mercoledì 13 maggio 2020

Quelli che "meglio musulmani che morti"


È sconcertante la reazione di Avvenire, Famiglia Cristiana, il cardinale Bassetti e il parroco per il ritorno di Silvia Romano in Italia. È considerato inevitabile convertirsi all'islam in certe condizioni, rinnegando così tutta la storia della Chiesa; e non si coglie la differenza tra essere vivi ed essere liberi. Silvia è tornata viva, ma schiava.

Tra Famiglia Cristiana che la indica come modello per i ragazzi; il cardinale Bassetti che se la cava con un «è nostra figlia»; Avvenire che pensa che le reazioni negative di tante persone siano dovute al fatto che Silvia Romano è donna ed è andata in Africa; e il parroco che «è solo contento» se a mente fredda reputerà «l'islam la risposta corretta per la sua esistenza», c’è da essere più che perplessi per le reazioni di autorevoli voci del mondo cattolico, addirittura quelle ufficiali.
Non ci soffermiamo neanche sulla banalità della retorica terzomondista per cui chi decide di andare in Africa «ad aiutare i poveri» ha una superiorità morale a prescindere dal perché, dal come, dal dove e dal con chi. Né ci ripeteremo sull’immoralità del pagamento di un riscatto che in cambio di una vita ne sacrificherà molte altre. Non staremo neanche a sottolineare come il presidente dei vescovi italiani non abbia speso neanche una parola per una conversione forzata da parte di fondamentalisti islamici, un tasto evidentemente da non suonare nel clima attuale di “fraternità umana”.
Vogliamo invece soffermarci su alcuni aspetti che più precisamente interrogano la nostra fede.
Il primo è l’ineluttabilità con cui viene vista, date le circostanze, la conversione all’islam; il prezzo necessario per portare a casa la pelle. È certo che trovarsi nelle mani di questi assassini senza scrupoli è una esperienza da incubo, e non è facile resistere alla pressione esercitata: loro non vogliono soltanto i soldi, ma anche l’anima dei loro prigionieri. La loro vittoria passa dall’annichilimento della persona, dal ridurla schiava nell’anima e nella testa prima ancora che nel corpo. E nessuno di noi vorrebbe trovarsi nella situazione di dover scegliere tra la morte e la conversione all’islam. Soprattutto nessuno di noi sa cosa sceglierebbe nel caso vi si trovasse.
Però sappiamo cosa sarebbe giusto e vero scegliere. Ce lo dicono duemila anni di cristianesimo, ce lo dicono le migliaia di martiri che hanno attraversato i secoli resistendo a poteri di ogni tipo che pretendevano l’abiura della fede cristiana. Ieri abbiamo anche raccontato di come nel Medioevo siano addirittura nati degli ordini religiosi per riscattare i cristiani rapiti da musulmani (e sì, è una abitudine consolidata da quelle parti, altro che «non è il vero islam»). Ma ce lo dicono anche i martiri dei nostri giorni: i cristiani di Iraq e Siria, ad esempio, o del Pakistan, che restano al loro posto, fermi nella fede e pronti al martirio se a questo saranno chiamati. Non è eroismo di pochi, ma decisione certa e spontanea di chi è stato educato a giudicare la vita terrena alla luce della vita eterna, di chi è cresciuto pensando ad accumulare tesori in cielo piuttosto che in terra, di chi ama Cristo sopra ogni cosa e giudica un privilegio essere associato alla Sua croce.
Escludere apriori la possibilità di sacrificare la propria vita piuttosto che convertirsi all’islam – considerare «necessaria» la conversione «per non soccombere», come fa Avvenire - non è comprensione per la povera Silvia ma la negazione della storia della Chiesa e un insulto ai tanti cristiani sparsi nel mondo (e la maggior parte, guarda caso, nei paesi islamici) che ogni giorno sacrificano la propria vita in nome di Cristo. Non solo, è una grave mancanza educativa nei confronti di noi cattolici italiani, proprio nel momento in cui possiamo vedere avvicinarsi il tempo di una persecuzione aperta.
In realtà, però, se ci pensiamo bene questo atteggiamento è coerente con quanto sta accadendo in questi mesi marcati dalla pandemia di coronavirus: non abbiamo forse visto le gerarchie ecclesiastiche ed eminenti cattolici predicare la salute del corpo come primo dovere, fosse anche a scapito della salvezza eterna? E barattare la salute con la libertà, personale e della Chiesa? E allora è chiaro che non ci si può sorprendere della riedizione in salsa religiosa del vecchio slogan “meglio rossi che morti”. Va bene, prendiamo atto che per un certo establishment cattolico è «meglio musulmani che morti». 
È proprio questo approccio che impedisce di cogliere la differenza tra essere vivi ed essere liberi; ed è questo il secondo aspetto che vogliamo mettere in evidenza. Tutti ad esultare per la “liberazione” di Silvia. Ma Silvia è tornata viva, non libera. Proprio quella specie di telone che la ricopriva al suo arrivo in Italia, e che non aveva voluto togliersi, è la certificazione della sua schiavitù. Quel terribile show mediatico andato in onda dall’aeroporto di Ciampino non è soltanto un regalo ai jihadisti e ai loro sponsor – come abbiamo già abbondantemente scritto -, è la sottomissione a una religione che rende schiave le donne e le usa come arma per fare proselitismo.
Quello non è affatto l’abito tipico delle donne somale, ma è l’abito imposto alle donne somale dai jihadisti, è il simbolo della loro oppressione, è il simbolo di una forza religiosa e politica che dispone delle donne come vuole: le violenta, le rende schiave, le usa per scopi terroristici e religiosi.
Silvia è tornata viva, ma schiava, oltre che devastata psicologicamente. Non sono quelli che hanno reagito allo show del ritorno ad essere contro le donne – sebbene nessuna violenza del linguaggio possa essere giustificata - ma è chi inneggia alla liberazione di Silvia, senza provare neanche un minimo di dolore per quella schiavitù esibita. Oltretutto atteggiandosi - è il caso di Avvenire e Famiglia Cristiana - a moralmente superiori perché sanno accettare sportivamente la conversione all’islam pensando che sia libertà religiosa. Certo, per capire la differenza tra essere vivi ed essere liberi bisogna prima essere liberi. È l’unica scusante per certi ambienti cattolici già impegnati nel processo di sottomissione.


(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 13 maggio 2020)
https://lanuovabq.it/it/quelli-che-meglio-musulmani-che-morti



sabato 2 maggio 2020

Il card. Sarah: «Basta profanazioni, non si tratta sull’Eucarestia»


In questa intervista esclusiva alla Nuova Bussola Quotidiana, il prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, interviene sulla Comunione take away e sui “negoziati” per garantirLa in sicurezza: nessun compromesso, «l’Eucarestia è un dono che riceviamo da Dio, dobbiamo riceverla in modo dignitoso. Non siamo al supermercato». «Nessuno può impedire a un sacerdote di confessare e dare la Comunione». «C’è una regola e questa va rispettata: il fedele è libero di ricevere la Comunione in bocca o nella mano». «È una questione di fede, il cuore del problema sta nella crisi di fede dei sacerdoti». «Messe in streaming fuorvianti anche per i sacerdoti: devono guardare Dio non una telecamera».

«È una questione di fede, se avessimo consapevolezza di cosa celebriamo nella Messa e di cosa è l’Eucarestia, non verrebbero neanche in mente certi modi di distribuire la comunione». Il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti torna a parlare per rispondere alla «inquietudine» dei fedeli che non solo sono stati privati delle Messe, ma che ora assistono sgomenti ai negoziati tra Conferenza Episcopale (CEI) e governo che, nell’ottica di una ripresa limitata delle Messe con popolo, arrivano perfino a trattare sulla distribuzione della comunione.
Solo due giorni fa, i solitamente bene informati vaticanisti della Stampa, riportavano di varie soluzioni allo studio degli “esperti” del governo, in stretta collaborazione con la CEI, che considerano il momento della comunione «ad altissimo rischio contagio». Tra queste l’«impacchettamento» del Corpo di Cristo: «Per consentire ai cattolici italiani di tornare a farla, ma evitando contaminazioni, si sta pensando a una comunione “fai da te” con ostie “take away” precedentemente consacrate dal sacerdote, che verrebbero chiuse singolarmente in sacchetti di plastica poggiati in chiesa su dei ripiani». «No, no, no – ci risponde scandalizzato al telefono il cardinale Sarah – non è assolutamente possibile, Dio merita rispetto, non si può metterlo in un sacchetto. Non so chi abbia pensato questa assurdità, ma se è vero che la privazione dell’Eucarestia è certamente una sofferenza, non si può negoziare sul modo di comunicarsi. Ci si comunica in modo dignitoso, degno di Dio che viene a noi. Si deve trattare l’Eucarestia con fede, non possiamo trattarla come un oggetto banale, non siamo al Supermercato. È totalmente folle».
Qualcosa del genere è già stato fatto in Germania, come ha raccontato la Bussola (clicca qui). 
Purtroppo in Germania si fanno molte cose che non hanno più nulla di cattolico, ma non vuol dire che bisogna imitarle. Recentemente ho sentito un vescovo dire che in futuro non ci saranno più assemblee eucaristiche, solo liturgia della Parola. Ma questo è protestantesimo. 
Si avanzano come solito ragioni “compassionevoli”: i fedeli hanno bisogno della Comunione, di cui sono già privati da tempo, ma siccome è ancora alto il rischio contagio bisogna trovare un compromesso…. 
Ci sono due questioni che vanno assolutamente chiarite. Anzitutto, l’Eucarestia non è un diritto né un dovere: è un dono che riceviamo gratuitamente da Dio e che dobbiamo accogliere con venerazione e amore. Il Signore è una persona, nessuno accoglierebbe la persona che ama in un sacchetto o comunque in un modo indegno. La risposta alla privazione dell’Eucarestia non può essere la profanazione. Questa è davvero una questione di fede, se ci crediamo non possiamo trattarla in modo indegno. 
E la seconda?
Nessuno può impedire a un sacerdote di confessare e dare la comunione, nessuno può impedirlo. Il sacramento deve essere rispettato. Quindi anche se alle Messe non è possibile presenziare, i fedeli possono chiedere di essere confessati e di ricevere la Comunione.
A proposito di Messe, anche questo prolungarsi delle celebrazioni in streaming o in tv…Non possiamo abituarci a questo, Dio si è incarnato, è carne  e ossa, non è una realtà virtuale. È anche fortemente fuorviante per i sacerdoti. Nella Messa il sacerdote deve guardare Dio, invece si sta abituando a guardare alla telecamera, come se fosse uno spettacolo. Non si può continuare così.
Torniamo alla Comunione. Tra qualche settimana si spera comunque che le Messe con popolo siano ripristinate. E a parte le soluzioni più sacrileghe, c’è anche discussione se sia più indicato ricevere la Comunione sulla bocca o nelle mani, ed eventualmente come riceverla nelle mani. La CEI ha già reso obbligatoria la ricezione nelle mani, ma il nostro esperto afferma che sarebbe più igienico riceverla in bocca. Cosa si dovrebbe fare? 
C’è già una regola nella Chiesa e questa va rispettata: il fedele è libero di ricevere la Comunione in bocca o nella mano. 
Si ha la sensazione che negli ultimi anni si stia assistendo a un chiaro attacco all’Eucarestia: prima la questione dei divorziati risposati, all’insegna della “comunione per tutti”; poi l’intercomunione con i protestanti; poi le proposte sulla disponibilità dell’Eucarestia in Amazzonia e nelle regioni con scarsità di clero, ora le Messe al tempo del coronavirus… 
Non ci deve stupire. Il demonio attacca fortemente l’Eucarestia perché essa è il cuore della vita della Chiesa. Ma credo, come ho già scritto nei miei libri, che il cuore del problema sia la crisi di fede dei sacerdoti. Se i sacerdoti sono consapevoli di cosa è la Messa e di cosa è l’Eucarestia, certi modi di celebrare o certe ipotesi sulla Comunione non verrebbero neanche in mente. Gesù non si può trattare così.

(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 2 maggio 2020)
https://lanuovabq.it/it