sabato 28 agosto 2010

Famiglia Cristiana: Un gran brutto editoriale

Circa l’editoriale di Beppe del Colle su Famiglia Cristiana, va detta una cosa molto chiara: è un brutto editoriale. Troppo breve, forse, per non dare l’impressione di essere molto superficiale. Del Colle taglia con l’accetta. Ma forse non è questione di mancanza di spazio. È questione di un sano manicheismo che vige dalle parti della rivista dei Paolini, notoriamente sbilanciata verso sinistra.
Posso sbagliare perché non ne sono un appassionato lettore, ma non ricordo mai di aver letto qualcosa su quella rivista che desse a Berlusconi il giusto plauso quando magari ce n’erano tutti i motivi da un punto di vista cattolico. Sempre a denti stretti, sul Berlusca, sempre malgrado tutto. Sempre lì a fare distinguo, a dire ai cattolici “attenti che vi frega con le questioni della bioetica”. Manicheismo, puro. Non un invito a riconoscere l’albero dai frutti, ma pregiudiziale avversione contro qualcosa che è stato ormai identificato come l’incarnazione del male. Come in questo ultimo, avvilente e goffo editoriale.
Primo punto, prima accusa: a Berlusconi non gliene frega niente della Costituzione. Bene, e questo perché? Per aver detto una cosa lapalissiana, semplicissima: se non ci sono più le condizioni per governare, si torna alle urne. Mi si spieghi dov’è il problema. Mi si spieghi cosa sta succedendo: un tempo, se un leader andava in crisi con la sua coalizione, se ne prendeva atto e si andava a votare. Questo, per esempio, è quanto successo a Prodi nella sua ultima legislatura. Questo è quanto richiesero le forze all’opposizione. Perché questo è normale. Invece qui abbiamo un leader in crisi, ma l’opposizione non vuole le urne. E se il leader, giustamente, ventila la possibilità di rimettersi al giudizio del popolo (cosa molto democratica), quelli all’opposizione (con Famiglia Cristiana in testa) rispondono che il popolo non c’entra niente e che bisogna fare un governo di transizione, un governo allargato, un inciucio, insomma. Mi si spieghi in base a quale complicato ragionamento uno dovrebbe vedere Berlusconi come uno che attenta alla Costituzione, mentre Del Colle e famiglia come dei fedeli custodi ed immacolati difensori.
Secondo punto:entrando in politica Berlusconi ha spaccato in due il mondo cattolico. Seconda cretinata. Il mondo cattolico è spaccato in due perlomeno dagli anni Settanta, dalla stagione dei referendum. Da una parte i cattolici che hanno mitizzato la sinistra (il termine cattocomunismo non l’ha di certo inventato Berlusconi) e si sono appiattiti sulle sue posizioni culturali; dall’altra quelli che hanno costruito un’alternativa politica e culturale. Le “vie substantive” di cui parla Del Colle, sono state da subito occasione di spaccatura, perché su quelle i cattolici di sinistra (con la scusa del dialogo, della comprensione, della scelta religiosa) si sono bellamente calati le braghe. E noi, che quella stagione abbiamo vissuto, non ce lo dimentichiamo. Oggi Berlusconi spacca il mondo cattolico? Ridicolo! Basta pensare alle belle candidature della Bresso e della Bonino alle ultime regionali. Sono state proposte due persone che sembrano fatte apposta per non essere votate dai cattolici. Chi è che spacca? E ve lo ricordate il governo Prodi e la sua sciagurata politica, che generò l’imponente manifestazione del Family Day? Ripeto: chi è che continua a spaccare?
Terzo punto: il berlusconismo. Non mi piace. Come mi fa veramente schifo, ribrezzo l’antiberlusconismo. Entrambi sono manifestazioni di minorità intellettuale. E noi, da quando Berlusconi è tornato al governo, abbiamo purtroppo visto pesanti manifestazioni di entrambi i fenomeni; più virulente, continue, noiose (a dire il vero) quelle degli antiberluscones, come, appunto, Beppe Del Colle. Il quale ha fatto il furbetto citando il caso Boffo, che non c’entra assolutamente niente, ma che è buttato appositamente là con lo scopo di metterlo sullo stesso piano del caso Fini. Qui veramente Del Colle diventa penoso. E penoso è dire poco.
“Chi dissente va distrutto”. A parte che lo slogan ricorda i metodi di certa sinistra italiana, è inaccettabile che lo stupido attacco fatto dal Giornale all’ex direttore dell’Avvenire (stupido, pretestuoso, infondato e tra l’altro rivolto ad una persona che nemmeno dissentiva) sia paragonato all’inchiesta dello stesso quotidiano sul caso Fini (ben più grave in quanto a materia e a dimensioni, al di là delle posizioni politiche del Presidente della Camera). A meno che non si sostenga che i giornali devono fare le inchieste solo sugli amici di Berlusconi e sugli esponenti in linea con lui. È questo che vuole Del Colle? E, a proposito di dissenso, che giudizio dà di un Presidente della Camera che si comporta come un leader politico? Che rispetto ha Fini (che adesso fonderà il proprio partito) per la carica che ricopre e quindi per la carta costituzionale?
No, davvero: un brutto, bruttissimo editoriale. Un volantino di Rifondazione Comunista. Un rigurgito di cattocomunismo, manicheo e bacchettone. Questo è il meglio di certa intellighenzia cattolica...

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 25 agosto 2010)

Mons. Rino Fisichella prende le distanze da Famiglia Cristiana: "Editoriale tendenzioso”

«È lecito che Famiglia Cristiana formuli certi giudizi, anche se questo appare del tutto tendenzioso. Quello che non è corretto è attribuirli al mondo cattolico...». Monsignor Rino Fisichella sta trascorrendo qualche giorno di vacanza in montagna prima dell’autunno «caldo» durante il quale dovrà mettere in piedi, dal nulla, il Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, neonato dicastero che Benedetto XVI ha voluto affidargli. L’arcivescovo, dopo 15 anni, lascerà anche l’incarico di cappellano di Montecitorio, attività che lo ha trasformato nella guida spirituale di molti parlamentari di entrambi gli schieramenti, e in quest’intervista interviene su alcuni dei temi dell’estate politica, dal ruolo e dal disagio dei cattolici al federalismo. Monsignore, Famiglia Cristiana in queste ore ha accusato Berlusconi di aver spaccato il mondo cattolico. Che cosa ne pensa?
R. «Penso che un giornale possa formulare giudizi, anche se questo su Berlusconi appare del tutto tendenzioso, dato che in altri momenti storici - ad esempio quando Moro e Fanfani fecero il centrosinistra - ci fu una divisione dei cattolici. Non mi sembra che il problema sia Berlusconi, il problema sono i programmi. In ogni caso non è corretto né giusto far credere che questo giudizio sia stato formulato dal mondo cattolico. I cattolici sono una galassia e si sbaglia pensando di interpretarne il pensiero basandosi su un’editoriale di Famiglia Cristiana o anche su un’analisi formulata da una sottocommissione preparatoria della Settimana Sociale. I vescovi stessi sono chiamati ad esprimersi sull’istanza etica di un programma elettorale, un po’ meno sui singoli interventi che non sono di nostra competenza. Ad esempio non si è detto nulla sul pacchetto sicurezza in quanto tale ma si è parlato, molto, soltanto del decreto riguardante le espulsioni. Poi però magari si tace sul fatto che l’immigrato viene trattato come merce di scambio».
Le ultime settimane sono state un’escalation di divisioni, faide, insulti...
R. «Stiamo ancora attraversando una fase di cambiamento che dura ormai da troppo tempo e che finisce per logorare il Paese. L’impossibilità di fare delle reali riforme finisce per allontanare i cittadini dalla politica e dalle istituzioni. Manca una visione d’insieme. Quando alle uscite polemiche e alla gara a chi la spara più grossa: non credo che questo abbia realmente a che fare con la politica, la quale invece si basa sulle scelte a favore del bene comune e della vita e non sulle battaglie verbali o sulla pura gestione del potere».
Più d’uno, in questi giorni, ha parlato dei «disagio dei cattolici». In che cosa consiste?
R. «Beh, abbiamo vissuto nel passato anche recente stagioni così diverse e così drammatiche da non doverci spaventare per il momento di oggettiva confusione e debolezza che attraversa l’Italia. Più che parlare di disagio, credo sia necessario rafforzare la convinzione nei cattolici ad assumersi responsabilità politiche che non possono essere demandate ad altri».
Non crede che i cattolici siano in questo momento un po’ emarginati dalla scena politica?
R. «Non credo siano emarginati, non credo siano ininfluenti. Al contrario, ritengo l’impegno dei cattolici determinante per il progresso del Paese. Bisogna essere miopi per non accorgersi che ci sono tanti uomini e donne che magari non si vedono spesso in Tv, ma che s’impegnano per il bene comune e sono coerenti con la loro fede».
Il direttore Feltri si è detto sicuro che arriverà il «soccorso cattolico» di Casini al governo. Condivide?
R. «Non intendo entrare nel merito delle strategie politiche. Posso però dire che evidentemente, là dove c’è l’esigenza di dare delle risposte significative al Paese in un momento di crisi, la presenza dei cattolici non è mai venuta meno. Non è discriminando le posizioni dei cattolici né tantomeno ricorrendo all’insulto che si può pensare di fare il bene dell’Italia».
Nei giorni scorsi il cardinale Bagnasco ha spiegato che il federalismo non dovrà disgregare. Il suo giudizio?
R. «Mi sembra che la riforma sia al vaglio del Parlamento, ci sarà un confronto e un dibattito. Bisogna mantenere fermo il principio dell’unità, dell’identità che si è rafforzata in questi ultimi 150 anni e che non può essere umiliata. Bisogna fare in modo che il federalismo favorisca lo sviluppo di quelle zone del Paese più carenti di strutture. Anche qui, non voglio e non posso entrare in questioni tecniche. Mi limito però a ricordare che i cattolici non sono affatto nuovi a queste sensibilità, a meno di dimenticare figure come Rosmini, Gioberti e lo stesso Tocqueville, il quale, parlando della democrazia americana, elogiava il contributo dato dai cattolici all’unità del Paese nella diversificazione degli Stati. La sussidiarietà, la valorizzazione della società e delle sue istanze, fanno parte della dottrina sociale della Chiesa».
Dopo l’uscita di Fini dal Pdl in molti ormai parlano di elezioni. Come vede il ricorso alle urne in questo momento?
R. «Domanda legittima, ma la risposta deve essere data nelle sedi competenti e soprattutto da chi riveste il ruolo istituzionale per poterla dare. Io mi limito ad auspicare, da cittadino, che si recuperi il senso di responsabilità e che si cerchi finalmente di dare quelle risposte che il Paese attende».
Se l’arcivescovo dovesse indicare due di priorità?
R. «Vista l’emergenza educativa che vive l’Italia, mi auguro che davvero si mettano in atto strumenti che garantiscano la libertà di educazione. Un altra emergenza riguarda la famiglia e la necessità di introdurre il quoziente familiare»

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 25 agosto 2010)

E la Chiesa scarica Fini il giacobino. In cambio viene raccolto dalla massoneria inglese

«Gianfranco Fini non ha alcun seguito nella Chiesa, non ha nessuno a cui appoggiarsi, il suo cambiamento di questi ultimi anni non lo riusciamo a capire...». Il giudizio, pronunciato da un alto e autorevole prelato d’Oltrevere, non lascia spazio a dubbi. Anche se non è facile che cardinali e vescovi del Belpaese si pronuncino pubblicamente su questo o quel personaggio politico, il dissenso nei confronti delle posizioni del presidente della Camera è generalizzato e attraversa sia i palazzi vaticani come quelli della Conferenza episcopale, sia le curie vescovili più «conservatrci» come quelle più «progressiste».
Non è sempre stato così. Gianfranco Fini, fino a qualche anno fa, godeva di una certa stima negli ambienti vaticani, era stato ricevuto in udienza dall’allora Segretario di Stato, Angelo Sodano, e un suo collaboratore in An, il cattolico Gaetano Rebecchini (che ora ha abbandonato il presidente della Camera), con il suo centro di orientamento politico, metteva attorno allo stesso tavolo l’allora cardinale Joseph Ratzinger e Ernesto Galli Della Loggia. Poi è cominciata quella che nei sacri palazzi chiamano «la metamorfosi»: prima con il referendum sulla legge 40, poi sul caso Eluana Englaro, fino alla critica diretta alla Chiesa cattolica per la posizione tenuta sulle vergognose leggi razziali del 1938, episodio, quest’ultimo, che valse a Fini una staffilata de L’Osservatore Romano diretto dal bertoniano Gian Maria Vian, costretto a ricordargli che la Santa Sede su questo argomento non prendeva lezioni da un ex fascista. Il presidente della Camera tentò allora di rimediare, rese pubblica la notizia di una visita dell’arcivescovo Rino Fisichella, mediatore in più occasioni tra le due sponde del Tevere. Ma i rapporti non si sono mai veramente ricuciti.
Non deve inoltre stupire che Fini non riscuota simpatie nemmeno tra le fila di quei settori ecclesiali ed episcopali considerati anti-berlusconiani, nonostante i segnali mandati in questo senso attraverso alcune prese di posizione di «Farefuturo», ad esempio in difesa del cardinale Dionigi Tettamanzi, l’arcivescovo di Milano oggetto di attacchi pesanti da parte della Lega Nord. Segnali comunque precedenti alla rottura con il Cavaliere e che non hanno ricevuto risposta. «Con certe aperture su alcuni temi, come quello dell’immigrazione – confida un prelato italiano – mi sembra che Fini abbia cercato qualche sponda tra i vescovi solitamente classificati come progressisti. Senza però ottenere alcun successo. Non dimentichiamo le posizioni di Della Vedova e in ogni caso preferiamo guardare verso il mondo del cattolicesimo democratico». I vescovi più propensi al centrosinistra, infatti, sono propensi a dar credito ai cattolici impegnati nel Partito democratico, piuttosto che alle posizioni del presidente della Camera, che proprio sui temi eticamente sensibili ha tenuto a manifestare pubblicamente il suo dissenso dalla Chiesa.
«Non intendo commentare in alcun modo le scelte politiche recenti del presidente della Camera – spiega il vescovo di San Marino-Montefeltro Luigi Negri – ma non posso non ricordare le dichiarazioni pubbliche dell’onorevole Fini in merito a certe questioni non secondarie per noi cattolici. Mi sembra che la sua idea sia che la laicità sarebbe garantita dall’esclusione voluta e programmatica di ogni istanza di carattere etico dalle istituzioni. Non è l’idea di laicità della Francia di oggi, assomiglia piuttosto all’idea di laicità della Rivoluzione francese». (Fonte: Andrea Tornielli, il Giornale, 27 agosto 2010).

In contropartita Fini ha avuto ampi riconoscimenti dall’Economist, giornale britannico portavoce della corrente massonica inglese più agguerrita.
«Da tempo circolano voci su presunte affinità elettive tra il Presidente della Camera Gianfranco Fini e la massoneria. Qualcuno parla già di un Fini in grembiule.
I più maligni hanno addirittura intravisto un richiamo subliminale nel nome scelto per i nuovi gruppi parlamentari “Futuro e Libertà”.
Troppo simile a “Giustizia e Libertà”, la celebre loggia coperta di piazza del Gesù, destinata a riunire i fratelli più in vista, e che in passato aveva accolto anche l’ex presidente del Senato e senatore a vita Cesare Merzagora, i generali Giuseppe Aloja e Giovanni De Lorenzo, e perfino il ras fascista Giulio Caradonna.
Pare che anche Cuccia, Carli e altre eminenti figure della finanza illuminata abbiano fatto parte della loggia che poi confluì nel Grande Oriente (1973), obbedienza ufficialmente riconosciuta dalla Grande Loggia Unita d’Inghilterra.
Né è passato inosservato il fatto che Fini, nel febbraio del 1995, abbia scelto proprio Londra, e non a caso la Chatam House – vero e proprio santuario massonico dei poteri fortissimi –, per celebrare il proprio autodafé laico, rinnegando le ingombranti origini fasciste e scaricando Benito Mussolini tra i detriti della Storia. Ragionavo su queste circostanze, quando lo scorso 5 agosto ho letto un interessante editoriale dell’Economist intitolato “Signor Fini, where do you stand by?”.
In quell’articolo il Presidente di Montecitorio veniva presentato come «the most able», il più abile dei politici italiani attualmente sulla scena pubblica, un vero «liberal» e, soprattutto, «the most keen to limit the Catholic church’s influence over Italians’ lives». Sì, proprio così, il più determinato a limitare il potere di influenza della Chiesa cattolica sulla vita degli italiani.
Beh, è davvero singolare che proprio l’Economist – prestigiosissimo foglio influenzato dalla massoneria britannica e da Chatham House – si sia sbilanciato in questo modo a favore di Fini.
Le evidenti influenze di loggia sull’Economist, peraltro, sono tali da aver costretto persino un moderato come Pier Ferdinando Casini a denunciare una «manina» della massoneria internazionale dietro gli attacchi violenti condotti contro il Vaticano e la Santa Sede proprio dal quotidiano di St. James’s Street.
Singolare anche che molte delle analisi critiche sulla situazione italiana denunciate da Fini, a partire dalla debolezza culturale della politica («weaknesses in the political culture»), fino alla necessità di limitare l’ingerenza della Chiesa («separation of church and State») corrispondano esattamente alle analisi fatte dall’Economist nel 2007, quando nel formulare l’index of democracy ha declassato l’Italia tra le democrazie di serie B, definendola «flawed democracy», insieme a Paesi del Sudamerica e dell’Est Europa.
Anche le posizioni finiane sulla fecondazione artificiale – business attorno al quale, in Gran Bretagna, ruota una girandola di milioni – coincidono esattamente con quelle dell’Economist. Frasi come «le leggi si devono fare senza il condizionamento dei precetti di tipo religioso» (pronunciata da Fini all’incontro con gli studenti di Monopoli del 18 maggio 2009), o «la laicità delle istituzioni significa affermazione chiara del confine che deve separare la sfera privata rispetto a quella religiosa» (discorso al Congresso di AN del 23 marzo 2009), o ancora «la differenza non è tra laici e cattolici, ma tra laici e clericali» (Festa del PD di Genova, 26 agosto 2009), sembrano tratte da un editoriale di John Micklethwait.
Il percorso della conversione laica ed illuminista del Presidente della Camera sembra non tralasciare nessuna delle priorità iscritte nell’agenda politically correct tanto cara alle lobby massoniche.
Coincidenza anche il fatto che l’accusa lanciata a freddo da Fini, nel dicembre 2008, contro i presunti silenzi della Chiesa cattolica nei confronti delle leggi razziali del 1938, abbia rappresentato un altro dei cavalli di battaglia anticattolici dell’Economist.
Se Fini avesse studiato, però, avrebbe saputo che Pio XI è stata la sola personalità pubblica del suo tempo a opporsi apertamente a Mussolini per la sua politica antisemita, arrivando a definire pubblicamente, il 15 luglio 1938, quella politica una «vera apostasia» del cristianesimo. Così come il 21 luglio dello stesso anno, ricevendo in udienza gli assistenti ecclesiastici di Azione Cattolica, il Santo Padre ricordò che «cattolico vuol dire universale, non razzistico, nazionalistico, separatistico», e che le ideologie antisemite finiscono «con non essere neppure umane». Nella storia sono rimaste impresse pure le parole di Pio XI rivolte, il 28 luglio 1938, agli alunni di Propaganda Fide: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali (…) La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana».
Fini avrebbe dovuto anche sapere che in quegli anni vigeva in Italia un potere dittatoriale che non consentì, attraverso l’uso della censura, la pubblicazione di una serie di articoli di Civiltà Cattolica contro la deriva razzista dell’antisemitismo.
Tornando all’attualità, anche l’ultima boutade goliardica dell’Economist sulla ridefinizione dei confini d’Europa non pare sia stata esattamente compresa nella sua reale portata. Com’è noto, nel recente articolo intitolato “Redrawing the Map” (ridisegnando la cartina), si nota che l’Italia risulta divisa in due all’altezza di Roma, che viene accorpata al sud ed alle isole, per formare una nuova nazione dal nome poco elegante di Bordello. Si è parlato di odioso antimeridionalismo, di volgare disprezzo per il Sud del nostro Paese, di becero leghismo in salsa anglosassone.
In realtà, però, per gli esperti di cose d’Oltremanica è stato subito chiaro che l’attacco dell’Economist non riguardasse tanto il Mezzogiorno d’Italia (che la massoneria inglese ha peraltro contribuito a “liberare” dai Borboni), o il potere romanocentrico. Il vero obiettivo era lo Stato Città del Vaticano, quella aborrita Santa Sede, considerata la pestifera sentina di tutti i mali d’Italia. E’ proprio lì, nella Babilonia luterana che non è stata purificata dalla Riforma, che per i soloni dell’Economist si insedia il maggiore ostacolo ad una completa evoluzione illuministica e liberale del nostro Paese.
Basti pensare che lo stesso giorno in cui è stato pubblicato l’elogio di Fini, lo scorso 5 agosto, l’Economist ha dato spazio ad un ennesimo articolo al vetriolo contro la Chiesa cattolica, dal titolo “The Void within”, il vuoto all’interno, denunciando uno stato di «quasi teocracy», un inspiegabile «attaccamento atavico» alle gerarchie vaticane, e arrivando ad evidenziare la differenza tra “cattolicesimo” e “cattolicismo”; per concludere con una riflessione filosofica: «l’Illuminismo europeo può aver posto fine a quella sorta di formale teocrazia nella quale i papi guidavano gli eserciti e i re governavano per diritto divino, ma per un’intricata combinazione di circostanze l’autorità della Chiesa e quella dello Stato, in Europa, sono rimaste intrecciate». Quando ho letto le lodi sperticate dell’Economist a Gianfranco Fini, considerato il più abile e deciso politico italiano, capace di contrastare lo strapotere vaticano e la nefasta influenza della Chiesa cattolica nella vita degli italiani, mi sono fatto qualche idea in più sulla svolta politico-esistenziale del Presidente della Camera. Dalle parti di Chatham House non amano sprecare parole. Lì, davvero, nulla è casuale.

(Fonte: Gianfranco Amato, cultura cattolica.it, 27 agosto 2010)

giovedì 26 agosto 2010

«Attacco a Ratzinger. Accuse e scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI»

Esce oggi in libreria "Attacco a Ratzinger. Accuse e scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI" (Piemme, pagg. 322, euro 18), il libro scritto dal vaticanista del Giornale, Andrea Tornielli, e dal vaticanista del Foglio, Paolo Rodari, dedicato alle crisi dei primi cinque anni del pontificato di Papa Ratzinger. Pubblichiamo quasi integralmente la prefazione degli autori.
«Ricordo ancora, come fosse oggi, le parole che sentii dire da un cardinale italiano, allora molto potente nella Curia romana, all’indomani dell’elezione di Benedetto XVI. “Due-tre anni, durerà solo due-tre anni...”. Lo faceva accompagnando le parole con un gesto delle mani, come per minimizzare... Joseph Ratzinger, il settantottenne Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede appena eletto successore di Giovanni Paolo II doveva essere un Papa di transizione, passare velocemente, ma soprattutto doveva passare senza lasciare troppa traccia di sé... Certo, un accenno alla durata del pontificato la fece Ratzinger stesso, nella Sistina. Disse che sceglieva il nome di Benedetto per ciò che la figura del grande santo patrono d’Europa aveva significato, ma anche perché l’ultimo Papa che aveva preso questo nome, Benedetto XV, non aveva avuto un pontificato molto lungo e si era adoperato per la pace.
Ma un pontificato non lungo, a motivo dell’età già avanzata, non significa passare senza lasciare traccia. Anche quello di Giovanni XXIII doveva essere – e dal punto di vista meramente cronologico è stato – un pontificato di transizione. Ma quanto ha cambiato la storia della Chiesa... Ci ho ripensato molte volte: visto che non è passato così velocemente come qualcuno sperava, e visto che il suo pontificato è destinato a lasciare un segno, si sono moltiplicati gli attacchi contro Benedetto XVI. Attacchi di ogni tipo. Una volta si dice che il Papa si è espresso male, un’altra volta si parla di errore di comunicazione, un’altra ancora di un problema di coordinamento tra gli uffici curiali, un’altra di inadeguatezza di certi collaboratori, un’altra del concordante tentativo da parte di forze avverse alla Chiesa intenzionate a screditarla. Vuole sapere la mia impressione? Anche se in realtà il Santo Padre non è solo, anche se attorno a lui ci sono persone fedeli che cercando di aiutarlo, in tante occasioni egli viene lasciato oggettivamente solo. Non c’è una squadra che previene l’accadere di certi problemi, che riflette su come rispondere in modo efficace. Che cerca di far passare, di espandere l’autentico suo messaggio, spesso distorto. Così la domanda più frequente è diventata questa: a quando la prossima crisi? Mi sorprende anche il fatto che talvolta queste crisi arrivino dopo decisioni importanti... Mi sto ad esempio chiedendo che cosa accadrà ora che Benedetto XVI ha coraggiosamente proclamato l’eroicità delle virtù di Pio XII insieme a quelle di Giovanni Paolo II».
Quando questa confidenza venne fatta a uno di noi, alla vigilia di Natale del 2009, da un autorevole porporato che lavora da molti anni nei sacri palazzi, il grande scandalo degli abusi sui minori perpetrati dal clero cattolico non era ancora esploso in tutta la sua portata. C’era, sì, il gravissimo caso irlandese. Ma nulla faceva ancora presagire che, come per contagio, la situazione oggettivamente peculiare dell’Irlanda – che ha messo in luce l’oggettiva incapacità di diversi vescovi di governare le loro diocesi e di affrontare i casi di abusi sui minori tenendo presente la necessità di assistere innanzitutto le vittime evitando in ogni modo che le violenze potessero ripetersi – finisse per replicarsi, per lo meno mediaticamente, in altri Paesi. E ha coinvolto la Germania, l’Austria, la Svizzera, e di nuovo, nelle polemiche, gli Stati Uniti, dove già il problema era emerso, e in maniera piuttosto devastante, all’inizio di questo millennio.
Solo a scorrere le rassegne stampa internazionali, bisogna ammettere l’esistenza di un attacco contro Papa Ratzinger. Un attacco dimostrato dal pregiudizio negativo pronto a scattare su qualsiasi cosa il Pontefice dica o faccia. Pronto a enfatizzare certi particolari, pronto a creare dei «casi» internazionali. Questo attacco concentrico ha origine fuori, ma spesso anche dentro la Chiesa. Ed è (inconsapevolmente) aiutato dalla reazione a volte scarsa di chi attorno al Papa potrebbe fare di più per prevenire le crisi o per gestirle in modo efficace.
Questo libro non intende presentare una tesi precostituita. Non intende accreditare in partenza l’ipotesi del complotto ideato da qualche «cupola» o Spectre. È però innegabile che Ratzinger sia stato e sia sotto attacco. Le critiche e le polemiche suscitate dal discorso di Regensburg; il caso clamoroso delle dimissioni del neo-arcivescovo di Varsavia Wielgus a causa di una sua vecchia collaborazione con i servizi segreti del regime comunista polacco; le polemiche per la pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum; il caso della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, che ha coinciso con la trasmissione in video dell’intervista negazionista sulle camere a gas rilasciata a una Tv svedese da uno di loro; la crisi diplomatica per le parole papali sul preservativo durante il primo giorno del viaggio in Africa; il dilagare dello scandalo degli abusi sui minori, che non accenna ancora a placarsi. Di bufera in bufera, di polemica in polemica, l’effetto è stato quello di «anestetizzare» il messaggio di Benedetto XVI, schiacciandolo sul cliché del Papa retrogrado, depotenziandone la portata.
Ma questo attacco non ha mai avuto un’unica regia. Ha avuto, piuttosto, un’assenza di regia. Anche se non si può escludere che in più occasioni, pure nel corso della crisi per gli scandali per la pedofilia del clero, si sia verificata un’alleanza tra ambienti diversi ai quali può far comodo ridurre al silenzio la voce della Chiesa, sminuendo la sua autorità morale e il suo essere fenomeno popolare, magari con la segreta speranza che nel giro di una decina d’anni essa finisca per contare sulla scena internazionale quanto una qualsiasi setta.

(Fonte: Paolo Rodari-Andrea Tornielli, Il Giornale, 25 agosto 2010)

La politica del pugnale

Alleati che diventano avversari. Servi che cambiano padrone. Insulti. Attacchi frontali. Tranelli, maldicenze, sospetti, segreti...
Non è la trama di qualche intrigo della corte dei Borgia, ma la cronaca politica di oggi. Al posto dei veleni e dei pugnali si usano i mezzi di comunicazione.
A fine luglio mi ero soffermato su come il pettegolezzo e la ricerca dello scandalo siano diventati uno stile dominante nel mondo dell'informazione. Le ultime settimane non mi hanno smentito. Sembra quasi che si faccia a gara per dimostrare che tutti sono egualmente loschi. Tranne il proprio leader, naturalmente.
L'effetto diseducativo è devastante. Non esistono virtù; nell'intreccio dei complotti vince chi è più furbo, più forte, più ricco e scredita per primo l'avversario. L'uso dell'insulto è sistematico e gratuito. Ne ha scritto in modo esauriente Claudio Magris sul Corriere.
«Volgarità e sconcezze, in questi giorni, arrivano da tutte le parti e da persone che si credono élite, classe dirigente, leader e maestri nell’arte della politica. Nei confronti delle donne le scemenze ingiuriose si scatenano con particolare indecenza, specie da parte di ex partner, e non valgono certo di più dell’insulto che qualsiasi ubriaco può indirizzare a una signora che in quel momento gli passa accanto; anche fra le donne, peraltro, c’è chi non è da meno nella gara alla scurrilità.
Ci si può chiedere come mai e perché alcune elementari regole del vivere civile sembrano scomparse. Quegli insulti divenuti abituali e assurti a linguaggio della politica sono inaccettabili, ma non solo perché si esprimono con quelle parole grossolane che tutti gli adolescenti hanno adoperato e adoperano e che non sono certo un peccato mortale. La violenza di questa degenerazione dei normali rapporti civili non risiede in una rozza maleducazione, ma nella sostanziale mancanza di rispetto che la genera. Presentarsi a un pranzo in mutande o mettersi le dita nel naso a tavola non è un’offesa alla pudicizia, ma a quel rispetto dell’altro che anche le forme dicono e tutelano.
Il rispetto, insegna Kant, è la premessa di ogni altra virtù, che non può esistere senza di esso, perché il senso della dignità propria e altrui è la base di ogni civiltà, di ogni corretto rapporto fra gli uomini e di ogni buona qualità di vita, propria e altrui. Il rispetto, nei confronti di chiunque, non può venire a mancare mai, nemmeno in circostanze drammatiche. Ci possono essere situazioni — in guerra, o per legittima difesa — in cui può essere tragicamente necessario colpire un uomo; non c’è alcuna situazione in cui sia lecita la mancanza di rispetto, nemmeno nei confronti di un colpevole cui giustamente venga comminata una grave pena.
Chi insulta l’avversario si delegittima; è come fosse politicamente interdetto e si includesse in quelle categorie di soggetti che secondo il vecchio codice cavalleresco non avevano i requisiti per poter essere sfidati a duello. Quegli improperi, pertanto, vanno considerati nulli, fuori gioco. È inutile e forse pure ingiusto prendersela con l’uno o con l’altra turpiloquente, perché ognuno fa quello che può, a seconda dei doni che ha o non ha avuto dal Dna, della famiglia in cui ha avuto la fortuna o la sfortuna di crescere, delle possibilità che ha o non ha avuto di sviluppare liberamente e con signorilità la propria persona o della malasorte che lo ha dotato di un animo gretto e servile. Chi nello scontro politico dice un’oscenità probabilmente non sa dire altro.
Non è uno scandalo che esistano queste volgarità; il grave è che esse non destino scandalo, che i loro autori non paghino dazio per il loro smercio di porcherie. È avvenuto qualcosa, nella nostra società, che ha mutato radicalmente quelle che ritenevamo regole pacificamente e definitivamente acquisite al vivere civile. Certe indecenze dovrebbero venire automaticamente sanzionate; se vengo invitato a casa di qualcuno e mi metto a sputare per terra, parrebbe logico che, quanto meno, non mi si inviti più e si cerchi di tenermi alla larga».
Non sembra neanche meravigliare, aggiungo io, che i protagonisti di questo gioco al massacro siano in molti casi i paladini dell'identità cristiana e dei valori non negoziabili, deferenti verso la Chiesa cattolica e verso il papa, ansiosi di esibire buoni rapporti con qualche alto prelato.
Come se il sostenere formalmente alcuni principi e la condiscendenza verso l'istituzione religiosa contassero di più dell'assumere uno stile umile e nonviolento, quale è stato quello di Gesù di Nazaret. E' in questo o nelle parole che consiste un'identità cristiana?

(Fonte: Christian Albini, Blog Sperare per tutti, 20 agosto 2010)

Crisi della fede nella società contemporanea

«[Le persecuzioni], però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. […] Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto....
…l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione ecclesiale. […]Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo». (Brani tratti dall’omelia di Benedetto XVI per la festa dei Santi Pietro e Paolo, 29/06/2010)
In merito alla situazione drammatica in cui versa la Chiesa in questi tempi e di fronte a queste parole pronunciate oggi dal Santo Padre occorre riflettere. Chi conosce il Magistero di Benedetto XVI sa che queste parole non sono una novità.
La crisi morale, che per alcuni è la ragione ultima della crisi della Chiesa e delle persecuzioni che deve subire, ha radici nella crisi di fede e non in una incapacità della Chiesa di stare al passo con i tempi. Ecco perché il Santo Padre insegna che le persecuzioni “non sono il pericolo più grave”. Senza la fede nel Signore Risorto – veramente Risorto - cade il fondamento della morale e resta solo vuoto moralismo interpretabile al gusto del singolo e/o delle maggioranze. D’altra parte, come diceva S.Paolo, se il Signore non è risorto la fede è roba da pazzi.
Questo è il cuore del problema, la perdita della fede e non altro.
La conseguenza di tutto questo è soprannaturale: la ferita del Corpo Mistico di Cristo, ma di questo non ne parla mai nessuno e pochi fedeli sanno cosa significa, figurarsi il “mondo”. La crisi di fede cresce e si sviluppa particolarmente laddove “dottrine fuorvianti” influenzano le anime rendendole più facilmente preda delle tentazioni: si è creato un terreno fertile utile alla crescita di un’idea di libertà priva di riferimento alla Verità. Quell’idea che in fin dei conti confonde la libertà con l’egoismo, il “fai da te” con il “bene”, quell’idea che piano, piano ha ucciso il senso del peccato (cfr. Benedetto XVI nel Regina Caeli del 16/05/2010).
Oggi purtroppo all’interno della Chiesa sono molti coloro che inorridiscono solo a sentir parlare di Verità, altri infarciscono i loro discorsi con la parola umiltà e poi non accettano l’obbedienza, altri ancora confondono il ministero di “insegnare e governare” con un ruolo sostanzialmente impiegatizio/accademico, altri sono arrivati al sacerdozio senza essere accompagnati da adeguato discernimento e preparazione.
Paradossalmente, nel confronto con il grave momento che sta vivendo la Chiesa, proprio i paladini di certa libertà, figli di una ideologia sempre pronta ad attaccare l’autorità, appaiono come i più zelanti nell’auspicare un repulisti che puzza di rivincita.
Un conto è la richiesta di perdono per le vittime degli abusi sessuali fatta dal Santo Padre, altro è il “tintinnar di manette” auspicato da alcuni in preda ad un furore giustizialista di cui si fatica a trovare l’origine evangelica. Mi pare che il caso Schönborn e la recente nota della Sala Stampa Vaticana (28/06/2010) siano particolarmente illuminanti in tal senso.
La “tolleranza zero” di Benedetto XVI non abbandona certamente la prudenza, virtù un po’ in disuso, ma sempre valida.
Per una vera e propria perversione della realtà le cause dell’attuale situazione ecclesiastica possono ritrovarsi nelle divisioni sorte sulle ali di quella teologia “aperta al mondo” che è andata ben oltre il Concilio Vaticano II. Diversi studi, e diversi insegnamenti degli ultimi due pontefici, concordano ormai nel ritenere che qui si trova la causa di un cedimento della fede e di una progressiva secolarizzazione nella e della Chiesa. La situazione in Belgio è paradigmatica.
Mi sembra che le parole più importanti dell’omelia odierna di Benedetto XVI siano queste: “il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale.”
Purtroppo non so quanti sacerdoti le leggeranno, non so neanche se tutti i Vescovi lo faranno, ma ancor di più mi preoccupa che vengano facilmente eluse perché come si dice “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.
E poi non meravigliamoci se il “popolo di Dio” leggendo Repubblica o il Corsera finisce per perdere la fiducia perché la Chiesa è “retrograda, antiquata e affarista”. Il Vangelo ci insegna che le persecuzioni non cesseranno, ma almeno si trovi il coraggio di preparare i battezzati ad affrontarle spiritualmente.
Ma…”le porte degli inferi non prevarranno”.

(Fonte: Parati semper, 29 giugno 2010)

Col modo d'essere dell'angelo

"Un regalo implica anche una responsabilità: quella di accettarlo, di non trascurarlo, di cercare di capirne il valore e percepirne la portata nel tempo" spiega don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, durante la presentazione in anteprima per l'Italia del primo volume dell'opera omnia del Papa Benedetto XVI (Teologia della liturgia, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 849, euro 55) che si è svolta domenica al Meeting per l'amicizia tra i popoli di Rimini.
"I libri del Papa sono un'immensa ricchezza - continua don Costa - un dono che è nostro compito e nostra responsabilità divulgare. Presto uscirà il secondo volume di Gesù di Nazaret, mentre continueremo a pubblicare le raccolte delle catechesi del mercoledì; per dare un'idea della risposta delle case editrici di tutto il mondo, negli Stati Uniti cinque editori la pubblicheranno simultaneamente. Si tratta di condividere un bene che il Signore ci dà, particolarmente prezioso nello smarrimento del nostro tempo". Il primo passo di un'opera imponente: sedici volumi, ventimila pagine di saggi, omelie e lezioni di cui il vescovo di Ratisbona Gerhard Ludwig Müller, presente all'incontro, ha avuto "la gioia e l'impegno" di curare l'edizione in tedesco. "Si potrebbe dire che le tematiche più complicate vengono come sottratte alla loro stessa complessità e rese trasparenti nella loro linearità interna - spiega monsignor Müller a "L'Osservatore Romano" parlando dell'opera che il genius loci della sua diocesi ha visto nascere e poi ha avuto il compito di custodire: a Ratisbona il professor Joseph Ratzinger ha insegnato dal 1969 fino alla sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga nel 1977, e sempre a Ratisbona, nel 2006, durante la visita pastorale nella sua patria bavarese è stata pronunciata la celebre lectio magistralis in cui il Pontefice più diffusamente ha descritto l'intima connessione tra fede e ragione.
Il volume che inaugura la pubblicazione dell'opera omnia di Joseph Ratzinger è dedicato al tema della liturgia perché "nel rapporto con la liturgia che si decide il destino della fede e della chiesa" si legge nella quarta di copertina dell'edizione italiana, curata da Pierluca Azzaro ed Edmondo Caruana, presenti in sala durante l'incontro.
"Prima di tutto Dio; questo ci dice l'iniziare con la liturgia - si legge nella prefazione del Papa al volume - là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina Nihil Operi Dei praeponetur (niente si anteponga all'ufficio divino, 43, 3) valgono in modo specifico per il monachesimo, ma nell'ordine delle priorità hanno valore anche per la vita della Chiesa e del singolo, per ciascuno nel modo proprio. È forse utile ricordare qui che nella parola ortodossia la seconda metà della parola, dòxa, non significa opinione, ma gloria; non si tratta dell'opinione giusta su Dio ma del modo giusto di glorificarlo, di rispondere a Lui".
Se il Bello è lo splendore del Vero, la chiave per comunicare l'esperienza "dell'eterno nel tempo" è proprio la "ferita della bellezza", chiosa Alberto Savorana, portavoce di Comunione e Liberazione, citando l'intervento sulla Settimana Santa che nel 2002 l'allora cardinale Ratzinger inviò al Meeting: la bellezza ferisce, è come un dardo che colpisce l'anima, la richiama al suo destino ultimo e le apre gli occhi sulla sua natura infinita. Secondo un'antica leggenda russa, Vladimiro, principe di Kiev, non si convertì al cristianesimo in seguito a un'opera di persuasione missionaria particolarmente convincente, ma grazie all'incontro con la bellezza del culto divino.
Dice Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di Roma di Cl, presentando il libro: "La mia prima e costante reazione è stata la sorpresa; è nota la chiarezza del linguaggio di Joseph Ratzinger, ma la passione del Papa per la liturgia, che definisce "il centro della mia vita", riesce davvero a contagiare. Innanzitutto ecco un punto fondamentale. Ben al di là degli atti liturgici singolarmente considerati e vissuti, sui quali peraltro ci sono moltissime e illuminanti pagine, il culto cristiano è "esperienza della contemporaneità con il mistero pasquale di Cristo". In esso "esiste qualcosa dei sacramenti primordiali, sacramenti della creazione che nascono dai punti nodali dell'esperienza umana e lasciano intravvedere un'immagine tanto dell'essenza dell'uomo quanto del tipo del suo rapporto con Dio. Punti nodali come la nascita, la morte, il pasto, l'unione sessuale". In queste che sono le sue condizioni biologiche l'uomo sperimenta di essere sopraffatto da una potenza che non può né chiamare né vincere e che, ancora prima delle sue decisioni, già lo circonda e lo sorregge. Fessure, le chiama citando Schleiermacher, attraverso le quali l'eternità getta uno sguardo nel procedere uniforme della vita quotidiana dell'uomo. Inizia così il senso della spiritualità, il connettersi col cosmo, il proiettarsi nella dimensione del "con": con le cose, con gli altri uomini. Per i cristiani, cioè per me, la liturgia diventa pertanto una questione terribilmente seria - continua Fontolan - che ha a che fare con la concezione stessa della fede e investe la vita stessa della Chiesa, la sua presenza efficace nel mondo. La perdita della centralità di Dio, lo smarrimento della coscienza della contemporaneità di Cristo si rivela in molti indizi, anche nella liturgia, e rivelano una sorta di resa alla modernità che cancella il mistero dall'orizzonte umano. L'arte visiva, a esempio, manifesta "l'intero problema della conoscenza dell'epoca moderna: se non si verifica nell'uomo un'apertura interiore che lo renda capace di vedere qualcosa di più di ciò che è misurabile e ponderabile e di percepire nel creato lo splendore del divino, allora Dio rimane escluso dal nostro campo visivo" scrive l'autore. Non vederlo è perciò non viverlo più.
A proposito delle chiese, intese come edifici, l'autore scrive: "L'edificio chiesa, per conservare la sua legittimità cristiana, deve essere cattolico nel senso originario della parola, una dimora dei credenti in tutti i luoghi". E poi cita Albert Camus "che ha dato espressione sconvolgente all'esperienza dell'estraneità e della solitudine" raccontando di un viaggio a Praga, "in una città in cui non capisce la lingua dei suoi abitanti, è come un esule; anche lo splendore delle chiese rimane muto e non consola. Per un credente questo dovrebbe essere impossibile: dove c'è la Chiesa, dove c'è la presenza eucaristica del Signore, egli fa esperienza di patria".
Tutto per l'autore concorre a costruire la meravigliosa cattedrale della liturgia cristiana, che vale la pena di conoscere, amare e soprattutto vivere pienamente perché la liturgia, come ha scritto Luigi Giussani, "è un discorso che non ha termine e vi si è trascinati dentro dal flusso della forza della Grazia di Dio, del mistero di Dio del mondo". Trascinati dentro; è proprio l'esperienza che ho fatto e che ho cercato di riproporvi, sentendomi un lettore che ha tutto da imparare" ha concluso Fontolan. "Pregare - continua Savorana citando il discorso di saluto al Meeting del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone - non è un evento dalle nuvole in su, non è una fuga dal mondo ma il massimo della concretezza; imparare a domandare e imparare a desiderare, a "orientare bene i desideri" è imparare a vivere. Pregare è l'avamposto dell'uomo in battaglia per difendere il cuore dell'uomo nel suo desiderio di cose grandi. La preoccupazione che spesso ha espresso il Papa è che l'intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà; la chiesa dovrebbe essere il luogo in cui la bellezza è di casa, "la bellezza - scrive Benedetto XVI - senza la quale il mondo diventa il primo cerchio dell'inferno". "Vorrei concludere le mie considerazioni con una bella parola del Mahatma Gandhi che ho trovato una volta su un calendario - scrive il Papa nel saggio sulla teologia della musica sacra pubblicato nel volume, nel capitolo dedicato a "L'immagine del mondo e dell'uomo propria della liturgia" - nel mare vivono i pesci e tacciono, gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre: porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo, e per questo sono sue anche tutte e tre le proprietà, il tacere, il gridare e il cantare. Oggi, vorrei aggiungere, vediamo come all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare terra anche il cielo e la profondità del mare. La liturgia giusta, la liturgia della comunione gli restituisce la sua interezza. Essa gli insegna nuovamente il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, che è il modo di essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa nuovamente risuonare in lui il canto che era stato sepolto".

(Fonte: Silvia Guidi, ©L'Osservatore Romano, 24 agosto 2010)

Franco Nero: «La mia vita? Un'avventura. Da Padre Pio a Hollywood»

Lo conoscono in tutto il mondo, l’America è la sua seconda patria. Da noi diventò famoso alla fine degli anni ’60 come protagonista di western-spaghetti e polizieschi d’autore. Memorabili le sue interpretazioni di “Django” e del capitano dei carabinieri ne “Il giorno della civetta”, di Damiano Damiani. Anche di televisione Franco Nero ne ha fatta tanta: a gennaio è stato Sant’Agostino "da vecchio" nella fiction di Raiuno. Per quel ruolo ha ricevuto anche i complimenti del Papa. Da mercoledì lo potremo rivedere al cinema accanto alla moglie Vanessa Redgrave, in “Letters to Juliet” del regista statunitense Gary Winich, tratto dall’omonimo romanzo di Lise e Ceil Friedman.
Nero, lei ha deciso di tornare sul set con sua moglie proprio per una storia d’amore ambientata nella città di Giulietta e Romeo. C’è un motivo particolare?
R. «In effetti ho accettato di fare questo film solo perché c’è Vanessa, anche se la sceneggiatura mi piace. È la storia di una giovane coppia in vacanza a Verona che legge un messaggio indirizzato a Giulietta scritto da una donna (la Redgrave, ndr) in cerca di un suo antico amore, il personaggio che interpreto».
Ancora una volta, però, lei è stato preferito da un produttore americano. E quelli di casa nostra?
R. «Il cinema italiano è come un malato che ha la febbre a 40. Avevamo una grande industria, si producevano 300-400 film l’anno, esportavamo centinaia di pellicole all’estero. L’industria cinematografica faceva tanti soldi che venivano in parte reinvestiti per produzioni di qualità superiore. Per un film si lavorara 12-14 settimane. Poi, negli anni ’80, sono arrivate le tv private, è cominciata la concorrenza con la Rai, tutti venivano strapagati e c’è stata una migrazione di massa verso le fiction. E il cinema italiano è stato ammazzato. Oggi i veri produttori sono i funzionari della Rai, di Mediaset e del Ministero...Si fanno fiction e videoclip, gli autori vengono mortificati».
Infatti lei sta girando a Philadelphia, “Father”, per la regia di Pasquale Squitieri, che è una co-produzione italo-americana...
R. «È un film molto "forte", un thriller che sviluppa i temi della paternità e delle false ideologie».
La paternità è un argomento che la tocca?
R. «Sì, ma io vivo il mio essere padre in modo positivo, non come il personaggio che interpreto in questo film che inganna il figlio. Per me essere padre è un regalo di Dio. Ho avuto tre figli, una l’ho persa l’anno scorso con mio grande dolore (Natasha Richardson, figlia della Redgrave e moglie di Liam Neeson, ndr). Sono stato un padre presente e attento. E adesso sono nonno di 5 splendidi nipotini che vivono in campagna insieme con me e Vanessa. Devo dire che li amo più dei miei figli Carlo e Franquito».
Lei quindi è credente. Quanto conta la fede nella sua vita?
R. «Beh, non sono un grande praticante ma prego tutte le sere e mi aggrappo a Dio nei momenti di difficoltà. Sono stato educato dai miei genitori nel rispetto della religione e della Chiesa».
È vero che lei da piccolo è stato tenuto sulle ginocchia da Padre Pio?
R. «Non vorrei parlare di questo... Comunque... sì è così. La mia famiglia è originaria di San Giovanni Rotondo e quando ero bambino andavamo spesso, col carretto tirato da un asino, a trovare il frate con le stimmate. Ci parlavo. I suoi occhi accesi mi hanno accompagnato sempre nella vita».
Lei fa anche opere di carità?
R. «Seguo i ragazzi del "Villaggio Don Bosco" di Tivoli. Cominciai anni fa aiutando don Nello Del Raso a costruire la comunità, che ospita orfani. Da allora non me ne sono mai scordato. A Natale e a Pasqua vado anche a Messa con loro».
La sua carriera di attore è ricca di soddisfazioni. Ma ha ancora qualche sogno nel cassetto?
R. «Certo! Vorrei girare da regista L’ostaggio, un film basato su una sceneggiatura di Elio Petri scritta apposta per me nel ’75 e che il maestro non fece in tempo a realizzare. Nella mia cantina conservo migliaia di vecchi copioni e quello di Petri l’ho ritrovato quasi per caso. Mi colpì. Decisi di farlo leggere a Robert Bolt, uno dei più importanti sceneggiatori del mondo. Gli piacque e mi consigliò di fare il film ambientandolo in epoca moderna anziché nell’Ottocento vittoriano, come invece era stato pensato da Petri. Ci sto lavorando sodo. Vittorio Storaro mi ha detto che vorrebbe curarne la fotografia. Siamo a buon punto anche con i finanziamenti».
Il primo settembre si apre il Festival del Cinema al Lido di Venezia, lei ci andrà?
R. «Andrò a Venezia il 7 settembre per presentare il mio film “Angelus Hiroshimae”, ma fuori dal Festival, per la Biennale, con proiezione in piazza san Marco. La pellicola è senza dialoghi perché la storia non ne ha bisogno ma la colonna sonora è di Morricone, è stata girata all’Aquila prima del terremoto. Ho aggiunto un documentario di 7 minuti per far vedere il disastro causato dal sisma. Il film l’ho dedicato a mia figlia Natasha che non c’è più. L’ho presentato al Festival di Los Angeles ed è stato accolto molto bene dalla critica cinematografica americana».

(Fonte: Fulvio Fulvi, Avvenire, 21 agosto 2010)

domenica 8 agosto 2010

"Farà sponda alla sinistra". La profezia su Fini di Oriana Fallaci

Nel 2004 Oriana Fallaci dedicò alcune pagine di un libro pubblicato da Rizzoli, La forza della ragione, a Gianfranco Fini. Il giudizio era drastico e in qualche misura preveggente. L’attuale presidente della Camera, paragonato a Togliatti, era già pronto a passare con la sinistra. Allora nessuno ascoltò:
«Signor Vicepresidente del Consiglio, Lei mi ricorda Palmiro Togliatti. Il comunista più odioso che abbia mai
conosciuto, l’uomo che alla Costituente fece votare l’articolo 7 ossia quello che ribadiva il Concordato con la Chiesa Cattolica. E che pur di consegnare l’Italia all’Unione Sovietica era pronto a farci tenere i Savoia, insomma la monarchia.
Non a caso quelli della Sinistra La trattano con tanto rispetto anzi con tanta deferenza, su di Lei non rovesciano mai il velenoso livore che rovesciano sul Cavaliere, contro di Lei non pronunciano mai una parola sgarbata, a Lei non rivolgono mai la benché minima accusa.
Come Togliatti è capace di tutto. Come Togliatti è un gelido calcolatore e non fa mai nulla, non dice mai nulla, che non abbia ben soppesato ponderato vagliato per Sua convenienza. (E meno male se, nonostante tanto riflettere, non ne imbrocca mai una).
Come Togliatti sembra un uomo tutto d’un pezzo, un tipo coerente, ligio alle sue idee, e invece è un furbone. Un maestro nel tenere il piede in due staffe. Dirige un partito che si definisce di Destra e gioca a tennis con la Sinistra. Fa il vice di Berlusconi e non sogna altro che detronizzarlo, mandarlo in pensione. Va a Gerusalemme, con la kippah in testa, piange lacrime di coccodrillo allo Yad Vashem, e poi fornica nel modo più sgomentevole coi figli di Allah. Vuole dargli il voto, dichiara che “lo meritano perché
pagano le tasse e vogliono integrarsi anzi si stanno integrando”.
Quando ci sbalordì con quel colpo di scena ne cercai le ragioni. E la prima cosa che mi dissi fu: buon sangue non mente. Pensai cioè a Mussolini che nel 1937 (l’anno in cui Hitler incominciò a farsela col Gran Muftì zio di Arafat) si scopre «protettore dell’Islam» e va in Libia dove, dinanzi a una moltitudine di burnus, il kadì d’Apollonia lo riceve tuonando: “O Duce! La tua fama ha raggiunto tutto e tutti! Le tue virtù vengono cantate da vicini e lontani!”. Poi gli consegna la famosa spada dell’Islam. Una spada d’oro massiccio, con l’elsa tempestata di pietre preziose. Lui la sguaina, la punta verso il sole, e con voce reboante declama: “L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta, vuole dimostrare al mondo la sua simpatia per l’Islam e per i musulmani!”.
Quindi salta su un bianco destriero e seguito da ben duemilaseicento cavalieri arabi si lancia al galoppo nel deserto del futuro Gheddafi.
Ma erravo. Quel colpo di scena non era una reminiscenza sentimentale, un caso di mussolinismo. Era un caso di togliattismo cioè di cinismo, di opportunismo, di gelido calcolo per procurarsi l’elettorato di cui ha bisogno per competere con la Sinistra e guidare in prima persona l’equivoco oggi chiamato Destra.
Signor Vicepresidente del Consiglio, nonostante la Sua aria quieta ed equilibrata Lei è un uomo molto pericoloso. Perché ancor più degli ex democristiani (che poi sono i soliti democristiani con un nome diverso) può usare a malo scopo il risentimento che gli italiani come me esprimono nei riguardi dell’equivoco oggi chiamato Sinistra. E perché, come quelli della Sinistra, mente sapendo di mentire. Pagano-le-tasse, i Suoi protetti islamici?!? Quanti di loro pagano le tasse?!? Clandestini a parte, spacciatori di droga a parte, prostitute e lenoni a parte, appena un terzo un po’ di tasse! Non le capiscono nemmeno, le tasse. Se gli spiega che servono ad esempio per costruire le strade e gli ospedali e le scuole che anch’essi usano o per fornirgli i sussidi che ricevono dal momento in cui entrano nel nostro paese, ti rispondono che no: si tratta di roba per truffare loro, derubare loro. Quanto al Suo vogliono-integrarsi, si-stanno-integrando,
chi crede di prendere in giro?!?
Uno dei difetti che caratterizzano voi politici è la presunzione di poter prendere in giro la gente, trattarla come se fosse cieca o imbecille, darle a bere fandonie, negare o ignorare le realtà più evidenti. Più visibili, più tangibili, più evidenti. Ma stavolta no, signor mio. Stavolta Lei non può negare ciò che vedono anche i bambini. Non può ignorare ciò che ogni giorno, ogni momento, avviene in ogni città e in ogni villaggio d’Europa. In Italia, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Germania, in Olanda, in Danimarca, ovunque si siano stabiliti. Rilegga quel che ho scritto su Marsiglia, su Granada, su Londra, su Colonia. Guardi il modo in cui si comportano a Torino, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Roma.
Perbacco, su questo pianeta nessuno difende la propria identità e rifiuta d’integrarsi come i musulmani. Nessuno. Perché Maometto la proibisce, l’integrazione. La punisce. Se non lo sa, dia uno sguardo al Corano.
Si trascriva le sure che la proibiscono, che la puniscono. Intanto gliene riporto un paio. Questa, ad esempio: “Allah non permette ai suoi fedeli di fare amicizia con gli infedeli. L’amicizia produce affetto, attrazione spirituale. Inclina verso la morale e il modo di vivere degli infedeli, e le idee degli infedeli sono contrarie alla Sharia. Conducono alla perdita dell’indipendenza, dell’egemonia, mirano a sormontarci. E l’Islam sormonta. Non si fa sormontare”.
Oppure questa: “Non siate deboli con il nemico. Non invitatelo alla pace. Specialmente mentre avete il sopravvento. Uccidete gli infedeli ovunque si trovino. Assediateli, combatteteli con qualsiasi sorta di tranelli”. In parole diverse, secondo il Corano dovremmo essere noi ad integrarci. Noi ad accettare le loro leggi, le loro usanze, la loro dannata Sharia. Signor Fini, ma perché come capolista dell’Ulivo non si presenta Lei?».

(Fonte: Il Giornale, 23 luglio 2010)

Il giorno nero dei dalit in India

Sarà un Black Day, il Giorno Nero, quello che milioni di dalit (fuori casta) cristiani e musulmani celebreranno il 10 agosto in India, per sottolineare il perdurante stato di discriminazione in cui sono costretti a vivere.
In quel giorno, infatti, sarà ricordata la promulgazione della Constitution (Scheduled Castes) Order del 1950 che preclude ai dalit non indù il godimento di una serie di diritti sociali, tra cui, in particolare, l'accesso lavorativo nelle amministrazioni pubbliche. Originariamente la normativa contemplava soltanto i dalit indù tra i beneficiari del provvedimento, ma in seguito venne estesa anche a sikh e buddisti. Grazie alla legge, quindi, soltanto i dalit di alcune fedi hanno facilitazioni di tipo economico, educativo e sociale.
A oggi, dunque, nonostante le reiterate proteste, i dalit cristiani e musulmani, ma anche gianisti, parsi e appartenenti ad altre confessioni, subiscono ancora una pesante limitazione partecipativa alla vita sociale della nazione.
La Chiesa cattolica è da sempre accanto ai fuori casta per la rivendicazione dei diritti negati.
L'arcivescovo di Hyderabad, Joji Marampudi, anch'egli un dalit, spiega che il Black Day rappresenta "un momento forte di speranza per far prendere consapevolezza alle nostre comunità cristiane e per sollecitare il Governo centrale a prestare attenzione alla nostra giusta richiesta".
Il presule, che è anche presidente della commissione per le scheduled castes della Conferenza episcopale dell'India, ricorda che "Madre Teresa di Calcutta è stata l'icona dei poveri, che si è battuta per la negazione dei diritti dei dalit sulla base della loro fede di appartenenza, che è la peggiore discriminazione contro i poveri".
La commissionale nazionale per le minoranze linguistiche e religiose ha indicato di abrogare alcune norme della legge, in modo da rendere il sistema delle caste completamente neutrale rispetto all'appartenenza religiosa. Anche la Corte Suprema ha più volte sollecitato il Governo federale ad affrontare il problema ma, finora, senza alcun risultato.
L'arcivescovo Joji conclude: "Nel centenario della nascita della beata Madre Teresa, speriamo che sia fatta giustizia per i dalit cristiani e musulmani". Dalit, aggiunge, "in sanscrito significa "calpestati" e un tempo erano considerati rifiuti sociali. Madre Teresa ha amato i dalit e si è dedicata alla loro causa. Madre Teresa è fonte di amore, speranza e carità e noi speriamo che il Governo dia ascolto alla voce degli ultimi".
I promotori del Black Day hanno previsto l'esposizione di bandiere, in segno di lutto, sulle facciate delle chiese e degli altri edifici, così come in occasione delle manifestazioni che si svolgeranno in varie zone del Paese.

(Fonte: ©L'Osservatore Romano, 8 agosto 2010)

Non c'è posto nelle tv Rai per i film su Matteo Ricci

Il regista Gjon Kolndrekaj fa fatica a crederci. E non è il solo. Il suo docufilm “Matteo Ricci, un gesuita nel regno del drago”, che ripercorre la vita del «pioniere» della cristianità in Cina e che proprio oggi verrà presentato all’Expo di Shangai («dopo più di sessanta altre presentazioni»), ha suscitato l’interesse persino della televisione cinese ma non riesce a trovare un posto nelle reti del servizio pubblico italiano: «Capisco che i dirigenti della Rai abbiano i loro problemi. Ma credo anche che siano stati messi lì per occuparsi della programmazione televisiva, per produrre cultura e conoscenza».
Partiamo dall’inizio. A chi e quando ha proposto il suo docufilm in Rai?
«Sei mesi fa. Ho mandato al presidente, al direttore generale e ai direttori di rete il libro e il dvd allegato che, peraltro, è stato coeditato da Rai Eri. Dunque, da loro. Ad oggi non ho avuto alcuna risposta. O, meglio, ne ho ricevute solo di vaghe: Vediamo, ora non è il momento, magari ne riparliamo a settembre. Prendono tempo perché nessuno ha il coraggio di esporsi, neanche per dirmi: Grazie, ma non ci interessa. Chissà, forse aspettano di ricevere la telefonata di qualcuno di importante. Io, però, queste cose non le faccio».
Facciamo finta che la stiano ascoltando, quale potrebbe essere la collocazione televisiva ideale per “Matteo Ricci, un gesuita nel regno del drago”?
«Dura cinquantotto minuti, sarebbe perfetto per una seconda serata. Su quale rete? Non so, so solo che tutti i miei prodotti (tra cui la serie Viaggi nei luoghi del Sacro e il film Passione di Cristo, ndr) sono stati trasmessi da Raiuno e, poi, hanno fatto il giro del mondo. Stavolta, invece, veniamo accolti con grande entusiasmo in Cina mentre a casa nostra sembrano tutti impegnati a guardare le stelle. Quello che mi stupisce è che non stiamo parlando di una semplice figura ecclesiale ma di un uomo che ha contribuito ad avvicinare l’Occidente alla Cina. Non a caso il governo cinese si è detto disponibile a finanziare la metà delle spese di un vero e proprio film che ora, dopo il documentario, vorrei fare su Matteo Ricci».
E l’altra metà?
«Non so dove trovarla. Speravo potesse interessare alla Rai. Ma, se non fanno niente per un docufilm che non devono pagare, figuriamoci se pensano di spendere soldi per il film. Forse non si sono accorti che stiamo parlando di un grande italiano».
Di cui, tra l’altro, quest’anno ricorre il quarto centenario della morte.
«Un motivo in più per far conoscere al pubblico televisivo questo personaggio straordinario, scienziato nonché sensibilissimo padre missionario che è stato scelto come testimonial dell’Italia all’Expo di Shangai. Durante la conferenza stampa di presentazione del docufilm che si è svolta lo scorso anno al Festival del Cinema di Venezia, il presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo Dario Viganò, presente alla proiezione insieme al Patriarca di Venezia cardinale Angelo Scola e al Vescovo di Macerata monsignor Claudio Giuliodori, disse: «Speriamo che la Rai si risvegli». La mia speranza è proprio questa».
Intanto c’è la tv cinese.
«Già. Vuole programmare il mio docufilm con una serata speciale. Da loro Matteo Ricci è ancora oggi una figura di primissimo piano. Per certi dirigenti Rai invece...»

(Fonte: Tiziana Lupi, © Avvenire, 6 agosto 2010)