lunedì 14 marzo 2011

Radio Londra: una voce fuori dal coro, contro l'ipocrisia

Oggi, alle 20.30, su Rai Uno inizia Radio Londra, la striscia quotidiana di Giuliano Ferrara. Una buona, buonissima notizia. Finalmente, quasi con la gioia del clandestino che sfida il regime sintonizzandosi su una voce libera, avremo la possibilità di sentire in prime time una voce diversa dalla monocultura che finora ha regnato in RAI. Finalmente avremo un momento quotidiano per attivare il cervello.
Giulianone ha detto che non risparmierà nessuno, tranne il Papa. Altra buona, buonissima notizia. Ferrara, del resto, è il capofila di quegli strani laici devoti che sono la vera novità nel panorama culturale italiano. Finora, anche qui, l’unico modello imperante nella TV pubblica era quello di Corrado Augias, esponente di un anticlericalismo bigotto e retrivo. È bello e utile sentire una voce diversa, fuori dal coro.
Una voce, soprattutto, che non vuole essere ipocrita, come quelli che l’altro giorno sventolavano in piazza la Costituzione e ascoltavano il signor Ingroia, magistrato, che attaccava il Governo su una riforma della giustizia che non è ancora nemmeno approdata in Parlamento. Si può sventolare la Costituzione e assistere, contemporaneamente, alla sua distruzione. Questa è l’ipocrisia di cui parlo.
Ferrara ci andrà giù sicuramente in modo pesante, utilizzando il diritto alla libertà d’opinione che non può essere solo un privilegio dei Santoro, Saviano, Fazio e Travaglio. Già oggi ha denunciato, in un suo editoriale, che “la lotta faziosa di una parte dell’ordine giudiziario contro il potere legislativo, inaudita in un Paese liberale qualunque, è uno scandalo istituzionale”. E poi ha spiegato i tre semplici motivi per riformare la giustizia. Eccoli.
1) La separazione delle carriere è qualcosa di molto opportuno e del resto già in atto in altri Paesi. Il magistrato inquirente deve essere messo sullo stesso piano del difensore, mentre chi giudica deve stare al di sopra delle parti.
2) Anche il magistrato deve essere responsabile nei confronti dei cittadini nel momento in cui esercita la propria professione. Attualmente la legge non è uguale per tutti. I magistrati distruggono, quando sbagliano, delle persone, e non pagano mai. Bisogna cambiare.
3) Non si può essere processati una seconda volta dopo essere stati assolti: “Da noi il principio è che si può emettere sentenza in base al libero convincimento del giudice, un criterio meramente soggettivo. Bisogna invece che la libertà del giudice sia ancorata all’oggettività di una certezza come base per un giudizio nel giusto processo”.
Sulla riforma proposta dal Governo si sta registrando l’ampia convergenza dell’opinione pubblica e quella un po’ stiracchiata del cosiddetto terzo polo. D’altro canto è davvero difficile prendere una posizione pregiudizialmente contraria senza dare l’impressione che si stanno facendo degli interessi di casta (quella dei magistrati) o che, più semplicemente, non si vuole darla vinta a Berlusconi, semplicemente perché dopo non si potrebbe più dire che “non ha fatto niente”. Tanto più che è evidente che questa riforma avrà tempi lunghi per essere approvata, più lunghi dei processi che incombono sul premier. A parte il solito Di Pietro con i suoi peones, chi, come al solito, sta facendo una figuraccia è Bersani. Che ancora una volta è capace di dire solo un no pregiudiziale.
E, infine, chi si trova in mezzo al guado sono proprio i magistrati, fortemente tentati di difendersi come una casta, arrivando addirittura a minacciare uno sciopero (come se fossero tassisti) che è qualcosa di inconcepibile. Se il Giudiziario è un potere dello Stato, rilevava l’altro giorno Piero Ostellino, dispone di canali propri per far valere le proprie ragioni (e questo è il punto per il quale è del tutto deprecabile la performance di piazza del signor Ingroia, che non può difendersi con un semplice “ho espresso la mia opinione”). Lo spettacolo che certa magistratura ci sta offrendo è inquietante, “perché – scrive Ostellino – indice un tasso di degrado e di delegittimazione delle istituzioni che mina le basi stesse della nostra democrazia. (...) Qui è in discussione la credibilità dello Stato costituzionale”.
Insomma, c’è in ballo qualcosa di molto importante. Ed è per questo che saluto con gioia il ritorno di Ferrara in TV e che mi sintonizzerò quotidianamente con la sua Radio Londra. Abbiamo proprio bisogno di aria nuova e di qualcuno che abbia il coraggio di parlare fuori dal coro!

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 13 marzo 2011)

Scuola: Quelli del sesso coi bambini

La notizia è tratta dal settimanale Tempi: “Dopo i corsi sessuali obbligatori della Spagna di Zapatero, nel Regno Unito ben 16 Comuni hanno deciso di introdurre l'educazione sessuale anche all'asilo. I manuali sono osceni. A mo' di fumetto si vedono genitori che fanno sesso, con tanto di spiegazioni sulle posizioni possibili e su come avviene l'atto, con esplicita menzione di peni e vagine. La lesione del diritto di libertà educativa è tale che oltre all'Istituto cristiano inglese, sono gli stessi genitori a ribellarsi”.
Così va il mondo, amici. C’è gente in giro che, senza alcun senso del pudore, del limite, della delicatezza e del rispetto che si dovrebbero ai bambini, propaga una precocissima iniziazione al sesso; per ora, e solo per ora, si spera, teorica. Questa gente sappiamo benissimo da che tipo di formazione politico-ideologica proviene. Sono gli araldi di un mix infernale che mette insieme sinistrismo e nichilismo relativista. Un’ideologia oscena e disastrosa, i cui devoti sono gli stupidi servitori (quando benintenzionati) del potere economico mondiale che deve fare soldi con tutto. Del resto era già scritto: basta leggere “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, che già nel 1932 metteva in scena questo scempio e questa violenza sull’infanzia (nel romanzo, i ragazzini sono iniziati da subito, e in modo obbligatorio, ai giochini sessuali, che fanno parte del programma scolastico statale).
Questa nuova cultura di Stato, questo pensiero unico che non risparmia nessuno, viene letteralmente imposto dall’alto, e diventa veramente difficile opporvisi. Leggo ad esempio, sempre su Tempi, che lo scorso 9 marzo “è stata condannata a 43 giorni di prigionia una mamma che nel 2006 si era rifiutata di pagare una multa da 2.340 euro per essersi rifiutata di far partecipare i propri figli a dei corsi sessuali contrari al proprio credo cristiano. Ora, gli avvocati della donna, membri di un istituto per la libertà religiosa, si sono appellati alla Corte europea per i diritti dell'uomo. Purtroppo però la Corte giudica sempre a partire dalle leggi statali e in Germania la scuola è obbligatoria, tanto che per lo stesso motivo una famiglia si è rifugiata in America con diritto d'asilo per persecuzione di una libertà fondamentale”.
E in Italia? Abbiamo dovuto sorbirci il moralismo di gentaglia che si è messa a spiare il privato del premier solamente per dargli la famosa “spallata” (quella che non arriva mai). È stato il trionfo del moralismo di gentaglia che ha in testa un programma ideologico molto, molto simile a quello di Spagna e Regno Unito, gentaglia che si batte perché nelle scuole vi siano distributori automatici di preservativi, gentaglia che quotidianamente deride ogni discorso sul pudore, la castità, il rispetto, la continenza, e che poi si scandalizza se qualcuno, nel suo privato, si comporta come vorrebbe che si comportassero tutti.
Vogliono dare una spallata al “porco” per prendere il potere e poi renderci tutti allegramente porci. È il comunismo del porcile. Non le dicono, queste cose, non le rendono pubbliche, se le tengono nascoste. Ma noi sappiamo benissimo da che parte pendono, cosa vogliono davvero. Se non lo confessano è perché hanno una stramaledetta paura di perdere ancora voti, di sparire letteralmente dalla scena politica nazionale. Non possono parlare, ed infatti non sappiamo nemmeno quale sia il loro programma. Si limitano a scandalizzarsi, a prendere le distanze, a piagnucolare.
Dicono che la nostra Italia è sputtanata all’estero. Punti di vista. Saremo pure sputtanati, ma per lo meno, almeno per adesso, non ci vengono imposte le porcate che si fanno in Spagna, nel Regno Unito, in Germania. Quelle sì che sono nazioni sputtanate, di cui vergognarsi. Quella sì che è una politica scolastica ed educativa degenerata, disumana, criminale. In quelle nazioni la famiglia deve subire il diktat di una scuola statale che passa tranquillamente sulle coscienze, sui valori, sull’educazione impartita dai genitori.
Questa gentaglia ha la questione morale nell’armadio, come uno scheletro scomodo. Bisogna smascherarla, sempre e comunque; bisogna rinfacciarle quella stupida ed ideologica distruzione di ogni valore relativo alla sessualità umana, nefasto retaggio della rivoluzione degli anni Sessanta; bisogna tirarla giù dal pulpito sul quale ama collocarsi, mostrando che non è degna di nessun pulpito.
E per farlo non servono tanti discorsi: bastano fatti come quelli che avvengono nel Regno Unito. Del resto l’albero si riconosce sempre dai suoi frutti...

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 10 marzo 2011)

Il sangue dei martiri che sconfisse il comunismo

La parola “martirio” non è un concetto da relegare all’immaginario della Chiesa delle origini. Esso caratterizza ogni momento ed ogni epoca del cristianesimo ed oggi ne abbiamo un drammatico riscontro nel continente asiatico, in particolare in Medio Oriente. Il secolo scorso, del resto, ha segnato un drammatico ritorno delle persecuzioni anticristiane, il cui momento più emblematico è proprio quello dell'oppressione dei regimi totalitari, nelle loro varie forme.
La maggior parte di tali martirii si è verificata sotto i regimi comunisti. L'argomento è stato affrontato dallo storico e teologo George Weigel, biografo di papa Wojtyla, che in questi mesi sta affrontando in modo sistematico il tema, attraverso un ciclo di letture negli Stati Uniti e in Europa, dal titolo The Communist War Against the Church. New Evidences from the Past and Lessons for the Future. “Ventuno anni dopo il crollo del Muro di Berlino – afferma Weigel – la memoria di tutto ciò sta svanendo”. Eppure stiamo parlando di una vera e propria guerra che messo in campo spie, talpe, agenti segreti, propaganda, disinformazione, fino alla soluzione finale dei gulag.
Un notevole contributo di notizie inedite proviene dal ben noto “archivio Mitrokhin”: a questa ed altre fonti Weigel ha attinto per la sua ultima biografia di Giovanni Paolo II, The End and the Beginning. Pope John Paul II – The Victory of Freedom, the Last Years, the Legacy, uscita negli USA lo scorso settembre. “La guerra del comunismo contro la Chiesa Cattolica – spiega Weigel - i modi in cui fu condotta, le forme di resistenza ecclesiale (alcune fallimentari, altre di successo) rappresentano un importante monito per il futuro, oltre che un contributo alla chiarificazione del passato. Sin dalla Rivoluzione d'Ottobre, la Chiesa ha rappresentato per i sovietici una ‘minaccia mortale per i propri programmi ed interessi’”. Se da un lato gli USA erano il principale avversario militare e politico, il Vaticano rappresentava il principale avversario ideologico, nonché principale ostacolo nell'esportazione degli ideali marxisti, nel Terzo Mondo, in particolare in America Latina.
A fronte di ciò la menzogna dei sovietici fu clamorosa: per tutta la Guerra Fredda, il Cremlino negò sempre, finanche nei rapporti diplomatici con la Santa Sede, qualsiasi persecuzione nei confronti dei cristiani d'oltrecortina. Mentendo e sapendo di mentire i ministri degli esteri sovietici affermavano costantemente che nel loro paese la libertà religiosa era tutelata. Negli ultimi anni della Guerra Fredda, peraltro, furono soprattutto i servizi sovietici ad alimentare la leggenda nera di papa Pio XII antisemita e connivente con i nazisti. Distruggere la reputazione della Chiesa Cattolica e del suo massimo rappresentante era l'unica strada per far trionfare il socialismo reale.
I primi trent’anni di comunismo si caratterizzarono per una più o meno tenace resistenza da parte delle chiese nazionali: emblematiche, in tal senso, sono figure come quella del cardinale ucraino Josyf Slipyi, per quasi vent’anni prigioniero nei gulag, o di monsignor Alojzije Stepinac, controverso vescovo croato, considerato un martire dagli anticomunisti e un fascista dai comunisti, in quanto presunto colluso con il regime ustasha. In questa prima fase storica la figura “vincente” è tuttavia soprattutto quella del primate di Polonia, Stefan Wyszyński, testimone della fede in un paese inossidabilmente cattolico, che è riuscito a resistere all’ortodossia, al protestantesimo e, nell’ultimo secolo, a nazismo e comunismo.
Negli anni ’60 la convocazione e lo svolgimento del Concilio Vaticano II, con l’arrivo a Roma di numerosi vescovi d’oltrecortina, rappresentò una ghiotta occasione per il KGB, la Stasi, il SB e tutti i servizi segreti dei regimi comunisti europei per assumere un controllo più incisivo del Vaticano dall’interno. La ostpolitik di papa Giovanni XXIII, spinse ad una strategia di prudenza nei confronti dell’avversario, che in tante occasioni si dimostrò abile nella sua opera di corruzione di numerosi prelati e funzionari curiali.
Nel 1978 l’elezione al soglio pontificio del cardinal Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia e degno discepolo di Wyszyński, sparigliò le carte in tavola. Già dagli anni ’50, Wojtyla era considerato una vera e propria mina vagante per la stabilità del comunismo in Polonia. Diventato pontefice, Giovanni Paolo II, ben consapevole che i servizi segreti comunisti erano ben radicati in Vaticano, mutò strategia: “I documenti che concernevano la Polonia ed altri affari delicati – afferma Weigel – non venivano più affidati alla Segreteria di Stato ma mantenuti all’interno dell’appartamento papale, al riparo da speculazioni”. Quel papa slavo era ritenuto un “sovversivo”, responsabile di una “lotta ideologica”, mirata a danneggiare i regimi socialisti. Il fallito attentato alla vita del pontefice del 13 maggio 1981 non rappresentò affatto la fine della guerra del comunismo alla Chiesa. Pochi mesi dopo, infatti, in Polonia viene proclamata la legge marziale e la repressione si intensifica. Tra i martiri di questo difficile passaggio figura Jerzy Popiełuszko, cappellano di Solidarnosc, uno dei sacerdoti polacchi più fedeli al papa e più tenacemente anticomunisti. La guerra era totale e senza tregua.
La prima lezione che si può trarre da questa storia è che “Cattolicesimo e comunismo – afferma Weigel - offrivano al mondo due visioni radicalmente diverse della natura umana, della comunità umana, delle origini umane e del destino umano”. In altre parole: erano incompatibili al cento per cento. Ed è proprio da questa incompatibilità che scaturì la strategia di Giovanni Paolo II, secondo il quale era in corso una vera e propria lotta tra il Bene e il Male e il perseguimento di una vittoria della libertà sulla tirannia era qualcosa di molto più lungimirante che non una politica di compromesso e di un’evoluzione in senso socialdemocratico di entrambi i blocchi.
Quello della libertà religiosa rimane un problema aperto in molti paesi comunisti, post-comunisti (Cina, Vietnam, Corea del Nord, Cuba) o islamici, i cui regimi, in modo neanche troppo velato, si ispirano al nazismo o al leninismo. La storia, però, ci ha insegnato che “l’appeasement non funzionò né con Napoleone, né con i regimi anticlericali spagnolo o messicano e nemmeno nell’Austria, dopo l’Anschluss nazista”, afferma Weigel. Basta anche guardare alle condizioni in cui versano le comunità cattoliche nell’Europa dell’Est: in Repubblica Ceca e in Ungheria, dove l’acquiescenza dei vescovi ai regimi totalitari raggiunse i suoi massimi livelli, la chiesa è in profonda crisi. Esattamente il contrario di quanto avviene in Lituania, Ucraina e, soprattutto, in Polonia.
L’altra grande lezione per il futuro concerne i rapporti tra Chiesa Cattolica e Chiesa Ortodossa russa, nonché tra Vaticano e Russia. La chiesa di Roma e quella moscovita sono infatti unite dallo straordinario numero di martiri che hanno versato il sangue durante il comunismo. Ed è proprio il sangue dei martiri, anche nella nostra epoca, il seme della vittoria cristiana. “Il loro sacrificio – conclude Weigel – e ciò che possiamo impararne sulla virtù della fortezza (cioè, il coraggio) non dovranno mai essere dimenticate”.

(Fonte: Luca Marcolivio, L’Ottinista, 16 marzo 2011)

Il Risorgimento e la crisi dell’identità italiana

A margine dei 150 anni dell’unità d’Italia. «L’Italia è fatta, resta da fare gli italiani».
Ecco la frase più nota della storia italiana, pronunciata negli stessi giorni fatali dell’unificazione da uno dei suoi più intelligenti protagonisti, Massimo d’Azeglio, e già disincantato critico.
Non è facile spiegare quanta profonda verità vi fosse in questa affermazione, che ancora oggi costituisce una fonte di riflessioni e dibattiti fra storici e politologi. In questa audace e provocatoria frase si racchiude in nuce tutta la problematica della Rivoluzione italiana: l’unificazione non era stata attuata proprio in quanto gli italiani già c’erano e soffrivano perché senza patria? I moti, i complotti, le congiure, gli attentati, le guerre, non erano stati fatti per liberare gli italiani da intollerabile e brutale oppressione straniera e indigena?
Inoltre, altra non secondaria questione: gli italiani “si fanno”? Un popolo lo si crea con le guerre e i plebisciti, o un popolo esiste già di per sé? E se si arriva a sentire un’esigenza come quella espressa dal d’Azeglio (quali ne possano essere le motivazioni e al di là dell’aspetto provocatorio), non se ne deve concludere forse che l’unificazione non è stata voluta e sentita dalle popolazioni italiane ma è stata loro imposta da una ristretta élite politica e sociale?
Come si può notare, in tali questioni si ritrovano le principali cause di disfunzione che da 150 anni lacerano la società e la storia nazionale; e in particolare se ne riscontra, nell’immediato, una su tutte, la più grave, la più irrisolta: la divisione del nostro popolo. Proprio il principio stesso di “dover fare gli italiani” dimostra che si era volutamente rinnegata la millenaria identità italiana in nome di una strada nuova, antitetica alla vera civiltà italica, quindi sovversiva.
Si era scelto insomma di rinnegare e distruggere la vera Italia (che infatti i protagonisti del Risorgimento – e con loro nei decenni seguenti tutti i risorgimentisti – chiamavano “La vecchia Italia”) in nome de “La nuova Italia”. Vale a dire, un’Italia non più universale, non più cattolica, di lì a poco neanche più monarchica; insomma, non più “romana” e, quindi, non più “italiana”. Occorreva insomma “fare gli italiani”, come se non esistessero già da sempre, ovvero diversi da come essi da sempre erano e volevano restare.
In questi ultimi decenni è iniziato (e si sta sviluppando in maniera sempre più intensa e coinvolgente) un riesame storico degli eventi – e dei loro protagonisti – che condussero all’unificazione nazionale italiana e delle conseguenze del processo risorgimentale sulla storia nazionale del XX secolo. Un nucleo sempre più numeroso di cattedratici, storici e politologi ha cominciato a mettere in discussione determinati aspetti e specifici momenti del Risorgimento italiano che troppo facilmente erano stati codificati dalle correnti storiografiche dominanti – e quindi presentati per decenni a generazioni di italiani – come assunti indiscutibili, sui quali poi si è voluto fondare l’“immaginario collettivo” del popolo italiano per quanto concerne il proprio Stato nazionale.
In particolare, vi sono alcuni momenti ideali precisi e alcuni nodi storici più drammatici che maggiormente hanno interessato tali studiosi. Il primo fra questi ad attirare l’interesse degli storici è stato, fin dagli anni Sessanta, la rivolta delle popolazioni meridionali contro il processo unitario in difesa della Chiesa e della dinastia borbonica, il cosiddetto “brigantaggio” antiunitario, argomento ormai ricco di studi che lo approfondiscono ma che non smette certo di suscitare polemiche e divisioni fra gli esperti e anche fra i profani. Sulla stessa scia si situa il problema delle insorgenze antigiacobine, che avvennero a seguito dell’invasione napoleonica: ormai, da “argomento tabù” della nostra storia, realmente boicottato e mistificato per decenni, negli ultimi anni è divenuto una pagina fra le più coinvolgenti.
Negli ultimissimi anni, poi, sono fioriti anche studi, di matrice cattolica, finalizzati a ripresentare il processo risorgimentale sotto l’aspetto specifico della guerra alla Chiesa condotta sotto la veste eroica dell’unificazione nazionale. La guerra alla Chiesa Cattolica e alle tradizioni locali condotta dal Risorgimento aveva come scopo la morte non del Papato come Stato Pontificio al fine dell’unificazione, bensì del Papato come Chiesa Cattolica, come molti fra i più noti e meno noti protagonisti di quei giorni ebbero sempre a dichiarare pubblicamente e a testimoniare con le loro azioni: è stata una guerra condotta senza scrupoli di sorta, che ha ferito nel profondo l’identità cattolica degli italiani.
Ma, dagli anni Ottanta, anche altri aspetti del movimento unitario e dell’Italia postunitaria e del XX secolo sono stati riesaminati da vari autori e storici, sovente non cattolici – sebbene non anticattolici – (settarismo terroristico mazziniano, la farsa dei plebisciti, la corruzione endemica, l’emigrazionismo, il nazionalismo, e quindi la Grande Guerra, il fascismo figlio del Risorgimento, l’8 settembre e la “morte della patria”, la guerra civile e l’odio ideologico, ecc., fino ai giorni nostri).
La conclusione, in diverse maniere e per differenti vie, è sempre risultata però la medesima: la costatazione della mancata reale unità degli italiani, vale a dire quella del fallimento palese di ciò che fu lo scopo stesso del Risorgimento, la creazione di una nuova identità nazionale per gli italiani. È un intero mondo culturale e ideologico che inizia a vacillare, sotto la spinta della necessità e del desiderio che la verità sulla storia del nostro popolo sia finalmente conosciuta da tutti.

(Fonte: Massimo Viglione, Corrispondenza Romana, 12 marzo 2011)

L’eroismo di Shahbaz Bhatti, martire per Cristo

Shahbaz Bhatti non era un uomo alla ricerca della notorietà. Pur essendo ministro del governo pakistano, girava senza scorta. Non era nemmeno un “politico” nell’accezione comune del termine. Quella per le minoranze era per lui una vera e propria vocazione; e nel suo paese il concetto di minoranza non è quello occidentale, riferito alla normale dialettica di un’opinione pubblica libera in cui chi ha più voti governa e chi ne ha di meno è comunque rispettato e può esprimere pacificamente il suo dissenso.
Essere in minoranza in Pakistan è sinonimo di marginalità, di isolamento, di miseria, di persecuzione. Il più grande torto di Bhatti era quello di appartenere a queste minoranze, in quanto cristiano. La sua più grande forza era quella di essere un cristiano vero, ovvero senza compromessi con il mondo e con la consapevolezza che la propria missione non si conclude con la morte e che la violenza dei nemici non potrà mai vincere.
Ma chi era davvero Shahbaz Bhatti e per quale motivo i fondamentalisti islamici lo hanno così barbaramente assassinato lo scorso 2 marzo? Fu lui stesso a descriversi così: “Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù”. Parole che farebbero onore a qualunque cristiano, di qualunque luogo ed epoca. Bhatti, però, è nato e vissuto nel Pakistan del XXI secolo: un paese dove la libertà di culto è limitata e dove vige la vergognosa legge contro la blasfemia, laddove per blasfemo (alla faccia della libertà religiosa e della laicità che piace tanto agli europei…) non si intende l’offesa a qualunque culto ma solo ed esclusivamente ad Allah e all’Islam, dei quali è devoto il 96% della popolazione. E probabilmente in nessun paese islamico l’intolleranza religiosa sta raggiungendo livelli preoccupanti come in Pakistan: da quando il caso di Asia Bibi è diventato noto all’opinione pubblica internazionale, per i cristiani non c’è più tregua: mentre la 45enne contadina del Punjab rischia la lapidazione per aver educatamente criticato la figura del profeta Maometto, lo scorso 4 gennaio, il governatore della stessa provincia, Salman Taseer (mussulmano), è stato assassinato dalla sua guardia del corpo per aver espresso la propria contrarietà alla legge antiblasfemia. In Pakistan la violenza fondamentalista non è tanto un problema politico, quanto un problema culturale, tristemente radicato nel popolo. Il governo di Islamabad – del quale Shahabz Batti, unico ministro cristiano faceva parte – ha condannato tiepidamente gli attentati e si sta dimostrando impotente (forse connivente?) dinnanzi alla furia distruttiva dei fanatici. Dall’altro lato c’è una larga parte della popolazione accecata dall’odio religioso. Non solo l’applicazione della legge sulla blasfemia è tutt’altro che restrittiva e numerosissime condanne vengono comminate per motivi pretestuosi; chi viene assolto vede la sua vita messa a repentaglio, esposta alle aggressioni dei fanatici che pretendono di fare giustizia sommaria in luogo dei tribunali. I pochi cristiani del paese, da parte loro, fanno molta fatica a porgere l’altra guancia. Grande ira ha infatti suscitato la decisione del governo di bloccare, per motivi di sicurezza, l’ingresso alla chiesa dove si sono svolti i funerali del ministro ucciso: persino i familiari della vittima ne sono rimasti fuori.
Il vero problema non riguarda la strategia da adottare dall’interno: sia che i cristiani rimangano in silenzio per non prestare il fianco a rappresaglie (come aveva auspicato il vescovo di Lahore, Lawrence Saldanha), sia che reclamino ad alta voce i loro diritti, essi saranno sempre e comunque sotto tiro. La responsabilità più grande è, piuttosto, a carico della comunità internazionale e delle organizzazioni non governative che dovranno esercitare le opportune pressioni su Islamabad per abrogare o, quantomeno, attenuare la legge antiblasfemia.
Se da un lato, la situazione diplomatica internazionale si presta a dilemmi amletici e a troppe inquietanti zone d’ombra, il contrappunto luminoso è proprio la testimonianza di Shahbaz Bhatti, un uomo che, dinnanzi ai bisognosi, ai poveri, agli affamati e agli assetati non si è mai tirato indietro, anche a costo della propria vita. L’impegno umano e quello cristiano per Bhatti erano una cosa sola. “Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità”, aveva affermato in un’intervista il ministro assassinato. “Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere”, insisteva a dire. Aveva quindi assunto la propria carica governativa, per puro spirito di servizio. Come spesso capita nelle spietate dinamiche del potere, a Bhatti era stato proposto di abbandonare le sue ambizioni umanitarie, in cambio di una rapida ascesa a ruoli prestigiosi. Aveva avuto il coraggio di dire di no, a costo di minacce e tentativi di aggressione contro di sé e contro la propria famiglia. Ma Shahbaz Bhatti, consapevole che, come affermava Tertulliano “il sangue dei martiri è il seme dei nuovi cristiani”, aveva già da tempo accettato il proprio destino, qualunque sarebbe stato: “mi considererei privilegiato qualora (…) Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese”.

(Fonte: Luca Marcolivio, L’Ottimista, 10 marzo 2011)

Tra Rosy Bindi e Gianfranco Fini…

Che hanno in comune Gianfranco Fini e Rosy Bindi? Secondo il saggio “Itinerari della destra cattolica”, scritto da Piero Vassallo e pubblicato dalle edizioni Solfanelli, i due “sono i perfetti interpreti di due scelte antipatiche, che – alla fine – si ritrovano nella reciproca simpatia per l’assenza di un vero disegno politico”. Secondo Vassallo “Un’impressionante sequela di abbagli e malintesi ha allontanato i cattolici [Bindi] dalla loro naturale posizione politica e la destra [Fini] dalla sua naturale radice cattolica”. Piero Vassallo, nato a Genova nel 1933, è docente emerito della Facoltà teologica del Nord Italia. Presidente dell’associazione degli scrittori liberi del Nord Ovest, autore di numerosissimi libri, saggi e articoli. Sempre per le edizioni Solfanelli sta per uscire il suo “Icone della Falsa Destra”. Incuriosito dalle argute argomentazioni e dalla vasta cultura di Vassallo, l’Ottimista lo ha intervistato:
D. Che cosa è successo a Gianfranco Fini? Perché sta sposando la cultura di Palazzo, radicale, anticattolica e antipopolare? È sempre stato così o si tratta di una variazione dettata da opportunismo politico?
Gianfranco Fini si è formato alla scuola di Giorgio Almirante, idealista senza princìpi e pirandelliano in guerra con il principio di identità e non contraddizione (definizioni solo apparentemente paradossali: dopo tutto Almirante tradiva la doppiezza del suo pensiero confessando di avere due “vangeli”: le lettere di Santa Caterina da Siena e il Principe di Machiavelli). Cammin facendo Fini ha abbandonato l'idealismo (un peso leggero, per lui). È stato fascista senza conoscere le culture del fascismo, cattolico (fu insignito dell'Ordine Piano, onorificenza pontificia assegnata a personalità insigni per la loro fede!) senza conoscere il catechismo, ed ora è laicista senza conoscere la filosofia dei lumi. La sua politica è uno, nessuno, centomila.
D. Che cosa intende per destra cattolica? Quali i fondamenti culturali e politici?
Dobbiamo la definizione di destra cattolica a Clemente Solaro della Margarita: “Sono di destra coloro che hanno a cuore il bene della religione e dello stato”. La fonte teoretica della destra moderna è la dottrina del diritto naturale formulata da Giambattista Vico e (in essa) la teoria "cesarista", che contempla la figura di un politico inteso a risolvere con giustizia la tensione tra plebe e oligarchia.
D. La Chiesa cattolica ha spiegato e denunciato gli errori ed i pericoli dell’ideologia marxista-leninista fin dagli inizi dell’Internazionale comunista. Come è stato possibile che, dopo il Concilio Vaticano II, ci siano stati tanti cattolici che sono diventati attivisti del PCI e delle successive variazioni sul tema: Ulivo, Democratici di sinistra e adesso Partito democratico?
Alla fine degli anni Venti la cultura cattolica è stata infiltrata dall'opinione storicista strisciante (lo ha dimostrato magistralmente padre Antonio Messineo) nel saggio di Jacques Maritain, Umanesimo integrale. Al seguito di tale infiltrazione si è diffuso uno stato d'animo contemplante la necessità di un accordo politico tra i cattolici e i rivoluzionari di sinistra (intesi come portatori inconsapevoli di esigenze cristiane). Come ha rammentato Paolo Emilio Taviani nel saggio autobiografico A memoria d'uomo, i vertici della Dc erano occupati da maritainiani convinti. Pio XII ha tentato di rettificare la cultura politica dei democristiani (si veda ad esempio il radiomessaggio nel Natale del 1944). Dal canto suo Guido Gonella ha suggerito (1944) alla Dc una costituzione conforme ai princìpi tradizionali del cattolicesimo. Purtroppo De Gasperi ha ignorato l'insegnamento di Pio XII e ha bocciato il progetto di costituzione proposto da Gonella. La Dc si è gettata a capofitto nel sentiero segnato da Maritain. I risultati di questa scelta infelicissima sono sotto gli occhi di tutti. L'auspicata ricostituzione di un movimento politico d'ispirazione cristiana, pertanto, dovrebbe iniziare da una lettura fortemente critica del degasperismo.
D. Insieme a quello nazista il regime sovietico è stato il più brutale e violento regime del ventesimo secolo. Cosa hanno in comune le due ideologie? E come mai si parla così poco della caduta del muro di Berlino e della sconfitta del comunismo?
Nazismo e comunismo hanno in comune l'odio nei confronti del Dio di giustizia. Comunismo e nazismo hanno potuto tollerare un Cristo impotente, separato dall'Antico Testamento (penso al cristianesimo tedesco in circolazione nel Terzo Reich e all'appello di Stalin del 1941 alla Russia profonda). Ma al fondo delle due dottrine si trova il rigetto del Dio di Mosé (rigetto avviato da Sigmund Freud e approfondito dalle avanguardie neoagnostiche – marcionite - a sinistra e a destra). Non si può comprendere l'essenza delle due ideologie che hanno insanguinato il XX secolo senza riferimento al comune odio nei confronti del Dio di giustizia.
D. Quali caratteristiche dovrebbero avere secondo Lei i cattolici impegnati in politica?
I cattolici in politica dovrebbero tentare la non facile impresa di vivere in conformità al decalogo. Poi dovrebbero capire che per ricominciare è necessario congedare le chimere associate alla dottrina (maritainiana e dossettiana) che ha condotto la Dc al fallimento. L'inizio non può essere che uno studio severo. Il talk show politico, la fiera delle vanità e delle stupidaggini, devono essere evitate rigorosamente. Prima di tutto i cattolici dovrebbero, infatti, assimilare (leggendo le opere di Michele Federico Sciacca) la fondamentale distinzione di filosofia e sofistica, quindi la distinzione della politica intesa come produzione del bene comune dalla politica intesa soltanto come conquista del potere. Quindi dovrebbero assimilare le ragioni della filosofia cattolica, cioè affrontare autori quali Cornelio Fabro, Augusto Del Noce, Maria Adelaide Raschini, Antonio Livi, Giovanni Cavalcoli, eccetera. Senza una solida base culturale l’attività politica è inutile se non dannosa. Infine dovrebbero concepire un programma inteso ad affrontare le tragiche nascoste emergenze, quali la denatalità, lo sfascio doloroso delle famiglie, le follie del sabato sera, l’incremento dei suicidi. L'attenzione a questi problemi deve distinguere i cattolici dagli altri, che si impegnano unicamente sul fronte dell'economia (e spesso solo sul fronte della chiacchiera).

(Fonte: Antonio Padovano, L’Ottimista, 30 giugno 2010)