedo tali!) un discorso apertamente autoreferenziale, un “Cicero pro domo sua”, un maldestro tentativo di giustificare relativistiche e utilitaristiche convinzioni personali, fondandole su una fantomatica ortodossia dottrinale, basata sulla “teologia della misericordia” ormai condivisa da tutti, in primis ovviamente da “illuminate” e preparatissime guide spirituali; quindi come sicure ispiratrici di un corretto comportamento cristiano cattolico.
1) Il fatto che l’armonia con la sua prima moglie (peraltro “catechista” (?)  impegnata, che in seconda battuta si unisce civilmente ad un uomo esemplare, studioso di “teologia”!) sia presto degenerata in “dieci lunghi anni di dolore, rifiuto e torture psicologiche”, non fa altro che riproporre valutazioni personali scontate su un rapporto chiuso per carenza d’amore: e qui l’autore dimentica (convintamente?) di fare qualunque cenno di autocritica che riconosca quantomeno un 50% di sua personale responsabilità nel comune fallimento; anzi, nella sua “accorata” confessione, egli lascia trapelare il convincimento che l’unica responsabile sia la “moglie”: lui poverino ha fatto di tutto, ha cercato ogni possibile via per salvare il salvabile, è ricorso a specialisti, professori, preti, ma tutto inutilmente: “lei” è stata irremovibile; anche il ricorso ad un “riesame” sulla validità del vincolo da parte della Rota Romana, è stato da lui accantonato «perché le modalità mi parevano offensive per mia moglie» (che sensibilità!).
Insomma, nonostante lo sforzo di far apparire il suo caso come espressione di una “particolare” crudeltà mentale (“nihil novi sub sole”), penso si tratti invece più semplicemente di un matrimonio “normalissimo”, che si è infranto, né più né meno come milioni di altri casi, contro la roccia del reciproco, incancrenito egoismo personale dei coniugi: di questo si tratta, come a questo solo riconducono in genere tutti i naufragi matrimoniali.
2) A questo punto che succede? Andato in malora il rapporto precedente, nonostante i figli, il poveretto deve darsi da fare: per fortuna incontra colei che sarà la sua nuova compagna di vita: inizialmente lui è impaurito, spaventato, si aspetta da un momento all’altro che anche in lei, improvvisamente, esploda quella metamorfosi femminile antimaschilista, dominatrice, tipica di tutte le donne sposate: però «Francesca» è speciale: lei è un tipo straordinario, è «buddista» (ma non importa: il confessore «mi ha confortato» (!?!), dicendogli: «Ora basta, approfondisci seriamente il rapporto con lei: nella Chiesa orientale è consentito un secondo matrimonio, in tono minore» e soprattutto (attenzione!) «mi ha invitato a continuare nell’impegno ecclesiale e nell’eucarestia» (Eccolo qui il punto!). Quindi, decide di sposarla civilmente: e con lei “abbiamo un altro figlio, ma anche i due altri figli della mia ex moglie sono quasi nostri figli, ed i cinque fratelli (ma quanti sono: due più uno fanno tre, non cinque!) vengono sovente, ancora adesso che sono grandi, tutti insieme in vacanza con noi”. Che bello! Una scenetta da “Mulino Bianco Barilla”.
3) Conclusione? Tutto ok, tutto come prima, come se nulla fosse successo: per fortuna «abbiamo avuto tutti la fortuna di trovare comunità ecclesiali accoglienti ed inclusive, che ascoltano e cercano di capire i problemi, evitando di giudicare il cuore ed il comportamento delle persone, rispettose della coscienza e delle faticose e dolorose esperienze». «Purtroppo (gli altri) non hanno trovato comunità accoglienti e, direi profondamente ispirate e permeate dal Vangelo», come «quel nostro amico gay che si è sentito giudicato, disprezzato, respinto e buttato fuori dalla Chiesa»!.
Non aggiungo una parola di più: non so se questa lettera rappresenti una esperienza reale, o non piuttosto il parto di una fantasia prolifica. Rimane il fatto che sia il prete “consigliere” che il suo autore, rappresentano purtroppo una mentalità liberista, possibilista e relativistica, che si va espandendo a macchia d’olio, favorita in questo dalla grave carenza di chiare direttive dottrinali, che esplicitino inappellabilmente l’esatto comportamento dei cattolici.
Certo, c’è il patrimonio del pensiero teologico, c’è il magistero ecclesiale, c’è il Catechismo della Chiesa Cattolica: ma – si chiede l’uomo della strada - tutto questo è ancora valido?

(ma.la., 23 febbraio 2015)

 

domenica 22 febbraio 2015

Sinodo sulla famiglia: Riflessioni del Cardinale Kurt Koch

Mi è stato chiesto di presentare alcune mie riflessioni sul Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia, che si è riunito a Roma nell’Ottobre dello scorso anno. Per poter meglio valutare l’importanza di questo Sinodo, si deve innanzi tutto ricordare che si è trattato di un’Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi e che l’Assemblea generale ordinaria si terrà soltanto nel prossimo mese di Ottobre e sarà dedicata al tema: “La missione e vocazione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. Papa Francesco ha voluto che, precedentemente, avesse luogo un’Assemblea straordinaria sul tema: “Le sfide pastorali sulla Famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. L’obiettivo del Santo Padre è stato infatti quello di riflettere in maniera approfondita sulle svariate questioni pastorali e sulle molteplici problematiche che concernono oggi la Famiglia. Al riguardo, nel suo discorso di apertura del Sinodo dei Vescovi, egli ha definito quale atteggiamento di fondo si aspettava da noi Padri Sinodali: “Parlare con parresia e ascoltare con umiltà. E fatelo con tranquillità e pace, perché il Sinodo si svolge sempre cum Petro et sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti e custodia della Fede”. Per il carattere stesso di questo Sinodo, non ci si potevano aspettare orientamenti definitivi o decisioni del Santo Padre, che potranno venire soltanto dopo il prossimo Sinodo. Questo è confermato anche dal fatto che la Relatio sulla quale si è votato alla fine dell’ultimo Sinodo, costituisce i Lineamenta del prossimo Sinodo dei Vescovi. Pertanto, un giudizio conclusivo sull’Assemblea straordinaria dello scorso Ottobre, potrà essere espresso in maniera più giusta solo tenendo conto pure del Sinodo venturo.
Per lo stesso motivo, oggi non può essere mio compito anticipare, con le mie riflessioni, i risultati a cui perverrà il Sinodo futuro. Piuttosto, desidero cogliere questa opportunità, per sottolineare l’urgenza e la necessità di trattare il tema della Famiglia. Infatti, la Chiesa si trova oggi davanti alla sfida fondamentale di riportare in luce il Vangelo cristiano del Matrimonio e della Famiglia nell’odierna situazione pastorale e nella società contemporanea.
Questa sfida non è certamente nuova. Già Papa Benedetto XV, davanti a una minaccia di crisi della famiglia, introdusse, nel 1921, la Festa della Santa famiglia nel Calendario liturgico della Chiesa, per porre davanti agli occhi delle Famiglie cattoliche, l’esempio luminoso della Santa Famiglia di Nazaret, come è detto nella preghiera di questa festa. Soprattutto il Concilio Vaticano II, con la sua Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, “Gaudium et Spes”, nella quale venivano affrontati i problemi più pressanti degli uomini e della società umana dell’epoca, si è concentrato in primo luogo sulla promozione della “dignità del Matrimonio e della Famiglia”. Le posizioni del Concilio non hanno perso niente della loro attualità nella situazione odierna, in cui la crisi della Famiglia è diventata ancora più radicale e manifesta. Nella grande attenzione prestata dal Concilio al Matrimonio e alla Famiglia, va ravvisata “una visione profetica davanti alle grandi difficoltà che hanno pesato negli ultimi tempi sull’istituzione della Famiglia”. I concetti guida del Concilio, fanno parte dell’eredità permanente che ci ha lasciato, tanto più che la crisi della famiglia ha sperimentato, nel frattempo, un ulteriore aggravarsi.

Il primo concetto-guida del Concilio è la “santità del Matrimonio e della Famiglia”. Rammentarla è di fondamentale importanza, poiché l’istituzione della Famiglia è oggi rimessa in discussione in svariati modi, con atteggiamenti che vanno dallo sminuire il suo valore nel dibattito pubblico della società, al non riconoscere la sua identità ed i suoi diritti, fino al voler equiparare giuridicamente alla Famiglia, nel senso umano e cristiano, altre forme di convivenza. Ma da un punto di vista cristiano, è e rimane un elemento costitutivo il fatto che l’istituzione della Famiglia si fondi sull’istituzione del Matrimonio tra un uomo e una donna, e che la Famiglia rappresenta la cellula di base della società umana.
Questa convinzione si radica non solo in principi di Teologia Morale, ma in maniera molto più profonda, nella visione biblica della Creazione di Dio. Conformemente al racconto sacerdotale della Creazione, il rapporto matrimoniale tra uomo e donna, è talmente fondamentale che viene integrato persino in una definizione teologica della natura umana: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” - Gen. 1,27 -. In questa accezione elementare, non c’è l’uomo in generale. L’uomo esiste solo concretamente come maschio e femmina, la differenza di sesso nell’essere umano, fa parte della natura umana creata da Dio, e maschio e femmina insieme rappresentano, in quanto nocciolo della famiglia e forma di base della società umana, l’immagine di Dio nel mondo. Nella visione biblica, l’unione tra maschio e femmina è votata a vivere come espressione visibile di quel Matrimonio che Dio stesso celebra con l’umanità intera e con tutto il creato. Tale unione è l’alfabeto creaturale grazie al quale l’amore e la fedeltà di Dio vengono espressi in una lingua comprensibile agli uomini.
Il significato di Matrimonio e di Famiglia conforme alla Creazione, traspare in maniera chiarissima nel fatto che la realtà matrimoniale è stata elevata, nella Fede cristiana, al rango di Sacramento ed è pertanto contraddistinta dalla fedeltà e dalla inscindibilità. Questa visione di Fede, alla quale si riferisce il Concilio Vaticano II con il concetto chiave di “amore cristiano”, è oggi esposta ad una particolare erosione, che è testimoniata da un numero di separazioni superiore alla media e che rende necessario approfondire le cause dell’odierna crisi del Matrimonio e della Famiglia.

Il più profondo problema va ravvisato nella generalizzata e crescente incapacità delle persone a prendere decisioni vincolanti e definitive. Questa incapacità dipende direttamente dalla mentalità moderna. Le scienze storiche evidenziano la continua mutevolezza dell’umano e ribaltano l’idea della permanenza. Le scienze umane, soprattutto la psicologia e la sociologia, vedono come caratteristica dell’uomo, il prescindere da ciò che è definitivo e considerano la vita umana come una corrente che scorre in un avvicendarsi di decisioni. La scienza dell’evoluzione, infine, sostituisce alla stabilità del mondo, un ripetersi ininterrotto di sviluppi e vede l’uomo semplicemente come una tappa nella storia del divenire. Secondo questa mentalità moderna, che Papa Francesco chiama per nome in maniera calzante con il termine di “cultura del provvisorio”, le decisioni definitive e la fedeltà non vengono più annoverate tra i valori primari, poiché gli uomini sono diventati più incostanti nelle loro relazioni e, allo stesso tempo, più desiderosi di relazioni. Questa mentalità si rispecchia anche nel fatto che ormai è alquanto inusuale parlare di un partner per tutta la vita, dato che si parla, piuttosto, di un partner per un tratto di vita. Pare che oggi gli uomini non partano più dal volere qualcosa di definitivo; accade piuttosto il contrario, ovvero che si preveda già in partenza, l’eventualità di un fallimento. La Fede cristiana è invece convinta che colui che rimane fedele al Sì pronunciato ad un altro essere umano, non si cristallizzerà, ma imparerà in maniera sempre più profonda ad aprirsi al Tu e, nel far ciò, a giungere alla propria libertà.
Davanti al fenomeno sopraccennato, la Chiesa deve affrontare la sfida pastorale di come andare incontro ai tanti cristiani divorziati e risposati. Riguardo a questo problema, la percezione pubblica riguardo il Sinodo dei vescovi, si è concentrata sulla questione di sapere se e in quali condizioni, tali cristiani possano e debbano essere ammessi ai Sacramenti. Personalmente, sono convinto che si possano trovare risposte credibili ed utili a questa spinosa questione, soltanto se si ha il coraggio di chiamare con il loro nome, i problemi che sono alla sua base.
Il problema fondamentale consiste nel fatto che, da una parte, la realizzazione fruttuosa del sacramento del Matrimonio dipende dalla Fede vissuta nella fedeltà di Dio e, di conseguenza, nell’indissolubilità del Matrimonio sacramentale, ma, dall’altra, questa Fede non può più essere data per scontata, poiché oggi ci sono sempre più “pagani battezzati”, ovvero persone che sono diventate cristiane per il Battesimo, ma che non conoscono veramente la Fede. Ecco che sorge la questione ecclesiale, la mancanza di Fede o una Fede molto limitata nell’indissolubilità del Matrimonio sacramentale. Se ad esempio, nella visione cristiana, “tra i Battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che sia per ciò stesso Sacramento” - Can. 1055, Cjc -, allora ci si deve chiedere concretamente cosa avviene se un pagano battezzato non conosce il sacramento del Matrimonio. Si tratta di quella questione fondamentale alla quale aveva prestato attenzione Papa Benedetto XVI quando era ancora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ovvero determinare se ogni Matrimonio contratto tra battezzati, sia veramente un Matrimonio sacramentale.
Questa è, certamente, una questione molto difficile, per la quale non abbiamo ancora una risposta soddisfacente ed a cui la Teologia deve, pertanto, rivolgere un’attenzione speciale. Riflettendo al riguardo, si giunge comunque alla conclusione che la pastorale del Matrimonio, oggi debba concentrarsi accuratamente su una buona preparazione al matrimonio, su un catecumenato matrimoniale come equivalente del vecchio tempo di fidanzamento. Se pensiamo a ciò che investe la nostra Chiesa per un giovane che desidera diventare Sacerdote e lo si paragona a ciò che essa investe per due giovani che desiderano dirsi Sì per la vita, e se consideriamo che in entrambi i casi si tratta di una decisione irreversibile, giungiamo inevitabilmente alla conclusione che oggi è necessaria anche una profonda preparazione al sacramento del Matrimonio. A mio parere, il giusto cammino pastorale consiste proprio in questo e non nel minimizzare sempre di più le condizioni poste per il Matrimonio ecclesiale. Questa seconda opzione, infatti, non solo non è credibile, ma non rende giustizia neppure agli sposi. E’ contraddittorio e ingiusto se, nel momento del Matrimonio, ci si aspetta ben poco dalla Fede degli sposi e dalla loro volontà di contrarre un Matrimonio sacramentale, ma, dopo un eventuale fallimento del Matrimonio, si parte dal presupposto che vi era una chiara volontà di Matrimonio.
Quello che vale per una buona preparazione al Matrimonio, vale anche per l’accompagnamento degli sposi dopo il Matrimonio. Ritengo che il problema fondamentale in questo contesto, consista nel fatto che la nostra pastorale del Matrimonio e della Famiglia, sia, in media, una “pastorale delle nozze” e non una vera pastorale per il Matrimonio e per la Famiglia. Perlopiù, l’interesse pastorale è rivolto al fatto di contrarre il Matrimonio. Ma la grande responsabilità pastorale deve consistere nel capire come si possano accompagnare gli sposi e come si possano assistere i matrimoni esistenti, quelli sani e soprattutto quelli a repentaglio.

Soltanto tenendo conto di questo più ampio contesto, si potrà riflettere sul terzo concetto-chiave del Concilio Vaticano II, ovvero: “La fecondità del Matrimonio”. Nella visione cristiana, l’amore coniugale tra uomo e donna, non può limitarsi a se stesso e girare esclusivamente intorno a se stesso, ma deve uscire da se stesso attraverso i figli e per i figli; soltanto attraverso il figlio, il Matrimonio diventa Famiglia. L’amore tra uomo e donna e la trasmissione della vita umana, dunque, sono inscindibili. Con i figli, ai genitori è affidata la responsabilità del futuro, cosicché il futuro dell’umanità passa in maniera fondamentale dalla Famiglia. Come dice il Cardinale Walter Kasper, infatti, “senza la Famiglia, nessun futuro, ma un invecchiamento della società; un rischio davanti al quale si trovano attualmente le società occidentali”.
Questo processo ha luogo perché le persone, soprattutto in Europa, non vogliono quasi più avere figli. Il motivo più profondo alla base del fatto che molti, oggigiorno, non vogliono rischiare più di mettere al mondo dei figli, è che, per loro, il futuro è diventato talmente incerto, da indurli a chiedersi, con preoccupazione, come è possibile esporre una nuova vita ad un futuro percepito come ignoto. Gli uomini possono infatti trasmettere la vita umana con responsabilità, solo se non trasmettono soltanto la vita biologica, ma la trasmettono anche soprattutto in un senso pieno, ovvero in un senso che resiste alla crisi della vita e porta in sé una speranza che si rivela più forte di ogni incertezza del futuro. Gli uomini trasmettono la vita e la consegnano ad un futuro ancora ignoto, soltanto se penetrano nel mistero della vita in modo nuovo e riconoscono che l’unico capitale affidabile per il futuro, è l’uomo stesso. Nel considerare i propri figli come il bene più prezioso della Famiglia, i genitori cristiani lanciano un segnale profetico contrario al calo delle nascite, che è sempre più diffuso nelle società europee e che va considerato come un “inverno demografico” e come il segno di una mancanza di fiducia nella vita e di speranza nel futuro.
Appare dunque evidente che interrogarsi sulla Famiglia, equivale ad interrogarsi sull’uomo stesso e che l’odierna rimessa in discussione dell’istituzione della Famiglia, rappresenta anche un attacco al concetto cristiano di persona umana, come aveva giustamente diagnosticato già egli anni ’80, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, dichiarando: “La lotta riguardante l’uomo, è condotta oggi, in ampia misura, come lotta pro o contro la Famiglia”. O, come ha sottolineato Papa Francesco durante la sua recente visita nelle Filippine: “Ogni minaccia alla Famiglia è una minaccia alla società stessa”. Proprio il modo in cui si percepisce la Famiglia, rivela il modo in cui l’uomo percepisce se stesso nella società contemporanea.
Con la Famiglia, la posta in gioco è alta per l’uomo e per la società. Il Sinodo dei Vescovi del prossimo autunno, si troverà a dover affrontare importanti sfide che potrà raccogliere solo se proclamerà il Vangelo del Matrimonio e della Famiglia, come il lieto annuncio che la fedeltà coniugale tra due persone, come pure la cura reciproca nell’amore e la trasmissione della vita che ne conseguono, non costituiscono una minaccia o un limite per la libertà umana, ma la sua realizzazione più autentica. Se la più alta possibilità della libertà umana consiste nella capacità di compiere scelte definitive, allora riuscirà ad essere libero soltanto colui che saprà anche essere fedele e potrà essere davvero fedele soltanto colui che è libero. La fedeltà è, infatti, il prezzo che costa la libertà e la libertà è il premio che vince la fedeltà.
Testimoniare nel mondo di oggi questo stile di vita basato sulla libera fedeltà e sulla fedele libertà, è la vocazione degli sposi cristiani. Tutti gli uomini e le donne che vivono e testimoniano con convinzione questo Vangelo cristiano del Matrimonio e della Famiglia, meritano la nostra gratitudine e il nostro apprezzamento.
 

(Fonte: a cura di Gianluca Barile, X Edizione Premio Internazionale “Tu Es Petrus”, Aula Consiliare Del Comune Di Battipaglia, 7 Febbraio 2015).
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venerdì 20 febbraio 2015

Aggrediti da Mosca e abbandonati da Roma

Ha avuto molto da farsi perdonare, papa Francesco, dai vescovi dell'Ucraina arrivati nei giorni scorsi a Roma per conferire con lui nella periodica visita "ad limina".
A questi vescovi e ai loro preti e fedeli erano suonate malissimo le parole con cui Jorge Mario Bergoglio aveva denunciato al mondo, due settimane fa, la guerra che devasta la loro patria. "Violenza fratricida", l'aveva definita il papa, mettendo tutti alla pari, aggressori e aggrediti.
E peggio era stato quando Francesco aveva sollevato gli occhi dal testo e aveva aggiunto di suo: "Quando io sento le parole 'vittoria' o 'sconfitta' sento un grande dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta è 'pace'. Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso battesimo. State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo".
Che Bergoglio avesse un occhio di riguardo per la Russia lo si era visto già nel precipitare della guerra di Siria, quando indisse una giornata di digiuno e preghiera per scongiurare l'intervento armato di Stati Uniti e Francia contro il regime di Damasco, e Vladimir Putin si complimentò pubblicamente con lui.
C'è poi il fattore ecumenico che pesa. Dei 200 milioni di cristiani ortodossi nel mondo, 150 appartengono al patriarcato di Mosca "e di tutte le Russie" ed è quindi soprattutto con Mosca che il papa vuole coltivare buone relazioni.
Ma che l'aggressione della Russia all'Ucraina, l'occupazione armata della sua marca orientale, l'annessione della Crimea abbiano lasciato il papa indifferente a "vittoria" o "sconfitta", è stato qualcosa di insopportabile per i sentimenti dei cattolici ucraini. Tanto più che a queste parole di papa Francesco è giunto puntuale il plauso da Mosca, questa volta non di Putin ma del patriarca ortodosso Kirill, che ha giurisdizione anche sugli ortodossi di Ucraina.
Troppo fresca è la persecuzione di cui furono vittima i cattolici ucraini da parte del regime sovietico. La loro Chiesa, dopo la seconda guerra mondiale, fu letteralmente annientata, con innumerevoli martiri uccisi nelle forme più atroci, crocifissi, murati vivi, annegati nell'acqua bollente.
Fu la caduta del muro di Berlino nel 1989 a far uscire questa Chiesa dalle catacombe. Ma durissima e tuttora incompiuta fu la sua riconquista di uno spazio vitale, comprese le chiese e le case finite in possesso di vescovi e preti ortodossi.
Oggi i quasi cinque milioni di cattolici ucraini sanno bene di essere loro il vero ostacolo all'incontro tra il papa di Roma e il patriarca di Mosca. Ma neppure accettano di essere sacrificati sull'altare di questo sogno ecumenico.
I cattolici ucraini resistono nell'ovest del paese, in Galizia, a Leopoli. Ma in Crimea e nel Donbas occupato la repressione è di nuovo spietata.
Il nunzio vaticano a Kiev, l'arcivescovo americano Thomas E. Gullickson, nominato da Benedetto XVI nel 2011, l'ha paragonata a quella sovietica del 1946, "con la complicità degli ortodossi e la benedizione di Mosca". Ha persino evocato "la lezione del Califfato in Iraq e in Siria" per dire che "simili tragedie" possono accadere anche altrove.
I rapporti che il nunzio trasmette a Roma sono dettagliati e allarmati. E furenti sono state le reazioni dei cattolici ucraini, al vedere come niente di tutto ciò sia affiorato nelle parole di papa Francesco. È loro convinzione che anche nella curia romana, come in Ucraina, il partito filorusso abbia campo libero e influenzi il papa.
Alle proteste dei cattolici ucraini la segreteria di Stato ha risposto il 10 febbraio con una nota, per "precisare che il papa ha sempre inteso rivolgersi a tutte le parti interessate, confidando nello sforzo sincero di ciascuna per applicare le intese raggiunte di comune accordo e richiamando il principio della legalità internazionale".
Ma non è certo bastato questo tenue richiamo alla legalità per impensierire Mosca, ormai sicura che la sua annessione della Crimea è stata di fatto accettata da tutti, Vaticano compreso, e che per il Donbas, russificato e senza più cattolici, potrebbe accadere lo stesso.
 

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 20 febbraio 2015)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350996

 

lunedì 16 febbraio 2015

Il Carnevale o la Pasqua: questione di sogni

Al pari di uno scultore sopraffine ed esperto. Essere capace d'arte è, per chi ama scolpire la materia, lavorare per sottrazione: sottrai al marmo ciò che è superfluo e vedrai sbocciare l'opera d'arte, togli l'inutile e s'annuncerà l'essenziale. Ciò che è bello perché semplice, spoglio, disadorno di tutto ciò che è di sovrappeso: ciò che basta a se stesso. L'imbarazzo e l'essenza della Quaresima – antichissimo tempo di preparazione alla Pasqua che inizierà, ancora una volta, mercoledì prossimo – abita nell'interstizio di due feste: il Carnevale e la Pasqua. Due feste dai connotati totalmente differenti. Il Carnevale, secondo una vecchia etimologia, significherebbe «il contrario, il rovescio, ciò che è contrapposto». E' il tempo delle maschere e dei giochi: come l'uomo, quand'è ancora bambino, attraverso il gioco racconta la sua immagine di vita, così è del Carnevale. Nascosto dietro una maschera che indossa, l'uomo si sente per un po' di tempo libero da tutte le regole che la società gli ha imposto: di mangiare a dismisura, di festeggiare ad oltranza, di ridere e scherzare senza che nessuno ne scopra l'identità. E' lo spazio di tempo a disposizione perchè, magari ridendo e scherzando, qualcuno possa rispondere al meglio all'unica domanda che conti per le strade di quaggiù: “Chi sono io?” Anche la Pasqua è una festa, per il popolo del Nazareno è la festa delle feste, quella nel cui grembo abita l'elisir stesso della festa: di colori, di luci e di annunci. L'uomo, morto, un giorno potrà risorgere: proprio come il suo Dio. Una festa senza maschere, a volto scoperto, nudi sotto il Cielo.
Tra il Carnevale e la Pasqua, la Quaresima: la possibilità, sempre fallibile e sempre a portata di mano, di fare festa togliendo la maschera e contemplandosi alla luce della Risurrezione: bagliore e anticipo di qualsiasi altra risurrezione della storia, di ciascuna delle liberazioni possibili. Fare Quaresima è, dunque, lavorare per sottrazione: sottrarre l'inutile per far apparire il necessario. Togli la maschera e, senza trucco alcuno, trovi la risposta alla domanda delle domande: “Chi sono io?”. Detta così, al netto delle ambiguità, nello spazio del deserto: il luogo per eccellenza della Quaresima, lo spazio delle tentazioni vinte, il laboratorio nel quale l'inutile diventa polvere e schegge, il legno superfluo si trasforma in segatura. O, tutt'al più, in trucioli: pronti per essere bruciati. E' il bagliore della proposta cristiana: ancora quaranta giorni a disposizione. Per denudarsi dell'inutile, per prendere le maschere e rimetterle in soffitta, per sciacquarsi con acqua e cenere – gli ingredienti di inizio e fine della Quaresima – tutto il corpo. E splendere appieno una volta sottratto l'inutile.
Il Carnevale nasce come forma di svago, di liberazione dalle imposizioni, di libertà assoluta: “fare carnevale” è fare tutto ciò che nei giorni che non sono carnevale non sempre è possibile fare. Carnevale è, dunque, un passaggio momentaneo, forse necessario, anche salutare: ogni tanto è bene sfiatare le botti, altrimenti rischiano di scoppiare. Quando la vita intera diventa un carnevale, però, rimane traccia di un unico dubbio: che senso ha mettere maschere, sognarsi altrove e diversi, festeggiare a dismisura? Da chi è eternamente distratto, la domanda “Chi sono?” sovente viene accantonata come inutile, forse anche dannosa, certamente fastidiosa. Alla distrazione possibile viene in soccorso la possibilità della Quaresima: attraverso un cammino di spoliazione e di sobrietà, ammaestra l'uomo a fare i conti con se stesso. A dosare le forze, ad amarsi per quello che si è. Pasqua sarà festa, la festa opposta al Carnevale. La festa di chi ha se stesso in proprio potere. Cioè del potente per eccellenza: il potere senza maschera. A portata di mano.

 

(Fonte: Marco Pozza, Il Mattino di Padova, 15 febbraio 2015)
 
 

mercoledì 11 febbraio 2015

La Chiesa di Bolzano rompe gli argini

Il sinodo diocesano di Bolzano-Bressanone rompe gli argini ed esprime chiaramente la sua idea di Chiesa. «Una grande maggioranza dei sinodali – si legge in un comunicato stampa ufficiale – si è espressa con chiarezza per il cambiamento delle regole vigenti». Quali regole sono da cambiare è presto detto, quelle che riguardano celibato dei sacerdoti, ammissione delle donne al sacramento dell'ordine e al diaconato, sulla comunione per i divorziati risposati e anche l'amministrazione dell'unzione degli infermi da parte di laici incaricati.
Pare che il vescovo, monsignor Ivo Muser, abbia provato a porre qualche rilievo di carattere metodologico, ma vi sono stati molti interventi su questi temi «sovra diocesani» che «hanno permesso il rilevamento di un chiaro quadro della situazione, che vede una maggioranza dei sinodali – ribadisce il comunicato ufficiale della diocesi – propensi a mettere in dubbio la prassi tradizionale della Chiesa su questi punti». Tra l'altro il documento n°12, quello che raccoglie i risultati della riflessione su questi temi, per motivi di tempo non è stato trattato nell'assemblea plenaria, rimandando il lavoro al 30 maggio prossimo. Ma la sostanza rimane.
Il fatto che la «grande maggioranza» dei sinodali abbia espresso questo orientamento fa chiaramente intendere che non soltanto i laici, ma anche i consacrati presenti hanno espresso il desiderio di un superamento della prassi cattolica. Il futuro quindi sarebbe per i preti sposati, le donne prete e l'accesso all'eucaristia da parte dei divorziati risposati. A ciò si possono aggiungere anche altre considerazioni che emergono dai lavori.
A proposito della possibilità di riconoscere i «semi del Verbo» nelle convivenze cosiddette «irregolari» viene indicato che la chiesa di Bolzano-Bressanone, oltre a promuovere il matrimonio, «rimane aperta anche alle altre forme di convivenza, le accompagna e le supporta e le invita nella comunità della Chiesa affinché tutte vivano e crescano nell'amore e nel rispetto, nella responsabilità e nella cura reciproca».
I lavori svolti tra il 30 e il 31 gennaio sono stati aperti da una relazione di don Eugen Runggaldier, moderatore del sinodo. «Il nostro lavoro sulle visioni per la nostra Diocesi, ha detto Runggaldier, rispecchia la situazione generale nella Chiesa, che sta vivendo un cambiamento radicale. (…) non cambiano solamente le condizioni generali, bensì il quadro stesso, vale a dire che occorre proprio un nuovo quadro. Non basta più solamente riflettere come adattare alla nuova situazione ciò che è già stato sperimentato e collaudato. È richiesto piuttosto un “change” (cambiamento) sostanziale».
A leggere i risultati del sinodo sui temi «sovra diocesani» bisogna riconoscere che questa esigenza di “change” è stata interpretata oltre ogni più rosea aspettativa. Il 62% dei sinodali ritiene che il sacramento dell'ordine debba essere aperto a tutti i battezzati e cresimati, siano essi donne o uomini, sempre il 62% si è espresso a favore dell'abolizione del celibato sacerdotale. Il 79% è a favore del diaconato femminile e l'85% dei convenuti, seppure attraverso un poco chiaro percorso di pentimento, ha detto sì all'accesso all'eucaristia ai divorziati risposati. Non c'è nulla da dire, questo è un “change” sostanziale a tutti gli effetti.
Anche per quanto riguarda l'ecumenismo sarà interessante capire quali proposte concrete la commissione del Sinodo metterà in campo rispetto all'obbiettivo abbastanza generico di proseguire e intensificare «le esperienze positive, anche se faticose, di dialogo, nello spirito del Concilio Vaticano II, riguardo alle altre confessioni cristiane, alle altre religioni, alle scienze, ai diversi gruppi etnico-linguistici».
In fondo non si tratta di chissà quali novità, sono istanze che attraversano la chiesa da circa 150 anni, con alti e bassi, ma sono sempre le stesse spinte riformatrici che ritornano a più riprese e a diverse latitudini. Questa volta si tratta di quella terra un tempo capace di insorgere sotto la guida di quel Andreas Hofer che disse: «Si tratta di religione e di cristianesimo; non lasciatevi ingannare dai mascalzoni».

(Fonte: Lorenzo Bertocchi, La nuova bussola quotidiana, 11 febbraio 2015)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-la-chiesa-di-bolzano-rompe-gli-argini-11774.htm