martedì 16 agosto 2011

Mons. Crepaldi: La fede non è un cagnolino da salotto

Perché Benedetto XVI insiste tanto sui cosiddetti principi non negoziabili? E la Chiesa italiana sta facendo quanto è possibile su questo fronte? Mi sembra importante spingere per la riflessione e il confronto su questo grande tema. Sono convinto che da esso dipenda sia una corretta visione della Chiesa sia una giusta visione dei rapporti della Chiesa con il mondo. Se invece l’argomento viene eluso, ossequiato formalmente ma non attraversato in pieno, non si guadagnerà granché in chiarezza, né il popolo cristiano troverà un proprio percorso comune nella società di oggi.
I principi non negoziabili sono stati enunciati in più occasioni da Benedetto XVI. Sia l’espressione sia l’elenco erano però già presenti nella “Notadottrinale su alcune questioni riguardanti l’impegno sociale e politico deicattolici” che la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò nel 2002, a firma dell’allora Prefetto Cardinale Joseph Ratzinger. Pur trattandosi di un elenco di tematiche – la vita, la famiglia, la libertà di educazione soprattutto – essi non vanno intesi solo come degli argomenti di una agenda politica, ma come un orizzonte strategico dentro cui muoversi affinché la disgregazione della modernità venga frenata e con essa la riduzione della fede cristiana ad “utile cagnolino da salotto” o a “hobby personale”.
Essi non vanno intesi nemmeno come l’ultima resistenza del cattolicesimo, la ridotta in cui ci si è asserragliati e in cui si combatte la battaglia decisiva contro il relativismo. I principi non negoziabili sono invece l’indicazione della speranza che nasce dalla verità. Verità che la Chiesa enuncia, basandosi sulla rivelazione e sul deposito che essa conserva e tramanda con cui ridestare anche le verità della ragione, quando questa risulti sopita o addirittura avvilita. L’enunciazione dei principi non negoziabili, assieme al dovere assoluto di rispettarli, è un annuncio, una luce della fede e della ragione. Essi sono importanti e “strategici”, prima di tutto, proprio perché salvano il mondo dalla disperazione e ridanno fiducia alla ragione in virtù di una illuminazione della fede. Così facendo corroborano anche la fede perché la riscoprono come conoscenza e non come illusione.
La grande questione dell’epoca moderna è la pretesa del piano naturale di staccarsi da quello soprannaturale e di rendersi autonomo. La pretesa, in altri termini, di essere in grado da solo di darsi la propria salvezza e di conseguire il proprio significato. Ciò è pienamente possibile quando la cultura viene completamente sostituita alla natura, fino al punto da poterla riplasmare. E’ così che l’assolutizzazione della natura conclude con la rinuncia ad essa come criterio normativo, finendo l’uomo per perdere il gusto stesso del significato e lo stesso bisogno di una salvezza. Eliminando l’indisponibile – si pensi per esempio alla disponibilità della vita e del nostro corpo – l’assolutizzazione del piano naturale rischia di perdere il gusto per la stessa libertà, come ha ben visto Jürgen Habermas.
Questa, infatti, è possibile solo nella contingenza e la contingenza è tale quando ammette un “oltre”, un cominciamento non prodotto da noi. Il recupero del concetto di “natura” è quindi all’ordine del giorno anche del pensiero laico. L’appello ai principi non negoziabili favorisce questo recupero e nello stesso tempo evita di ridurre la natura al suo significato naturalistico, che è un altro modo per soffocarla: la natura umana ridotta a fisicità diventa un prodotto tecnologico di laboratorio.
Come si vede, il rispetto dei principi non negoziabili non è a difesa della “corporazione ecclesiastica”, ma sprigiona delle verità che interpellano sia la ragione che la fede e ridanno ad ambedue il senso della propria dignità.
C’è però un altro motivo per cui i principi non negoziabili sono così importanti. È un motivo interno alla fede cristiana ma che, senza tradire questa origine, può rappresentare un motivo di respiro anche per il mondo. La natura umana e gli stessi principi della legge naturale – di cui i principi non negoziabili sono espressione – sarebbero stati conosciuti fino in fondo senza la rivelazione cristiana? E, una volta conosciuti, si sarebbe trovata la forza morale per mantenervisi fedeli? In altre parole: la legge naturale è solo questione di natura o anche di grazia? Si va dalla ragione alla fede o dalla fede alla ragione?
Solo per fare qualche esempio, ricordo che per Augusto Del Noce si parte sempre dalla fede e i principi non negoziabili sono richiesti dalla fede cristiana, essi riguardano la dimensione metafisica della fede cristiana. Dello stesso parere sono Romano Guardini ed Henri de Lubac ed anche, credo di poterlo dire, il teologo Joseph Ratzinger. Se ho capito bene la posizione di Maritain su questo punto, egli pensava che la vecchia cristianità partisse dalla fede per arrivare alla ragione e che la nuova cristianità avesse dovuto invece partire dalla ragione per arrivare alla fede. Questo sembra non essere accaduto.
L’ottimismo di Maritain, insieme con altri ottimismi che hanno contraddistinto la sua epoca, si è incrinato davanti alla constatazione che la ragione da sola non solo si allontanava sempre di più dalla fede, ma anche da se stessa. Il che comprovava la tesi opposta, che del resto anche Maritain ha riproposto nel Contadino della Garonna. Difficile se non impossibile riproporre oggi lo stesso schema.
Siamo qui davanti ad un punto molto delicato. La religione cristiana ritiene che la natura umana sia stata indebolita dal peccato e, pur avendone un’alta considerazione fondata sulla bontà della creazione, sull’essere l’uomo creato ad immagine di Dio e sull’aver assunto il Logos carne umana, ritiene anche che non possa trovare solo in se stessa le forze per il pieno risveglio. Ecco perché i principi non negoziabili sono in sé un fatto di ragione, ma hanno bisogno della religione per essere pienamente considerati anche dal punto di vista razionale.
Giovanni Paolo II ha molto lavorato per mostrare che la Chiesa è l’avvocata dei diritti della persona, come del resto essa era sempre stata, e per indicare che l’uomo è la via della Chiesa perché Cristo è la via della Chiesa. Ci sono oggi molti non credenti che accettano su questi punti il messaggio religioso del cristianesimo, riconoscendo a quest’ultimo di essere fermento di civiltà proprio perché fatto religioso. Se il cristianesimo viene inteso come fermento di civiltà a patto che si tralasci la sua dimensione religiosa viene trasformato in religione civile, in consuetudine o in etica e ucciso come fede religiosa.
L’appello ai principi non negoziabili è quindi molto importante per ridare alla religione cristiana la convinzione della sua necessità anche per la costruzione dell’ordine civile, il senso della sua dignità pubblica. Dopo molti anni in cui questo è stato negato, soprattutto dentro il mondo cattolico, in quanto considerato fonte della trasformazione della fede in ideologia, si tratta ora di un punto di svolta di grande importanza. Se la natura umana si potesse autonomamente salvare con le sole sue forze, la dimensione pubblica della religione non potrebbe più essere legittimamente sostenuta. La Caritas in veritate però dice che il cristianesimo non è solo utile ma anche indispensabile per lo sviluppo umano. La Chiesa non può rinunciare al principio che la redenzione non abbia elevato, o purificato come dice Benedetto XVI, tutta la dimensione umana e l’intera storia.
Ora, una simile pretesa non rischia di soffocare la legittima autonomia del piano naturale? Affermando i principi non negoziabili dal punto di vista religioso, Benedetto XVI non soffoca irrimediabilmente il loro significato autonomo sul piano razionale? Dal punto di vista cristiano il problema non si pone perché l’annuncio di Cristo non può non essere rispettoso dell’uomo. Ma dal punto di vista del non cristiano, del “laico” come si dice oggi? Può egli accogliere un messaggio religioso, che per di più pretende di essere una luce vera ed originaria, senza sentirsi soffocato? Non nasce proprio da qui la difficoltà nel cosiddetto dialogo tra laici e cattolici?
Cristo ci ha detto che il suo gioco è leggero e che Lui è umile di cuore. La pretesa cristiana non è pretenziosa e arrogante. Essa consiste nel suggerire alla ragione: vieni e vedi!, come Gesù disse ai suoi primi discepoli. I principi non negoziabili nascono dalla natura dell’uomo ma illuminata dalla vita della “nuova creatura”. Questa non soffoca la prima, la sollecita, la illumina, la spinge ad approfondire se stessa, a non perdere fiducia in sé. Non le toglie niente nel mentre la trasforma in tutto. La forza della pretesa va di pari passo con l’umiltà della proposta: la fede invita la ragione solo ad essere se stessa. Il cristianesimo ha fatto così con la ragione platonica e con quella aristotelica, perché dovrebbe cessare di farlo oggi?
Forse perché la ragione è talmente indebolita da non sentire più, come dicevo sopra, il bisogno stesso di guardarsi dentro? Forse nemmeno il bisogno di essere ragione? Benedetto XVI ha ben chiaro questo problema. Lo capiamo quando dice che il relativismo di oggi è assertorio e immotivato, frutto di una ragione che ha rinunciato a motivare le proprie affermazioni. Il relativismo, infatti, è immotivabile se non usando una ragionamento che lo contraddirebbe. Ma proprio qui si chiarisce il valore dell’appello ai principi non negoziabili come servizio che la fede fa alla ragione e fa quindi anche a se stessa perché la ragione è anche dentro il perimetro della fede e non solo fuori.
Mi rendo conto che sto chiedendo ai “laici” un grande sforzo. In fondo, il noto appello di Ratzinger a vivere come se Dio esistesse, interpretato spesso come provocatorio, aveva dentro di sé una proposta costruttiva: vedete se l’ipotesi di Dio toglie qualcosa al buon uso della ragione. Vieni e vedi!
Ma mi rendo conto di chiedere qualcosa di molto impegnativo anche ai credenti di questa nostra chiesa italiana. Mi sono chiesto spesso se la Chiesa italiana stia facendo il proprio dovere in ordine ai principi non negoziabili e se stia corrispondendo alle attese del Papa su questo punto. Noto un significativo cammino condotto avanti almeno dal Convegno ecclesiale di Loreto in poi e diretto alla formazione di un popolo cristiano convinto che dalla signoria di Cristo nei cuori rinnovati debba derivare anche una signoria di Cristo sulla verità dei rapporti umani e sociali.
Un popolo cristiano che non accetta la riduzione del cristianesimo a fatto devozionale privato, a sétta quindi. Un popolo consapevole che ciò significherebbe permettere la creazione di un mondo ove la salvezza delle anime sarebbe strutturalmente ostacolata e per ciò invivibile anche dal punto di vista umano. La lotta per la libertà cristiana va di pari passo con la lotta per la presenza pubblica della religione cristiana e questo a vantaggio della libertà di tutti.
Noto però anche dei ritardi. I principi non negoziabili vengono spesso posti sullo stesso piano di altri valori e finiscono così per essere stemperati in una astratta genericità. In occasione degli ultimi referendum sull’acqua e sul nucleare, il mondo cattolico si è mobilitato in modo straordinario come con ogni probabilità non avrebbe fatto per la vita o, meno ancora, per la libertà di educazione. Noto una disponibilità a battersi per le stesse battaglie per cui si batte il mondo e una voglia senz’altro minore di battersi per ciò che il mondo oggi osteggia anche in forme autoritarie.
L’importanza dei principi non negoziabili per il popolo cattolico non è sempre presente nella consapevolezza dei singoli Vescovi. Ci vorrebbe più coraggio. Sul piano del pensiero i principi non negoziabili pongono il problema della verità e della metafisica, oggi sostituita dall’ermeneutica, ma mi sembra che se istituzioni culturali cattoliche si sono messe sulla strada di un recupero di un pensiero sul reale altre fatichino a staccarsi da un ossequio eccessivo alle mode accademiche dominanti. Sappiamo bene che il discorso di Benedetto XVI sulla verità non è stato contestato solo alla all’Università La Sapienza di Roma, ma lo è anche in molti Studi teologici dei nostri Seminari. Eppure penso che solo rilanciando la riflessione sui principi non negoziabili, in modo aperto e franco si possano affrontare in modo degno molte questioni irrisolte.
Una di queste è rappresentata dal problema educativo. Benedetto XVI, nel suo iniziale discorso sulla “questione educativa” aveva chiaramente posto il problema del rapporto tra la crisi educativa e la crisi della verità. I vescovi italiani, molto opportunamente, hanno proposto questo argomento per il decennio pastorale in corso. Ritengo che un più chiaro inserimento della prospettiva richiamata dai principi non negoziabili in questo sforzo educativo o rieducativo sia da ritenersi indispensabile. Le scuole in genere, e le scuole cattoliche in particolare, sono in crisi, dice il Papa, perché non sanno più che uomo educare. I principi non negoziabili fanno riemergere la verità della persona umana e richiedono per loro conto una prospettiva teologica e filosofica diversa da tante impostazioni odierne.
Una seconda è quella dell’impegno politico dei cattolici. Il riferimento ai principi non negoziabili richiede che la Dottrina sociale della Chiesa sia sistematicamente adoperata e intesa non come una generica espressione di solidarietà sociale che cavalchi acriticamente ogni proposta ideologica del momento purché che abbia l’aggettivo di “etica”, ma come ceppo da cui nasce una nuova cultura, originale perché fondata sulla originalità della fede.
I principi non negoziabili richiedono che la fede venga concepita anche come conoscenza e questo comporterebbe nella mentalità dei cattolici italiani un notevole cambiamento di prospettiva, senza contare che, proprio per questo, essa è abilitata a dialogare con la ragione e quindi con il mondo laico. In questo modo i principi non negoziabili e la cultura che li sostiene e che ne deriva nutrirebbero l’impegno politico dei cattolici di criteri e orientamenti in modo da correggere la loro subalternità.
La mia idea è che l’appello ai principi non negoziabili risvegli energie sopite, sia dentro la Chiesa che nel mondo. Sono passaggi che toccano da vicino la verità del rapporto tra la Chiesa e il mondo e la comprensione corretta del mondo stesso.

(Fonte: mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste, Il Foglio, 19 luglio 2011)


Una Chiesa Cattolica che balbetta di fronte al mondo contemporaneo

Se si ci si guarda attorno nella Chiesa del terzo millennio, dire che il sale della terra sia ormai tutto tramutato in zucchero sarebbe ingeneroso. Ma sarebbe ancor più fuorviante nascondersi che la radicale diversità del cattolicesimo, per sua natura antagonista al mondo, sia stata dilapidata da una gioiosa macchina di pace votata a un dolciastro laicizzare, a un mellifluo omologare. L’asprezza del dogma non piace più, la spigolosità della verità spaventa proprio chi dovrebbe amare la fatica della via stretta.
Ma non è colpa del mondo, che troppo spesso i cattolici rincorrono scriteriatamente, salvo poi imputargli la mondanizzazione del cattolicesimo. Nell’inedito tentativo di conquistare il consenso della modernità, invece che convertirla, il cattolicesimo di questi decenni ha annunciato l’avvento di un villaggio globale praticamente privo di dogmi: una sorta di “serenopoli” da spot pubblicitario su cui il Concilio Vaticano II ha appiccicato l’etichetta di “pastorale” e dove nulla più è urticante al punto da richiedere un “sì” o un “no”.
Ma il mondo moderno aveva già una “serenopoli” siffatta e si è ben guardato dal comprare l’imitazione cattolica. Così, gli unici a invaghirsi della “serenopoli” cattolica a dogma variabile sono stati i cattolici stessi. Solo loro, abitanti della cittadella del rigore dogmatico, potevano percepire, tra il proprio universo e quello libero da vincoli proposto dal nuovo corso, una differenza tale da provarne un desiderio incontrollabile.
Ma senza dogma non c’è rigore, senza rigore non c’è obbedienza, senza obbedienza non c’è unità e senza unità non c’è forza. Così oggi, quando va bene, la Chiesa balbetta là dove dovrebbe urlare in faccia al mondo che le logiche democratiche le lascia volentieri alle democrazie mondane.
Per farlo, però, non basta l’impeto fugace di reazioni anche meritorie. Bisogna andare alla radice del problema, a quella deriva luterana che ha conquistato vasti settori della Chiesa. Pur con tutte le dichiarazioni congiunte possibili, non si può essere cattolici e anche filo luterani, cattolici e anche anticattolici, romani e anche antiromani: lo chiede la ragione prima che la fede. Però è innegabile che Lutero, il monaco agostiniano che non comprese Agostino, eserciti un fascino prepotente nella cittadella del dogma, minata a suo tempo da tomisti che non compresero Tommaso. Quel geniaccio tedesco è riuscito là dove schiere di eretici avevano fallito. Il motivo lo ha spiegato nel XIX secolo dom Prosper Guéranger, abate benedettino di Solesmes in uno scritto che si intitola L’eresia antiliturgica e la riforma protestante: «Lutero (…) non disse nulla che i suoi precursori non avessero detto prima di lui, ma pretese di liberare l’uomo, nello stesso tempo, dalla schiavitù del pensiero rispetto al potere docente, e dalla schiavitù del corpo rispetto al potere liturgico».
Proclamando la liberazione della ragione e del corpo, Lutero ha conquistato l’individuo illudendolo di poter essere maestro, sovrano e sacerdote a se stesso. Ma, di fatto, lo ha condannato alla dissoluzione. Che il cattolicesimo oggi sia su questa china lo si scopre osservando che i risultati della riforma luterana, lucidamente enunciati nella sua opera da Guéranger nell’Ottocento, sono gli stessi che flagellano la Chiesa cattolica dagli Anni Sessanta del Novecento: “Odio della Tradizione nelle formule del culto”, “Sostituzione delle formule ecclesiastiche con letture della Sacra Scrittura”, “Introduzione di formule erronee”, “Eliminazione delle cerimonie e delle formule che esprimono i misteri”, “Uso del volgare nel servizio divino”, “Odio verso Roma e le sue leggi”, “Distruzione del sacerdozio, “Il principe capo della religione”. Un elenco terribile e attuale su cui urge riflettere.

(Fonte: Corrispondenza romana, Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro, 11 agosto 2011)


Lettore fermati! È morto padre Busa

Quando nel 1955 morì Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina, un quotidiano milanese del pomeriggio titolò: "Lettore fermati! È morto Fleming, forse anche tu gli devi la vita".
Un invito analogo potrebbe essere rivolto oggi a tutti coloro che in questo preciso istante sono davanti a un computer. Se esiste una santità tecnologica, credo d'aver avuto il privilegio d'incontrarla: essa aveva il volto di padre Busa. Perciò inginocchiati anche tu, lettore, davanti alle spoglie mortali di questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all'altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.
Nato a Vicenza da genitori originari di Lusiana, sull'altopiano di Asiago, e più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Il grande studioso, il compilatore dell'Index Thomisticus, è morto di vecchiaia all'Aloisianum, l'istituto di Gallarate (Varese), dove s'era ritirato a vivere dagli anni Sessanta insieme con i grandi decani della Compagnia di Gesù, fra cui il cardinale Carlo Maria Martini, del quale è stato amico e interlocutore. In precedenza fu per lungo tempo docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica, nonché, dal 1995 al 2000, al Politecnico di Milano, dove teneva corsi di intelligenza artificiale e robotica. La sua ricerca gli è valsa l'istituzione del Roberto Busa Award, massima onorificenza del settore. Avrebbe compiuto 98 anni il prossimo 28 novembre.
Il computer era nato solo per far di conto, dall'inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s'era messo in testa di analizzare l'opera omnia di san Tommaso: un milione e mezzo di righe, nove milioni di parole (contro le appena centomila della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano diecimila schede solo per inventariare la preposizione "in", che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell'Aquinate e per confrontarli con altre fonti.In viaggio negli Stati Uniti, padre Busa chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell'Ibm. Il magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell'ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: "Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d'essere più americano di noi". Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss - Think, pensa - e la frase "Il difficile lo facciamo subito, l'impossibile richiede un po' più di tempo". Lo restituì a Watson con un moto di delusione. Il presidente dell'Ibm, punto sul vivo, ribatté: "E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines".È da questa sfida fra due geni che nacque l'ipertesto, quell'insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse.
Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Ma, come ammise lo stesso autore di Literary Machines, l'idea risaliva a prima dell'invenzione del computer. E, come ha ben documentato Antonio Zoppetti, esperto di linguistica e informatica, chi davvero operò sull'ipertesto, con almeno quindici anni d'anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa.Fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, il gesuita diede vita a un'impresa titanica durata quasi mezzo secolo, investendovi un milione e ottocentomila ore, grosso modo il lavoro di un uomo per mille anni a orario sindacale; oggi è disponibile su cd-rom e su carta: occupa cinquantasei volumi, per un totale di settantamila pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei centodiciotto libri di san Tommaso e di altri sessantuno autori.
Roberto Busa era il secondo dei cinque figli di un capostazione. "Ci trasferivamo da una città all'altra: Genova, Bolzano, Verona", mi raccontò. "Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l'ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c'era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l'acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, Signore, l'acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz'ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni".Nel 1933 il giovane Busa entrò nella Compagnia di Gesù. Dopo gli studi in filosofia e teologia, il 30 maggio 1940 fu ordinato sacerdote. Nella sua lunga vita ha conosciuto sette pontefici. Frequenti e molto cordiali furono soprattutto i contatti con Paolo VI e, ovviamente, con l'amico Giovanni Paolo I, "che m'invidiava", mi confidò, "perché io ero diventato gesuita e lui no. Albino avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di sant'Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch'io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l'India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: "Le piacerebbe fare il professore?". No, risposi. E lui: "Ottimo. Lo farà lo stesso". Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su san Tommaso d'Aquino".
Sui temi di sua competenza, padre Busa era in grado di dibattere, oltre che in italiano, anche in latino, greco, ebraico, francese, inglese, spagnolo, tedesco. "Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l'albanese", mi spiegò. "A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un'aula d'esame. E Lui mi risponde: "Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male"".
A ogni domanda, lo studioso gesuita si portava le mani giunte davanti alla bocca, guardava verso l'infinito, meditava a lungo. La sua mente sembrava obbedire al linguaggio binario, perché articolava ogni risposta per punti, dicendo "primo", poi "secondo", mai "terzo", e intanto contava sulle dita partendo dal mignolo per arrivare al pollice, come fanno gli americani. Non c'era una parola, fra quelle che gli uscivano dalle labbra, che fosse superflua o pronunciata a casaccio.
Padre Busa aveva le idee ben chiare sulle origini della scienza informatica: "Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l'autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell'affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo".È andato a incontrarlo.


(Fonte: Stefano Lorenzetto, Osservatore Romano, 11 agosto 2011)


La pubblicità blasfema di Sky

Se speravamo in qualche giorno di tregua estiva, ci siamo sbagliati. La stupidità, morbo letale che sempre più ammorba la nostra società, continua a martellare le teste e a produrre mostri.
Ora è il turno della pubblicità blasfema di Sky. Manifesti murali superdimensionati e spot televisivi con lo slogan “Solo su Sky lo sport fa miracoli” stanno a dimostrare che, ancora una volta, la pochezza di idee, unita al sacro principio per cui tutto è lecito, se il fine è fare quattrini, spingono a scegliere come bersaglio la Fede cattolica, nella sicurezza di non correre alcun rischio e di entrare anche nel circolo dei “politicamente corretti”, la greve razza di conformisti che si inchinano davanti alle mode e che hanno rinunciato al rispetto, al pudore, all’intelligenza.
Manifesti e spot hanno un solo tema: prendere in giro, in modo oltretutto banale e scontato, la Fede cattolica e presentare i miracoli come una buffonata. Ad esempio, la pesca miracolosa e la moltiplicazione dei pani e dei pesci sono oggetto di inopportune parodie. Nello spot che potetevedere cliccando qui, si assiste anche a una processione in cui la Statua - calciatore portata dai “fedeli” si mette a lacrimare, con conseguenti urletti isterici di chi grida, appunto, al “miracolo”.
Il tutto accade in questa società ipocrita e sempre più oscurantista, che venera i nuovi idoli, (e bolla di infamia chi non partecipa alla venerazione) ma manca del più elementare rispetto verso tradizioni religiose che nutrono da secoli l’anima di un popolo e che hanno dato le fondamenta a una vita civile che, una volta, era civile sul serio.
Troveremo il “creativo” di qualche impresa di pubblicità che avrà il coraggio di fare manifesti o spot in cui si prendono in giro, ad esempio, invertiti o musulmani? Non sia mai! Dobbiamo essere tutti rispettosi delle “diversità”, fino a cadere in cretine contraddizioni, per cui prima le chiamiamo diversità, poi pretendiamo che siano considerate normalità. Dobbiamo essere tutti rispettosi del pluralismo religioso, salvo, ovviamente, fare il possibile per emarginare e ridicolizzare la religione cattolica, unica vera pietra di paragone contro la quale una società corrotta e marcia ha una tremenda paura di misurarsi.
Prendere in giro la Chiesa e la religione cattolica è di moda, e non comporta alcun rischio. Noi siamo caritatevoli (anche se alle volte verrebbe voglia di dimenticarselo e assestare qualche sacrosanto calcione nel sedere), e spesso siamo anche affetti da una profonda vena di masochismo e di voglia di scomparire, sicché vediamo cattolici (boh…) e spesso anche preti e vescovi che fanno di tutto per non ricordare il primato della Fede cattolica nella vita spirituale e morale di ogni persona.
Che fare? Protestare, anzitutto, perché se i cattolici non perdono l’abitudine di stare zitti zitti a farsi prendere a pesci in faccia, avranno come avvenire solo il clima umido e insalubre delle catacombe. E poi, scusate, chi obbliga a usare Sky, che è, se non erro, una televisione a pagamento? Perché dobbiamo dare soldi a chi insulta la religione cattolica?
Basta non abbonarsi a Sky, o, se già si ha un abbonamento, disdirlo.
Poche settimane fa un solerte procuratore della Repubblica ha aperto un’inchiesta su Maurizio Belpietro, direttore di “Libero”, per oltraggio al Presidente della repubblica. In prima pagina di Libero figurava una caricatura del comunista Napolitano, insieme a quella di altri politici. Caricatura del comunista? Onta e vergogna! La giustizia inesorabile colpisce!
Si prendono in giro Nostro Signore, i Santi, il Papa e una Fede che ha costruito la vera civiltà europea? Ma che c’entra? Chi se ne frega? Il paladino della legge depone la spada fiammeggiante e si riposa. Magari guardando il calcio su Sky…

(Fonte: Paolo Deotto, Riscossa cristiana, 5 agosto 2011)


sabato 6 agosto 2011

Il libro “Gesù” di Flores d’Arcais: un’operazione ideologica e di cattivo gusto

Nelle sue Lettere filosofiche del 1734 l’illuminista razionalista Voltaire annotava, parlando del «socinianesimo» (un movimento di umanisti soprattutto italiani del 1500 che in nome del ritorno alle fonti bibliche negavano la Trinità): «Vedete dunque quali rivoluzioni avvengano nelle opinioni come negli imperi. Dopo tre secoli di trionfo e dodici di oblio il partito di Ario rinasce dalle ceneri; ma ha sbagliato, ricomparendo in un tempo in cui il mondo è sazio di dispute e di sètte». Una sensazione analoga la si prova nel leggere "Gesù - L'invenzione del Dio cristiano" di Paolo Flores d'Arcais, lavoro tutto concentrato nello sforzo di negare la divinità del Figlio di Dio, per riaffermare la sua umanità storica, ebraica, profetica. Interessa davvero una questione simile? Come mai un non credente si preoccupa di queste cose?
Solo due aspetti nuovi giustificano una simile operazione e permettono di andare al di là dell’ironico giudizio di Voltaire: l’intento polemico contro il Gesù di Ratzinger e l’accenno (stupefacente) all’islam (e quindi al confronto tra religioni) quale custode della vera natura di Gesù, contro le falsificazioni dei cristiani. Vale la pena soffermarsi su questi due elementi, cercando però di ampliare lo sguardo su cose serie.
1. La polemica contro Ratzinger/Benedetto XVI si basa sull’idea che il Gesù di cui parla il Papa nei suoi libri è «solo» un Gesù della fede e non della storia. Le tesi storiografiche accreditate oggi parlerebbero d’altro, quando parlano del Gesù storico, e comunque in un altro modo. Questa idea (dominante nella nostra cultura) della fede come immaginazione che trasfigura o sfigura la realtà dei fatti è proprio dura a morire. Rispetto ad un simile pregiudizio proporrei di considerare la fede come un «giudizio su una serie di avvenimenti, propiziato da un incontro che cambia la vita». In quanto giudizio su avvenimenti, la fede è interessata a raccogliere i risultati di ogni indagine seria su tali fatti e a confrontarsi con gli storici che li studiano. Ma il credente sa che il suo giudizio cerca di tenere conto di tutti i fatti, senza semplificazioni più o meno ideologiche. Sa, però, allo stesso tempo che altri approcci a questi fatti sono spesso parziali o semplificanti, proprio perché guidati da altri interessi o pregiudizi.
Chi, per esempio, esclude per principio che possano esistere miracoli, fornirà un certo tipo di lettura dei fatti narrati dai Vangeli che non coincide con il giudizio di fede del credente, che ha sperimentato la potenza del Dio della vita nel Risorto. Se però l’interlocutore razionalista sostiene che il credente, nel suo giudizio di fede, «dice bugie» o «mente sapendo di mentire» rispetto alla «verità storica» dei fatti, commette una scorrettezza veramente ideologica, che non merita alcuna condiscendenza. Sarebbe meglio dire che il credente legge i fatti a partire da un’altra base, da un incontro differente con la realtà, tenendo insieme altri fattori e quindi in un’altra prospettiva sulla realtà delle cose. In tal senso, si dovrebbe recuperare l’intenzione di Ratzinger, segnalata all’inizio del suo primo libro su Gesù, di dare la percezione che il Gesù dei Vangeli è ancora una figura sensata e plausibile, coerente e convincente, in grado di fondare una relazione viva con la sua personalità storica reale.
1.1 Va sottolineato che questo funzionamento della fede aiuta a capire l’episodio del «Vade retro, Satana!», spesso citato a sproposito e mal compreso da Flores. A Cesarea di Filippo (Mc 8,27-33; Mt 16,13-23) Gesù chiede ai discepoli, dopo un periodo di vita con loro, di dare un giudizio su ciò che sta accadendo: cosa avete visto? Cosa succede? Dicono i Vangeli sinottici che è proprio Pietro a dare la risposta esatta: avvengono i segni dei tempi messianici, perché il Messia/Cristo è tra noi. Se anche Gesù non si fosse mai designato «Cristo/Messia» è innegabile che i suoi gesti e la sua autorità furono messianiche e proprio tali gesti chiedevano un giudizio credente su ciò che stava accadendo (è interessante che la stessa dinamica si trova nella risposta di Gesù agli emissari del Battista che gli chiedono se è lui «Colui che deve venire»; Gesù risponde invitando a guardare i segni messianici, ovvero i ciechi che vedono, i malati sanati… e a trarne una conclusione, senza proclamarsi esplicitamente e direttamente «Messia»: Mt 11,2-10).
A questo punto, però, Gesù rimprovera Pietro di essere come un «Satana», ma non perché ha detto che è il Messia, come vuole far credere Flores, bensì perché Pietro reagisce agli accenni alla morte di Gesù (o al suo destino tragico) pretendendo di insegnare a Gesù come si fa a fare il Cristo/Messia, cioè appunto evitando la via della croce. La disputa non è sull’essere «Cristo», bensì sul modo di realizzare la missione messianica. Questo è un elemento costitutivo del giudizio di fede: Gesù sa cosa significhi essere «Cristo» e come si faccia a realizzare le promesse messianiche. Lo sa e lo realizza a suo modo, senza troppe rivendicazioni e auto-dichiarazioni. Ma chi ha occhi per vedere e coglie il senso messianico di ciò che vede, deve poi mettersi umilmente alla sequela di Gesù fino alla fine, senza pretendere di insegnare a Gesù come si fa a fare il Cristo. il «Vade retro» può esser inteso come un «torna in fila coi discepoli e seguimi, anziché pretendere di insegnarmi il cammino».
1.2 In questa prospettiva della fede intesa come «giudizio su avvenimenti», che ne coglie il senso tenendone insieme il maggior numero nella prospettiva giusta, senza semplificazioni, si comprende la maliziosa strategia di chi vuole squalificare la posizione dell’altro parlando di «bugie». Merita un cenno la duplice accusa.
(a) La questione dei «sacrifici». È ridicolo affermare che Gesù abbia o non abbia voluto sostituire i sacrifici del Tempio. Soprattutto è assurdo ritenere che questa affermazione sia un «falso storico», consapevolmente perseguito da Ratzinger. Flores dimentica (volutamente!) tutta la predicazione di Gesù sulla fine del Tempio e i suoi accenni al vero funzionamento dei sacrifici: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13). Questo detto polemico di Gesù, che cita la predicazione profetica e quindi una linea chiara dell’esperienza religiosa ebraica, è coerente col suo stile di vita e in tensione col contesto ebraico e anche con certo cristiano primitivo. Dunque ha una buona dose di autenticità storica. In quanto appartiene alla predicazione di Gesù rivela una tensione che verrà ripresa da Paolo, quando scrive: «Vi esorto dunque fratelli… ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Fa eco a questa intuizione la lettera agli Ebrei, che mette in bocca al Gesù che va verso la croce le parole del Salmo: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato…» (Eb 10,5s). Paolo non ha scritto la lettera ai Romani dopo la distruzione del Tempio. Ma ciò significa che c’è già nel primo cristianesimo una tensione riguardo al senso religioso dei sacrifici, che trova in Gesù il suo principio di trasformazione. Dunque Ratzinger dà un giudizio di fede sul senso cristiano dei sacrifici alla luce dell’offerta di sé fatta da Gesù, che tiene conto meglio di tutti i dati che emergono dalla letteratura cristiana delle origini. Non dice «bugie».
(b) Lo stesso vale per la questione del tempo «dopo Gesù» e della fine imminente (la “seconda bugia» sul tempo intermedio). Chi è abituato a frequentare la letteratura di un secolo sul senso del ritardo della Parusia, sull’escatologia conseguente/imminente/realizzata, sulla differenza tra apocalittica ed escatologia, trova sconcertanti le semplificazioni di Flores. Basti un cenno. Gesù da un lato chiede di invocare «Venga il tuo Regno» (Lc 11,2) e dall’altro afferma: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui o Eccolo là! Perché il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21). Anche qui dunque, ci sono dati complessi da tenere insieme in modo sensato a partire da un giudizio (di fede) coerente: Gesù sente l’imminenza del venire del Dio del Regno, che si va realizzando nei suoi gesti e nel suo destino. Eppure avvisa i discepoli che il rapporto tra questa «imminenza» e la «fine» non è così semplice, come emerge dal discorso apocalittico di Gesù: «Guardatevi di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: Sono io! E: Il tempo è prossimo!; non seguiteli… Devono accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine» (Lc 21-7-10). Certo, si potrebbe sostenere che si tratta di riflessioni della comunità post-pasquale a partire dal ritardo della fine, ma rimane la complessità dei dati da tenere insieme nel giudizio di fede, senza semplificazioni ideologiche. La lettura di tali dati non ha la forma di una «bugia» più o meno consapevole, ma quella di un giudizio argomentato secondo una certa tradizione o in dialogo critico con essa.
Sempre nell’ambito del nesso tra venuta del Regno e destino di Gesù, sarebbe interessante studiare il vero significato del titolo «Figlio dell’uomo» (FdU). È impressionante in Flores la selezione di argomentazioni (e degli autori di riferimento), che giungono a semplificazioni inaccettabili. Che questo titolo sia riconducibile alla designazione (aramaica) di «un uomo» o «io», non è così facilmente sostenibile. Il giudaismo intertestamentario espresso nell’apocalittica di Enoch come in altri testi notevoli implica una comprensione teologica e messianica della figura del Figlio dell’uomo. Ma se anche si rifiutasse questa trasposizione a Gesù, occorrerebbe almeno rilevare la presenza di tre tipi di detti sul FdU, che riflettono dimensioni inscritte nell’annuncio del Regno e quindi rimandano a fasi o dimensioni del ministero pre-pasquale di Gesù: i detti sul Figlio dell’uomo presente e umile («non ha dove posare il capo») eppure autorevole («è Signore del sabato»; «viene a salvare chi è perduto»); i detti sul FdU futuro o escatologico («viene a giudicare», «chi lo rinnega sarà rinnegato») e i detti sul FdU sofferente (profezie sulla Passione).
Il titolo, dunque ha un valore strategico sulla bocca di Gesù, poiché lascia intuire che esiste un nesso stretto tra il destino di Gesù e il realizzarsi del Regno, tra la sua persona e la missione che realizza. Questo nesso viene precisamente indicato col titolo (misterioso) di «Figlio dell’uomo». Tale titolo non può quindi essere sottovalutato come un’applicazione post-pasquale a Gesù. Peraltro, dopo Pasqua, il titolo sparisce dal kerigma (annuncio) originario, che seleziona i titoli Cristo, Signore e Figlio per dire la dignità di Gesù Risorto. Avendo precisato l’equivocità della strategia argomentativa di Flores (idea di fede) e la slealtà nell’utilizzo dell’idea di «bugia» (si tratta di un giudizio su dati complessi, che ne coglie il senso unitario e coerente), possiamo con due semplici slogan tentare una valutazione delle argomentazioni centrali del libro.
2. «Nulla di nuovo sotto il sole». In verità il libro si basa su una letteratura secondaria e propone variazioni su re-interpretazioni di seconda mano della figura di Gesù. Non offre in sostanza nuove fonti, una nuova documentazione o nuove chiavi di accesso per comprenderne la figura storica. Insomma: offre un’ulteriore variazione interpretativa, senza preoccuparsi di documentarne la pertinenza e plausibilità. In questa operazione discutibile, due criteri emergono con chiarezza, ma si tratta ancora di cose note e un po’ stantie.
2.1 La vecchia idea che la risurrezione sia frutto secondario di una specie di elaborazione del lutto che re-interpreta la vicenda di Gesù terminata tragicamente. Tale rilettura implicherebbe un processo di trasformazione della figura di Gesù, che porterà alla sua divinizzazione. Ci interessa l’alternativa implicita: la fede nel risorto è il risultato di una riflessione secondaria, non esperienza di un incontro col vivente. È curiosa l’idea che l’unica esperienza del risorto pensabile sia quella carismatico-visionaria di Paolo. I discepoli di Gesù avrebbero riconosciuto il Risorto nelle loro visioni, nelle manifestazioni estatiche dello Spirito e in fenomeni simili. Ma in questo modo si dimentica che Paolo viene dopo la nascita del cristianesimo, basata sulla risurrezione di Gesù. Quindi la questione è se l’esperienza estatico/visionaria del Risorto fatta da Paolo sia coerente o meno, sia adeguata o meno all’incontro col Risorto di cui parlano gli apostoli e le donne. Se le lettere di Paolo sono più antiche dei Vangeli, ciò non significa che l’esperienza di Paolo preceda le altre esperienze del Risorto e le spieghi. Anche qui si deve mantenere una sana tensione nelle testimonianze originarie, che non vincolano l’incontro col Risorto a una sola forma di esperienza. Ma la questione decisiva, per il giudizio di fede, è se il Risorto sia presente solo nelle visioni estatiche dei carismatici, ovvero sia presente al modo di una cosa reale accaduta a Gesù e non solo ai discepoli (illuminazione, visione…). In tal senso, direbbe Ratzinger, la risurrezione è un avvenimento storico e quindi reale, qualcosa che è accaduto a Gesù e non solo alla coscienza o consapevolezza dei discepoli.
2.2 Secondo Flores d’Arcais, il processo di trasformazione che si realizza «nei cristianesimi» delle origini, funzionerebbe di fatto come una complicazione e mitizzazione della realtà di Gesù, che arriva a farne un Dio. Si tratterebbe dunque di un processo di metamorfosi che tradisce le origini. Ma anche questo tipo di lettura trascura molti elementi presenti nelle fonti: l’idea paolina che in Gesù abita corporalmente la pienezza della divinità; l’intuizione di Giovanni dell’unità del Figlio col Padre e l’accusa da parte dei giudei di «farsi come Dio» (Gv 5 e Gv 8); il grido di Tommaso di fronte al Risorto: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20). Intendiamo dire: il cammino verso la confessione della divinità di Gesù è inscritto nelle stesse origini, non è proprio un’invenzione successiva. Ma il vero problema è quello di capire cosa significhi il riconoscimento di questa divinità di Gesù. Non si tratta di un Dio travestito da uomo, né di un mito dell’uomo che diventa Dio… Da quale esperienza della presenza di Dio e della mediazione dell’incontro con Lui deriva la pretesa di riconoscere nella vicenda di Gesù il comunicarsi di Dio stesso all’uomo e la riuscita risposta dell’uomo a Dio?
La domanda è difficile, evidentemente. Chiede di comprendere la logica dell’alleanza, il filo rosso che collega tutta la storia del popolo di Israele legandolo a Dio e viceversa. Qui si scopre, con una certa vertigine, che la fede è un giudizio su una storia di millenni, la storia della relazione di Dio con l’uomo nella storia di Israele, che cerca la mediazione definitiva e insuperabile in un incontro nel quale Dio si dona all’uomo in modo nuovo e l’uomo si consegna a Dio in un affidamento totale. Questo incontro, e lo scambio che ne deriva, è esperienza di una vita più forte della morte («Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere»: At 2,24). È una risurrezione.
Ci si dovrebbe allora chiedere non tanto «cosa la fede ha inventato in questo processo di trasformazione» ma piuttosto quale discernimento ha operato la fede nelle varie traduzioni culturali o religiose (gnosticismo) delle intuizioni iniziali, all’interno di una vera e propria lotta tra i «vari cristianesimi». La domanda sembra sofisticata, ma non lo è poi tanto. Si pensi all’equivoco su Ario. Dal libro di Flores sembra che Ario abbia voluto tutelare il Gesù uomo della storia (quello dei moderni storiografi), contro le deformazioni dogmatiche della Chiesa, che risponderebbe coi «concili imperiali». In verità il presbitero Ario non era interessato tanto a Gesù, quanto alla divinità o meno del Verbo che si è fatto carne in Gesù (quel Verbo che era fin dall’origine presso il Padre e si manifestò per la nostra salvezza nel figlio di Maria). La sua idea era che tale Verbo non può essere un altro Dio accanto all’unico Dio, e quindi potrebbe essere pensato come la prima e la più bella delle creature o al modo di una divinità inferiore, subordinata a Dio Padre e Creatore. Infatti, come potrebbe il Dio eterno stare a contatto con una carne mutevole, o come il Dio assoluto potrebbe comunicare la sua divinità a un altro essere co-eterno? Letta così, la posizione di Ario non è più tanto vicina alle recenti istanze umanistiche su Gesù. Ma è più corretta e rispettosa dei dibattiti cristiani del IV secolo.
3. «Tanto rumore per nulla». Lo slogan di Flores d’Arcais, che dovrebbe dare a pensare, risuona qua e là nel testo: «Gesù fu un pio ebreo e non un cristiano». Non è mai precisato però cosa significhi questo «essere ebreo» di Gesù. Detto altrimenti: manca tutta la dimensione religiosa dell’esperienza ebraica di Gesù: l’alleanza, le promesse, la Torah… Si dice solo che Gesù, come i primi cristiani, era un ebreo praticante e devoto che pregava e andava al tempio. Ma qual è il contenuto «ebraico» dell’annuncio del Regno di Dio, della pretesa di guarire i lebbrosi e sconfiggere Satana e, perché no, della risurrezione e della fine imminente attesa? Qui viene ripetuto il difetto delle recenti ricerche storiche su Gesù: si sottolinea la vera ebraicità di Gesù, ma quasi solo nelle dimensioni «laiche o laiciste», senza scrutare le dimensioni religiose e «sacrali» e la trasformazione che Gesù vi ha introdotto.
Perché Gesù Risorto non è già più un ebreo ma è un cristiano? Il Risorto non è compimento delle promesse e mediatore definitivo dell’alleanza che Dio iniziò con Abramo e attraverso Mosè realizzò nella storia di Israele? Questo tipo di domande esigerebbero un po’ più di serietà nell’analisi dell’idea di «risurrezione». Non è vero che la risurrezione fu pensata solo come risveglio da morte o cose simili. La risurrezione è da subito annunciata come «esaltazione alla destra di Dio Padre, glorificazione, vittoria, introduzione nella Gloria di Dio, effusione dello Spirito» (At 2 o 13; Rm 1; 1Cor 15), accanto certo all’idea del risveglio, del ritorno alla vita, dell’ingresso in una condizione trasfigurata (Gv 20; Mt 28).
Dunque nel destino di Gesù i discepoli vedono il compimento delle promesse di Dio a Israele. Da qui la crisi di crescita delle comunità cristiane: se la risurrezione è compimento delle attese di Israele, posso uscire dalla pedagogia di queste attese per comprendere la portata della risurrezione di Gesù (Gal 4)? Nelle tensioni tra Paolo e Pietro/Giacomo è in gioco precisamente questa sfida salvifica, non il permanere o meno nell’ebraismo. La risposta di Paolo è che la fede (e non l’osservanza della Torah) permette di appropriarsi della forza di risurrezione che rende creature nuove. Ma questa intuizione di Paolo, gli Atti la attribuiscono a Pietro, che nel centurione Cornelio vede l’azione dello Spirito Santo al di là dell’appartenenza al popolo eletto.
L’esito del libro di Flores, però, è veramente sconcertante: l’islam, erede del giudeo-cristianesimo (anche quest’idea che siano state le comunità ellenistiche a divinizzare Gesù è davvero dura a morire, nonostante i saggi splendidi di L.W. Hurtado sul culto al Kyrios nel cristianesimo delle origini), custodisce la vera identità di Gesù, quella creduta da Pietro, Paolo e Giacomo. Non importa che per l’islam sia stato proprio Paolo a tradire l’insegnamento di Gesù, per cui la sua fede è già da sospettare. Di fatto, in questo modo non ci si salva dalla Babele delle interpretazioni.
Ma questo esito è un monito: se si cerca Gesù al di là della Chiesa, perché si sospetta che la forma storica della fede attuale non sia all’altezza di ciò che fu Gesù, si fa un’operazione interessante di ricerca di una verità più grande. Ma se si cerca a ogni costo un Gesù contro la Chiesa, si fa un’operazione ideologica e di cattivo gusto, che parte dal sospetto che i discepoli di Gesù siano stati tutti stupidi o tutti maliziosi nel mistificare ciò che poteva fondare la loro vita fino alla morte. Questo tipo di sospetto non è rispettoso dell’altro ed è inutile per qualsiasi sana ricerca della verità. Non è insomma un buon inizio di dialogo.

(Fonte: don Alberto Cozzi, Tempi.it, 25 luglio 2011)