sabato 30 dicembre 2017

Al “Credo” non ci credo: il prete ora è libero di non avere fede


Cronache dalla neo Chiesa: «Io al Credo non ci credo». I fedeli della chiesa di San Rocco di Torino, radunati per la messa di mezzanotte si sono lasciati sfuggire una risatina di complicità. E così il parroco, don Fredo Olivero, ha annunciato in sostituzione il canto Dolce sentire. Insomma: un canto ispirato al Cantico delle creature come sostitutivo del Credo, che rappresenta l’ossatura fondante della fede di ogni battezzato.
Ora, si potrebbe anche alzare le mani e dire: bè, con queste premesse, ha vinto lui. Anni e anni a tentare di camuffare articoli scomodi o parti della messa troppo farraginose e poi arriva lui con la soluzione gordiana: perché non toglierlo del tutto? Chapeau, effettivamente… La cattiva teologia che si mangia la dottrina ha toccato vette sublimi l’altra sera durante una messa che definire show è eufemistico: liturgia eucaristica modificata alla bisogna, comunione distribuita solo da ministri straordinari, anzi, fatta prendere in mano dai fedeli che l’hanno intinta personalmente nel calice, un Padre nostro condiviso con il più profano canto spagnoleggiante ricalcato da Sound of silence di Simon & Garfunkel. Liturgia anni ’70 allo stato puro, mancavano solo i cantori con zampa d’elefante.
Invece è l’anno del Signore 2017 che ci consegna l’ultima frontiera della messa fai da te, presentata con il viso pacioso e rassicurante di un parroco con 50 anni di messa alle spalle che si dice molto attivo nel sociale e che a quelle latitudini viene chiamato con terminologia ecclesialmente corretta “un prete di strada”, perché si occupa di migranti e perché anche recentemente ha detto di voler modificare il concetto di transustanziazione.
Ovviamente criticarlo non si può, un po’ perché non si possono criticare i preti che si spendono nel sociale, anche se nel toccare le cose divine utilizzano zappa e vanga, e poi perché oggi, nella neo Chiesa, non si può prendere di mira chi attenta alla dottrina. Semmai, bisogna punire chi sommessamente fa notare che qualche cosa non va, come testimoniano i provvedimenti presi nei confronti di don Minutella o che c’è una verità di Dio sull’uomo che non cambia, come don Pusceddu.
La sorpresa arriva al minuto 26,50 dopo un’omelia giocata ad invitare i genitori a trasmettere la fede ai figli, ma «smettendo di parlare loro dell’inferno che non serve a nessuno e fa male».
Il cantore annuncia il canto del Credo: «Dolce sentire, pagina 39». Don Fredo attacca per primo: «Sapete perché non dico il Credo? Perché non ci credo». Risate dei fedeli. Poi riprende: Se qualcuno lo capisce…, ma io dopo tanti anni ho capito che era una cosa che non capivo e che non potevo accettare. Cantiamo qualche cos’altro che dica le cose essenziali della fede».
A Torino non è andata poi così male. A Genova ad esempio un altro prete di frontiera, ma con rubrica fissa su Repubblica, don Paolo Farinella, ha annunciato dalle colonne del giornale di aver cancellato per quest’anno la celebrazione del Natale, del 1 gennaio (Maria Madre di Dio) e del 6 gennaio, l’Epifania. In pratica ha detto no alle feste comandate. Perché? Perché il Natale è diventata «una favoletta da presepe con ninne-nanne e zampogne, esclusivo supporto di un'economia capitalista e consumista, trasformando l'intero Cristianesimo in “religione civile”».
Curioso. Anche solo dieci anni fa, non un passato lontanissimo, un prete che si opponeva di affermare le verità principali della fede cattolica o ad abolire a piacere le feste comandate sarebbe stato sospeso a divinis, oggi invece quasi quasi lo fanno monsignore. O comunque non gli succederà nulla. Magari il suo vescovo allargherà le braccia e sospirerà: «Vabbè, lo conosciamo, l'ho richiamato venti volte, ma lui fa così. In fondo è un mio figlio anche lui». Umanamente comprensibile, ma sicuri che non ci sia dell'altro? Invece il problema è tremendamente serio e non solo per questo povero sacerdote che ammettendo di non accettare le verità della fede cattolica semplicemente ammette di non avere fede.
Ma anche per le pecorelle che gli sono affidate: che cosa insegnare ai bambini del catechismo se lui per primo questa fede ammette di non averla? E quale fede poi? Di che cosa stiamo parlando? Di un sentimento vago e mellifluo all’insegna del vogliamoci bene?
La questione del Credo è invece strettamente connessa con la fede. E non è un caso che il Catechismo della Chiesa Cattolica dedichi la sua primissima parte proprio a questo. Perché il Credo è “la risposta dell’uomo a Dio”. Una risposta che è la fede e con la quale l’uomo si sottomette pienamente a Dio. E’ quella che il primo articolo del Catechismo chiama l’obbedienza della fede sull’esempio di Abramo e Maria. Credere in un solo Dio, in Gesù Cristo figlio di Dio, nello Spirito Santo. E poi credere in tutte le altre verità sotto forma di professione di fede, dall’Incarnazione alla Resurrezione fino alla comunione dei santi e la vita eterna.
Don Fredo e don Farinella vogliono rinunciare a tutta questa raccolta organica di verità che va sotto il nome di simbolo? Facciano, ma perché utilizzare il loro ruolo che gli consente di essere pastori per le anime che sono loro affidate? Una volta si sarebbe detto ciechi che guidano altri ciechi. Che cosa resta a un sacerdote che pubblicamente disconosce tutto questo? Resta probabilmente soltanto la sua narcisistica volontà di potenza di imporre una religione in forma ideologica, che è però tremendamente umana, ma con il candore e la pacifica verve del buon parroco tanto engagé. È da lupi di questo tenore travestiti da candidi agnelli che il fedele dovrebbe guardarsi. Perché stanno lentamente segando il ramo sul quale si sono seduti con loro. 
  

(Fonte: Andrea Zambrano, LNBQ, 30 dicembre 2017) 




Il sepolcro vuoto: per Bruno Forte è una “leggenda”


Dai tempi apostolici, come attesta il discorso di Paolo all’Areopago, non si è mai smesso di dubitare della veridicità della risurrezione di Gesù Cristo. Anzi, egli non era ancora asceso al cielo e, come il vangelo di Matteo annota: “Quidam autem dubitaverunt!” (alcuni però avevano dubitato: Mt 28,17).
Alcuni anni fa a Gerusalemme ci fu sul tema un dibattito teologico: il teologo cattolico ricorse alla ‘leggenda eziologica’ per spiegare l’avvenimento, e quello ortodosso reagì al punto da abbandonare l’incontro; così sulla risurrezione inciampò anche il dialogo ecumenico cattolico-ortodosso, proprio nella Città Santa. Ai nostri giorni, il dubbio sulle ‘prove’ della risurrezione è stato alimentato proprio da taluni esegeti e cristologi, contro tutta la tradizione della Chiesa, quella tradizione che il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum, descrive come ciò che rende possibile l’accesso al vero senso del testo della Scrittura. Si è adottata la perifrasi ‘evento pasquale’ e si è immaginato un Cristo pre-pasquale in contraddizione con quello post-pasquale. Forse il popolo cristiano non è stato molto toccato da ciò, malgrado non pochi preti e docenti di seminario abbiano attinto ampiamente, come a materia canonizzata, ai vari Raymond E. Brown, Pierre Benoit e Marie-Emile Boismard. Qualche direttore di ufficio catechistico ha anche invitato i catechisti e gli insegnanti di religione alla prudenza: a non dire che Cristo è risorto, ma che i discepoli hanno detto che egli è risorto!
Anche in Italia non sono mancati i divulgatori di questa teologia debole e derivativa.
Per esempio, in uno dei suoi studi, Bruno Forte comincia con l’attribuire scarso valore storico ai racconti del sepolcro vuoto, ritenendo questo argomento ambiguo e frutto del lavoro redazionale degli evangelisti; quindi, sulla scia di autori come G. Schille, L. Schenke, E. Schillebeeckx, lo considera appunto una “leggenda eziologica”, ovvero un artificio per suffragare il culto che i giudeo-cristiani svolgevano al luogo della sepoltura di Gesù.
Inoltre, il dato della tomba vuota viene ritenuto ambiguo, perché suscettibile di svariate interpretazioni e perciò incapace di fondare la fede nella risurrezione. Per cui, al contrario, secondo un tipico procedimento bultmanniano, sarebbe la fede ad interpretare il sepolcro vuoto, il quale non aggiungerebbe né toglierebbe nulla all’esperienza degli apostoli che confessarono la risurrezione e la glorificazione di Cristo, cioè la sua signoria sulla morte (cfr. B. Forte, Gesù di Nazareth storia di Dio, Dio della storia, Cinisello B. 1994, 7ed., p 103).
Si dovrebbe dedurre di conseguenza, che, qualora la risurrezione fosse storicamente avvenuta, la fede sarebbe superflua. Inoltre, riferendosi a Mc 16,1-8, Forte ritiene “inverosimile” che le donne si siano recate al sepolcro per “ungere un cadavere a tanta distanza dalla morte” (Ibid., p 103, n 31). Il sepolcro vuoto è all’origine di una suggestione mitica dei discepoli, ereditata dai cristiani (cfr. Ibid., p 103, n 35). Dunque, il sepolcro vuoto, come altri particolari evangelici riguardanti la risurrezione, sarebbe una ‘prova’ fabbricata dalla comunità (V. Messori, Dicono che è risorto, Un’indagine sul Sepolcro vuoto, Torino 2000, p 86).
Che dire? Nelle Vite dei Profeti, un documento del I secolo, è attestato che i capi religiosi giudei usavano recarsi a pregare presso i sepolcri intorno a Gerusalemme, molti dei quali sono stati messi in luce dagli archeologi.
Chi conosce il giudaismo sa che la mishna e il talmud prescrivevano che i sepolcri rimanessero aperti per tre giorni dal momento della sepoltura di un defunto, onde permettere i riti di pietà come l’unzione, che, infatti, veniva ripetuta sui cadaveri già avvolti nei teli; però, in prossimità delle grandi festività giudaiche come la Pasqua, i sepolcri venivano chiusi temporaneamente. Quindi, anche i discepoli di Gesù si apprestavano ad osservare tali prescrizioni (cfr. Mc 16,6), se non fosse intervenuta la risurrezione.
Infatti la sepoltura del suo corpo era stata fatta in tutta fretta a motivo della parasceve pasquale, pertanto bisognava ritornare a completare l’operazione. Tutto questo avvalora ulteriormente l’importanza del sepolcro vuoto. Ma Bruno Forte lo ignora.
In realtà, come Vittorio Messori ha osservato, sussiste “in molti biblisti contemporanei, pur di formazione e convinzioni cristiane, la persuasione sociologica che l’uomo ‘moderno’ non potrebbe accettare l’idea di una risurrezione corporale…”(Ibid., p 87): per loro quel che conta è ‘l’esperienza’ soggettiva degli apostoli e non l’avvenimento storico della risurrezione.
Allora, ci si dovrebbe chiedere: se il sepolcro vuoto non avesse avuto alcuna importanza, perché l’angelo avrebbe invitato a vedere il luogo dove era stato deposto il Signore? (cfr. Mc 16, 5 s). Se lo fece, non fu perché le donne non ne conoscessero l’ubicazione, ma perché constatassero di persona lo stato dei teli funerari, come meglio e con sguardo d’aquila farà Giovanni, sì che ‘vide e credette’(cfr. Gv 20,8).
Il sepolcro vuoto è ‘prova’ della risurrezione perché in esso le bende e il sudario erano come svuotati, anzi, ad osservarli attentamente, davano la sensazione che non fosse trascorso molto tempo. Così, il sepolcro vuoto appartiene al segno di Giona promesso dal Maestro.
Come ben ricorda Messori, l’invito dell’angelo a visitare la tomba vuota è del tutto collegato ai segni del mistero che vi si era appena compiuto (cfr. Ibid., p 143). L’angelo rimosse la pietra dall’ingresso del sepolcro dopo che Cristo era risorto; così la fede nasce dalla risurrezione e non il contrario, a meno che non si ritenga che anche l’angelo sia un genere letterario.
Dunque, nel sepolcro vuoto non v’è ambiguità, anzi vi sono i segni che provano la risurrezione; più che da interpretare c’è da vedere e credere; quindi il sepolcro vuoto “aggiunge” molto – e come! – all’esperienza apostolica della risurrezione, altrimenti, secondo san Paolo, non sussisterebbe la fede (cfr. 1Cor 15,14). È proprio il contrario di ciò che sostiene Bruno Forte.
Ora, il sepolcro vuoto è capace di fondare la fede nella risurrezione; non è argomento con “qualche contenuto storico”; anzi, proprio le “incongruenze storiche” stanno a dimostrare che il cosiddetto “lavoro redazionale dell’evangelista” non era teso ad annullarle ma a rispettarle, in quanto collegate ad un fatto storicamente avvenuto. La Chiesa di certo non le ha attenuate nella proclamazione delle Scritture; pertanto, si deve affermare che ancora oggi “La struttura della parola è sufficientemente univoca” (J. Ratzinger, Che cos’è la teologia? in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B., 2004, p 32).
A questo punto, il sepolcro vuoto si dimostra come un fatto degno d’essere raccontato e un argomento che prova la risurrezione del Signore: perciò dalle origini ad oggi ha motivato il culto a Gerusalemme e il pellegrinaggio da tutto il mondo. Il sepolcro trovato vuoto non si può spiegare naturalmente, perché appartiene ai fatti straordinari provati storicamente: cioè che Gesù era stato sepolto in una tomba nuova e che fu visto (oftê), risorto ‘in carne ed ossa’ (Lc 24,39), da Cefa e da molte altre persone (si veda la lista in 1Cor 15,5-7). Se la tomba non fosse stata vuota, gli apostoli non avrebbero potuto predicare in Gerusalemme; nemmeno ai Giudei fu possibile negarlo, sebbene accusassero gli apostoli d’aver trafugato il corpo (cfr. Mt 28,11-15). Se la tomba non era vuota, e il corpo di Gesù continuava a giacervi, subendo la decomposizione, così che tutt’oggi avremmo potuto trovarvi i suoi resti, le sue ossa, Gesù non è risorto.
La tomba vuota non è la condizione sufficiente per la fede nella risurrezione, ma è la condizione necessaria: quello che confessiamo dicendo ch’egli è risorto, precisamente che il suo corpo non è rimasto morto. Diversamente ci sarebbe soltanto la sopravvivenza dell’anima, e l’anima di tutti è sempre, per definizione, immortale (per natura sua, come insegna l’Aquinate, o per speciale decreto divino, come dice Scoto).
Oppure, come vorrebbero appunto i demitizzatori vari, idealisti e liberal protestanti, si tratterebbe meramente di una sopravvivenza ideale, morale, che non aggiunge niente a quella di qualsiasi personaggio venerato o persona amata. Inutile, parlare della convinzione dei discepoli ch’egli sia sempre vivo, se poi di fatto non lo sia. E allora, secondo san Paolo, saremmo i più miserabili degli uomini (cfr. 1Cor 15,19).
Confessare Gesù risorto vuol dire che la tomba è realmente vuota, ch’egli vive in anima e corpo, che il suo corpo non è rimasto nella tomba e non ha subito decomposizione, ecc. Dire che questo non importa vuol dire non credere nella risurrezione. Ad onta del ‘pensiero debole’ diffuso tra taluni teologi ed ecclesiastici, la liturgia, come nel communicantes del canone romano, afferma la risurrezione di Cristo “nel suo vero corpo”.
In verità, “Il messaggio della risurrezione continua ad essere accompagnato e contrastato dal dubbio, anche se alla fine si rivela essere un messaggio vincente capace di superare tutti i dubbi” (J. Ratzinger, Dio e il mondo, Cinisello B., 2001, p 306), ad onta del ‘pensiero debole’ militante tra teologi ed ecclesiastici spiritualisti. Surrexit Dominus vere!

(Fonte: Nicola Bux, La Terra Santa, Anno LXXX Luglio-Agosto 2004, p 9-11. 




La Germania lo ha stabilito per sentenza: i sessi sono tre

Per i tedeschi, d'ora in poi, i sessi non saranno più due, maschio e femmina, ma tre. Entro il 2018, infatti, in Germania all’anagrafe si potrà essere registrati come “inter” o “divers”: si introdurrà cioè un terzo sesso nel quale potranno riconoscersi le persone intersex, quelle cioè che alla nascita hanno caratteristiche “che non possono essere attribuite alle tipiche definizioni di maschile o femminile” (secondo la definizione dell’Alto rappresentante Onu per i diritti umani). Ma di che si tratta, realmente?
Nella discutibilissima sentenza della Corte Costituzionale tedesca l’argomento è il seguente: “L’assegnazione a un sesso è di primaria importanza per l’identità individuale; tipicamente, gioca un ruolo-chiave sia nell’immagine che una persona ha di se stessa sia nel modo in cui la persona interessata è percepita dagli altri. L’identità sessuale di quelle persone che non sono né maschi né femmine è protetta”. In altre parole, secondo la Corte Costituzionale tedesca esiste un terzo sesso che va riconosciuto, proprio per proteggere l’identità sessuale delle persone che vi appartengono. Ed è il sesso dell’indeterminatezza sessuale, che avrebbe lo stesso peso e la stessa legittimità degli altri due.
Ma esiste veramente un terzo sesso? Il nostro Comitato nazionale per la bioetica ha affrontato l’argomento in un parere del 25 febbraio 2010, con un titolo che dà la chiave di lettura della vicenda: “I disturbi della differenziazione sessuale nei minori: aspetti bioetici”.  Nel parere, approvato all’unanimità, si parte con la definizione, che recita: “Con la dizione “disturbi della differenziazione sessuale” (d’ora in poi DDS), si indica uno sviluppo disarmonico delle diverse componenti del sesso biologico che può condizionare anche la strutturazione dell’identità sessuale e l’assunzione del ruolo di genere. Si parla anche di ambiguità sessuale o di intersessualità”.
Non si tratta quindi di un fantomatico “terzo sesso”: le persone “intersex” soffrono di disturbi della differenziazione sessuale che hanno una loro classificazione e i relativi quadri clinici. Il nostro Comitato si è trovato unanime nel riconoscere come interesse preminente del bambino di essere cresciuto come maschio o come femmina. Inoltre auspicava che “nei casi di ambiguità genitale assoluta (quando alla nascita manchino dati obiettivi), sia opportuna una assegnazione sessuale condivisa tra i genitori e i medici e una conseguente educazione in senso maschile o femminile, con il necessario sostegno psicologico e con particolare attenzione all’eventuale emergere di una identità sessuale diversa da quella inizialmente assegnata”.

La sentenza tedesca va in direzione esattamente opposta, pienamente coerente con la deriva gender che in questi anni ha cercato in ogni modo di annientare ogni espressione della differenza sessuale, e lo ha fatto nel modo più “creativo” possibile, cioè, anziché ridurre i due sessi a uno solo, se ne è inventato di sana pianta un terzo. L’importante è negare il dato naturale, il dualismo maschio/femmina. Sul resto, la corte tedesca deve aver pensato che “melius abundare quam deficere”.  Sarà interessante a questo punto vedere se e come il parlamento applicherà la sentenza. La referente per l'Istituto tedesco dei diritti umani, Petra Follmar-Otto, propone di non scrivere il sesso alla nascita ma "di lasciare che sia il bambino dopo i 14 anni d'età a decidere sul suo sesso", mentre il Comitato etico tedesco ha consigliato di lasciare nella registrazione la dicitura "altro".
Ma ancora più interessante (e curioso) sarà vedere quando si cominceranno a trarre le ovvie conclusioni di questa sentenza. Perché se esiste un terzo sesso, anche a questo andranno per forza di cose estesi gli stessi diritti civili previsti per gli altri due, in particolare la possibilità di modificare il sesso assegnato all’anagrafe, sia in senso “transessuale” che in senso “transgender”. In altre parole: se una persona nata uomo crescendo si percepisce donna, e  può scegliere se e fino a che punto modificare il suo corpo, dagli organi genitali ai caratteri sessuali secondari, e può scegliere anche se cambiare nome e sesso anagrafico, allora tutto questo va per forza di cose esteso al terzo sesso, per evitare discriminazioni.  Cioè se una persona alla nascita viene riconosciuta come uomo o come donna, ma crescendo si percepisce del terzo sesso,cioè indeterminato, che si fa? Si vorrà negare il "diritto" a cambiare sesso? Si vorrà discriminare?