giovedì 26 marzo 2009

Quei piccoli Vaticani in lotta col Vaticano

La difesa del Papa mossa l'altro ieri dal cardinale Angelo Bagnasco è piaciuta parecchio ai fedelissimi di Benedetto XVI. Anche se, dice al Riformista un porporato vicino al Pontefice, Ratzinger è ben capace di tenere diritto il timone della Chiesa. E ne è capace nonostante le critiche esterne e, soprattutto, interne. Lo dimostrerà di qui a luglio, pubblicando l'enciclica sociale che pare abbia la data del 19 marzo. festa di San Giuseppe. e smuovendo un po' gli organismi di governo della sua curia. Cambieranno gli oltre 75enni cardinali Renato Raffaele Martino, Javier Lozano Barragan, Walter Kasper, l'ottantenne presidente dell'Ufficio del lavoro Francesco Marchisano, l' 84enne Andrea Cordero Lanza di Montezemolo e il 77enne James Francis Stafford. Anche i quasi 75enni Franc Rodé e Claudio Hummes lasceranno, mentre rimarrà al proprio posto il segretario di Stato Tarciso Bertone. Quanto al capo dei vescovi, il 75enne Giovanni Battista Re, pare continui il suo lavoro per tutto il 2009. Padre Federico Lombardi, capace direttore della sala stampa, ma ingolfato dai troppi incarichi, dopo il viaggio in Terra Santa dovrebbe lasciare. Mentre per le seconde file della segreteria di Stato si attende un non facile discernimento da parte dello stesso Pontefice. Anche qui. però, vi sono date o svolte di carriera che dovranno trovare soluzione. Ratzinger, dunque, sa come gestire i dissidi, quelli esterni e quelli interni alla Chiesa. Perché di questo si tratta: oltre agli attacchi sul caso Williamson, e quelli delle cancellerie di mezza Europa a seguito delle parole dedicate ai «preservativi» (ancora ieri Parigi ha confermato tutte le critiche esposte una settimana fa), ci sono le intemperanze interne, quelle dei vescovi dei vari Paesi europei, particolarmente violente non soltanto sulla questione lefebvriana ma anche su alcune nomine mal digerite da quei presuli che, nei, vari Paesi del mondo, hanno particolare potere all'interno delle proprie conferenze episcopali.
Molti di questi vescovi accusano Ratzinger di non sapersi spiegare. Ma dimenticano chi è Joseph Ratzinger: un Papa colto, anzi coltissimo, e pio. In pochi sanno capire la contemporaneità come lui. Il suo dire è razionale, tipico della logica e della metafisica. Offre sempre delle risposte razionali ai problemi e, per questo, non può che prescindere dalle reazioni emotive che nel mondo queste suscitano. Il mondo, spesso impregnato di irrazionalità soprattutto quando si definisce "razionalista", fatica a comprenderlo perché ha una reazione emotiva, e spesso, all'emotività non sa andare oltre, casi come si ferma su casi particolari e non va all'universale. Anche nella Chiesa c'è chi non comprende questo tratto dell'attuale Pontefice. Accanto a tanti vescovi a lui fedeli ve ne sono alcuni in una posizione avversa, e questi, seppure in minoranza, sovente hanno l'amplificatore dei potentati che perseguono i propri disegni. Non si tratta di vere e proprie faide. Quanto di una malattia che dal Vaticano II in poi ha assunto la sostanza della cronicità, un’infezione non proveniente dal Concilio ma dal "paraconcilio"; una malattia di lunga data. Dai lavori conciliari in poi si è diffusa un 'anti-romanità difficilmente arginabile. Il bersaglio, dunque, non è anzitutto Ratzinger. Ma Roma e la sua primazialità. Il nemico è una concezione del governo della Chiesa che in Roma, al posto di una guida sicura, ha visto semplicemente un coordinamento di fondo in grado soltanto di garantire una generalizzata unità. È stata una scorretta esegesi del Concilio a volere che crescessero senza misura le dimensioni delle diverse conferenze episcopali: quelle stesse conferenze che Ratzinger, in un'intervista del 1985, aveva negato avessero una base teologica. Ufficio dopo ufficio, struttura dopo struttura, nel mondo si sono creati dei piccoli Vaticani regionali che si sono sempre più allontanati dalla costituzione gerarchica della Chiesa, ovvero da quella concezione del governo che prevede che ogni vescovo abbia una responsabilità personale sui propri fedeli in un quadro di «comunione organica». Le conferenze hanno valorizzato se stesse, il proprio potere interno e non, appunto, quella «comunione organica» tanto cara ai testi del Concilio. Le conferenze, molto spesso, in nome di una fantomatica democraticità di governo peraltro mai verificata, hanno finito per opporsi a Roma andando a valorizzare quelle personalità che, al proprio interno, più avevano carisma sui media e nell'opinione pubblica. Quei vescovi che hanno avuto più presa sui giornali, sulle tv, che hanno voluto impostare il proprio incarico più sulle pubbliche conferenze in giro per il mondo che sulla cura della anime presenti nella propria diocesi, quei vescovi "itineranti" più che residenziali, hanno preso sempre più autorità all'interno dell'episcopato del proprio Paese divenendo, senza mai dirlo esplicitamente, una sorta di contropotere forte al Papa e al governo stesso di Roma. Si tratta di enormi sovrastrutture che, talvolta, opprimono i singoli successori degli apostoli che, invece, proprio nel Papa, trovano la garanzia della loro libertà. Un contro-potere difficile da gestire, come i recenti casi delle intemperanze verificatesi contro il Papa da parte delle conferenze episcopali tedesche e austriache hanno ben dimostrato. Il cardinale Karl Lehmann ha pubblicamente attaccato Benedetto XVI per la revoca della scomunica ai lefebvriani mentre la nomina di Gerhard Wagner quale vescovo ausiliare di Linz è stata apertamente respinta con disprezzo da tutta la conferenza episcopale austriaca, e ora si capisce, come testimoniano vari siti web, che coloro che hanno rimescolato le carte per ottenere la revoca della nomina erano dei sacerdoti che vivono attualmente in stato di concubinato. Tutto è emerso anche dalle pagine dei quotidiani austriaci: ma se si intervistassero oggi i responsabili dei singoli vertici delle conferenze episcopali, questi direbbero d'essere in perfetta comunione con il Papa. I fautori dell'ermeneutica della rottura del Vaticano II sono un'onda ancora oggi ben organizzata. Ratzinger lo sa e per questo il primo discorso d'importanza capitale del suo pontificato, quello del 22 dicembre 2005, fu diretto a loro: l'ermeneutica della rottura è sbagliata, spiegò Benedetto XVI. Ma è una battaglia atavica: già Giovanni XXIII, suo malgrado, venne descritto dai fautori dell'ermeneutica della rottura come il Pontefice della fine della Chiesa monarchica. Ci provarono anche con Paolo VI. salvo poi ricredersi a motivo dell'uscita dell'''Humanae Vitae", l’enciclica che per i suoi contenuti per nulla accondiscendenti verso le istanze della mondanità, segnò l'inizio della seconda fase del pontificato montiniano, quella della sofferenza per le ingiurie e le calunnie subite. Anche Wojtyla, forse più di Ratzingcr, venne contestato apertamente per le posizioni prese su sesso, amore, aborto, matrimonio. Dalla "Redemptor Hominis" in poi, divenne il Pontefice di una visione troppo polacca delta Chiesa, troppo poco "cattolica". Ma le contestazioni non lo hanno mai piegato. Né piegheranno Ratzinger il quale, senz'altro, non si farà vincere dall’emotività. E alle personalità francesi che su Le Monde hanno pubblicato una lettera aperta chiedendogli di tornare sulle sue dichiarazioni a proposito dei preservativi e dell' Aids, non risponderà certo con una ritrattazione.

(Fonte: Il Riformista, 25 marzo 2009)

Siamo orgogliosi di appartenere alla “Chiesa del no”

“La Chiesa del no”. È il titolo di un recente volumetto del vaticanista della Repubblica Marco Politi, scritto con evidenti intenzioni critiche e anti-ecclesiali. L’autore se la prende ovviamente con Papa Benedetto XVI perché, a suo giudizio, continua imperterrito a dire i suoi “no” categorici.
Facciamo notare subito come quasi mai, purtroppo, la qualifica di “vaticanista” coincida con un conoscitore autentico delle cose di Chiesa. Un motivo in più, questo, per non continuare a confondere semplicemente, anzi semplicisticamente, il Vaticano, ossia lo Stato della Città del Vaticano, con la Chiesa, realtà infinitamente superiore quanto l’universale disegno di Dio, che ha posto nelle mani della Chiesa e dei suoi legittimi Pastori, la chiave della verità e della grazia.
Forse il nostro “vaticanista” di turno non sa, o non vuole sapere, che la Chiesa cattolica si è sempre distinta proprio per i suoi “no” che hanno segnato la storia. Il primo “no” è uscito dalla bocca stessa degli Apostoli, i quali all’ingiunzione categorica del sinedrio di Gerusalemme di non predicare più Gesù e il suo Vangelo, opposero immediatamente un secco: “Noi non possiamo tacere …” (At 4,20). Non bastarono i flagelli e la prigione a far recedere gli Apostoli da questo “no”.
Un altro celeberrimo “no” è quello che oppose il vescovo di Milano, Sant’Ambrogio, nientemeno che all’Imperatore Teodosio. A costui, che si era macchiato di un terribile delitto di strage e pretendeva, come al solito, di assistere ai Sacri Riti, Ambrogio oppose il suo irremovibile “no”, obbligandolo a lasciare il tempio, impedendogli la partecipazione al rito che il vescovo presiedeva.
Un altro “no” la storia lo recensisce sulle labbra del Papa Clemente VII, il quale, richiesto ripetutamente dal re d’Inghilterra Enrico VIII di emettere a suo favore una sentenza di divorzio, oppose il “no” da cui scaturì quello scisma d’Inghilterra che perdura tutt’ora.
Potremmo aggiungere il celebre “non possumus” del beato Pio IX, il quale rifiutò di riconoscere, come legittima, l’invasione dello Stato Pontificio e la dichiarazione di Roma capitale d’Italia, dando così origine a quella “questione romana” che solo nel 1929 Papa Pio XI coraggiosamente dichiarò conclusa.
Sì - è una gioia riconoscerlo -, la Chiesa cattolica è sempre stata la Chiesa del “no” e non potrebbe non esserlo ora che sul soglio di Pietro siede un meraviglioso e prudentissimo Pastore, il quale, in fatto di dottrina e di morale, è illuminato come pochi.
Sì, la Chiesa di Gesù dice di no a quell’orrida pedagogia di morte, che soltanto poche settimane fa ha celebrato i suoi trionfi con Eluana, per difendere ad oltranza, rimanendo spesso da sola, il diritto alla vita di ogni essere umano, dal suo inizio al suo naturale compimento.
La Chiesa dice di no a quella indegna ecatombe di embrioni umani congelati e fatti servire - orrore! - alla cosiddetta “ricerca scientifica”. La Chiesa dice di no a tutto ciò che in qualsiasi maniera leda la dignità di ogni essere umano, per quanto piccolo ed umile esso sia. La Chiesa di Gesù dice di no all’oppressione dei deboli da parte dei potenti e dei forti. La Chiesa di Gesù dice di no alla indegna violazione dell’innocenza dei piccoli, per i quali è spalancato il regno dei cieli. La Chiesa dice di no ad ogni ingiusta discriminazione, in nome della razza, del colore della pelle, del censo, della religione, della nazionalità.
La Chiesa dice di no a quella planetaria ingiustizia che mentre vede i pochi gavazzare nell’abbondanza e nello spreco, lascia morire di fame e di epidemie milioni di esseri umani. La Chiesa dice di no allo sfascio della famiglia eterosessuale, monogamica e indissolubile. La Chiesa dice di no ad ogni forma di corruzione e di lesione della giustizia fondata sulla legge divina.
La Chiesa, in definitiva, dice di no, sempre e comunque, a tutto ciò che è male, riconosciuto come tale secondo la divina legge e la coscienza bene informata, contro ogni relativismo di comodo.
Questa e non altra è la Chiesa che Gesù ha voluto e fondato. Questa è la Chiesa sapientemente guidata, oggi, da Benedetto XVI. Questa è la Chiesa a cui gioiosamente e orgogliosamente apparteniamo.

(Fonte: Petrus, 10 marzo 2009)

Il preservativo che non preserva, anzi che uccide

Siamo alle solite. Appena il Papa apre bocca, si scatena il putiferio. Anche quando dice cose ovvie e semplicissime, come il fatto che il preservativo non serve ad evitare il diffondersi dell’aids.
Naturalmente, c’è chi si è affrettato a dire che il Papa stava solo esponendo, come è logico, la dottrina morale cattolica. Ma Egli parlava soprattutto in difesa della vita di milioni di bambini e adulti.
Per dirla con le parole nude e crude della scienza, uno studio neanche troppo recente (1990) della “John Hopkins University”, («Population Reports», vol. XVIII, n. 3, serie H, n. 8), il contatto diretto con sperma infetto è la causa principale della trasmissione per via sessuale del virus dell’Aids. In una eiaculazione vengono emessi circa 3,5 millilitri di sperma, e il liquido seminale di un uomo sieropositivo contiene più o meno 100.000 particelle di virus per microlitro (0,001 millilitri). Una caratteristica dei virus è proprio la loro dimensione incredibilmente ridotta. Al microscopio elettronico si è potuto costatare che il virus Hiv è una pallina del diametro di appena 100 nm (nanometri), cioè 0,1 micron (1 micron = 0,001 mm e 1 nanometro è un miliardesimo di metro). Ciò significa che il diametro della parte più grossa dello spermatozoo, la testa, che è di 3 micron, è trenta volte più grande del virus dell’Hiv. E’ come dire che, se lo spermatozoo ce la fa a oltrepassare la parete del preservativo, il transito è trenta volte più comodo per il virus.
I vari test eseguiti dall’industria della gomma (test di permeabilità sotto pressione, test elettrico, ecc.) dimostrano chiaramente che “Sulla superficie del preservativo la struttura originale appare al microscopio come un insieme di crateri e pori. I crateri hanno un diametro di circa 15 micron e sono profondi 30 micron. Più importante per la trasmissione dei virus è la scoperta di canali del diametro medio di 5 micron, che trapassano la parete da parte a parte. Ciò significa un collegamento diretto tra l’interno e l’esterno del preservativo attraverso un condotto grande 50 volte il virus” (C.M. Roland, The Barrier Performance of Latex Rubber, in «Rubber World», giugno 1993, p. 15). Ed è noto che il preservativo non è una barriera assoluta contro il concepimento, nonostante che per il concepimento siano necessari milioni di spermatozoi, mentre per l’infezione bastano pochi virus!
L’illusione che fa aumentare il rischio e che uccide!
“Soprattutto per i giovani, che non pare si preoccupino tanto di che cosa ci sia di vero in questa millantata sicurezza, un simile consiglio può essere piuttosto uno stimolo a «provarci» ogni tanto, proprio perché istigati da questa propaganda del preservativo. Ma uno già positivo Hiv, pur non volendo nuocere ad altri, può essere invogliato a rapporti nell’illusione della barriera. Un’infezione da Hiv è tuttora una malattia mortale, ma a chi mette in giro questa pubblicità col finanziamento, in questo caso, dai vari ministeri della sanità non pare che importi molto di avere cadaveri sulla coscienza…di sicurezza, il preservativo, ne offre tanta quanta il tamburo di un revolver nella roulette russa” (Joannes P.M. Lelkens, Aids: il preservativo non preserva, 1994). Cosa c’è quindi dietro a tutto questo? Enormi interessi economici e l’ideologia antivita.

(Fonte: Comitato Verità e Vita, 23 Marzo 2009)

giovedì 19 marzo 2009

Preservativi: l’aggressione a Benedetto XVI. Il disgustoso paradosso franco-tedesco

L’aggressione a Benedetto XVI è sempre più incalzante, grossolana, astiosa, ben orchestrata mediaticamente e male argomentata razionalmente. Ieri è stata la volta di Francia, Germania e Fondo monetario internazionale. Con un linguaggio tronfio e censorio, portavoce di Parigi, di Berlino e del Fmi di Washington hanno messo sotto accusa il capo della chiesa cattolica per le sue opinioni ben documentato sull’inutilità sostanziale del preservativo come asse strategico della lotta contro la grave epidemia di Aids in Africa. Parliamo di burocrazie, naturalmente, non di popoli. Burocrazie e diplomazie che si mettono al servizio di piccole ma insidiose crociate ultrasecolariste contro un Papa che ha avuto la sfacciataggine, come il suo predecessore, di impugnare la ragione per affermare nello spazio pubblico europeo e mondiale il contenuto e il significato della fede cristiana, una fede che assume alcuni principi liberali del tempo moderno senza sottomettersi alla sua deriva nullista. E contro un Papa che ha avuto la sapienza di impugnare la ragione occidentale ovvero il deposito laico del migliore illuminismo cristiano nel momento in cui un postmodernismo banale delegittima la nozione di verità ed esorcizza la realtà anteponendole una falsa coscienza del soggetto, un’ideologia settaria e al fondo estremamente intollerante.
Stavolta è in nome della difesa della vita che muovono all’attacco i portavoce istituzionali di una cultura i cui pilastri etici globali sono gli spermicidi, l’aborto moralmente indifferente, la pianificazione familiare coatta del sesso dei nascituri, la selezione eugenetica della vita e la sua riproduzione artificiale come mezzo a scopo di ricerca, fino all’eutanasia. Si lamentano perché Benedetto XVI ha riaffermato, nel corso del viaggio in Africa, la sua convinzione: non è con i profilattici che si combatte la pandemia dell’Aids. Questa convinzione, che alla luce del senso comune regge ogni possibile prova e verifica, dal momento che il preservativo è solo il viatico della promiscuità sessuale di massa alla quale risale la responsabilità del contagio, è notoriamente condivisa in Africa dalla grande maggioranza degli operatori sanitari e sociali, non solo nella vasta rete missionaria cattolica o cristiana di altre denominazioni, ma anche tra i laici.
Tutti sanno quel che molti non si azzardano a ripetere in pubblico per timore di essere sanzionati e ostracizzati come eretici del pensiero unico dominante: tutti sanno, come ripreso in un lancio della Bbc appena due giorni fa, che il tasso di infezione di Washington DC., la capitale americana che ospita quei lumaconi del Fondo monetario che avrebbero ben altro di cui occuparsi, è pari a quello dell’Uganda (il 3 per cento della popolazione sopra i dodici anni), dimostrazione palese che la differenza la fanno i comportamenti a rischio e non la disponibilità dei profilattici (disponibilità universale nella città di Washington). Tutti sanno o dovrebbero sapere che tra i neri maschi il tasso di infezione è tre volte quello dei maschi bianchi e due volte quello degli ispanici, e che il vettore di contagio ancora di gran lunga più potente è il sesso promiscuo tra maschi.
La cultura politicamente corretta ha fatto dell’Aids un’epopea angelica, ha creato la malattia da adorare idolatricamente e da esorcizzare nella mistica della solidarietà, e tutto per nascondere il fatto che la “sindrome da immunodeficienza acquisita” è soltanto la conseguenza di comportamenti sociali nuovi e libertari, in cui una sessualità spregiudicata e avalutativa soppianta i vecchi condizionamenti “oscurantisti” della continenza e dell’amore-eros come basamento dell’agape familiare. Chiunque la pensi diversamente viene non già messo in discussione ma irriso e censurato come retrogrado, e figuriamoci il capo di una chiesa che alla difesa della vita umana dedica il massimo delle sue energie; figuriamoci un Papa che, scandalo e follia per il pansessualismo del neopaganesimo contemporaneo, crede nell’educazione, nella sobrietà dei costumi, in una sessualità umana orientata alla costruzione di significati vitali e non alla distruzione dell’amore nella caricatura del piacere.
Con grandissima boria, con infinita presunzione, con un linguaggio moralmente ricattatorio, le burocrazie che stanno al vertice delle potenze civili della vecchia Europa e le nomenclature globaliste mettono sotto accusa il Papa, dall’alto della oscena pratica di un miliardo di aborti in trent’anni, per “attentato alla vita in Africa”. Un disgustoso paradosso.

(Fonte: Il Foglio, editoriale di Giuliano Ferrara, 19 marzo 2009)

Aids e preservativo: il rischio della falsa sicurezza

Gianluigi Gigli, già Presidente della Federazione Mondiale dei Medici Cattolici mette in guardia dal considerare il preservativo la via più sicura per ridurre il contagio.
“Affermare ideologicamente che il Papa sta in qualche modo favorendo l’epidemia perché invita alla sessualità responsabile, è veramente dire un assurdo, anzi, è fare della mistificazione anche dal punto di vista scientifico”. E’ quanto ha dichiarato oggi a Radio Vaticana Gianluigi Gigli, già presidente della Federazione mondiale dei medici cattolici, parlando della sessualità responsabile sulla quale il Papa si è soffermato più volte. “E’ documentato ormai in tutto il mondo come, a seconda di dove si mette l’accento nella prevenzione dell’Aids, i risultati possono essere anche fortemente diversi” ha detto Gigli citando due esempi “storici”. “L’Uganda, dove la lotta all’Aids è stata basata appunto sul comportamento, sugli stili di vita, ha ottenuto traguardi significativi in termini di riduzione dell’epidemia. La Thailandia, dove ci si è basati solo sul profilattico, non ha ottenuto nulla: la situazione è addirittura, appunto, peggiorata”. Tutto ciò, per Gigli, dovrebbe far riflettere “perché a parte ogni giudizio di ordine etico - se ci si limita solo al profilattico, la sensazione di ‘falsa’ sicurezza che esso dà - perché comunque c’è ancora un rischio di malattia che si mantiene, benché abbassato – questo rischio viene tuttavia a moltiplicarsi a causa del moltiplicarsi dei rapporti che la falsa sicurezza stessa genera. Quindi, rapporti occasionali, rapporti promiscui”. Gigli termina con un ricordo personale legato ad una sua discussione con il Premio Nobel Luc Montagnier, colui che aveva trovato il virus Hiv dell’Aids: “mi ricordo che Montagnier mi disse, con estrema chiarezza: noi riusciremo forse un giorno – e mi auguro presto – a trovare un vaccino in grado di controllare l’Aids. Ma se noi non riusciamo a modificare i nostri stili di vita, il che vuol dire – appunto – che l’uomo è fatto per la donna e per una sola – il rischio è che dietro l’angolo troveremo qualche altro ancor più temibile aggressore".
Anche Padre Lombardi, il giorno dopo, ha risposto all'eco suscitato dalle parole del Papa con una nota: “il Santo Padre ha ribadito le posizioni della Chiesa cattolica e le linee essenziali del suo impegno nel combattere il terribile flagello dell’Aids: primo, con l’educazione alla responsabilità delle persone nell’uso della sessualità e con il riaffermare il ruolo essenziale del matrimonio e della famiglia; due: con la ricerca e l’applicazione delle cure efficaci dell’Aids e nel metterle a disposizione del più ampio numero di malati attraverso molte iniziative ed istituzioni sanitarie; tre: con l’assistenza umana e spirituale dei malati di Aids come di tutti i sofferenti, che da sempre sono nel cuore della Chiesa”. “Queste – conclude il portavoce vaticano - sono le direzioni in cui la Chiesa concentra il suo impegno non ritenendo che puntare essenzialmente sulla più ampia diffusione di preservativi sia in realtà la via migliore, più lungimirante ed efficace per contrastare il flagello dell’Aids e tutelare la vita umana”.Secondo l'agenzia Asca che cita fonti non identificate all'interno del Vaticano, "si tratta si', fanno notare da dentro i Sacri Palazzi, di una questione di ''parole'', ma che rischia di oscurare tutto il significato della visita di Benedetto XVI in Africa. ''Lo scopo di quella frase, e di tutto il viaggio, - precisano da oltre le Mura Vaticane - non era certo quello di dire un 'no' al preservativo, ma di far comprendere come un problema dai risvolti umani e sociali cosi' devastanti come l'Aids non possa essere risolto solo con questo strumento''.

(Fonte: Marco Tosatti, La Stampa, 19 marzo, 2009)

Dietro l'attacco sui preservativi c'è solo il tentativo di screditare il Papa

Il governo tedesco non molla. Dopo le severe critiche al Papa sul caso Williamson, l’esecutivo di grande coalizione torna ad attaccare il Vaticano. Questa volta in una forma più sobria, ma ad un tempo molto più diretta e pungente. In un comunicato congiunto, senza direttamente citare il Pontefice, il Ministro della Salute Ulla Schmidt (Spd) e il Ministro per lo sviluppo e la cooperazione sociale Heidemarie Wieczorek-Zeul (Spd) sostengono che “ai più poveri deve essere dato accesso ai mezzi di pianificazione familiare. L’impiego dei condom rientra nel novero di questo concetto. Tutto il resto sarebbe irresponsabile”. Affermazione fatta propria anche dalla leader dei Verdi Claudia Roth e dal presidente dei liberali Guido Westerwelle.
Ma la ridda di dichiarazioni scatenata dalla frase proferita da Benedetto XVI nel suo viaggio in Camerun non si è fermata qui. Il responsabile sanità del partito socialdemocratico Wolfgang Wodarg ha accusato il Papa di “cinismo e di disprezzo per l’uomo”.Ancora meno diplomatica la sua collega austriaca dell’Spö Bayr: “Il Papa annienta la vita”.A guardar bene, pare quasi che in questa compatta alzata di scudi dei governanti di mezza Europa sia sotteso un disegno preciso. Un disegno volto a screditare il Papa, alterando volontariamente il contenuto delle sue parole e delle sue azioni.Così è avvenuto già ai tempi di Ratisbona e poi più recentemente sull’onda delle dichiarazioni antisemite del vescovo Williamson. E ciò non si è verificato solo ai piani alti dei palazzi del potere, ma anche all’interno della Chiesa cattolica. Lo stesso monsignor Hans-Jochen Jaschke, vescovo ausiliare di Amburgo, ha voluto mettere i puntini sulle "i", esplicitando oggi la sua visione del problema: “Dobbiamo liberarci dal tabu del preservativo- ha detto- la Chiesa non sta nell’angolo buio di quelli contrari al profilattico”. E ha aggiunto di apprezzare il metodo ABC (astinenza, fedeltà, condom) consigliato oggi in Uganda tanto dallo Stato quanto dalla Chiesa. D’altra parte questo non era affatto il messaggio del Papa, il quale si era limitato ad invitare a non considerare il preservativo come l’unica via alla risoluzione del problema. Come ha ricordato lo stesso padre Gemmingen di Radio-Vaticana: "I missionari in Africa sanno già come bisogna muoversi. Il Papa non ha affatto bandito il preservativo, ma l'ha circoscritto a situazioni di emergenza". In realtà, anche all’interno della Conferenza episcopale tedesca il malumore nei confronti di Benedetto XVI è alto. Tutti i porporati più in vista, dall’ex presidente dei vescovi Karl Lehmann a quello attuale Robert Zollitsch (molto tenero sul celibato) sono apertamente collocati sul fronte liberal e mal sopportano la guida spirituale di Benedetto XVI (che secondo alcuni media tedeschi starebbe ora meditando un terzo viaggio nella terra natale).Dal punto di vista politico, invece, la questione è più complessa. Mai un governo tedesco si era intromesso così negli affari vaticani in così poco tempo. E ciò può senz’altro essere interpretato in chiave elettorale. Tra pochi mesi in Germania si voterà e i socialdemocratici ci tengono a prendere bene le distanze da una “versione” del cattolicesimo che il loro elettorato difficilmente digerisce. D’altro canto, anche nell’SPD, vi sono alcuni cattolici, come la leader dell’ala massimalista Andrea Nahles, la quale, in una intervista che uscirà nei prossimi giorni sulla stampa italiana, ha chiarito molto candidamente di non aver gradito i modi con cui la signora Merkel ha apostrofato il Papa. Insomma, la campagna elettorale si gioca anche sulle frasi pronunciate in Vaticano. E l’Spd non deve dimostrarsi da meno della signora Merkel.

(Fonte: Giovanni Buggero, © Copyright L'Occidentale, 19 marzo 2009)

Povera Europa: di questo passo dove andremo a finire?

Lussemburgo: L’Eutanasia è legge; è il terzo paese in Europa
Dopo Belgio e Olanda, anche il Lussemburgo, terzo paese in Ue, ha una legge sull'eutanasia. «Non è sanzionato penalmente e non può dar luogo ad un'azione civile per danni, il fatto che un medico risponda ad una richiesta di eutanasia o di assistenza al suicidio», si legge all'articolo due della normativa pubblicata oggi sulla Gazzetta ufficiale del Granducato. La legalizzazione arriva dopo un lungo percorso che ha condotto il piccolo Paese europeo, dove gli abitanti sono nella maggior parte cattolici, anche a modificare la Costituzione. Padre di cinque figli e marito della cattolicissima Maria-Teresa, il cinquantenne Granduca Henri, che regna dal 2000, pur di non controfirmare la legge sull'eutanasia, ha infatti accettato una sostanziale riduzione dei suoi poteri, sanciti dalla Carta costituzionale. La monarchia lussemburghese, alla stregua di quella dei paesi nordici, è stata così ridotta al solo ruolo protocollare. La normativa, presentata da alcuni parlamentari nel 2001, era stata approvata il 18 dicembre scorso, dalla Camera dei deputati in seconda lettura con 31 voti a favore, 26 contro e tre astenuti, dopo cinque ore di dibattito. A niente era valso anche l'appello preoccupato di Benedetto XVI che, tramite il nuovo ambasciatore presso il Vaticano, si era rivolto ai parlamentari lussemburghesi perché non approvassero la legge «malvagia dal punto di vista morale». A dire sì i deputati socialisti, che fanno parte della maggioranza di governo, quelli liberali e verdi, che sono all'opposizione. Tutti i partiti, tuttavia, compreso i cristiano-sociali, a cui appartiene il premier Jean-Claude Juncker avevano lasciato libertà di coscienza. Era stato lo stesso Juncker, pur contrario personalmente alla depenalizzazione dell'eutanasia, a dire di essere pronto a modificare la Costituzione per evitare una crisi istituzionale, rispettando così l'opinione del Granduca ma anche la decisione del Parlamento. La legge lussemburghese detta regole molto stringenti e si basa sul modello già adottato in Belgio, secondo Paese dell'Ue ad aver legalizzato l'eutanasia, a determinate condizioni, dopo l'Olanda che nel 2002 ha fatto da apripista. Tra i paesi europei, anche in Svizzera è ammessa una forma di suicidio assistito.
Danimarca: le coppie omosessuali potranno adottare
Il provvedimento è stato adottato di stretta misura con il voto determinante di alcuni parlamentari conservatori. Il ministro della Giustizia danese, il conservatore Brian Mikkelsen, ha osservato che al momento si tratta solo di una legge “simbolica”, in quanto nessun Paese di quelli che lavorano con le agenzie di adozione danesi non consentono affidamenti alle coppie gay. La Danimarca è stato il primo Paese del mondo ad adottare, nel 1989, il matrimonio civile fra omosessuali.I parlamentari danesi hanno approvato una legge che concede alle coppie omosessuali gli stessi diritti di quelle etero in tema di adozioni.La Danimarca si unisce così alla lista, per ora breve, di Paesi europei, tra cui Spagna, Olanda, Belgio e Svezia, nei quali le coppie dello stesso sesso potranno adottare un bambino. La legge è passata dopo un voto "sul filo del rasoio", con 62 sì, 53 no e 64 assenti.La legge è stata presentata da un parlamentare dichiaratamente gay, che ha trovato il sostegno dell'opposizione socialdemocratica e del partito socialista danese. Mentre l'esecutivo di centro-destra si è opposto al progetto, sette esponenti del partito liberale al governo hanno votato a favore. Finora nel paese scandinavo l'adozione era concessa solo a coppie etero o ai single.

(Fonte: Fattisentire.net, 18 marzo 2009).

Il metodo di Benedetto XVI

Niente di più ottuso del giudizio ritornante [da ultimo con Alberto Melloni sul “Corriere della Sera” del 15 marzo] che addita già nella lezione di Ratisbona un incidente da colpevole imprudenza – in quel caso nei confronti del mondo islamico –, il primo di una serie di incidenti di percorso del pontificato di Benedetto XVI, l’ultimo dei quali sarebbe ravvisabile nella remissione della scomunica ai vescovi della Fraternità di San Pio X.
Un recente articolo del medievista tedesco Kurt Flasch rappresenta un bell’esempio di arrogante superficialità in questa direzione, anche in quanto proviene dall’intelligencija accademica cattolica. Per Flasch le responsabilità di un pontificato intessuto di errori andrebbero, addirittura, equamente divise tra l’autoisolamento di Joseph Ratzinger e i limiti stessi della svolta conciliare, colpevole di non aver intaccato il primato petrino. Una lettura estrinseca, e una assoluta incomprensione.
Già allora era evidente come vi fosse una linea inconfondibile nella importante lezione di Benedetto XVI nell’aula magna dell’università di Ratisbona: la decisione di non evitare la “pars” critica entro un disegno dialogico. La profonda visione strategica di papa Benedetto sembrava operare ad integrazione del magistero di Giovanni Paolo II, usando quel delicato e fermo discernimento sui temi della verità e della ragione che Joseph Ratzinger cardinale aveva esercitato, come prefetto della congregazione per la dottrina della fede, sui disastri teologici maturati entro la Chiesa postconciliare. Un’opera difficile, poiché derive e squilibri nell’intelletto cattolico avevano indotto errori antagonistici, ad esempio nell’ampia e differenziata area delle reazioni “tradizionalistiche”.
Che il discernimento e la sanzione dell’eccesso dovessero essere intesi come leale, fattiva, premessa all’incontro è risultato dagli atti successivi di Benedetto. Poiché la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano è il vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione – realizzazione che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato – gli atti di pace iniziano necessariamente da quelle aree di sofferente ortodossia “tradizionale”, anche se troppo esibita, che si richiamano alla storia preconciliare. Solo un uso politico del Concilio, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, i secoli di vitale, autentica Tradizione cui i tradizionalisti cattolici si richiamano.
Dico subito che, come la sollecitudine per l’integrità della storia liturgica, anche la nuova apertura alla Fraternità di San Pio X è, in Benedetto, ordinata a ricondurre la vita cattolica alla sua essenziale natura di “complexio”. La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazione soggettivistica, che operano non solo nelle sperimentazioni avanzate, ma anche nella pastorale corrente. La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della riconciliazione nel seno della Chiesa diviene parte di un più ampio intervento medicinale per la Chiesa universale.
Già le stesse violente reazioni negative al motu proprio “Summorum pontificum” confermavano senza volerlo l’urgenza dell’azione medicinale di papa Benedetto. Nelle pazienti pagine di chiarimento degli intenti del “Summorum pontificum” si affermava che il rito latino non è un altro rito, che la sua presenza nel popolo cristiano è memoria costruttiva, e la sua celebrazione legittima e opportuna. La ricchezza longitudinale, per dire così, storico-tradizionale della “complexio” è, dunque, il dato primario cui attingere; e così deve intendersi di conseguenza la “moderatio sacrae liturgiae” esercitata dal vescovo-liturgo. E il vescovo non dovrà ignorare che la nuova libertà delle comunità “tradizionali” opera da correttivo, se non da risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, prima ancora e più gravemente, ideologica spesso consumata nel Novecento contro la stessa costituzione “Sacrosanctum Concilium”, con la cancellazione di fatto dello spirito liturgico, quasi lasciando intendere ch’esso fosse o fosse diventato inadeguato sia come “lex orandi” sia come “lex credendi”.
L’azione riformatrice del pontefice si conferma, dunque, rivolta contro una lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” del Concilio che è stata data da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche ed è lentamente penetrata nei laicati parrocchiali. Slittamenti che hanno una preoccupante incidenza sulla fede. Si tratterà sempre, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare “opportune et importune” l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassano soglie estreme di tollerabilità. In effetti lo spazio di tolleranza, implicito nella ricerca e nella condotta dialogica, ha i suoi confini teorici e pratici, richiesti dalla logica stessa del confronto aperto.
Da ciò, ogni volta, arrivano degli “scandala”, previsti e non previsti, ma opportuni nel disegno di Dio. Che si tratti dell’intenso confronto con l’islam, o della dedizione al dialogo con gli ebrei (una riconciliazione nella chiarezza del peculiare compimento della storia sacra in Cristo), o della cura per l’unità della Chiesa nell’unità della tradizione vivente, i contingenti “scandala” e il loro sofferto superamento portano a coscienza, nelle parti in causa, proprio le soglie critiche che il cammino di Pietro, e la sollecitudine di Roma, attraversano.
Questo cammino di Pietro è a vantaggio di tutti. Vana e un po’ indecente, rispetto al movimento profondo del pontificato, è la “sprungbereite Feindseligkeit” che la lettera del 10 marzo denuncia, quel gusto di inimicizia e piacere di aggredire Roma, che attendono solo l’occasione per manifestarsi senza responsabilità e, davvero, senza intelligenza.
Il percorso di reintegrazione dei vescovi della Fraternità di San Pio X nella comunione ecclesiale costituisce, alla luce di quanto detto, un ulteriore profondo e coraggioso atto sovrano, complementare al “Summorum pontificum”.
La speranza che mi sembra di cogliere dalla decisione di Benedetto XVI è quella di essere, di persona e costantemente, la prova della essenziale presenza della Tradizione tra noi, presenza che valga da medicina al contemporaneo disorientamento, pastorale e dottrinale, delle comunità cristiane; disorientamento non infecondo, ma non per questo meno bisognoso di una amorosa, ferma guida. E non vi è dubbio che procedere in questa direzione sia importante e urgente. Di più urgente, dirà la lettera, di prioritario, per il successore di Pietro vi è il “confirma fratres tuos” (Luca 22, 32), che ha un contenuto sovrano: “aprire agli uomini l’accesso a Dio, non a un qualsiasi dio, ma quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto fino alla fine in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Basti pensare che la non-accettazione del magistero del Concilio, o la più contingente disapprovazione degli atti ecumenici di Benedetto XVI, da parte dei membri della Fraternità, sono almeno simmetriche per gravità alle recezioni discontinuistiche del Concilio, quando esse si pongono come eversive della tradizione dei Concili antichi: ad esempio il serpeggiante anticalcedonismo delle scuole teologiche, o l’antagonismo alla cristologia dei Concili nel biblicismo cattolico riduzionista.
Colpiscono, non positivamente, i modi della reazione di alcuni episcopati alla revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità. Viene da chiedere: di fronte a quali loro indiscutibili ricchezze certi episcopati pensano che si possa “lasciare andare alla deriva” il patrimonio di fervore, carismi e probabilmente santità, “quell’amore per Cristo e volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente”, racchiuso (magari a rischio di restarvi congelato) negli uomini e nelle donne della Fraternità di San Pio X? Si deve dire con franchezza che alcune gerarchie nazionali meglio farebbero ad analizzare le proprie drammatiche incapacità di affrontare il presente: la loro tolleranza, o impotenza, verso teologie devianti e programmatici abusi disciplinari e liturgici, come verso la permeabilità di cleri e laicati qualificati a ideologie e politiche secolarizzanti.
È forse la difficoltà, la dolorosità, di questa analisi per molte élite cattoliche mondiali che le spinge, con un meccanismo tipico dell’intelligencija di ogni epoca, a isolare un gruppo come la Fraternità “al quale – scrive il papa – non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter scagliarsi tranquillamente (ruhig) con odio”. Un capro espiatorio tabuizzato, che non può essere avvicinato, neppure dal papa, senza divenire immondi agli occhi di quella stessa intelligencija.
La domanda provocatoria, elevata dai critici contro Joseph Ratzinger: “Ci dica il papa se dobbiamo ancora seguire il Concilio o ritornare alla Chiesa del passato”, è una conferma di questa “vittimizzazione” (nel senso di René Girard) del preconcilio e dei suoi difensori. Ma che i segni preferenziali per la selezione della vittima espiatoria siano il catechismo di Pio X o la messa tridentina, indica quanta falsa scienza sottende la violenza e il disprezzo di cui sono stati fatti oggetto i membri della Fraternità. Girard sostiene, infatti, che il meccanismo del capro espiatorio funziona come “una falsa scienza, una grande scoperta, una rivelazione”.
Nella recente vicenda il disprezzo vittimizzatore ha trovato un pretesto da manuale nella “deformità odiosa” oggettivamente riscontrabile su alcuni, il “negazionismo”. Su questo solo una glossa: sarà istruttivo vedere come reagiranno da ora in poi i protagonisti del “crucifige” contro il vescovo Williamson di fronte al negazionismo strisciante, e neppur tanto nascosto, dell’intelligencija mondiale anti-israeliana.
Leggo un passo decisivo della lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 10 marzo scorso: “Non si può congelare (einfrieren) l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità [di San Pio X]. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori (Verteidiger) del Concilio, deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale (Lehrgeschichte) della Chiesa. Chi vuole essere obbediente (gehorsam sein) al Concilio deve accettare la fede professata nel corso dei secoli (den Glauben der Jahrhunderte, la fede dei secoli) e non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.
Priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro è dunque “condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia”, non un dio qualsiasi. Si è subito provveduto, in Italia, [con Enzo Bianchi su “La Stampa” di domenica 15 marzo,] a dare benevolmente dei contenuti innocui e riduttivi alla sollecitudine petrina per questa fede “professata nei secoli”. Essa dovrebbe promuovere, si è scritto, non “inimicizia verso l’umanità di oggi, ma il desiderio di impegnarsi giorno dopo giorno per migliorare la convivenza civile, combattere l’idolatria sempre rinascente, frenare il decadimento nella barbarie, favorire la pace e la giustizia”. Quando invece si sa che la diagnosi ratzingeriana della contemporanea “Orientierungslosigkeit”, mancanza di orientamento, esprime proprio amicizia, non inimicizia per l’uomo.
Certo, non si vede a che serva “l’intera storia dottrinale” della Chiesa se, a coronamento di tutto, si risolvono l’assiduità con la Parola di Dio e la differenza cristiana in istanze di ordinaria moralità pubblica, buone a tutti gli usi, anche a contingente polemica politica. Basterebbe a costoro il residuo cristiano della religione civile di Rousseau, magari equivocata con il messaggio traente e rivoluzionario del Concilio.

(Fonte: Pietro De Marco, Settimo cielo, 17 marzo 2009)

«Sono medico e curo i gay: la metà di loro vuole cambiare»

Sfidare i pregiudizi sull’omosessualità è possibile, perfino da una prospettiva insolita e dichiarata inaccettabile da parte dei movimenti gay. Dal 1967, quando discusse la sua tesi di laurea ad Amsterdam, lo psicologo olandese Gerard van den Aardweg (nella foto) mette in discussione la teoria che indica un’origine genetica dell’orientamento omosessuale. «Non c’è nulla di innato, è soltanto disinformazione», spiega a Libero, «Dopo 15 anni di ricerche sui gemelli, monozigoti e no, non è stato dimostrato proprio nulla. Anzi, tutto indica il contrario, cioè che il contributo genetico all’omosessualità è pari a zero».
Van den Aardweg è in Italia per un corso organizzato da una decina di associazioni che propongono un’alternativa al coming out. Invece di seguire la teoria affermativa (“accettati per quello che sei”), si dà una possibilità di cambiare. A chi vuole, si intende. Eppure anche gli effetti della terapia riparativa sono discussi. Perché alcuni ritengono che sia addirittura pericolosa? «Non c’è nessun pericolo. Magari alcuni abbandonano la terapia per un motivo qualsiasi, poi vanno in crisi per altre ragioni indipendenti e sprofondano di nuovo nel loro peccato». Lo definisce peccato? «Certo. È la conseguenza di un complesso di inferiorità rispetto alla propria mascolinità nel caso degli uomini o della propria femminilità nel caso delle donne. Ma è soprattutto una menzogna verso se stessi. E il cattivo comportamento sessuale che ne deriva è peccato. E si tratta di un sentire assolutamente universale, in tutte le società, non soltanto in quelle di tradizione giudeo-cristiane. Anche nella cultura cinese e in quelle africana non è considerato lecito. Ed è segno che il rifiuto sociale dell’omosessualità deriva dal senso comune».
Come mai in Occidente si fanno tanti sforzi per rendere socialmente accettabile l’omosessualità, allora?
« E’ dagli anni Settanta che i movimenti gay hanno compreso che, se si riesce a vendere l’idea dell’omosessualità innata, si può provocare un cambiamento sociale. Perciò cercano sempre nuove indicazioni che, puntualmente, dopo qualche anno sono smentite. Io le chiamo le “teorie della farfalla”, perché catturano l’attenzione dei media ma poco dopo muoiono».
Se i movimenti gay vogliono provocare un cambiamento sociale, significa che hanno un progetto politico? «Sono i retroterra di un progetto più grande, come quello dei movimenti anti-famiglia e anti- natalista, che hanno ottenuto successi politici riuscendo per esempio a convincere gli Stati a sostenere i programmi di sterilizzazione. La normalizzazione dell’omosessualità si innesta in quella tendenza: se si riescono a crescere generazioni convinte che l’omosessualità sia accettabile ,si avranno anche nuove risorse per combattere la guerra psicologica e di propaganda che condurrà a una drastica diminuzione del tasso di natalità. Da soli, i movimenti gay non avrebbero avuto la forza di affermarsi, perché non hanno il consenso della popolazione. Perciò cercano, e in parte vi sono riusciti, di deviare l’opinione pubblica con la propaganda».
Quali argomenti utilizza per contrastare quella propaganda? « Semplicemente la diffusione di informazioni veritiere e la promozione di relazioni famigliari e matrimoni migliori. Questo mi pare il momento buono. Nei Paesi Bassi si avverte già una saturazione crescente riguardo alla propaganda gay, un’ideologia che ha esagerato. Era molto più influente trent’anni fa, quando se ci si dichiarava omosessuali si era oggetto di una discriminazione positiva e si ottenevano i posti di lavoro migliori. Ora si assiste a una certa, lieve controtendenza. Il ministro della Sanità olandese, pur essendo di sinistra, ha concesso sussidi triennali a gruppi di ex-gay che aiutano le persone a orientarsi nella direzione giusta. Potrebbe rappresentare un inizio per chi è davvero discriminato». Chi intende? «Coloro che soffrono da soli e in silenzio, quel 50% di giovani che scoprono di avere quel tipo di sentimenti, ma no vogliono precipitare nella vita omosessuale. Vorrebbero cambiare, ma intorno a loro tutto sembra renderglielo impossibile, perché i gruppi militanti e politici li discriminano».
Anche grazie alle leggi anti-discriminatorie? Pensa che restringano gli spazi della libertà di opinione? «Certo che li restringono. Creano difficoltà concrete in alcune professioni per chi non accetta le parole d’ordine pro-gay. Ormai è come ai tempi del nazismo: chi era contro le leggi razziali veniva isoalto»

(Fonte: Libero, 15 marzo 2009)

domenica 15 marzo 2009

Se si trasforma la Chiesa in un talk-show

Molti dei commenti e delle reazioni alla lettera sofferta che Benedetto XVI ha inviato ai vescovi di tutto il mondo per spiegare il vero significato della revoca della scomunica ai lefebvriani e spegnere le polemiche suscitate dall’intervista negazionista di monsignor Williamson, hanno indugiato sulla solitudine del Papa, sui problemi del governo curiale, sull’opposizione da parte degli episcopati progressisti e sulle rigidezze dei tradizionalisti, sugli errori di comunicazione. E si sono concentrati infine sulle fughe di notizie «miserande», secondo la definizione del direttore de L’Osservatore Romano, che con un suo editoriale ha attirato l’attenzione mediatica proprio su questo argomento. Eppure il cuore dell’inconsueto messaggio papale – una lettera coraggiosa e umile allo stesso tempo, con la quale Benedetto ha preso su di sé le responsabilità della macchina curiale – ha rischiato e rischia di rimanere ancora sotto traccia. È vero: Ratzinger non nasconde, nelle sette pagine inviate ai «confratelli nel ministero episcopale», di essere stato profondamente colpito non dalle polemiche esterne, dalle strumentalizzazioni mediatiche del suo gesto di misericordia e riconciliazione nei confronti dei lefebvriani, quanto piuttosto dall’asprezza e dall’ostilità delle reazioni in campo cattolico, nella Chiesa. Vescovi e cardinali lo hanno attaccato, hanno ritenuto che il Pontefice volesse fare un’inversione di marcia rispetto al Concilio Vaticano II. Una «valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento». Con il suo gesto solitario e sofferto, il Papa ha voluto, ancora una volta, richiamare tutti alla necessità di uno sguardo diverso, lo sguardo della fede: «Sempre e di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore». Non per appiattire il dibattito e il confronto interno alla Chiesa, non per fare tabula rasa delle differenze e delle diversità, che da sempre hanno caratterizzato la «catholica», che si chiama così proprio perché include e non esclude, e al cui interno la stessa fede può essere vissuta secondo esperienze, modalità e sensibilità diversissime tra di loro. No, l’amarezza del Papa non è stata determinata dal fatto che siano stati espressi giudizi diversi sulla revoca della scomunica. La sofferenza che traspare dalle pagine della lettera è legata al fatto che in quei giudizi, in quelle critiche che gli hanno fatto ricordare la frase paolina sui cristiani che si mordono e divorano a vicenda, non c’era carità. Prevalevano le logiche delle fazioni contrapposte, che finiscono per trasformare anche la Chiesa in un talk show o in un congresso di partito, con tanto di correnti contrapposte e cordate che mirano soltanto alla gestione del potere.
Questo Papa anziano, che all’inizio del suo pontificato disse che il suo compito «è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo», chiede ancora una volta alla Chiesa e a tutti i suoi membri, come pure alla sua Curia, un cambiamento di sguardo e di mentalità. Quello sguardo che si può cogliere nel commento pubblicato su L’Osservatore Romano di oggi dal vescovo Rino Fisichella, dedicato al caso della bambina brasiliana stuprata dal patrigno, rimasta incinta di due gemelli e fatta abortire. Una storia tragica, che ha visto il vescovo di Recife salire alla ribalta delle cronache internazionali per aver immediatamente annunciato che i medici che hanno praticato l’aborto sono incorsi nella scomunica. «Prima di pensare alla scomunica – scrive Fisichella – era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri».
Ecco, questo stesso sguardo di misericordia è quello che Benedetto XVI testimonia alla Chiesa. Pensare che il cuore del problema siano solo le poltrone della Segreteria di Stato – dove pure esistono innegabili disfunzioni - o lo studio di più efficaci strategie comunicative, o ancora le divisioni secondo logiche politiche tra conservatori e progressisti, significa, una volta di più, ridurre la profondità dell’insegnamento papale a logiche di potere mondano.
Il Papa non ha bisogno di interpreti autorizzati: comunica benissimo e dà il meglio di sé anche quando parla a braccio. In un momento della storia in cui Dio «sparisce dall’orizzonte degli uomini» c’è bisogno di riscoprire che alla Chiesa non si possono applicare le logiche aziendali, né può rimanere ripiegata su se stessa, concentrata sui suoi organigrammi. La Chiesa vive spalancata verso il mondo.
Proprio per questo, martedì prossimo, il vescovo di Roma parte per l’Africa, il continente dimenticato.

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 15 marzo 2009)

giovedì 12 marzo 2009

Il Papa: «Mi hanno attaccato con una veemenza mai sperimentata».

Perché Benedetto XVI abbia deciso di pubblicare una lunga lettera per spiegare le motivazioni che lo hanno portato, il 21 gennaio scorso, a revocare la scomunica ai quattro vescovi consacrati nel 1988 da Marcel Lefebvre senza il mandato della Santa Sede, viene spiegato nelle prime righe della stessa missiva: la revoca della scomunica ha suscitato «una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era sperimentata». Addirittura «alcuni gruppi» hanno «accusato direttamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio». Insomma, si è assistito a «una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento». Si è trattato di una «disavventura imprevedibile» che ha di fatto costretto il Pontefice a intervenire, a spiegare meglio, perché altrimenti «il discreto gesto di misericordia verso quattro vescovi» avrebbe continuato ad apparire quello che in realtà non era: «come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa».Dunque il Papa non torna indietro, come molti vescovi gli hanno chiesto di fare in queste settimane, sulla decisione presa di revocare la scomunica ai lefebvriani. Dice che il gesto era necessario per intraprendere la strada del «ritorno» dei quattro vescovi nella Chiesa cattolica. E spiega che la strada è ancora lunga perché, prima della piena comunione con Roma, manca ancora da parte dei lefebvriani la piena accettazione del «Concilio Vaticano II» e del «magistero post-conciliare dei Papi».La lettera di Ratzinger è inusuale. Non capita tutti i giorni di vedere un Pontefice costretto a scrivere una lettera di spiegazione di un suo gesto. Ma, appunto, la cosa aveva assunto toni troppo gravi. E troppo gravi erano le accuse mossegli direttamente contro. E occorreva soprattutto puntualizzare la giustezza della decisione presa dicendo anche che la revoca della scomunica non tradisce «la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo». Ovvero «condurre gli uomini verso Dio e, verso Dio che parla nella Bibbia». E non tradisce «l’atmosfera di amicizia e di fiducia che come nel tempo di Giovanni Paolo II anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua a esistere».Benedetto XVI non nasconde gli errori compiuti nelle ultime settimane. Anzi, dice di aver imparato «la lezione» di Internet. Ovvero del fatto che una maggiore osservazione del web gli avrebbe dato la possibilità di «venir tempestivamente a conoscenza del problema».E, ancora, dice che vi sono stati errori di comunicazione che hanno poi ingenerato equivoci, soprattutto nella Chiesa. Gli ebrei, infatti, si sono comportati lealmente: «Hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia».È vero, errori di comunicazione ve ne sono stati. Ma, giustamente, il Papa non cita mai padre Federico Lombardi. Non è stato il portavoce vaticano, infatti, a valutare erroneamente che le dichiarazioni di Williamson sulla Shoah erano di poco conto. Secondo indiscrezioni, invece, sarebbero stati alcuni porporati che, riunitisi in segreteria di Stato il 22 gennaio appena dopo la revoca della scomunica e l’inizio del montare delle polemiche, hanno valutato che problemi non ve ne erano.Benedetto XVI è consapevole delle difficoltà di governo della curia romana. E la pubblicazione della lettera indica che ha voluto cominciare ad aggiustare le cose. Facendo capire che lui è presente, è al timone della Chiesa, è non è disposto a cedere alle pressioni esterne ed interne. Alla Chiesa dice che se è vero che i lefebvriani debbono accettare il Vaticano II, è anche vero che «coloro che si segnalano come i grandi difensori del Concilio devono essere richiamati alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa». Non c’è Vaticano II, insomma, senza ciò che c’è stato prima.Ancora alla Chiesa dice che a lui, i 491 sacerdoti della Fraternità San Pio X, non sono indifferenti: «Davvero - si chiede - dobbiamo lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa?».Quindi, ecco un passaggio molto amaro: «A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo».
Il Papa confida che gli è venuto in mente di scrivere la lettera il giorno in cui ha visitato il seminario romano. Era il 29 febbraio. Allora, sulla Chiesa, ebbe parole durissime: «Vediamo bene - disse - che anche oggi» ci sono situazioni dove, «invece di inserirsi nella comunione con Cristo, nel Corpo di Cristo che è la Chiesa, ognuno vuol essere superiore all’altro e con arroganza intellettuale vuol far credere che lui sarebbe migliore». Al posto di questa arroganza intellettuale c’è la possibilità dell’amore. L’amore - scrive il Papa nella lettera odierna - «è la priorità suprema». È questa priorità che Benedetto XVI ha messo in campo coi lefebvriani. Nonostante in molti non l’abbiano capito. Nonostante in molti abbiano reagito a questo suo mite gesto con «un’ostilità pronta all’attacco».

(Fonte: il Riformista, 12 marzo 2009)

Si scrive autocrazia, si legge dittatura

Questa volta, in una classe svogliata di una scuola qualunque in un Paese qualunque della Germania di oggi, dove sembra che nulla di nuovo possa scuotere i tradizionali ritmi e soverchiare le apatiche svogliatezze degli studenti, dando una scossa alle loro curiosità ridotte al lumicino, qualcosa sta per accadere. Piccoli sintomi fanno ben sperare per la vita della struttura scolastica e della collettività: ecco finalmente semplici regole capaci di assicurare il rispetto per le istituzioni e gli insegnanti e diffondere un solidale spirito di corpo adatto a sostituire l'individualismo ormai innervato nella vita quotidiana dei giovani. Merito indubbio del professor Rainer Wenger e della sua settimana di esercitazione e approfondimento dedicata all'"autocrazia", termine assai più accattivante e meno problematico di "dittatura" o "dispotismo". Che bello, una classe così ordinata e ragazzi così interessati alle lezioni, che rispettosi si alzano in piedi prima di rivolgere una domanda o dare una risposta, che salutano in coro all'unisono, con un rendimento che in pochi giorni fa passi da gigante. Nell'aula di sotto, quelli che hanno scelto il seminario dedicato all'"anarchia" sono annoiati e svogliati. Un giorno, però, sentono sopra di loro i colleghi marciare insieme così pesantemente che quasi il soffitto sembra crollare sulle loro teste. Un altro giorno li vedono vestire una divisa semplice e che subito li identifica: camicia bianca e un paio di jeans. Poi, su quella camicia immacolata, che dovrebbe simboleggiare pulizia e purezza, tutti appiccicano un simbolo nero, una grande onda arricciata, e lo stesso simbolo, dal vivido colore rosso, appiccicano e dipingono in una notte forsennata sulle vetrine e i monumenti di mezza città. Poi si inventano un particolare saluto comune obbligatorio, si difendono gli uni con gli altri, fronteggiano i gruppuscoli dissenzienti che vengono isolati e risollevano, infine, con un vigoroso spirito di squadra anche la dissestata e perdente formazione di pallanuoto. Con qualche comportamento poco sportivo, certo. Ma la vittoria è il fine, i mezzi contano poco. Il numero di coloro che aderiscono con entusiasmo all'Onda, questo il nome dell'originale sodalizio, aumentano di giorno in giorno perché chi vi partecipa diventa membro di un'élite di prestigio che si auto-tutela, si auto-protegge e si impone sugli altri. Al professor Wenger si affianca una guardia del corpo, mentre in famiglia si comincia a nutrire qualche dubbio sull'utilità pedagogica di questo esperimento che sta cambiando caratteri e cuori. Ad alcuni spiriti liberi, pochi in verità, isolati e impauriti da tale dilagante entusiasmo, un sospetto nasce: che cosa è mai successo in così pochi giorni in quel seminario del professor Wenger, apprezzato anche dalla preside dell'istituto e avversato da pochi "sovversivi" che si oppongono a questo ordine dilagante? È successo che Wenger medesimo abbia chiesto provocatoriamente all'inizio delle sue lezioni: "Credete possibile oggi il ritorno della dittatura in Germania?". E alla risposta ovviamente e unanimemente negativa e sprezzante degli studenti, certi dell'assurdità del quesito, abbia fatto seguire iniziative e proposte, liberamente accettate da tutti loro, capaci di contraddire nei fatti tale unanime, solida certezza. Abbia cioè iniziato, il professor Wenger, a instillare in loro le cellule del totalitarismo attraverso piccole scelte di vita scolastica e quotidiana dando forma e soluzione alla loro confusa ricerca di mete e di ideali e, non ultimo, riempiendo il loro vuoto spirituale. Soprattutto sia riuscito a canalizzare il loro disagio attraverso una disciplina e un ordine in cui si dissolve, per amore e fedeltà al corpo, la singola identità. L'onda, tratto da un romanzo di Morton Ruhe a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti alla Cubberley High School di Palo Alto in California nel 1967, è un film del regista tedesco Dennis Gansel prezioso, scarno, inquietante, a suo modo accorato. È stato assai ben accolto, anche dal pubblico italiano, e ha innescato dibattiti proficui e equilibrati non solo in patria. L'esperimento in quella scuola anonima, infatti, che ha contaminato lo stesso insegnante e diffuso un'idea completamente distorta dell'autorità e delle sue funzioni sociali instillando il peggiore degli ideali, sfugge di mano a tutti fino al drammatico epilogo nel corso del quale i ragazzi stessi, da carnefici in pectore, si trasformano in vittime involontarie del sistema. Un finale volutamente didascalico e sospeso, che appartiene però a una sceneggiatura tersa, tesa, sincera. Tutti dovremmo sentire un'ideale campanella mettersi a suonare. Questa volta non squilla per avvisare dell'inizio delle lezioni nella scuola teatro di fatti così emblematici, ma per dare l'allarme e metterci in guardia: il passato più cupo, infatti, con tutte le sue spaventose e sconvolgenti conseguenze morali e sociali, non è detto sia stato completamente spazzato via dai nostri orizzonti moderni e civili, dalle nostre coscienze di uomini liberi e maturi.

(Fonte: ©L'Osservatore Romano, 12 marzo 2009)

Brasile: come manipolando una tragedia i media disinformano e screditano la Chiesa

Il nuovo Arcivescovo di Rio de Janeiro, monsignor Orani João Tempesta, sostiene che nessuno si è posto una domanda fondamentale nel caso della bambina brasiliana di Recife stuprata dal patrigno 23enne che è rimasta incinta di due gemelli e ha abortito al quarto mese di gestazione: “Perché siamo arrivati a questo?”
Le agenzie di stampa di tutto il mondo hanno diffuso la notizia, criticando aspramente una Chiesa ottusa e retrograda che invece di condannare lo stupratore, ha comminato la scomunica ai medici che, invece, si sono prodigati per “salvare” la bambina-madre.
Ma vediamo come sono andate in realtà le cose.
La madre e il padre biologico della bambina erano contrari all'aborto, ma i medici dell'ospedale hanno detto loro che la figlia sarebbe morta se avesse portato avanti la gravidanza. Il padre, dopo aver capito che i medici stavano mentendo, ha chiesto aiuto a un servizio giuridico per impedire l'aborto, un diritto garantito dalla legge brasiliana, che considera un reato far abortire contro la volontà dei genitori della minore. I medici dell'ospedale, tuttavia, per garantire che l'aborto venisse realizzato anche contro la volontà paterna hanno disposto il trasferimento della bambina in una struttura in cui è rimasta fino a che la gravidanza non è stata interrotta.
Nell'articolo diffuso questo lunedì dalla Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB), monsignor Tempesta richiama l'attenzione sul fatto che molto del clamore dato dai media brasiliani all'episodio è stato dovuto a emittenti “guidate da gruppi religiosi indipendenti”.
“Quando una persona che, avendo degli squilibri emotivi, è capace di abusare sessualmente e brutalmente di una bambina, la società dovrebbe chiedersi: 'Perché siamo arrivati a questo?'”, osserva. “Per come vanno le cose nel mondo, è possibile che quello che oggi è un crimine domani sia una virtù, com'è già avvenuto per molte altre situazioni, ad esempio la campagna a favore dell'aborto”.
Nel caso della gravidanza della bambina, monsignor Tempesta constata che “la magistratura ha saputo offrire solo un tipo di aiuto: quello di uccidere i bambini minacciando la madre della minorenne che si trovava in questa situazione. Si parla tanto di diritti per tutti e si critica la Chiesa perché difende tutti”. “Non posso credere che i diritti umani valgano solo per una parte, così come non so come i cristiani riescano a difendere l'omicidio di innocenti”.
“Interessante è la deposizione della madre della bambina, la quale ha testimoniato che l'unico luogo in cui non stata maltrattata ma rispettata è stato l'ufficio della Caritas – ha riconosciuto –. In tutti gli altri posti ha ricevuto solo accuse e maltrattamenti”.
“La domanda, tuttavia, resta: perché accadono queste cose? La nostra risposta è nel cambiamento di epoca e di cultura che viviamo attualmente”. “La mancata valorizzazione della vita, della famiglia, dei valori, della fede ha finito per portarci a uno stile di vita edonista, soggettivista, consumistico e lassista, che sembra non avere soluzione”.
“Ma noi crediamo che il nostro mondo ce la può fare! – scrive il presule –. E' la nostra speranza e la nostra lotta!”. “Le situazioni degradanti e complesse aumenteranno finché non avanzeremo verso una società moderna, in cui le persone si rispettano, rispettano la vita e sanno coltivare i valori”. “Finché viviamo nell''età della pietra', risolvendo le cose uccidendo gli innocenti e creando violenza nella nostra fragile società, l'uomo avrà sempre nostalgia dell'utopia del 'mondo nuovo'”, afferma l'Arcivescovo.
Il presule invita i cattolici a pensare “a queste vie che percorriamo oggi mentre viviamo la Quaresima e la Campagna di Fraternità, che si interroga giustamente sulle basi della nostra società”, discutendo la questione della violenza e della sicurezza pubblica.
“Dalla risposta che daremo a questi interrogativi dipenderà il nostro futuro”, ha ammesso.
L'aspetto della questione poi che ha suscitato più scandalo sono state le voci artatamente diffuse, secondo le quali la bambina sarebbe stata scomunicata per aver abortito.
In realtà, la scomunica non ha colpito la bambina, ma le persone che hanno provocato l'aborto. E ciò a prescindere da specifiche dichiarazioni dell'autorità ecclesiastica, che in questo caso non ci sono state. “Anche considerando che per la Chiesa, in base al Diritto Canonico, il fatto della morte di un innocente indifeso è un atto che esclude dalla comunione ecclesiale la persona che la effettua, dipende anche dalla libertà di coscienza con cui la persona lo fa”, ha dichiarato monsignor Tempesta. L'Arcivescovo di Olinda e Recife, monsignor José Cardoso Sobrinho, ha spiegato ai media che la scomunica in casi del genere è automatica; partendo da tale presupposto e arrivando ignorantemente (o volutamente) a conclusioni inesistenti, hanno diffusa la notizia secondo cui il presule avrebbe scomunicato la madre della bambina e i medici.
“Non sono stato io a scomunicare le persone coinvolte nell'aborto”, ha dichiarato il presule. “L'aborto è un crimine previsto nelle leggi della Chiesa. E questa è la pena automatica della Chiesa”.

(Fonte: Zenit, 11 marzo 2009)

Obama paga il conto alla lobby della biotecnologia

L’idea che ci eravamo fatti di George Bush era quella di un triste oscurantista che voleva bloccare il progresso scientifico, in particolar modo la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Era l’immagine divulgata, tra gli altri, dallo stesso Obama, che accusava l’ex presidente di “rallentare le speranze di milioni di americani”, speranze evidentemente attaccate al chiodo dei prodigi promessi da quelle cellule.
A questa idea se ne aggiungeva un’altra: l’efferato George Bush aveva promulgato delle leggi ideologiche (così sono state presentate anche dai mezzi di disinformazione italiani), cioè fondate su una visione fondamentalista e religiosa, più che su un’obiettiva valutazione dei fattori in campo.
Ma adesso che Obama ha firmato un ordine esecutivo per modificare la legislazione di Bush, il quadro generale della vicenda, così apparentemente netto e definito, comincia a fare acqua da tutte le parti. E chi ci fa una brutta, bruttissima figura, non è quel mostro di Bush, ma il nuovo presidente americano, bello, simpatico e abbronzato.
Per vari motivi che qui di seguito vado ad elencare.
Primo: come ha spiegato bene su Avvenire di ieri la nostra amica Assuntina Morresi, non è vero che Bush abbia impedito la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non c’è mai stato alcun divieto in questo settore, in quanto i ricercatori americani potevano continuare ad utilizzare, per la loro libera ricerca, le linee cellulari prodotte fino all’agosto 2001, insomma, quelle già esistenti. Bush ha impedito, questo sì, di utilizzare i fondi federali per continuare a distruggere embrioni umani. Divieto che il buon Obama, invece, si affretta a modificare (e nel frattempo ha già rassegnato in finanziamenti pubblici alle Ong che favoriscono anche la diffusione dell’aborto).
Secondo: il buon Obama, l’I can della democrazia mondiale, oggi firmerà utilizzando la propria autorità di presidente, scavalcando completamente il Congresso, che invece solo qualche settimana fa aveva detto di voler consultare sull’argomento staminali. Una radicale inversione di rotta, che tanto democratica non pare.
Terzo: il buon Obama, che a ogni piè sospinto chiede agli americani di stare uniti per fronteggiare insieme la difficile battaglia della crisi economica, su questo tema specifico, dell’unità se ne frega altamente. La sua decisione creerà grosse spaccature, perché, com’è noto, la manipolazione e la distruzione di embrioni umani, anche se fatta per fini nobili (?) di ricerca scientifica, genera in moltissimi dei problemi morali. Sintetizzati in una nota dei vescovi americani: “una volta oltrepassata la fondamentale linea morale che ci impedisce di trattare gli esseri umani come meri oggetti di ricerca, non ci sarà più un punto di arresto”.
Quarto: last but non least, è proprio la scelta di Obama, non quella di Bush, ad apparire gravemente ideologica, perché, oltre ad essere immorale, non è giustificata dalle ultime scoperte di quella libera ricerca scientifica che dice di voler difendere. In campagna elettorale aveva promesso di utilizzare “le meraviglie della tecnologia per migliorare le cure sanitarie”. Com’è noto, Obama piace perché è tutto cuore e amore per le persone che soffrono. Peccato che non è con le cellule staminali embrionali che la gente guarisce. Quella su queste cellule è una “ricerca che non trova”. La linea vincente è invece quella del ricercatore giapponese Shynia Yamanaka, che è riuscito a far “tornare indietro” le cellule adulte, fino ad uno stadio simile a quello delle embrionali. Con il vantaggio di azzerare i problemi etici. Ne abbiamo sentito parlare proprio la scorsa settimana. In pratica, in un futuro che è già presente, le cellule staminali dell’embrione umano non serviranno proprio e la ricerca su di esse sarà del tutto superflua. Lo è già.
Ma allora perché Obama s’intestardisce a finanziare questa ricerca?
Quinto: non è nemmeno un problema di visione ideologica (che avrebbe una sua qualche dignità), ma, pare, di più bassa e squallida cucina. La lobby internazionale che vuole produrre staminali è passata all’incasso, dopo essere stata tra i principali supporters di Obama. La firma del presidente simpatico farà arrivare molti milioncini di dollari nelle casse di alcune aziende biotecnologiche californiane e della principale Università di quello Stato (finanziatrici della sua campagna elettorale).
Se è così, qui non si tratta più della libertà di ricerca scientifica e della volontà di dare realtà alle speranze di milioni di americani. Si tratta di ben altro. Ed è per questo che il buon Obama (che qualcuno già bolla col nomignolo di “presidente aborto”) non esce affatto bene da tutta questa imbarazzante vicenda.

(Fonte: La Cittadella, 9 marzo 2009)

La diocesi di Linz allo sfascio: ecco i preti che si sono opposti a mons. Wagner

Josef Friedl, sacerdote e "decano" (da noi diremmo vicario foraneo o qualcosa del genere) della ormai ben nota diocesi di Linz, è uno dei membri del collegio di decani diocesani che per primi insorsero contro la nomina a vescovo ausiliare di Gerhard Wagner, raccogliendo un voto quasi unanime di rigetto e sfiducia contro quest'ultimo. Alla fine, la protesta come noto è riuscita a costringere don Wagner a rinunziare all'incarico.
Apprendiamo ora qualcosa che probabilmente spiega tanto accanimento contro un sacerdote assolutamente ortodosso e di chiari principi morali: il decano Friedl ha pubblicamente ammesso in un incontro, organizzato dal Partito dei Verdi, di avere una "compagna" con la quale convive normalmente, dichiarando di rifiutare il celibato obbligatorio.
Ha aggiunto che tale comportamento è pienamente conforme alla sua coscienza e che nessuno nella sua parrocchia di Ungenach se ne fa un problema.
Secondo un rapporto di Der Welt, parecchi altri decani della diocesi di Linz hanno ignorato de facto l'obbligo del celibato. Si comprende quindi agevolmente come avere un vescovo come Wagner avrebbe costituito una prospettiva poco tranquillizzante per coloro che hanno tutto l’interesse di mantenere questo scandaloso andazzo.
Commenta in proposito un cattolico locale: «Il parroco G. Wagner, che ha rinunciato alla sua nomina a vescovo a causa di chiare pressioni di un certo clero lassista e progressista, é un prete esemplare, molto popolare tra la gente comune, non solo tra i devoti “conservatori”.
Basti pensare che nella sua parrocchia di Windischgarsten ci sono 200 chierichetti, tutti maschi, che servono all’altare. Non so se si troverà facilmente un altro prete come lui.
Il "decano" Friedl è il suo contrario e, purtroppo, non é un caso isolato. Il clero progressista di Linz, e di altre diocesi austriache, considera il celibato come una semplice “raccomandazione”, non già come un dovere, connesso alla loro scelta di vita. Questi preti che ruotano attorno alla curia per i loro compiti direttivi, formano una specie di diga mafiosa che contrasta in tutti i modi i loro confratelli fedeli (ce ne sono tanti!) tenendoli ben lontani dagli uffici vescovili e dai posti di comando: e arrivano a ciò anche ricorrendo a vere e proprie pressioni sui loro vescovi. Se poi anche qualche laico cattolico volesse denunciare tali circostanze alle autorità ecclesiastiche competenti, i suoi esposti non arriverebbero mai al destinatario, come è successo in molti casi, perché sistematicamente intercettati e filtrati da questa mafia che non concede appuntamenti, non trasmette messaggi, non dà seguito a nessuna iniziativa, lasciando così cadere la cosa.
Purtroppo dal 1952 - con una parentesi dall’86 al 91 al tempo dei nunzi M. Cecchini e D. Squicciarini - i vescovi ordinati in Austria sono stati quasi tutti o loro stessi progressisti (Koenig, Stecher, Weber, Aichern, Zak, Ibi), oppure, pur essendo dei vescovi devoti e ineccepibili sul piano personale, sono stati comunque troppo deboli per poter affrontare energicamente questa mafia modernista (si veda per esempio l'attuale vescovo di Linz, L.Schwarz, sicuramente migliore del suo predecessore, ma non ancora in grado di nuotare decisamente contro corrente). Molto bravo é anche il vescovo ausiliare di Salisburgo, Andreas Laun, che ha tra l’altro difeso la candidatura vescovile del reverendo Wagner. I cattolici fedeli in Austria ci sono, e sono tanti: tutti indistintamente addolorati per questo atteggiamento moralmente indegno di molti loro preti. L'unico filo di speranza é che il Santo Padre ci dia vescovi cattolici degni di questo nome».

(Fonte: Cathcon, 8 marzo 2009)

Toh, adesso il medioevo è un'età luminosa. Lo dice anche Eco.

“A chi è venuto nel monastero dalla condizione servile non sia anteposto chi è nato libero”. E’ una delle norme che si trovano nella Regola di San Benedetto. Siamo nella metà del VI secolo dopo Cristo, in pieno Alto Medioevo. Nello stendere le regole per quelle particolari “repubbliche” che erano i suoi monasteri, il grande santo spazzava via ogni differenza di ceto. Varcata la porta, tutti erano uguali e nessuno poteva essere “anteposto” ad un altro. Con più di mille anni di anticipo sull’Illuminismo e la Rivoluzione Francese (che, evidentemente, non hanno inventato niente). Quella di San benedetto fu un’autentica rivoluzione rispetto al mondo antico, dove la schiavitù e la riduzione degli uomini a cose non era solo una pratica comune, ma il sistema stesso su cui si fondavano i regni, le società, le economie.
Basterebbe solo questa citazione per sottolineare come il Medioevo è stato ben altro da quell’età “buia” che la diffamazione illuminista ci ha tramandato. Anzi, per certi versi fu un’età molto avanzata, e certe sue acquisizioni si sono perse in seguito e solo faticosamente sono state riconquistate.
Fa piacere che anche un autentico guru della cultura laica come Umberto Eco abbia deciso di rendere il giusto onore all’età medievale, tanto da giocare il proprio prestigio curando la redazione di un’opera sul Medioevo pubblicata, udite udite, dall’Espresso.
E fa molto piacere che sia proprio lui a fare il panegirico di quell’epoca e che nella sua introduzione elenchi a volo d’uccello una lunga serie di fondamentali creazioni medievali: i mulini ad acqua e a vento; le abbazie romaniche e le cattedrali gotiche; le libertà comunali e un concetto modernissimo di libera partecipazione di tutti i cittadini ai destini della città; l’ università (e qui, da buon laico fazioso, si frega, perché sostiene che essa “si costituisce al di là del controllo sia dello Stato che della Chiesa”, omettendo che fu il Papato a costituirsi, fin dall’inizio, come protettore potente dei diritti delle università, nei confronti tanto del potere secolare quanto di quello vescovile).
Ma non è finita: c’è la nascita della scienza anatomica e della pratica chirurgica (con Mondino de’ Liuzzi, nel 1316); quella della banca, della lettera di credito, dell’assegno e della cambiale; il camino; la carta che sostituisce la pergamena; i numeri arabi adottati in quell’eccezionale opera che è il “Liber Abaci” di Leonardo Fibonacci (sec. XIII); il canto gregoriano e la prima polifonia e Guido d’Arezzo che dà il nome alle note musicali; e poi c’è l’uso di tavola e forchetta, i primi orologi; e gli ospedali e l’assistenza ai pellegrini (comincia il turismo).
E la fondamentale invenzione degli occhiali, che prolungò l’attività degli uomini di studio (“è come se le energie intellettuali di quei secoli si fossero di colpo raddoppiate, se non decuplicate”).
Potremmo aggiungere l’innovativa tecnica della rotazione biennale e triennale dello colture, andrebbe sottolineato che non ci sarebbe stato nessun Umanesimo e Rinascimento se il Medioevo, grazie ai monasteri, non avesse salvato dalla distruzione l’imponente patrimonio culturale dell’età classica.
In realtà non si tratta di cose molto nuove. La novità è che le dica con tale entusiasmo un Umberto Eco e che l’Espresso faccia uscire una collana sul Medioevo.
Ma se volete delle riflessioni veramente nuove, allora leggetevi il volume dell’americano Rodney Stark dal titolo “La vittoria della ragione” (Lindau editrice). Qui troverete le invenzioni e le novità che dobbiamo all’età medievale, ma anche e soprattutto una verità già annunciata dal sottotitolo dell’opera, e cioè che fu il Cristianesimo, di cui quell’età era letteralmente impregnata, a consentire quello straordinario progresso, quelle libertà, quella ricchezza.
Se ad un certo punto l’Occidente recupera il gap iniziale che aveva nei confronti di Cina, India e mondo islamico e raggiunge un livello di sviluppo enormemente superiore, è proprio grazie alla sua religione di riferimento. In quelle altre società le religioni innalzarono delle vere e proprie barriere che impedirono lo sviluppo e il progresso, mentre “il successo dell’Occidente, inclusa la nascita della scienza, si appoggiò interamente su fondamenta religiose e venne determinato da devoti cristiani”. Fu la “vittoria della ragione”, perché il Cristianesimo (checché se ne dica) non si è mai costruito contro la ragione umana. E Stark cita Tertulliano, Clemente di Alessandria, Agostino, Tommaso, i filosofi scolastici che “nutrivano molta più fiducia nella ragione dei filosofi contemporanei”.
E’ solo in Europa che l’alchimia si evolvette in chimica, che l’astrologia condusse all’astronomia, che il sapere pratico divenne scienza. Perché? Lo spiegò ad Harvard nel 1925 il filosofo e matematico Alfred North Whitehead: “Il grande contributo del Medioevo alla formazione del movimento scientifico fu la fede inespugnabile che v’è un segreto, e questo segreto può essere svelato”. Dante, nella Divina Commedia, dice che la ragione umana lo può giugner. Questa convinzione, proseguiva Whitehead, “non può provenire che dalla concezione medievale, che insisteva sulla razionalità di Dio, al quale veniva attribuita l’energia personale di Yahweh e la razionalità di un filosofo greco”.
Aspettarsi che anche Eco lo riconosca è forse chiedergli troppo.
Per ora godiamoci il suo entusiastico elogio del Medioevo. E’ già molto.

(Fonte: La Cittadella, 5 marzo 2009)

Ma l’avete mai letto Darwin?

Piergiorgio Odifreddi ha scritto un libro per dimostrare che Charles Darwin è un genio, e il Verde Giorgio Celli ha dichiarato a Il Messaggero (28/11/2005) che «a 15-16 anni scoprii Darwin: non un maestro, un santo protettore». Eppure, c'è chi sostiene che nelle scienze sociali Darwin abbia fornito le argomentazioni per sostenere e diffondere il razzismo e l'eugenetica. A questo proposito un'autorità in materia come George Mosse nel suo libro Il razzismo in Europa: dalle origini all'olocausto (Laterza. 1994), scrive che i pensatori illuministi, basandosi proprio sulle teorie di Darwin, avevano concepito una nuova forma di razzismo, il «razzismo scientifico». E non è il solo, anche gli storici, Michael Burleigh e Wolfgang Wippermann nel libro Lo stato Razziale - Germania 1933/1945 (Rizzoli 1992), scrivono che «fu Darwin e non Gobineau l'involontario progenitore dell'ideologia razzista. A lui si deve infatti la teoria della selezione naturale come meccanismo dell'evoluzione, che sarebbe stata al centro di tutte le successive elaborazioni razziste». Insomma, proprio nell'anno in cui si festeggia il bicentenario della nascita e i 150 anni della pubblicazione delle «Origini delle specie» di Charles Darwin, emerge che il problema non è solo se la teoria evoluzionista nega la teoria dell'esistenza di un Creatore, ma, questione ben più scottante, se la teoria di Darwin applicata alla sociologia porta a gravi derive quali il razzismo, l'eugenetica e la soppressione dei più deboli. Secondo alcuni autori però, l'orrore conosciuto come «darwinismo sociale», sarebbe da attribuire ai suoi seguaci piuttosto che a Darwin.
Per cercare di chiarirci le idee siamo andati a leggere esattamente cosa Darwin ha scritto nel libro L'origine dell'Uomo nell'edizione pubblicata da Editori Riuniti nel 1983, e siamo rimasti inorriditi. In un capitoletto intitolato «Selezione naturale operante nelle nazioni civili» Darwin spiega perché l'uomo civilizzato ha uno svantaggio rispetto al selvaggio, e scrive: «Fra i selvaggi i deboli di corpo e di mente vengono presto eliminati; e quelli che sopravvivono godono in genere di un ottimo stato di salute. D'altra parte, noi uomini civili cerchiamo con ogni mezzo di ostacolare il processo di eliminazione; costruiamo ricoveri per gli incapaci, per gli storpi e per i malati; facciamo leggi per i poveri; e i nostri medici usano la loro massima abilità per salvare la vita di chiunque fino all'ultimo momento. Vi è ragione di credere che la vaccinazione abbia salvato migliaia di persone, che in passato sarebbero morte di vaiolo a causa della loro debole costituzione. Così i membri deboli della società civile si riproducono. Chiunque sia interessato dell'allevamento di animali domestici non dubiterà che questo fatto sia molto dannoso alla razza umana. E' sorprendente come spesso la mancanza di cure o le cure mal dirette portano alla degenerazione di una razza domestica: ma, eccettuato il caso dell'uomo stesso, difficilmente qualcuno è tanto ignorante da far riprodurre i propri animali peggiori» (pag.176).
«Dobbiamo perciò sopportare - continua Darwin - gli effetti indubbiamente deleteri della sopravvivenza dei deboli e della propagazione delle loro stirpe» (pag.177). Abbiamo capito bene? Aiutare i deboli, curare i malati, vaccinare salvare migliaia di persone con è un «effetto deleterio» per l'evoluzione della specie? Ma l'autore inglese non ha dubbi, per favorire la selezione naturale in cui il debole deve essere soppresso a favorire del più forte Darwin ha scritto: «Eppure l'uomo potrebbe mediante la selezione fare qualcosa non solo per la costituzione somatica dei suoi figli, ma anche per le loro qualità intellettuali e morali. I due sessi dovrebbero star lontani dal matrimonio, quando sono deboli di mente e di corpo; ma queste speranze sono utopie, e non si realizzeranno mai, neppure in parte, finché le leggi dell'ereditarietà non saranno completamente conosciute. Chiunque coopererà a questo intento, renderà un buon servigio all'umanità» (pag. 255). Ed ancora «Il progresso del benessere del genere umano è un problema difficile da risolvere; quelli che non possono evitare una grande povertà per i loro figli dovrebbero astenersi dal matrimonio, perché la povertà non è soltanto un gran male, ma tende ad aumentare perché provoca l'avventatezza del matrimonio. D'altra parte, come ha notato Galton, se i prudenti si astengono dal matrimonio, mentre gli avventati si sposano, i membri inferiori della società tenderanno a soppiantare i migliori» (pag.256).
Capito? Per Darwin se sei povero e debole non dovresti avere diritto a sposarti. In conclusione c'è da chiedersi, ma i grandi estimatori dell'autore inglese, coloro che stanno riempiendo saggi, riviste e libri su Darwin, hanno mai letto quello che ha scritto?

(Fonte: Rassegna Stampa, 2 marzo 2009)

La scuola è fallita. La prova? Wanna Marchi...

Sarebbe assolutamente disdicevole che le due Marchi fossero liberate per ragioni sanitarie, di buona condotta, o altre misure che le sottraggano alla giusta pena. Di televisione sono vissute e di televisione sono perite attraverso l’inchiesta «Tapiro salato» accesa da Striscia la notizia. I magistrati dunque non se n’erano accorti, non avevano guardato la televisione, non si erano lasciati incantare da Wanna Marchi. E, molti di noi, avevano osservato il fenomeno televisivo in termini formali o di comunicazione con una certa ammirazione. Urla, imprecazioni, televendite di niente, di amuleti, formule magiche, blocchi di sale.
E per chi? A giudicare dalla vistosa condanna (oltre 9 anni di carcere), ingenue vecchiette che sarebbero state raggirate, perché incapaci di intendere e di volere, convinte che gli artifici e le formule miracolose vendute da Wanna Marchi potessero liberarle da un eventuale malocchio. Non è neppure da escludere che anche con successive telefonate le due Marchi e il loro mago di famiglia, Do Nascimento, potessero avere favorito il tremore e la superstizione garantendo la forza magica degli amuleti, o Tapiri salati, venduti per essere nascosti in armadi, in attesa del miglioramento dei tempi. Ho ascoltato il lamento di molte vittime, e non ho visto una vecchina. Le vecchine, furbissime, non hanno abboccato.
Le due Marchi hanno rappresentato l’equivalente televisivo del ciarlatano, del venditore di pozioni miracolose, il Dulcamara dell’Elisir d’amore, nella mente di molti per la bellissima aria donizettiana. Nessuno nelle epoche passate avrebbe mai pensato di arrestarlo. Essendo evidente la sua funzione sociale consolatoria e comica. Ma nelle epoche lontane l’inganno poteva fondarsi sulla credulità degli ingenui, ovvero sull’ignoranza, sull’analfabetismo, su quello che oggi si sintetizza nell’immagine delle «vecchine» ingenue e credulone. Ma se allora quella funzione sociale poteva essere riconosciuta, nel nostro tempo non dovrebbe essere consentito un processo alle streghe. E - per paradosso - non si dovrebbero condannare le due Marchi, attraverso l’inchiesta televisiva di Striscia la notizia perché il contesto è cambiato.
Il contesto, appunto. Giacché da molti anni vi è la scuola dell’obbligo; l’analfabetismo è ridotto, in alcune aree marginali del Paese, o forse in comunità di clandestini, allo 0,5 per cento, ed è in ogni caso fuori legge. E nessuna persona adulta che abbia fatto le scuole medie inferiori può credere al malocchio e ad amuleti di sale che lo allontanino. Inoltre nelle denunce presentate, per emulazione televisiva, contro le due Marchi non risultano vecchine ma persone di mezza età fra i 30 e i 55 anni, generalmente di sesso maschile e molte diplomate o laureate. Dunque difficile ipotizzare il raggiro. Ma un’ignoranza colpevole che prova, se ne avessimo bisogno, il fallimento della scuola. In questo vuoto si sono calate le due Marchi probabilmente non sospettando neppur loro una zona così ampia di analfabetismo di ritorno. In questa loro funzione di test involontario esse provano oltre ogni aspettativa il maleficio della televisione rispetto alla scuola.
Un ragazzo studia italiano, storia, geografia, matematica e poi anche latino, algebra, fisica, francese, inglese; e poi arriva Wanna Marchi con il Tapiro salato e subito, ignorando Dante, Parini, Talete, Archimede, Copernico, si lascia conquistare dal mago Do Nascimento. Altro che Giordano Bruno, Spinosa, Kant, Hegel e Marx. Tutto inutile, il futuro è del Tapiro salato. Eppure nessuna delle persone che noi frequentiamo, e che pure è sottoposta a dosi quotidiane massicce di televisione, sembra aver mai comprato, o ammettere di averlo fatto, Tapiri da Wanna Marchi.
Nelle inchieste di Striscia abbiamo visto i volti e sentito le parole delle vittime. Nessun analfabeta. Dunque la colpa è forse della ossessione televisiva, dell’intontimento? Ma è possibile attribuirla a figure comiche prive di ogni credibilità, caricaturali come la urlacchiante Wanna Marchi e la figlia? Anche loro sono vittime dello strumento che ha consentito l’imprevedibile diffondersi del maleficio. Esse sono attrici di uno spettacolo comico. Se uno spettatore laureato uccide perché ha visto un film violento, si è identificato in un eroe negativo, interpretato da un attore, non si arresta il regista del film, non si incrimina l’attore o il produttore. Si fanno riflessioni sociologiche sull’inevitabile violenza dei tempi di cui il film è specchio. Ecco, le due Marchi sono lo specchio dell’ignoranza dei tempi e del fallimento della scuola. Con loro per concorso esterno in associazione a delinquere d’ignoranza diffusa andrebbero incriminati professori, presidi, ministri dell’epoca della scuola media dell’obbligo. Del vero e ben più grave reato sociale che ho intuito e descritto, in tanti sono colpevoli, in televisione e fuori.

(Fonte: Il Giornale, 9 marzo 2009)