sabato 31 dicembre 2016

Strafalcioni religiosi su Corriere e Repubblica. Quando la cultura laica è bocciata in religione

In occasione del Natale Eugenio Scalfari ci ha proposto su “Repubblica” una riflessione sui “quattro Vangeli sinottici”. Sarebbe stata anche interessante: peccato però che i Vangeli sinottici, cioè che scorrono paralleli raccontando ampiamente gli stessi avvenimenti, siano tre – Marco, Matteo e Luca – mentre il Vangelo di Giovanni, organizzato diversamente, non è un sinottico.
Se “Repubblica” piange, il “Corriere della Sera” non ride. Rispondendo a un lettore che chiedeva lumi su che cosa s’intende per “religioni del libro”, Sergio Romano ha scritto che il “tratto comune delle tre grandi religioni monoteiste è l’esistenza, per ciascuna di esse, di un libro che contiene le verità rivelate e i precetti del Signore”. Fin qui tutto quasi bene. L’espressione “religioni del libro” è un po’ vecchiotta, e criticata perché rischia di mettere in secondo piano la differenza del cristianesimo – dove Gesù non ha scritto nulla e il suo insegnamento è stato trascritto solo dopo la sua morte – rispetto all’ebraismo e soprattutto all’islam, che è nato intorno a un libro, il Corano, già durante la vita del suo profeta Muhammad. C’è anche chi sostiene – e il dibattito è di attualità in tempi di contestazioni al Santo Padre – che a rigore il protestantesimo, fondato sul principio della “sola Scriptura”, è una religione del libro, ma non il cattolicesimo che, pur dando grande importanza alla Bibbia, né dà altrettanta alla Tradizione e al Magistero vivente del Papa.
Ma queste sono, per così dire, sottigliezze. Molto peggio è quello che, nella risposta di Romano, viene dopo. Quali sono le sacre scritture del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam? Romano risponde così: “Per gli ebrei è la Bibbia, con particolare riferimento all’Antico Testamento; per i cristiani è il Nuovo Testamento (ma molti protestanti leggono anche l’Antico Testamento); per i musulmani è il Corano. Esistono anche altri libri fra cui la Torah per gli ebrei, gli Atti degli apostoli per i cristiani, gli Hadith (detti autentici del Profeta) per i musulmani”. Quando ho letto questa parte della risposta, sulle prime ho pensato a uno scherzo. Nessuno studente di un corso elementare di storia delle religioni passerebbe un esame sostenendo queste cose, ma forse – nonostante il declino della scuola italiana di cui tanto si parla – neppure uno studente liceale cui alla maturità fosse chiesto qualche riferimento religioso in relazione alla storia o alla filosofia.
Per gli Ebrei la risposta di Romano è perfino offensiva. Gli Ebrei non leggono “la Bibbia con particolare riferimento all’Antico Testamento”. Per loro la Bibbia consiste esclusivamente in quello che i cristiani chiamano Antico Testamento, espressione cristiana che presuppone l’esistenza di un Testamento Nuovo, il quale per gli Ebrei evidentemente non fa parte della Sacra Scrittura. Molto equivoco è anche scrivere che per gli Ebrei “esistono anche altri libri fra cui la Torah”. È vero che la parola “Torah” ha diversi significati. Nel più comune indica i cinque libri della Bibbia che i cristiani chiamano Pentateuco, che non sono “altri libri” rispetto alla Bibbia ma parte di essa. Alcuni usano “Torah” come sinonimo di “Bibbia” (ebraica): anche in questo caso non è un altro libro, è lo stesso. Forse Romano voleva fare riferimento all’uso di Torah per indicare la Tradizione orale dell’ebraismo: che però in questo caso non è un libro, anche se è confluita in libri, fra cui il Talmud. O forse Romano ha semplicemente confuso “Torah” con “Talmud”.
Non se la passano troppo meglio i musulmani, per cui certamente le varie raccolte di detti del Profeta (Hadith), opera di uomini per quanto saggi e autorevoli, non stanno certamente sullo stesso piano del Corano, che è uscito direttamente e perfettamente dalle mani di Dio.
Ma chi sta peggio di tutti, nella risposta di Romano, sono i cristiani. La Sacra Scrittura dei cristiani – cattolici, ortodossi e protestanti – non è il Nuovo Testamento. È la Bibbia, di cui l’Antico Testamento fa parte integrante. La toppa poi secondo “molti protestanti leggono anche l’Antico Testamento” è peggiore del buco. Implica non solo che ci siano protestanti, magari “pochi”, che non leggono l’Antico Testamento, il che fa torto al grande amore dei protestanti per la Bibbia – tutta la Bibbia – ma sembra anche escludere che i cattolici e gli ortodossi considerino parte della Sacra Scrittura, o addirittura “leggano” il Vecchio Testamento. Naturalmente non è così e se Romano fosse andato qualche volta a una Messa cattolica avrebbe sentito proclamare brani dell’Antico Testamento nella prima lettura e ascoltato l’assemblea pregare con il salmo responsoriale. Anche i salmi fanno parte dell’Antico Testamento e non del Nuovo.
È vero poi che i cristiani considerano parte della Scrittura gli Atti degli apostoli. Ma non come un “altro libro” rispetto al Nuovo Testamento, dal momento che gli Atti ne sono parte, così come le lettere di Paolo, le lettere cattoliche di Pietro, Giacomo, Giovanni e Giuda, e l’Apocalisse.
Si potrebbero derubricare le uscite di Scalfari e di Romano a incidenti di percorso. Certamente tolgono poco alla loro fama e carriera di illustri giornalisti. Ma costituiscono una spia del modo con cui una certa cultura laica italiana guarda al cristianesimo e alla religione in genere. Soprattutto grazie a Papa Francesco la Chiesa intriga, incuriosisce, riscuote anche una certa simpatia. E a causa del conflitto in Medio Oriente e della presenza di un terrorismo ultra-fondamentalista che nasce in seno al mondo islamico (pur rappresentandone una fazione molto minoritaria) anche l’ebraismo e l’islam beneficiano di maggiore attenzione. Ma questa attenzione resta molto superficiale. Anche firme celebri di grandi giornali sembrano avere informazioni di terza mano sulla religione, quando basterebbe una rapida lettura di Wikipedia – che pure ha tutti i suoi limiti – per evitare svarioni. L’analfabetismo religioso che oggi è oggetto di seri studi sociologici in Italia non è diffuso solo fra le persone con un’educazione limitata. Contagia anche le élite.
È importante? Il mondo, certo, ha problemi maggiori. Tuttavia non si può veramente comprendere quello che non si conosce. La stragrande maggioranza delle persone del mondo professa una religione. Gli atei e gli agnostici, per quanto rumorosi, rimangono una minoranza, diffusa soprattutto in Occidente: come rivelano molte ricerche, al di là dei sondaggi di regime, in Cina la grande maggioranza della popolazione crede in una vita dopo la morte e in un influsso di potenze divine sulla vita quaggiù. Anche molti dei grandi conflitti politici e delle guerre, pur non essendo a rigore “guerre di religione”, hanno componenti religiose. L’arte, perfino quella moderna, non può neppure cominciare a essere capita senza la spiritualità e la religione. I grandi giornali danno l’esempio e creano opinione. Tra i propositi per l’anno nuovo, forse qualcuno dovrebbe includere quello di studiare un po’ di più le religioni.

(Fonte: Massimo Introvigne, Il mattino di Napoli, 31 dicembre 2016)



mercoledì 21 dicembre 2016

Quell'amore sbocciato tra Avvenire e la Fedeli

In altre circostanze e magari con altri protagonisti si direbbe subito «E' nato un amore». Certo è che il cinguettio, ieri 20 dicembre, sulle colonne di Avvenire tra il ministro della (d)Istruzione Valeria Fedeli e il direttore del quotidiano della CEI, Marco Tarquinio, ha toccato livelli imbarazzanti. 
Come sapete la nomina della Fedeli all'Istruzione, mentre ha provocato molte proteste da parte delle associazioni che hanno partecipato ai Family Day, ha trovato benevolenza da Avvenire e dal Forum delle Famiglie, due entità la cui linea è decisa direttamente dal segretario della CEI monsignor Nunzio Galantino. E alle lettere di protesta dei lettori di Avvenire, il direttore ha risposto invitando a non avere pregiudizi - mica come quei cattolici che costruiscono muri - e a giudicare per le cose che farà.
A tanta grazia non si può restare indifferenti, soprattutto quando da tutte le altre postazioni ti sparano addosso senza pietà (soprattutto per le bugie sui titoli di studio) e anzi c'è chi sta raccogliendo centomila firme per indurti ad andartene dal governo.
Ecco allora che la Fedeli manda una lettera a Tarquinio ringraziandolo anzitutto per l'apertura di credito nei suoi confronti (non ci crede ancora tanto è assurdo) e poi ecco che spiega il suo pensiero e il suo programma da ministro: lei con presunte teorie del gender non c'entra nulla, figurarsi; non è neanche sicura che esista una teoria gender e se anche esistesse a lei non interessa - così come a tutto il governo -, lei vuole solo realizzare la parità tra uomini e donne. E poi basta parlare di gender «in questa accezione minacciosa», parliamo piuttosto di «ugualianza tra uomini e donne», superiamo quegli stereotipi sui ruoli di genere che non hanno nulla di naturale. Pare che il vero problema sia che a causa di tali stereotipi alle ragazze che vogliono andare all'università siano precluse le facoltà scientifiche.
Un qualsiasi giornalista, mediamente informato sul curriculum parlamentare della Fedeli, le avrebbe detto che va bene il rispetto e l'apertura di credito, ma cerchi almeno di non esagerare con le balle. Che lei sia una oltranzista del gender è evidente nella sua attività e che l'uguaglianza tra uomini e donne sia una bella copertura per far passare l'abolizione delle differenze fra sessi e la valorizzazione dell'omosessualità è tutto facilmente rintracciabile nel disegno di legge che porta il suo nome e sui cui contenuti ci siamo soffermati anche al momento della sua nomina.
Invece che fa il buon Tarquinio? Ringrazia e si stende a tappetino davanti al ministro: bacchetta addirittura i suoi lettori che avevano osato porsi interrogativi sulla nomina della Fedeli, a cui certe posizioni sul gender «sono state attribuite» (sic); anche Tarquinio sostiene però che gli stereotipi di genere vanno superati, anche se cerca di dargli un significato diverso. Poi parte il pistolotto sull'importanza di costruire insieme la società pur nella differenza tra culture e religioni; poi l'immancabile richiamo alla Costituzione che, peraltro, ambedue avrebbero volentieri cambiato. E qui Tarquinio osa addirittura ricordare al ministro che l'aveva dimenticato, l'articolo 30 della Costituzione, sul diritto-dovere educativo dei genitori». Ma quasi si vergogna del tanto osare e rientra subito in modalità tappetino assicurando massima attenzione al lavoro del ministro, sulle cui buone intenzioni non dubita assolutamente. 
Non basta l'ostilità di monsignor Galantino - e quindi di Avvenire - ai Family Day, per spiegare questo atteggiamento che fa a pugni con la realtà e il buon senso. Nei confronti della Fedeli noi non abbiamo pregiudizi né ci teniamo particolarmente allo scontro frontale, prendiamo semplicemente atto di cosa ha fatto finora in Parlamento e di quanto lei stessa ha più volte dichiarato; e quindi dobbiamo rilevare il significato politico di questa nomina e lanciare un allarme per le conseguenze che avrà, anche sulle scuole paritarie.
Come ho messo in evidenza nel primo video realizzato (BQNews) per commentare il principale fatto della settimana, questo atteggiamento di Avvenire è però perfettamente coerente con tanti piccoli e grandi passi compiuti in questi anni che vanno tutti nella medesima direzione. La triste verità è che chi sta guidando di fatto la CEI ha già sostanzialmente accolto la teoria gender: certamente in modo soft, dividendo il gender buono dal gender cattivo (come fosse il colesterolo), con tanti distinguo, arricchendolo di buoni sentimenti; tutto quel che si vuole, ma pur sempre a favore del gender. Così come monsignor Galantino e Tarquinio si sono più volte espressi a favore del riconoscimento delle unioni omosessuali: certo, non trattate come famiglia, e con dei limiti all'adozione, ma pur sempre a favore delle unioni civili che lo stesso Tarquinio vede - lo ha scritto lui - come un incremento di solidarietà nella società.
Piaccia o non piaccia questa è la realtà della Chiesa italiana con cui fare i conti oggi.

(Fonte: Riccardo Cascioli, La Nuova Bussola quotidiana, 21 dicembre 2016)


I giustificazionisti cattolici che non difendono il Natale

Non mi suscitano particolare rabbia i terroristi islamici: fanno il loro sporco mestiere, che è precisamente quello di realizzare il Corano e in particolare la Sùra del Bottino e la Sùra della Conversione, i capitoli in cui si esortano i maomettani devoti a uccidere gli infedeli «dovunque li troviate» (non si parla di camion solo perché nel settimo secolo i camion non erano ancora stati inventati e bisognava accontentarsi della tradizionale spada dei predoni arabi).
Costoro sono il nemico e contro il nemico la rabbia non serve: servono freddezza e determinazione. 
Mi suscitano particolare rabbia i giustificazionisti cattolici, quelli che i terroristi sono colpevoli ma non del tutto perché in fondo li abbiamo provocati noi. Penso a Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ossia del giornale dei vescovi, non del bollettino dell'ultima parrocchia, che trova un cervellotico nesso tra strage di Berlino e strage di Aleppo e dà la colpa del sangue versato a «cinici giochi di potere»: dunque agli Usa? Alla Nato? All'Unione Europea? All'Occidente tutto? Pur di non dire che la colpa è dell'islam, il quotidiano clericale si esercita nell'arrampicata sugli specchi. Il campione della redazione è l'inviato Giorgio Ferrari che, molto retoricamente, si domanda se i morti del mercato di Natale non siano dovuti alla «stretta impressa sull'immigrazione, giro di vite ad uso dell'elettorato». 
Insomma, la colpa è dei populisti, forse di Salvini. Avvenire è edito dalla Cei, la Conferenza episcopale italiana, e segretario generale della Cei è monsignor Galantino che però per la sua arrampicata giustificazionista sceglie le pagine del Corriere: «La volgarità e l'aggressività del linguaggio alimentano un clima che incattivisce le persone». Chi ha orecchie per intendere intenda: il musulmano killer ha lanciato il camion contro le bancarelle dopo aver letto un tweet di Marine Le Pen o di Magdi Allam. Ma il vescovo continua, chi lo ferma più: oltre che con i maledetti populisti ce l'ha con gli sporchi capitalisti che si arricchiscono grazie alle guerre, con gli speculatori, con i mercanti d'armi. Perfetta illustrazione dell'intervista sarebbe stata una di quelle opere espressioniste tedesche, tipo George Grosz oppure Otto Dix, in cui si vedono ricchi borghesi mandare al fronte poveri soldati per continuare a bere champagne in mezzo a donnine discinte. 
Non c'è niente da fare, l'immaginario del clero pauperista è fermo al primo Novecento. Difficile ragionare con chi incolpa i produttori di armi quando la strage è stata compiuta per mezzo di un camion, dettaglio che ricordo a bassa voce altrimenti Galantino comincia a prendersela coi produttori di veicoli industriali. 
Ancora non risultano dichiarazioni di don Sante Braggiè, il cappellano del cimitero di Cremona che nelle settimane scorse si era rifiutato di allestire il presepe perché irrispettoso verso i non cristiani, ma la sua logica parla per lui: nei mercati natalizi berlinesi di presepi ce ne sono diversi e allora lo stragista va capito, si è sentito sfidato, anzi bisogna ringraziarlo per non aver lanciato il suo tir in San Gregorio Armeno, la via del presepe napoletano, pullulante di botteghe offensive. In un tempo ormai remoto i giudici concedevano attenuanti agli stupratori: la ragazza civettava, passeggiava in minigonna... Adesso gli uomini di Chiesa concedono attenuanti agli stupratori del Natale: gli europei provocano...
  
(Fonte: Camillo Langone, Il Giornale, 21 dicembre 2016)


mercoledì 14 dicembre 2016

25 dicembre, giorno esatto della nascita di Cristo

Nell’imminenza del Natale di Gesù, si moltiplicano, da parte del laicismo e dell’agnosticismo giornalistico, televisivo, salottiero e “stradaiolo”, le discussioni imperniate sulla rappresentazione di questo misterioso evento come di un pasticcio mitico, creato ad arte dalla Chiesa in sostituzione di altri miti precedenti.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo.
Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si tenga conto di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti,  chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti  argomenti  biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone  i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C.  In essa – come attesta  I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi:  24/30 marzo e  24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni  piuttosto autorevoli  e  di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei.  Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale  elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori  e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene  non  credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattato MAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò,  sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono  avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo  fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre.  Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima  difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo  importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus”  nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la  festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale  proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma  soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe  come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù –  come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.

(Tratto da: Luciano Pranzetti, Alcune cose sul Natale, Riscossa Cristiana, 13 dicembre 2016)


giovedì 1 dicembre 2016

L'intollerabile aggressione ai "quattro cardinali". Ecco chi sono i nuovi Inquisitori

Li hanno dipinti come “vecchi rincoglioniti”, quattro cardinali isolati e fuori dal mondo, rimasuglio di una Chiesa ormai superata che vede solo la rigidità della dottrina e non capisce la Misericordia che entra nelle pieghe della vita. Insomma, uno scarto della Chiesa, un’appendice marginale neanche degna di un “sì” o un “no” alle loro domande.
Eppure devono averne una gran paura se da giorni stiamo assistendo a un crescendo di insulti e accuse pesanti, ormai un vero e proprio linciaggio mediatico, contro i quattro cardinali – Raymond Burke, Walter Brandmuller, Carlo Caffarra e Joachim Meisner – rei di aver resi pubblici cinque “Dubia” già presentati a papa Francesco riguardo all'esortazone apostolica Amoris Laetitia. Addirittura siamo arrivati a richieste di dimissioni dal collegio cardinalizio o, in alternativa, suggerimenti al Papa di togliere loro la berretta cardinalizia.
I protagonisti sono i più vari: vescovi che hanno da regolare conti personaliex filosofi che rinnegano il principio di non contraddizionecardinali amici di papa Francesco che malgrado l’età non hanno abbandonato i sogni rivoluzionari, intellettuali e giornalisti che si considerano “guardiani della rivoluzione”, e l’immancabile padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e vera eminenza grigia di questo pontificato, tanto da essere conosciuto a Roma come il vice-Papa. Quest’ultimo poi, come un adolescente qualsiasi, si è reso protagonista di bravate sui social che lasciano esterrefatti: dapprima con un tweet ha apostrofato il cardinale Burke paragonandolo al “verme idiota” del Signore degli anelli (tweet poi cancellato); quindi si è messo a rilanciare tweet offensivi nei confronti dei quattro cardinali partiti dall’account “Habla Francisco” (Parla Francesco), che si è scoperto ieri riportare all’indirizzo e-mail di padre Spadaro alla Civiltà cattolica. E poi l’immancabile Alberto Melloni, punto di riferimento della Scuola di Bologna che lavora per una riforma della Chiesa fondata sullo “spirito” del Concilio Vaticano II.
È un vero e proprio nuovo tribunale dell’Inquisizione che, colpendo i quattro, intende intimidire chiunque abbia l’intenzione di esprimere anche semplici domande, figurarsi chi volesse esternare delle perplessità.
È un atteggiamento inquietante, una difesa del Papa quanto meno sospetta da parte di chi ha apertamente contestato i predecessori di papa Francesco. E solo per aver posto delle semplici domande di chiarimento a proposito dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia che, come chiunque può constatare, ha dato origine a interpretazioni opposte e sicuramente non conciliabili. Al proposito bisogna ricordare che i “Dubia” sono uno strumento molto utilizzato nel rapporto tra vescovi e Congregazione per la Dottrina della Fede (e attraverso questa con il Papa). La novità in questo caso è semplicemente nell’aver resi pubblici questi Dubia, ma dopo ben due mesi di vana attesa di una risposta, che i quattro cardinali hanno legittimamente interpretato come un invito a proseguire la discussione.
Eppure per Melloni si tratta di «un atto sottilmente eversivo, parte di un gioco potenzialmente devastante, con ignoti mandanti, condotto sul filo di una storia medievale». Atto eversivo, spiegherà Melloni in un’altra intervista, perché fare domande significa mettere il Papa sotto accusa, un metodo da inquisizione. Cose da non credere: chiedere chiarimenti è diventata un’attività eversiva, da Inquisizione. E gli «ignoti mandanti» poi: accuse vaghe, scenari fantasiosi ma che devono dare l’impressione di una cospirazione da fronteggiare con decisione. E infatti ecco il passaggio successivo: «Chi porta attacchi come questo (…) è qualcuno che punta a dividere la Chiesa», dice. E quindi ecco le conseguenze auspicate: «…nel diritto canonico è un crimine, punibile».
Addirittura criminali, dunque, perché vogliono dividere la Chiesa. Poco importa se la realtà è esattamente opposta: la spinta a rivolgere delle domande al Papa nasce proprio dalla constatazione della divisione nella Chiesa che si è palesata con le opposte interpretazioni di Amoris Laetitia.
C’è proprio puzza di maoismo nella Chiesa, rumore di Guardie Rosse e di avanguardie rivoluzionarie; ci mancano solo i campi di rieducazione. Anzi no, pare che già ci siano anche quelli, almeno stando al solito Melloni. Infatti, ci spiega il perché papa Francesco non abbia usato nei confronti di monsignor Lucio Vallejo Balda – nelle carceri vaticane per lo scandalo Vatileaks – quella clemenza che ha invece invocato per i carcerati nei vari paesi del mondo: «A fine Giubileo si capisce il perché: papa Francesco non vedeva in quel processo una procedura penale, ma un gesto pedagogico verso gli avversari» che ora «rischiano molto». Insomma, colpirne uno per educarne cento. 
Si tratta di una lettura davvero inquietante, a maggior ragione se si pensa che quanti oggi si scatenano a difesa del Papa per delle semplici domande di chiarimento che dovrebbero essere normali, fino a ieri contestavano apertamente i predecessori di papa Francesco. Anzi, vedono oggi in papa Francesco la possibilità di cancellare quanto sulla famiglia hanno insegnato Paolo VI e Giovanni Paolo II. L’enciclica Humanae Vitae(Paolo VI) e l’esortazione apostolica Familiaris Consortio (Giovanni Paolo II) sono state nel mirino di vari episcopati europei (Austria, Germania, Svizzera, Belgio) anche nel recente doppio Sinodo sulla famiglia.
E chi di costoro si è scandalizzato quando il cardinale Carlo Maria Martini ha scritto chiaro e tondo (Conversazioni notturne a Gerusalemme) che l’Humanae Vitae ha prodotto «un grave danno» col divieto della contraccezione cosicché «molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone»? E ha auspicato un nuovo documento pontificio che la superi, soprattutto dopo che Giovanni Paolo II seguì «la via di una rigorosa applicazione» della Humanae Vitae? Certamente nessuno, perché ciò che conta non è l’oggettività del Magistero (il cui riferimento è la Rivelazione di Dio), ma il progetto ideologico di queste avanguardie sedicenti interpreti della volontà popolare.
E allora c’è un’intima coerenza nel fatto che i papisti di oggi siano i ribelli di ieri. Sì, ribelli. Perché da Paolo VI in poi, questi vescovi e intellettuali, questi maestri di obbedienza al Papa, hanno dichiarato guerra al Magistero in quanto non recepiva lo spirito del Vaticano II; hanno firmato manifesti, documenti e appelli in cui contestavano apertamente il Papa regnante, fosse Paolo VI, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI. Ricordiamo almeno il pesante documento del noto moralista tedesco Bernard Haring nel 1988 contro Giovanni Paolo II che tanto sostegno ricevette in tutta Europa, subito seguito dalla Dichiarazione di Colonia, nel 1989, dello stesso tenore, firmata da numerosi e influenti teologi tedeschi, austriaci, olandesi e svizzeri. E in Italia subito accolta con favore, tra gli altri, da quel Giovanni Gennari  che oggi fa il quotidiano custode dell’ortodossia dalle colonne di Avvenire.
Ma nello stesso anno in Italia arriva anche il Documento dei 63 teologi, una Lettera ai cristianipubblicata sulle colonne de Il Regno, in cui si contesta apertamente il magistero di Giovanni Paolo II. E nell’elenco dei firmatari ci troviamo nomi noti che hanno imperversato in seminari e atenei pontifici negli ultimi decenni, realizzando un vero e proprio magistero parallelo di cui oggi vediamo gli amari frutti. Facevano le vittime, ma tutti hanno fatto brillanti carriere, qualcuno è anche diventato vescovo come quel monsignor Franco Giulio Brambilla, attualmente vescovo di Novara e in corsa per succedere al cardinale Angelo Scola a Milano. Ma guarda caso, tra le firme troviamo l’immancabile Alberto Melloni, con i suoi colleghi della Scuola di Bologna (Giuseppe Alberigo in testa), il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, Dario Antiseri, Attilio Agnoletto. 
Sono gli stessi che hanno continuato ad attaccare pubblicamente Benedetto XVI, anche con palesi prese in giro, riguardo alla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II che Melloni, Bianchi e co. hanno sempre visto come svolta radicale e irreversibile «nella comprensione della fede ecclesiale», contro l’ermeneutica della riforma nella continuità spiegata da papa Ratzinger. E come non ricordare le vesti stracciate per la scomunica tolta ai lefevriani mentre ora neanche un sospiro si è levato di fronte alle aperture unilaterali di papa Francesco.
Sono questi i personaggi che oggi pretendono di giudicare cardinali, vescovi e laici preoccupati della grave confusione che si è creata nella Chiesa. Una banda di ipocriti e sepolcri imbiancati, che perseguono da decenni una loro agenda ecclesiale, che usano il Papa per affermare un loro progetto di Chiesa, e che oggi si permettono l’arroganza di chi pensa di essere al comando di una vincente e gioiosa macchina da guerra. Sono questi i veri fondamentalisti, sostenuti da una stampa compiacente che non vede l’ora di cancellare definitivamente ogni traccia di identità cattolica. Che però, purtroppo per loro, non soccomberà. 

(Fonte: Riccardo Cascioli, La Nuova Bussola Quotidiana, 1 dicembre 2016)


mercoledì 23 novembre 2016

Le contraddizioni di un giubileo che si chiude

Tra le chiavi di interpretazione del pontificato di papa Francesco c’è sicuramente il suo amore per la contraddizione. Questa disposizione di animo risulta evidente dalla lettera apostolica ‘Misericordia et misera‘, firmata a conclusione del Giubileo straordinario della misericordia. In questa lettera papa Bergoglio, stabilisce che quanti frequentano le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità san Pio X possano ricevere validamente e lecitamente l’assoluzione sacramentale. Il Papa sana dunque quello che, costituiva il principale fattore di “irregolarità” della Fraternità fondata da mons. Lefebvre: la validità delle confessioni. Sarebbe contraddittorio immaginare che una volta riconosciute valide e lecite le confessioni non siano considerate altrettanto lecite le Messe celebrate dai sacerdoti della Fraternità, che sono in ogni caso certamente valide. A questo punto non si capisce che necessità c’è di un accordo tra Roma e la Fraternità fondata da mons. Lefebvre, visto che la posizione di questi sacerdoti è di fatto regolarizzata e che i problemi dottrinali ancora sul tappeto, al Papa, come è noto, interessano scarsamente.
Nella stessa lettera, affinché «nessun ostacolo si interponga tra la richiesta di riconciliazione e il perdono di Dio», papa Bergoglio concede, d’ora innanzi «a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto». In realtà, i sacerdoti avevano già la facoltà di perdonare il peccato di aborto in confessione. Però, secondo la prassi plurisecolare della Chiesa, l’aborto rientra tra i peccati gravi puniti automaticamente con la scomunica. «Chi procura l’aborto, ottenendo l’effetto incorre nella scomunica latae sententiae» recita il Codice di Diritto Canonico del 1983 al canone 1398. I sacerdoti, dunque, avevano bisogno del permesso del proprio vescovo per togliere la scomunica prima di poter assolvere dal peccato di aborto. Adesso ogni sacerdote può assolvere anche dalla scomunica, senza bisogno di ricorrere al suo vescovo o d’esserne delegato. La scomunica di fatto cade e l’aborto perde la gravità che il diritto canonico gli attribuiva.
In un’intervista rilasciata il 20 novembre a Tv2000, papa Francesco ha affermato che «l’aborto rimane un grave peccato», un «crimine orrendo»,  perché «pone fine a una vita innocente». Può il Papa ignorare che la sua decisione di sganciare dalla scomunica latae sententiae il reato di aborto relativizza questo «crimine orrendo» e permette ai mass-media di presentarlo come un peccato che la Chiesa considera meno grave del passato e che facilmente perdona?
Il Papa afferma nella sua Lettera che «non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre», ma, come è evidente dalle sue stesse parole, la misericordia è tale perché presuppone l’esistenza del peccato, e dunque della giustizia. Perché parlare sempre e solo del Dio buono e misericordioso, e mai del Dio giusto, che premia e punisce secondo i meriti e le colpe dell’uomo? I Santi, come è stato osservato, non hanno mai cessato di esaltare la misericordia di Dio, inesauribile nel dare; e, insieme, di temere la sua giustizia, rigorosa nell’esigere. Sarebbe contraddittorio un Dio capace soltanto di amare e premiare il bene e incapace di odiare e punire il male.
A meno di non ritenere che la legge divina esiste, ma è astratta e impraticabile e l’unica cosa che conta è la vita concreta dell’uomo, che non può non peccare. Ciò che importa non è l’osservanza della legge, ma la fiducia cieca nel perdono e nella misericordia divina. Pecca fortiter, crede fortius. Ma questa è la dottrina di Lutero, non della Chiesa cattolica. 

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 22 novembre 2016)


giovedì 10 novembre 2016

Il caso Padre Cavalcoli e Radio Maria? Un'operazione della lobby gay

Diciamo la verità: della condizione e del sentimento delle popolazioni vittime del terremoto in Italia centrale non importa a nessuno. Almeno a nessuno di quelli che si sono gettati nell’arena per massacrare padre Cavalcoli e, a ruota, Radio Maria. Più i giorni passano, infatti, e più appare evidente che siamo davanti a una vera e propria operazione di cecchinaggio che ha in un certo mondo Lgbt la regia, a cui volentieri una parte di ecclesiastici sta facendo da sponda. 
Come abbiamo già scritto tutto nasce dal resoconto scandalizzato de L’Espresso in merito a un intervento di padre Giovanni Cavalcoli in una trasmissione di Radio Maria, in cui avrebbe affermato che il terremoto dell’Italia centrale «è colpa delle unioni civili». In realtà il caso nasce un po’ prima, perché padre Cavalcoli – che stava facendo una catechesi sul Battesimo - risponde alla domanda di un ascoltatore, tale Costantino di Cesena, che - lunga e articolata - sembra proprio voler mettere in bocca a padre Cavalcoli la risposta di cui sopra. 
Torniamo ad ogni modo all’articolo dell’Espresso che, come detto, attribuisce a padre Cavalcoli un’affermazione che invece non ha fatto. Anzi, in relazione alla domanda, il teologo domenicano si mostra molto prudente. Ma non importa perché il giornalista dell’Espresso ha già una tesi bella che pronta, e non sarà certo la prudenza di padre Cavalcoli a frenarlo. Guarda caso, l’autore dell’articolo è un giovane giornalista, Simone Alliva, militante Lgbt. Non solo, a sentire un suo intervento a un convegno Lgbt, si direbbe che tiene costantemente sotto controllo alcuni conduttori di Radio Maria che parlano di omosessualità e dintorni. Ovviamente l’articolo viene ripreso immediatamente da Repubblica (stesso gruppo editoriale), ma anche da altri giornali. Eppure avrebbe fatto la fine di altri articoli al veleno contro Radio Maria – dopo due giorni non l’avrebbe ricordato nessuno - se non fosse per l’intervento inusuale e a dir poco sproporzionato del numero 2 della segreteria di Stato, monsignor Angelo Becciu. 
Proprio il soggetto che interviene fa capire che l’intervento è più politico che dottrinale (la segreteria di Stato corrisponde al ministero degli Esteri), e il motivo è duplice: anzitutto il problema non è la sensibilità per le vittime del terremoto ma il riferimento alle unioni civili e perciò all’omosessualità. Non a caso a ruota di monsignor Becciu sono arrivati con i loro sgradevoli commenti il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, e alcuni vescovi particolarmente sensibili al tema omosessualità.
Se padre Cavalcoli avesse detto che la causa del terremoto a Norcia è stata la ribellione di Madre Natura per il mancato rispetto da parte dell’Italia degli accordi per ridurre le emissioni di anidride carbonica, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. Di più, dal Vaticano sarebbero arrivati ampi consensi per il richiamo alla “conversione ecologica”, consensi come al tempo in cui lo stesso Cavalcoli si dichiarò favorevole alla comunione per i divorziati risposati (dall’altare alla polvere in pochi mesi). Del resto anche il direttore di Radio Maria, padre Livio Fanzaga, per tutto il tempo della discussione sulla legge Cirinnà non è stato affatto tenero con quanti l’hanno apertamente sostenuta o comunque favorita. E per questo deve pagare, anche nel senso letterale del termine.
Passa infatti un solo giorno, ed ecco che Repubblica lancia, già pronto, un altro siluro: Radio Maria prende dei soldi dallo Stato – 2milioni e 90mila euro nel triennio 2011-2013 – a mero titolo di sostegno, denuncia. «Quegli anatemi di Radio Maria pagati con i soldi pubblici», titola sobriamente Repubblica. I terremotati non c’entrano niente: ma come, si chiedono a Repubblica, accusano lo Stato «di avere scatenato il castigo di Dio» (il problema è sempre la legge sulle unioni civili) e poi dallo stesso Stato pretendono denaro senza neanche vergognarsi?
E davanti a questo sdegno espresso da un giornale come Repubblica il governo non può certo rimanere insensibile. E infatti passano solo poche ore e il Ministero dello Sviluppo economico invia al giornale romano un comunicato in cui annuncia che a partire dall’esercizio 2016 il contributo a Radio Maria è sospeso. Più veloci della luce, a dimostrazione che il problema della lentezza in Italia non è nella Costituzione. «È un'ottima notizia, esattamente quella che speravamo di apprendere», chiosa Repubblica, soddisfatta per l'ordine eseguito.
Giustizia è fatta allora? Non ancora, perché nel frattempo il povero padre Cavalcoli – sospeso da Radio Maria e costretto al silenzio dal provinciale dei domenicani – si becca anche una querela per diffamazione da parte di alcuni rappresentanti del movimento gay: «La legge contro l’omo-transfobia che giace in Senato dal 2013  – dice un comunicato dell’Associazione nazionale contro le discriminazioni da orientamento sessuale (Anddos) - è purtroppo vecchia e superata nella sua impostazione, poichè giustifica l’omofobia delle organizzazioni religiose di carattere integralista: l’episodio di Padre Cavalcoli dimostra, infatti, la necessità di aprire una nuova fase culturale di sensibilizzazione sulle discriminazioni omo-transfobiche, un processo che dovrà culminare in una proposta di legge che equipari finalmente l’omo-transfobia al razzismo».
Qualcuno in Vaticano si è accorto del trappolone e ha pensato di fare retromarcia, quantomeno di frenare questa caccia alle “streghe” Cavalcoli e Radio Maria? Al contrario, ieri ci ha pensato Alberto Melloni a regolare definitivamente i conti in nome del nuovo corso della Chiesa, sempre dalle colonne di Repubblica che oltre che giornale-partito è ormai diventato anche un giornale-chiesa.
Melloni, intellettuale molto ben inserito nelle gerarchie che contano e anche nel governo (a proposito: il suo istituto bolognese prende tanti soldi pubblici da far impallidire Radio Maria) ieri ci è andato giù pesante nel regolamento di conti contro quel «sottosuolo cattolico opaco e apprensivo, fatto di sentimenti reazionari». È un mondo definito «pulviscolo integrista», che agita vecchi fantasmi anti-modernità usando i nuovi media e distribuisce paura e odio a piene mani. Radio Maria, dice Melloni, «inculca in dosi quotidiane sospetti e inimicizie, con il suo leader, padre Livio Fanzaga che ogni giorno spiega leggendo i giornali dove sono i pericoli, chi sono gli avversari e soprattutto "smaschera" i traditori».
Ma non è solo questa radio, c’è un mondo più ampio – dice sempre Melloni – di «siti e antenne, blog e social» che «somministrano paure su misura: le paure su quel che si insegna a scuola per i movimenti pro-vita, quelle dei preti tradizionalisti che danno alla xenofobia leghista profumo d' incenso, quelle del radicalismo familista che manifestano verso l'amore omosessuale il risentimento degli irrisolti».
Appare chiaro che per Melloni – e i suoi sodali in Vaticano - la soluzione sia spazzare via questa galassia senza pietà, perché rischia di ritardare la pacificazione con il mondo che la Santa Sede sta perseguendo. Vale a dire: la partita non è ancora finita, la triangolazione Repubblica-Governo-Vaticano (almeno alcuni settori) andrà avanti e il messaggio inviato attraverso Melloni è chiaro: non si fanno prigionieri.

(Fonte: Riccardo Cascioli, La Nuova bussola quotidiana, 9 novembre 2016).


venerdì 4 novembre 2016

La salvezza ci interessa, eccome!

Grazie a Dio non sono teologa, per cui non ci provo neanche a pesare col bilancino le parole che sono state dette dalle due parti in Svezia. Siccome sono cattolica, mi fido del Papa, e finché non cambia il Catechismo dormo come un bimbo svezzato in braccio a mia madre, la Chiesa. Una. Santa. Cattolica. Apostolica. Se cambia il Catechismo, avvisatemi (citofonate ore pasti).
Ma dire che non mi preoccupo, anzi mi fido delle scelte pastorali del Papa, non significa dire che non mi interessa ogni singolo iota del patrimonio che mi è stato tramandato. Non mi riconosco pertanto nell’incredibile articolo uscito sul Corriere della Sera a firma di Lucetta Scaraffia:
“oggi molti dei profondi dissensi che hanno causato la scissione della Chiesa non hanno più ragion d’essere: il problema della salvezza non assilla più nessuno”.
Io non so quali cattolici frequenti Lucetta, ma quelli che conosco io della salvezza si preoccupano eccome.
Sono quelli che vanno a messa, che affollano i santuari, che pregano (non perché siano bigotti ma perché c’è scritto nel Vangelo di pregare senza interruzione, e non l’ha detto mia nonna, ma Gesù), che digiunano, che scommettono seriamente la vita su Gesù, perché hanno trovato la felicità con lui solo. Che non vivono obbedendo a se stessi ma cercano di vivere la vita del battesimo, quindi la croce, scandalo per gli uomini, perché hanno scoperto che quella vita è meglio di quella del mondo. Sono quelli che hanno passato le porte sante perché sanno che il Giubileo non è una convention ma la possibilità della salvezza eterna per noi e per i morti a cui teniamo, contrariamente a quanto scritto:
“Così come le indulgenze sono scomparse dal nostro orizzonte, e pure l’aldilà sembra da decenni dileguato”.
Non so come la risolvano gli intellettuali, ma alle persone che frequento io, tante, la morte rappresenta ancora un problema, IL problema, per l’esattezza. Come possiamo non fare i conti con questo? Nonostante la nostra cultura rimuova il tema dall’immaginario (la morte non si dice, i morti non si fanno vedere ai bambini) o al contrario lo spettacolarizzi (altro modo di esorcizzarlo), il fatto che dobbiamo morire, e che non sappiamo né come, né quando, e che dopo c’è un’altra vita, ci riguarda tutti. Io per me, mio marito, i nostri figli e quelli a cui voglio bene, spero solo che ci salviamo, e che ci ritroveremo in cielo tutti. Non voglio figli di successo, né geni, né ricchi (il pericolo pare abbastanza remoto, peraltro), ma salvi, cioè vivi in eterno. Personalmente un Dio che mi ha predestinata a una sorte che ha deciso lui non mi sembra somigliare tanto a un Padre che mi ama alla follia, ma non voglio entrare nel merito.
Forse l’articolo intendeva solo dire che pochi sono consapevoli delle verità della fede, mi sono detta. E questo è vero, è sotto gli occhi di tutti, anche dei miei. Per esempio, quando ho lanciato dal mio blog l’idea di prendere ciascuno l’indulgenza plenaria per ognuna delle vittime del terremoto di Amatrice ho passato le successive 24 ore a rimuovere migliaia di insulti e bestemmie dal mio profilo. Forse la cattolica Lucetta vorrà anche lei lanciare l’allarme, sarà come me preoccupata. E invece no. Perché prosegue:
“Perché allora litigare ancora su tutto questo? E come litigare ancora sul libero accesso ai testi sacri, se oggi anche i cattolici sono abituati a leggere la Bibbia nelle edizioni che preferiscono, in gruppi di lettura e di commento animati dalla più grande vivacità?”
Io tengo alla Tradizione, che i luterani non riconoscono, cioè al deposito della fede tramandato in duemila anni di martiri, apostoli, padri della Chiesa, teologi e santi, e il Concilio ci ha invitato a riprenderci la Bibbia, sì, ma tenendo con una mano il capo di questa lunga cordata di intelligenze e geni che non si è mai interrotta nei secoli.
“Certo, rimangono questioni teologiche aperte, come i sacramenti — ridotti di numero dai luterani — ma queste sono per lo più questioni che non toccano molto i fedeli”.
I sacramenti trasfigurano completamente la realtà, e qui si gioca tutta la nostra fede, che non è un’ideologia, ma l’intervento attivo e personale di Dio sulla nostra vita, una presenza che cambia tutto. La confessione mi ridà l’intimità con Dio, e vorrei che lo facesse di più, perché “a chi non rimetterete i peccati resteranno non rimessi”, e io ne avrei sul groppone troppi. Sul matrimonio come sacramento ho scommesso tutta la mia vita. Con la cresima sono diventata adulta (a 19 anni). L’estrema unzione spero tanto di poterla avere, per questo mi auguro di non morire all’improvviso. Meglio soffrire ma potermi preparare all’incontro.
Quanto al sacerdozio, l’altro sacramento non riconosciuto dai protestanti, è ciò che permette il più grande prodigio della terra: il pane per noi è sostanza di Dio. O quel pane è davvero Dio o siamo tutti pazzi. Miliardi di pazzi hanno popolato il pianeta negli ultimi duemila anni? Di fronte a questa domanda, mi sembrano quisquilie i temi che secondo il Corriere ci dividono dai luterani:
 il divorzio, il controllo delle nascite, l’omosessualità, cioè sulle questioni bioetiche nelle quali le chiese protestanti, nel Novecento, hanno preso una posizione quasi sempre opposta a quella cattolica”.
Sinceramente, chi se ne importa di queste cose se non le misuriamo sulla vita eterna? Non me ne importa niente di essere una brava persona, mi importa di non rompere la relazione con il più bello tra i figli dell’uomo. Se non è per quello, della bioetica si occupino pure i filosofi.

(Fonte: Costanza Miriano, Il blog, 4 novembre 2016



lunedì 31 ottobre 2016

«Lutero? Un figlio di Machiavelli»

Una chiave per comprendere gli effetti della Riforma luterana è l'analisi che ne fa il filosofo e teologo domenicano Tommaso Campanella (1568-1639), che nei suoi studi si impegna a comprendere a fondo cosa sia successo con Martin Lutero e la Riforma.
Occorre tener presente che Tommaso Campanella, conosciuto e stimato nel mondo protestante tedesco, ha vissuto da spettatore inerme lo scoppio della terribile guerra dei Trent'anni, e quindi non può non meditare su cosa il luteranesimo abbia significato anche politicamente, lui che aveva sperato in una renovatio mundi religiosa e politica. La sua Epistola antilutherana, così come il Dialogo politico ed altri scritti, si collocano dunque in questo contesto: l'Europa incendiata da Lutero si è divisa, ma non sono arrivati i tempi decisivi, né quelli dell'Anticristo, né quelli di un "nuova era" segnata dal trionfo del Bene.
Ebbene, qual è, in estrema sintesi, la visione che Campanella ci dà di Lutero? Egli non ha dubbi: Lutero è un figlio di Machiavelli. E' l'uomo che, machiavellicamente, ha saputo fomentare e cavalcare il machiavellismo dei prìncipi tedeschi. Infatti su chi ha fatto leva il monaco agostiniano? Sui prìncipi tedeschi, desiderosi da una parte di emanciparsi dall'Imperatore, dall'altra di prendere nelle proprie mani, oltre al potere temporale, il potere spirituale, e, oltre ai beni dello Stato, anche monasteri, terre, ospedali, scuole e beni della Chiesa.
I prìncipi tedeschi, secondo Campanella, «hanno preso al volo l'occasione di separarsi da Roma per costituire una chiesa autonoma e dare così sfogo alle loro mire temporali». Loro, così come Lutero, hanno utilizzato strumentalmente un fatto vero, la crisi morale di molti uomini di Chiesa, non nell'intento di riformare i buoni costumi, di restaurare la Chiesa, ma di sostituirsi ad essa. Per Campanella dunque i prìncipi hanno utilizzato Lutero, per poter giustificare la loro brama di potere e l'incameramento dei beni ecclesiastici, mentre Lutero ha usato i prìncipi per vincere una battaglia altrimenti impossibile.
Ciò significa, in ultima analisi, che la Riforma non è stata affatto una vera riforma, perché non ha raddrizzato le storture morali, ma ha alterato la dottrina e la fede, e perché, in ultima analisi, ha avuto successo solo perché politicamente strumentalizzabile ad opera del potere secolare. Frutto e figlio di un'epoca di crisi, lungi dal rimediare ad essa, come i veri riformatori del passato (san Francesco, san Domenico...), Lutero ha peggiorato ed aggravato la crisi stessa, precipitando la Cristianità nella divisione e nella confusione. 
Il giudizio definitivo è presente nel Dialogo politico, in cui Lutero diventa un "falso profeta": "superbissimo" ed ambizioso, ha mentito, negando che san Pietro fosse mai stato a Roma, e profetizzando fatti che non si sarebbero mai realizzati (la rovina del papato e l'avvento dell'Anticristo); non ha dalla propria parte né miracoli, né testimoni credibili (la riforma si è risolta in varie chiese riformate divise al loro interno e piene di litigi); è stato incoerente sui dogmi formulando dottrine diverse nel tempo e riducendo la fede ad un fatto individuale che genera la rottura di ogni possibile unità; ha trasformato Dio in un tiranno e spogliato l'uomo della sua dignità, negandogli il libero arbitrio.
Inoltre, se Cristo ha "vinto" morendo sulla croce, generando dietro di sé testimoni credibili come gli apostoli, Lutero ha fatto l'esatto contrario: come Maometto, ha piantato la fede con la forza; come Machiavelli ha cercato l'appoggio dei prìncipi per sopperire alla sua mancanza di credibilità (si veda in particolare Gaetano Curra, Il falso profeta. Lutero negli scritti di Tommaso Campanella, Cosenza, 1989)
Oggi, diversi secoli dopo Campanella, non è difficile scorgere la veridicità di fondo della sua riflessione. Per Lutero, scrive Eugenio Ballabio, in Lutero e Nietzsche (Roma, 2005, p. 30), «il destinatario del nuovo verbo era in primo luogo la nobiltà germanica», a cui indirizzò numerose lettere personali e generiche, e il suo celebre appello Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca.
In un classico manuale di storia del pensiero politicoLe orgini del pensiero politico moderno (Il Mulino, Bologna, vol. II, p. 26), Quentin Skinner, dopo aver elencato tutti i prìncipi, i langravi, i principi-vescovi che sostennero Lutero, spesso dietro sua esplicita richiesta, mette a fuoco un concetto chiave: «Le premesse teologiche di Lutero non solo lo impegnarono ad attaccare i poteri giurisdizionali della Chiesa, ma anche a colmare il vuoto di potere che si era così creato, apprestando un'analoga difesa delle autorità secolari. Per prima cosa Lutero sanzionò un'estensione senza precedenti del raggio d'azione dei loro poteri». Conferendo ai principi il potere che aveva tolto al Papa.

(Fonte: Francesco Agnoli, La nuova bussola quotidiana, 16-10-2016)



sabato 22 ottobre 2016

Se la Chiesa marcia con i Radicali

«La CEI guarda con attenzione a questa iniziativa e come Segreteria generale dà una convinta adesione». Le parole con cui il sottosegretario e portavoce della CEI, don Ivan Maffeis, ha comunicato l’adesione della Chiesa italiana Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà promossa dal Partito Radicale il 6 novembre a Roma, non chiedono di essere interpretate né contestualizzate, perché sono chiarissime. E con estrema chiarezza attestano come la stessa CEI che ieri ha ritenuto di non appoggiare eventi come la Marcia per la Vita o il Family Day, abbia fatto una tragica scelta di campo e oggi giaccia, scodinzolante, alla corte dei nipotini di Marco Pannella cui peraltro questa Marcia è dedicata. Certo, poi si potrà sempre dire come l’adesione – pardon, la «convinta adesione» – ad un evento non implichi per forza la condivisione dell’intero progetto politico di chi la promuove. Si potrà pure arrampicarsi sugli specchi affermando che Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà, in realtà, oltre che a Pannella è intitolata pure a Papa Francesco.
Il punto però, mi si passi l’espressione poco aulica, è che non siamo tutti scemi. E sappiamo bene che la Segreteria generale della CEI è nelle mani di un monsignore secondo cui Sodoma non è stata mai distrutta, che ha “contestato” le unioni civili con decisione impercettibile (ci sono «altre priorità», diceva…) e la cui ascesa a quella posizione è coincisa con uno scadimento palese del quotidiano Avvenire, ieri più battagliero che mai e oggi appiattito sul politicamente corretto, ridotto ad una surreale equidistanza tra il comunque discutibile Trump e l’abortista e guerrafondaia scatenata Clinton, a parlare male della Brexit nonché a dare ad eventi come il citato Family Day minor spazio, in prima pagina, di quello riservato da testate laiciste come Repubblica. Dunque la triste notizia dell’adesione della Marcia dei Radicali stupisce fino ad un certo punto, inserendosi in un percorso purtroppo già segnato e rispetto al quale risulta impossibile non porsi degli interrogativi: dove stiamo andando? E dove andremo a finire? Il prossimo passo? Una trasmissione della Bonino sulla tv dei vescovi italiani? Una rubrica di Cappato su Avvenire? Che cosa?
Sono dubbi che avanzo senza ironia, anzi con dispiacere. Perché so – come lo sanno in tantissimi – che la Chiesa italiana è anche, anzi soprattutto, composta da bravissimi sacerdoti, da pastori che hanno davvero, per dirla con Papa Francesco, l’«odore delle pecore» e non quello di Confindustria, sul cui giornale il Segretario generale delle CEI è casualmente editorialista. So pure che molti che leggono ancora Avvenire – inclusi alcuni che tutt’ora vi scrivono e collaborano – sono ottime persone nonché, in alcuni casi, cari amici. Tuttavia di fronte ad una Chiesa i cui vertici sbandano tanto clamorosamente, di fronte ad un disorientamento che si traduce in scandalo quasi quotidiano, credo sia impossibile tacere. Di più: credo sia doveroso alzarsi in piedi e scandire la propria indignazione. Scriveva l’indimenticabile Giovannino Guareschi (1908-1968) che «quando i generali tradiscono, abbiamo sempre più bisogno della fedeltà dei soldati». Beh, credo che vi sia mai stato bisogno, come oggi, di questa fedeltà. Non per coerenza fine a se stessa né per l’orgoglio di credersi migliori, ma per quel che, come cattolici, siamo chiamati a testimoniare. Senza l’obbligo di piacere a nessuno, figurarsi ai Radicali.

(Fonte: Giuliano Guzzo, campariedemaistre.com, 21 ottobre 2016)


mercoledì 12 ottobre 2016

Altro che buon esempio per il mondo. La Chiesa tedesca è un buco nero

Soldi, burocrazia, mondanità, scomuniche per chi non paga. Il tagliente atto d'accusa di Joseph Ratzinger contro il cattolicesimo di Germania. Lo stesso che gode dei favori di papa Francesco.

"In Germania alcune persone cercano da sempre di distruggermi", ha detto il papa emerito Benedetto XVI nel libro-intervista uscito nei giorni scorsi.
E ha citato l'esempio della "menzogna" montata contro di lui da alcuni suoi connazionali quando cambiò la vecchia preghiera del Venerdì Santo contro i "perfidi Iudaei".
Ma nello stesso libro Joseph Ratzinger ha rivolto alla Chiesa tedesca un'accusa di portata ben più generale: quella di essere troppo "mondana" e quindi di aver lasciato cadere anche il forte monito a una "demondanizzazione" da lui lanciatole durante il suo ultimo viaggio in Germania da papa, nel memorabile discorso a Friburgo del 25 settembre 2011:

Di quel discorso "rivoluzionario" – definizione sua – del pontificato di Benedetto XVI sono riprodotti più sotto i passaggi chiave.
Ma prima c'è un altro punto del libro-intervista che merita attenzione. È quello in cui Ratzinger si pronuncia contro il sistema della tassa ecclesiastica in Germania e sui suoi effetti nefasti:
"Effettivamente ho grossi dubbi sulla correttezza del sistema così com'è. Non intendo dire che non ci debba essere una tassa ecclesiastica, ma la scomunica automatica di coloro che non la pagano, secondo me, non è sostenibile. […] In Germania abbiamo un cattolicesimo strutturato e ben pagato, in cui spesso i cattolici sono dipendenti della Chiesa e hanno nei suoi confronti una mentalità sindacale. Per loro la Chiesa è solo il datore di lavoro da criticare. Non muovono da una dinamica di fede. Credo che questo rappresenti il grande pericolo della Chiesa in Germania: ci sono talmente tanti collaboratori sotto contratto che l'istituzione si sta trasformando in una burocrazia mondana. […] Mi rattrista questa situazione, questa eccedenza di denaro che poi però è di nuovo troppo poco, e l'amarezza che genera, il sarcasmo delle cerchie di intellettuali".
Fa impressione il contrasto tra questa dura critica e il favore di cui la stessa Chiesa tedesca gode oggi da parte del papa che è succeduto a Benedetto, come se sia essa l'avanguardia dell'auspicato rinnovamento della cristianità mondiale nel segno della povertà e della misericordia, quando invece è sotto gli occhi di tutti che in Germania la Chiesa non è per lo più né povera né misericordiosa, ma semmai soffocata dal suo stesso apparato e soprattutto inginocchiata al mondo su tante questioni cruciali della morale e del dogma.
 Per meglio capire le critiche di Ratzinger, va tenuto presente che in Germania la Kirchensteuer, l'imposta ecclesiastica, è obbligatoria per legge per tutti coloro che sono registrati come appartenenti alla Chiesa cattolica o alle Chiese protestanti.
Alla Chiesa cattolica tedesca questa tassa frutta oltre 5 miliardi di euro all'anno. Una somma imponente, più di cinque volte, ad esempio, il gettito raccolto dalla Chiesa italiana con un sistema di contribuzione statale – l'"otto per mille" – non obbligatorio ma volontario, e con una platea di cattolici doppia di quella tedesca.
Ma siccome in Germania chi non vuole pagare questa tassa deve cancellare la propria iscrizione alla Chiesa con un atto pubblico davanti a una competente autorità civile, e siccome queste cancellazioni sono venute crescendo negli ultimi anni, con l'effetto di diminuire l'incasso, la Chiesa cattolica tedesca ha messo in atto una contromisura per scoraggiare tali abbandoni.
L'ha fatto nel 2012 con un decreto che commina ai fuorusciti una serie micidiale di sanzioni canoniche, come se siano scomunicati e appestati, senza più sacramenti né sepoltura:

Per cominciare, chi cancella la propria iscrizione alla Chiesa "non può ricevere i sacramenti della penitenza, de!l'eucaristia, della confermazione e dell'unzione degli infermi, tranne in pericolo di morte".
E se poi, dopo un tentativo di riconciliazione fatto dal parroco del luogo, il ritorno all'ovile del reprobo fallisce, può capitargli anche di peggio:
"Quando nel comportamento del fedele che ha dichiarato la propria uscita dalla Chiesa si ravvisa un atto scismatico, eretico o di apostasia, I'ordinario avrà cura di prendere le misure corrispondenti".
Altro che misericordia. In Germania i divorziati risposati fanno ovunque tranquillamente la comunione, i matrimoni omosessuali sono sempre più spesso benedetti in chiesa, ma guai se uno toglie la firma per non pagare la Kirchensteuer.
In un intervista sulla "Schwäbische Zeitung" del 17 luglio l'arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della casa pontifica e segretario particolare di Ratzinger, ha denunciato anche lui questa clamorosa contraddizione:
"Come reagisce la Chiesa cattolica in Germania con chi non paga la tassa per la Chiesa? Con l’automatica esclusione dalla comunità ecclesiale, il che significa: scomunica. Ciò è eccessivo, incomprensibile. Si possono mettere in dubbio i dogmi e nessuno viene cacciato fuori. Forse che il non pagamento della Kirchensteuer è un’infrazione più grave che non le trasgressioni contro le verità di fede? L’impressione è che, finché c’è in gioco la fede, non sia così tragico, quando però entra in gioco il denaro, allora non si scherza più".
Per non dire dei condizionamenti che la Chiesa tedesca può far pesare su tante diocesi povere del sud del mondo, da essa finanziate con i suoi proventi, oltre che sulla stessa Santa Sede, di cui è un benefattore di prima grandezza.
Ma ora lasciamo la parola a Ratzinger e al suo "rivoluzionario" discorso di Friburgo del  25 settembre 2011, tanto inascoltato quanto ancora straordinariamente attuale, non solo per la Chiesa di Germania.

Per una Chiesa "distaccata dal mondo". Documento di Benedetto XVI
Da decenni assistiamo [in Germania] a una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio? […]
Sì, c’è motivo per un cambiamento. Esiste un bisogno di cambiamento. Ogni cristiano e la comunità dei credenti nel suo insieme sono chiamati ad una continua conversione. […] Ma per quanto riguarda il motivo fondamentale del cambiamento, esso è la missione apostolica dei discepoli e della Chiesa stessa.
Infatti, la Chiesa deve sempre di nuovo verificare la sua fedeltà a questa missione. […] “Proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,1 5).
A causa delle pretese e dei condizionamenti del mondo, però, questa testimonianza viene ripetutamente offuscata, vengono alienate le relazioni e viene relativizzato il messaggio. […] Per compiere la sua missione, [la Chiesa] dovrà anche continuamente prendere le distanze dal suo ambiente, dovrà, per così dire, essere distaccata dal mondo.
La missione della Chiesa, infatti, deriva dal mistero del Dio uno e trino, dal mistero del suo amore creatore. […] Nell’incarnazione e nel sacrificio del Figlio di Dio, esso ha raggiunto l’umanità, […] non soltanto per confermare il mondo nel suo essere terreno, […] ma per trasformarlo. Dell’evento cristologico fa parte il dato incomprensibile che – come dicono i Padri della Chiesa – esiste un "sacrum commercium", uno scambio tra Dio e gli uomini. I Padri lo spiegano così: noi non abbiamo nulla che potremmo dare a Dio, possiamo solo mettergli davanti il nostro peccato. Ed egli lo accoglie, lo assume come proprio, e in cambio ci dà se stesso e la sua gloria. […]
La Chiesa deve se stessa totalmente a questo scambio disuguale. Non possiede niente da sé stessa di fronte a Colui che l’ha fondata. […] Il suo senso consiste nell’essere strumento della redenzione, nel lasciarsi pervadere dalla parola di Dio e nell’introdurre il mondo nell’unione d’amore con Dio. […] E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’Incarnazione.
Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo. Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo.
Per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio. […] In un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore.
Le secolarizzazioni infatti – fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili – significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. […]
Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all’adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro.
La Chiesa si apre al mondo non per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cfr Confessioni III, 6, 11). […]
Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine. […]
Vi è una ragione in più per ritenere che sia nuovamente l’ora di trovare il vero distacco del mondo, di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa. Questo, naturalmente, non vuol dire ritirarsi dal mondo, anzi, il contrario. Una Chiesa alleggerita degli elementi mondani è capace di comunicare agli uomini – ai sofferenti come a coloro che li aiutano – proprio anche nell’ambito sociale-caritativo, la particolare forza vitale della fede cristiana. […] Solo il profondo rapporto con Dio rende possibile una piena attenzione all’uomo, così come senza l’attenzione al prossimo s’impoverisce il rapporto con Dio.
Essere aperti alle vicende del mondo significa quindi per la Chiesa distaccata dal mondo testimoniare, secondo il Vangelo, con parole ed opere qui ed oggi la signoria dell’amore di Dio.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 11 ottobre 2016)