mercoledì 29 ottobre 2014

Tempo di misericordia. Ma anche di scomuniche

C’è qualcosa che non torna in questo che è il proclamato “tempo della misericordia”, con l’accesso alla comunione eucaristica consentito o promesso quasi senza più limiti. eppure severissimamente interdetto a chi incorre in un paio di nuovi peccati capitali.
Il primo di questi nuovi peccati passibili di scomunica è la partecipazione alla messa e ai sacramenti celebrati dalla Fraternità San Pio X, fondata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre.
La Fraternità lefebvriana ha una sede nella diocesi di Albano, alle porte di Roma, e il vescovo di questa diocesi, Marcello Semeraro, che è anche il segretario del consiglio dei nove cardinali che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa universale, ha emesso lo scorso 14 ottobre una notificazione per vietare ai suoi fedeli di andare a messa e ricevere i sacramenti dalla Fraternità, pena la scomunica:
“Qualunque fedele cattolico che richiede e riceve sacramenti nella Fraternità San Pio X si porrà di fatto nella condizione di non essere in comunione con la Chiesa cattolica. Una ammissione nella Chiesa cattolica dovrà essere preceduta da un adeguato percorso personale di riconciliazione, secondo la disciplina ecclesiastica stabilita dai vescovi”.
Quella scomunica, quindi, da cui sono stati liberati nel 2009 gli unici membri della comunità lefebvriana che ne erano stati precedentemente colpiti, cioè i quattro vescovi che la reggono, fulminerebbe oggi i cattolici che semplicemente vanno a messa da loro.
La questione non è nuova. Già nel 2003 la commissione vaticana “Ecclesia Dei” che si occupa dei lefebvriani aveva risposto così a due domande provenienti dagli Stati Uniti, in una lettera del 18 gennaio firmata dal prelato lussemburghese Camille Perl, all’epoca membro della commissione:
D. – “Posso assolvere il mio obbligo domenicale assistendo a una messa della Fraternità San Pio X?”
R. – “In senso stretto potete assolvere al vostro obbligo domenicale assistendo a una messa celebrata da un prete della Fraternità San Pio X”.
D. – “Commetto peccato assistendo a una messa della Fraternità San Pio X?”
R. – “Se, assistendo a questa messa, la vostra ragione principale fosse di manifestare il vostro desiderio di separarvi dalla comunione col Pontefice romano e con quelli che sono in comunione con lui, si tratterebbe di un peccato. Se la vostra intenzione consiste semplicemente nel partecipare a una messa detta col Messale del 1962, non si tratta di peccato”.
Ma evidentemente oggi i tempi sono cambiati. Alle stesse domande, la riposta del vescovo Semeraro, fiduciario del papa, è diametralmente opposta.

Una seconda plateale contraddizione riguarda i vescovi della Germania, notoriamente i più misericordiosi nel voler concedere la comunione ai divorziati risposati, ma contemporaneamente i più spietati nello scomunicare chi rifiuta di versare l’obolo alla Chiesa, che nel loro paese è obbligatorio per legge e frutta ogni anno molto più dell’8 per mille in Italia.
In Germania questa imposta per la Chiesa (Kirchensteuer) è talmente obbligatoria che per non pagarla più occorre dichiarare la propria uscita dalla Chiesa di appartenenza, cattolica o protestante che sia, con un atto pubblico davanti a una competente autorità civile.
Negli ultimi anni queste dichiarazioni di uscita (nelle quali non è facile distinguere le ragioni della fede da quelle della pecunia) sono molto cresciute di numero. E ad esse i vescovi hanno reagito emanando nel 2012 un decreto che commina al fuggitivo una micidiale serie di sanzioni:
“- non può ricevere i sacramenti della penitenza, de!l’eucaristia, della confermazione e dell’unzione degli infermi, tranne in pericolo di morte;
- non può ricoprire alcun ministero ecclesiastico e svolgere alcuna funzione nella Chiesa;
- non può essere padrino/madrina al battesimo e alla confermazione;
- non può essere membro dei consigli parrocchiali e diocesani;
- perde il diritto attivo e passivo di voto nella Chiesa;
- non può essere membro delle associazioni pubbliche della Chiesa”.

E ancora:
“- alla persona uscita dalla Chiesa che non abbia manifestato prima della morte un qualche segno di pentimento possono essere negate le esequie cattoliche;
- alla persona uscita dalla Chiesa che esercitasse dei servizi in base a un’autorizzazione ecclesiastica deve essere ritirata I’autorizzazione”.

Per ricondurre il reprobo all’ovile è previsto un colloquio col parroco del luogo. Ma se la riconciliazione fallisce, può arrivare anche di peggio:
“Quando nel comportamento del fedele che ha dichiarato la propria uscita dalla Chiesa si ravvisa un atto scismatico, eretico o di apostasia, I’ordinario avrà cura di prendere le misure corrispondenti”.
Chi tocca muore. Su almeno un paio di questioni “sensibili”, tradizionalismo e Kirchensteuer, pare proprio che non ci debba essere misericordia.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 29 ottobre 2014)
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/10/29/tempo-di-misericordia-ma-anche-di-scomuniche/

 

sabato 25 ottobre 2014

La paziente rivoluzione di Francesco

Non è vero che Francesco sia stato zitto, nelle due settimane del sinodo. Nelle omelie mattutine a Santa Marta martellava ogni giorno gli zelanti della tradizione, quelli che caricano sugli uomini fardelli insopportabili, quelli che hanno solo certezze e nessun dubbio, gli stessi contro cui si è scagliato nel discorso di congedo con i padri sinodali.
È tutto tranne che imparziale, questo papa. Ha voluto che il sinodo orientasse la gerarchia cattolica verso una nuova visione del divorzio e dell'omosessualità e ci è riuscito, nonostante il numero risicato dei voti favorevoli alla svolta, dopo due settimane di discussione infuocata.
In ogni caso sarà lui alla fine a decidere, ha ricordato a cardinali e vescovi che ancora avessero qualche dubbio. Per rinfrescare la loro memoria sulla sua potestà "suprema, piena, immediata e universale" ha messo in campo non qualche raffinato passaggio della "Lumen gentium" ma i canoni rocciosi del codice di diritto canonico.
Sulla comunione ai divorziati risposati si sa già come il papa la pensi. Da arcivescovo di Buenos Aires autorizzava i "curas villeros", i preti inviati nelle periferie, a dare la comunione a tutti, sebbene i quattro quinti delle coppie neppure fossero sposate. E da papa non teme di incoraggiare per telefono o per lettera qualche fedele passato a seconde nozze a prendere tranquillamente la comunione, subito, senza nemmeno quei previ "cammini penitenziali sotto la responsabilità del vescovo diocesano" prospettati da qualcuno nel sinodo, e senza nulla smentire quando poi la notizia di questi suoi gesti trapela.
I poteri assoluti di capo della Chiesa, Jorge Mario Bergoglio li esercita anche così. E quando preme affinché l'insieme della gerarchia cattolica lo segua su questa strada sa benissimo che la comunione ai divorziati risposati, numericamente poca cosa, è il varco per una svolta ben più generalizzata e radicale, verso quella "seconda possibilità di matrimonio", con conseguente scioglimento del primo, che è ammessa nelle Chiese ortodosse d'oriente e che lui, Francesco, già poco dopo la sua elezione a papa disse "si debba studiare" anche nella Chiesa cattolica, "nella cornice della pastorale matrimoniale".
Era il luglio del 2013 quando il papa rese pubblica questa sua volontà. Ma in quella stessa intervista sull'aereo di ritorno dal Brasile egli aprì il cantiere anche sul terreno dell'omosessualità, con quel memorabile "chi sono io per giudicare?" universalmente interpretato come assolutorio di atti da sempre condannati dalla Chiesa ma ora non più, se compiuti da chi "cerca il Signore e ha buona volontà".
Nel sinodo una svolta in questa materia non ha avuto vita facile. È stata invocata in aula da non più di tre padri: dal cardinale Christoph Schönborn, dal gesuita Antonio Spadaro, direttore del "La Civiltà Cattolica", e dall'arcivescovo malese John Ha Tiong Hock.
Quest'ultimo si è appoggiato su un parallelo fatto da papa Francesco tra il giudizio della Chiesa sulla schiavitù e quello sulla concezione che l'uomo d'oggi ha di sé, omosessualità compresa, per dire che come il primo è cambiato così può mutare anche il secondo giudizio.
Mentre padre Spadaro ha portato l'esempio fatto dal papa di una bambina adottata da due donne, per sostenere che bisogna trattare queste situazioni in modo positivo e nuovo.
Per aver poi inserito nel documento di lavoro di metà discussione tre paragrafi che incoraggiavano la "crescita affettiva" tra due uomini o due donne "integrando la dimensione sessuale", l'arcivescovo Bruno Forte, voluto dal papa segretario speciale del sinodo, è stato sconfessato in pubblico dal cardinale relatore, l'ungherese Péter Erdõ. E la successiva discussione tra i padri sinodali ha fatto a pezzi i tre paragrafi, che nella "Relatio" finale si sono ridotti a uno solo e senza più un briciolo di novità, nemmeno superando il quorum dell'approvazione.
Ma anche qui papa Francesco e i suoi luogotenenti, da Forte a Spadaro all'arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, hanno centrato l'obiettivo di far entrare questo tema esplosivo nell'agenda della Chiesa cattolica, ai suoi più alti livelli. Il seguito si vedrà.
Perché la rivoluzione di Bergoglio procede così, "a lunga scadenza, senza l'ossessione dei risultati immediati". Perché "l'importante è iniziare i processi più che possedere spazi". Parole della "Evangelii gaudium", programma del suo pontificato.


(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 24 ottobre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350910

 

Montecassino non è più diocesi

L'abbazia territoriale di Montecassino "dimagrisce". Nel nominare il nuovo abate, il benedettino Donato Ogliari, che prende il posto di dom Pietro Vittorelli, dimessosi a giugno del 2013, Papa Francesco ha deciso - in graduale applicazione di un motu proprio di Paolo VI che recepiva le indicazioni del Concilio Vaticano II - una "nuova configurazione territoriale della circoscrizione ecclesiastica" dell'abbazia. La quale viene spogliata, di fatto, della potestà diocesana, con il trasferimento di parrocchie, fedeli, clero e seminaristi sotto la giurisdizione della diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. La quale diviene ora, di conseguenza, Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, guidata da monsignor Gerardo Antonazzo.
Un simile destino era toccato, negli anni scorsi, a Subiaco (2002), Monte Vergine (2005) e Cava de Tirreni (2013).
Il Papa - si legge nel bollettino vaticano - ha nominato abate ordinario dell’abbazia territoriale di Montecassino il benedettino Donato Ogliari, finora abate del monastero di Santa Maria della Scala in Noci. "Il Papa ha contestualmente applicato all’abbazia territoriale di Montecassino il motu proprio 'Catholica Ecclesia', con conseguente riduzione del territorio della medesima, disponendo in particolare che: alla nuova configurazione territoriale della circoscrizione ecclesiastica 'abbazia territoriale di Montecassino' appartenga il territorio su cui sorgono la chiesa abbaziale e il Monastero, con le immediate pertinenze; alla diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo passino le 53 parrocchie con i fedeli, il clero secolare e religioso, le comunità religiose, i seminaristi; la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo muti il proprio nome in quello di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo".
"Per il bene della vita religiosa - ha chiosato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi - il Concilio ha voluto che l'abate non dovesse fare il vescovo e potesse pertanto occuparsi dell'abbazia. Queste indicazioni sono state poi riprese da Paolo VI nel motu proprio Catholica Ecclesia" del 1976. In Italia, tuttavia, a causa di "accordi concordatari" e "tradizione" questa novità è stata "applicata gradualmente".
Il motu proprio di Montini prevedeva: "Dopo aver sentito il parere della Conferenza episcopale interessata, le Abbazie non dipendenti da alcuna Diocesi attualmente esistenti, escluse quelle regolate da un diritto particolare, siano più idoneamente definite quanto al territorio o siano trasformate in altre circoscrizioni ecclesiastiche, secondo le norme stabilite dal Concilio Ecumenico Vaticano II".
La diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo passa, ora, da 1426 chilometri quadri a 2016 chilometri quadri, da una popolazione di 155mila persone a una popolazione di 235mila persone, da quaranta a sessanta comuni e da 91 a 144 parrocchie.
Padre Ogliari è nato a Erba (Como) nel 1956. Ha studiato Filosofia a Torino e Teologia a Londra e Lovanio (Belgio). Ordinato Sacerdote nel 1982 è entrato nel 1988 nell'abbazia di Praglia, in provincia di Padova, ed è passato l'anno successivo all'abbazia Madonna della Scala di Noci, in provincia di Bari. Dal 2008 è vicepresidente della Conferenza monastica italiana e dal 2012 è visitatore dei monasteri italiani della congregazione benedettina.

(Fonte: Iacopo Scaramuzzi, Vatican Insider, 23 ottobre 2014)
http://vaticaninsider.lastampa.it/news/dettaglio-articolo/articolo/montecassino-37106/

 

giovedì 23 ottobre 2014

“Operazione commerciale spericolata e furbetta” quella di Sr. Cristina

L’operazione commerciale più spericolata nel panorama musicale recente, ci sembra quantomeno furbetta (discograficamente parlando). Lo dimostrano la scelta di girare il video nella stessa location dell’originale (Venezia), l’internazionalizzazione del nome (Sister Cristina invece di Suor Cristina), e, ciliegina vera, la scelta del brano. Chi, meglio di una suora graziosa che ha vinto un talent in abbinamento con un tutor decisamente fuori dagli schemi come J-Ax, poteva meglio prestarsi a reinterpretare un grande classico del pop come “Like a virgin”? Laddove lo sfruttamento del binomio diavolo/acqua santa ha sempre molta presa sul pubblico, nemmeno agli americani di Sister Act sarebbe venuto in mente una simile mossa del cavallo. Il dubbio dell’uso strumentale della suora dalla voce d’angelo sorge spontaneo dopo i non brillanti risultati in termini di vendite e di pubblico post vittoria televisiva. Deinde per cui, chi avrebbe parlato di lei se non avesse cantato proprio una canzone di Madonna? E come non innescare la solita, astuta, macchina delle polemiche rivendicando un’interpretazione religiosa funzionale del testo? Ecco, il testo.
Non vogliamo dare giudizi morali in tema, l’esegesi non ci appartiene. Ma basta ricordare i primi minuti del film “Le iene” di Tarantino, dove se ne fornisce interpretazione esaustiva e colorita, per far comprendere le modalità con cui la parafrasi della canzone è radicata nell’immaginario collettivo. E ora ci si viene a dire che si può cantarla rendendola “qualcosa di più simile a una preghiera laica che a un brano pop”. Beata ingenuità. La forza di un testo, il suo attraversare il tempo, sta anche nella doppia caratteristica di essere interpretabile in mille modi diversi eppure di non piegarsi all’interpretazione stessa. La Divina Commedia è sempre lei, da quei sette secoli più o meno, e nulla scalfisce la forza evocativa di qualunque lacerto di verso che si affacci alla nostra memoria, sopravvivendo a tutte le parodie dissacranti o alle letture solenni. “La bocca sollevò dal fiero pasto” si può immaginare e dire come si vuole, ma ci riconduce sempre alla furia dolorosa della disperazione che si fa vendetta, non ad altro.
E c’è un ulteriore elemento da considerare, tutt’altro che avulso dal contesto. I religiosi non sono persone di un altro mondo, ma lo vivono e ci vivono: hanno talenti, passioni, voglia di vivere e una fede non da nascondere, ma da condividere. Per questo non si può non pensare che anche il paragone con la rock star Madonna risulti un po’ forzato, stante le note capacità della cantante italo-americana di essere un’abile e performante “macchina da soldi” che, solleticando pruderie e tabù, ha precorso, lanciato e cavalcato magistralmente mode&modi: dal periodo sacro/profano fatto di croci e crocette su pizzi e velette, al lesbo chic; dalla trasgressione patinata, alla conversione cabalistica; dal salutismo esasperato al giovanilismo come ragione di vita.
Suor Cristina, sfidando la sorte, si è praticamente autolanciata l’hashtag #sonoserena. Noi lo siamo un po’ meno per il suo futuro. Di cantante pop, s’intende.


(Fonte: Editoriale, Il Timone, 23 ottobre 2014)
http://www.iltimone.org/32303,News.html

 

Le oche del Campidoglio

Nel 390 a.C., come racconta Tito Livio, furono le oche a salvare il Campidoglio dall’assedio dei Galli. Marco Manlio, svegliato dal loro starnazzare e dal rumore delle loro ali, radunò gli altri soldati e respinse l’assalto dei barbari. Ora, al Campidoglio, le oche sono scomparse, insieme ai soldati che possono difenderlo.
Non ci sono più i barbari, ma uomini suadenti, sorridenti e giulivi che dicono: «Questo è un giorno normale. Cosa c’è di più bello del diritto d’amare?». Trascrivono matrimoni contratti all’estero tra uomini e uomini e donne e donne, che si presentano insieme ai loro figli. Declamano versi di Pablo Neruda: «Se saprai starmi vicino, e potremo essere diversi, se il sole illuminerà entrambi senza che le nostre ombre si sovrappongano, se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere. Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo e non il ricordo di come eravamo, se sapremo darci l’un l’altro senza sapere chi sarà il primo e chi l’ultimo se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia… Allora sarà amore e non sarà stato vano aspettarsi tanto».
Vengono accolti da ovazioni, applausi e gridaBravo, avanti»). Posano per le foto di rito. Si dicono pronti a ricorrere all’Unione europea, se qualcuno dovesse azzardarsi ad intervenire su quella scelta, definita «atto di stato civile».
Sempre, le parole danno un senso alle cose che accadono. Lo stato è civile quando asseconda i desideri più sfrenati. Vuoi eliminare il nascituro? Ti organizzo l’omicidio. Vuoi rompere il matrimonio? Ti abbrevio i tempi d’attesa. Non riesci ad avere bambini? Ti affitto un utero o ti faccio una legge che tratta come spazzatura gli embrioni umani. Vuoi evitare di restare in gravidanza? Ti distribuisco milioni di pillole, di uno, tre o 5 giorni dopo, garantendoti anche la possibilità di farlo da te l’aborto, a casa.
Non vuoi più tenere gli anziani malati a casa o in ospedale o i figli portatori di handicap, perché sono un peso e ti danno fastidio e non hai il denaro per parcheggiarli in una casa di riposo o di cura? Niente paura, ti martello ogni giorno con campagne e sondaggi che promuovono l’eutanasia e il suicidio assistito. Alla fine, una legge si farà. Hai un figlio da un rapporto incestuoso? Tolgo il divieto del riconoscimento. Vuoi un figlio “perfetto”? Te lo costruisco in laboratorio e ti do anche la possibilità di scegliertelo come più ti garba, con diagnosi prenatali che da strumenti di intervento precoce sulle malattie si trasformano in strumenti di selezione della vita.
Mal sopporti di istruire i tuoi figli sulla sessualità? Te li educo io, a scuola, così – come sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità – anche i bambini da 0 a 4 anni, impareranno il piacere sessuale e quello della masturbazione e quelli un po’ più grandi comprenderanno meglio la normalità di un’identità sessuale fluttuante nel corso della vita.
Il Sindaco di Roma, Ignazio Marino, cavalca l’onda lunga dei “diritti civili”, quelli che per certuni hanno dato un senso alla “nuova modernità”. Questo è il “mondo” che molti cattolici “tiepidi”, pronti ai compromessi e al “male minore” hanno contribuito a costruire negli ultimi decenni. Poco consapevoli di quella bellissima “preghiera sacerdotale” di Gesù, contenuta nel Vangelo di Giovanni (Gv 17,1-25), dove il Figlio di Dio non prega per il “mondo”. Non gli interessa il “mondo”. Non ama il buonismo. Non è ecumenista.
Prega per coloro che Dio Gli ha dato, per coloro ai quali ha dato la parola di Suo Padre, per coloro che sono odiati dal mondo, «perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo». Chiede al Padre di consacrare i Suoi figli nella Verità, perché «la tua parola è Verità» e di custodirli da Satana, da Mammona, dal principe di questo mondo e dalle sue trame.

(Fonte: Danilo Quinto, Corrispondenza Romana, 22 ottobre 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/le-oche-del-campidoglio/
 

venerdì 17 ottobre 2014

La vera storia di questo sinodo. Regista, esecutori, aiuti.

“È tornato a soffiare lo spirito del Concilio”, ha detto il cardinale filippino Luis Antonio G. Tagle, stella emergente nella gerarchia mondiale oltre che storico del Vaticano II. Ed è vero. Nel sinodo che sta per concludersi ci sono molti elementi in comune con ciò che accadde in quel grande evento.
La similitudine più appariscente è lo stacco tra il sinodo reale e il sinodo virtuale veicolato dai media.
Ma c’è una somiglianza ancor più sostanziale. Sia nel Concilio Vaticano II sia in questo sinodo i cambi di paradigma sono il prodotto di una accurata regia. Un protagonista del Vaticano II come don Giuseppe Dossetti – abilissimo stratega dei quattro cardinali moderatori che erano al comando della macchina conciliare – lo rivendicò con fierezza. Disse di “aver capovolto le sorti del Concilio” grazie alla propria capacità di pilotare l’assemblea, appresa nella sua precedente esperienza politica di leader del maggior partito italiano.
Anche in questo sinodo è avvenuto così. Sia le aperture alla comunione ai divorziati risposati – e quindi l’ammissione da parte della Chiesa delle seconde nozze – sia l’impressionante cambio di paradigma in tema di omosessualità infilato nella “Relatio post disceptationem” non sarebbero stati possibili senza una serie di passi abilmente calcolati da chi aveva e ha il controllo delle procedure.
Per capirlo, basta ripercorrere le tappe che hanno portato a questo risultato, anche se il provvisorio finale del sinodo – come si vedrà – non è stato pari alle aspettative dei suoi registi.
Il primo atto ha per protagonista papa Francesco in persona. Il 28 luglio 2013, nella conferenza stampa sull’aereo che lo riporta a Roma dopo il suo viaggio in Brasile, egli lancia due segnali che sull’opinione pubblica hanno un impatto fortissimo e duraturo.
Il primo sul trattamento degli omosessuali:
“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarlo?”.
Il secondo sull’ammissione delle seconde nozze:
“Una parentesi: gli ortodossi seguono la teologia dell’economia, come la chiamano, e danno una seconda possibilità (di matrimonio), lo permettono. Credo che questo problema – chiudo la parentesi – si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale”.
Segue nell’ottobre del 2013 la convocazione di un sinodo sulla famiglia, primo di una serie di due sinodi sullo stesso tema nell’arco di un anno, con decisioni rimandate a dopo il secondo. A segretario generale di questa sorta di sinodo permanente e prolungato il papa nomina un neocardinale con nessuna esperienza in proposito, ma a lui legatissimo, Lorenzo Baldisseri. Al quale affianca per l’occasione, come segretario speciale, il vescovo e teologo Bruno Forte, già esponente di spicco della linea teologica e pastorale che aveva avuto il suo faro nel cardinale gesuita Carlo Maria Martini e i suoi maggiori avversari prima in Giovanni Paolo II e poi in Benedetto XVI: una linea dichiaratamente aperta a un cambio dell’insegnamento della Chiesa in campo sessuale.
All’indizione del sinodo si associa il lancio di un questionario a raggio mondiale con domande specifiche sulle questioni più controverse, comprese la comunione ai risposati e le unioni omosessuali.
Anche grazie a questo questionario – cui seguirà l’intenzionale pubblicazione delle risposte da parte di alcuni episcopati di lingua tedesca – si ingenera nell’opinione pubblica l’idea che si tratti di questioni da ritenersi già “aperte” non solo in teoria ma anche in pratica.
Dà prova di questa fuga in avanti, ad esempio, l’arcidiocesi di Friburgo, in Germania, retta dal presidente della conferenza episcopale tedesca Robert Zollitsch, che in un documento di un suo ufficio pastorale incoraggia l’accesso alla comunione dei divorziati risposati sulla semplice base di “una decisione di coscienza”.
Da Roma il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard L. Müller, reagisce ripubblicando il 23 ottobre 2013 su “L’Osservatore Romano” una sua nota già uscita quattro mesi prima in Germania che riconferma e spiega il divieto della comunione.
A nulla vale però il suo richiamo affinché l’arcidiocesi di Friburgo ritiri quel documento. Anzi, sia il cardinale tedesco Reinhard Marx, sia con parole più grossolane il cardinale honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga criticano Müller per la sua “pretesa” di troncare la discussione in materia. Sia Marx che Maradiaga fanno parte del consiglio degli otto cardinali chiamati da papa Francesco ad assisterlo nel governo della Chiesa universale. Il papa non interviene a sostegno di Müller.
Il 20 e il 21 febbraio 2013 i cardinali si riuniscono a Roma in concistoro. Papa Francesco chiede loro di dibattere sulla famiglia e delega a tenere la relazione introduttiva il cardinale Walter Kasper, già battagliero sostenitore nei primi anni Novanta di un superamento dei divieto della comunione ai risposati, ma sconfitto, all’epoca, da Giovanni Paolo II e da Joseph Ratzinger.
Nel concistoro, che è a porte chiuse, Kasper rilancia in pieno quelle sue tesi. Numerosi cardinali gli si oppongono, ma Francesco lo gratifica di altissimi elogi. In seguito, Kasper dirà di aver “concordato” col papa le sue proposte.
Inoltre, Kasper ha dal papa il privilegio di rompere il segreto sulle cose da lui dette nel concistoro, a differenza di tutti gli altri cardinali. Quando il 1 marzo la sua relazione esce a sorpresa sul quotidiano italiano “Il Foglio”, la stessa relazione è infatti già in corso di stampa presso l’editrice Queriniana. L’eco della pubblicazione è immensa.
All’inizio della primavera, per bilanciare l’impatto delle proposte di Kasper, la congregazione per la dottrina della fede programma la pubblicazione su “L’Osservatore Romano” di un intervento di segno opposto di un cardinale di primo piano. Ma contro la pubblicazione di questo testo scatta il veto del papa.
Le tesi di Kasper sono comunque oggetto di severe e argomentate critiche da parte di un buon numero di cardinali, che intervengono a più riprese su diversi organi di stampa. Alla vigilia del sinodo, cinque di questi cardinali ripubblicano in un libro i loro interventi precedenti, col corredo di saggi di altri studiosi e di un alto dirigente di curia, gesuita, arcivescovo, esperto della prassi matrimoniale delle Chiese orientali. Kasper, con vasto consenso nei media, deplora la pubblicazione del libro come un affronto mirato a colpire il papa.
Il 5 ottobre si apre il sinodo. Contrariamente al passato, gli interventi in aula non sono resi pubblici. Il cardinale Müller protesta contro questa censura. Ma invano. Una prova in più, dice, che “non faccio parte della regia”.
Compongono la centrale operativa del sinodo i segretari generale e speciale, Baldisseri e Forte. Ma ad essi il papa affianca, scelti da lui personalmente, coloro che si occuperanno della stesura del messaggio e della “Relatio” finali, tutti appartenenti al partito del cambiamento, con alla testa il suo fidato ghostwriter Víctor Manuel Fernández, arcivescovo e rettore dell’Università Cattolica di Buenos Aires.
Che questa sia la vera cabina di regia del sinodo diventa clamorosamente evidente lunedì 13 ottobre, quando davanti a duecento giornalisti di tutto il mondo il cardinale delegato che figura come l’autore formale della “Relatio post disceptationem”, l’ungherese Péter Erdõ, interrogato sui paragrafi riguardanti omosessualità, rifiuta di rispondere e cede la parola a Forte dicendo: “Quello che ha redatto il brano deve sapere lui cosa dire”.
Alla richiesta di chiarire se i paragrafi sull’omosessualità possano essere interpretati come un cambio radicale nell’insegnamento della Chiesa in materia, ancora il cardinale Erdõ risponde: “Certamente!”, marcando anche qui il suo disaccordo.
In effetti questi paragrafi riflettono non un orientamento espresso in aula da un consistente numero di padri – come ci si aspetta di leggere in una “Relatio” – ma le cose dette da non più di due individui su quasi duecento. Uno dei due è il gesuita Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, nominato membro del sinodo personalmente da papa Francesco.
Martedì 14 ottobre, in conferenza stampa, il cardinale sudafricano Wilfrid Napier denuncia con parole taglienti l’effetto della prevaricazione operata da Forte con l’inserire nella “Relatio” quegli esplosivi paragrafi sull’omosessualità. Essi, dice, hanno messo la Chiesa in una posizione “irredeemable”, senza vie d’uscita. Perché ormai “il messaggio è partito: questo è ciò che dice il sinodo, questo è ciò che dice la Chiesa. A questo punto non c’è correzione che tenga, tutto quello che possiamo fare è solo tentare di limitare i danni”.
In realtà, nei dieci circoli linguistici in cui i padri sinodali proseguono la discussione, la “Relatio” va incontro a un massacro.  A cominciare dal suo linguaggio “touffu, filandreux, excessivement verbeux et donc ennuyeux”, come denuncia impietoso il relatore ufficiale del gruppo “Gallicus B” di lingua francese, che pur comprende due campioni di tale linguaggio – e dei suoi contenuti altrettanto vaghi ed equivoci – come i cardinali Christoph Schönborn e Godfried Danneels.
Ripresi giovedì 16 ottobre i lavori in aula, il segretario generale Baldisseri, con a fianco il papa, dà l’avviso che i rapporti dei dieci gruppi non saranno resi pubblici. Esplode la protesta. Il cardinale australiano George Pell, fisico e temperamento da giocatore di rugby, è il più intransigente nell’esigere la pubblicazione dei testi. Anche il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin si associa. Baldisseri cede. Lo stesso giorno, papa Francesco si vede costretto a integrare il pool incaricato di scrivere la relazione finale, immettendovi l’arcivescovo di Melbourne Denis J. Hart e soprattutto il combattivo cardinale sudafricano Napier.
Il quale, però, aveva visto giusto. Perché qualunque sia lo sbocco di questo sinodo programmaticamente privo di una conclusione, l’effetto voluto dai suoi registi è in buona misura raggiunto.
Sull’omosessualità come sul divorzio e le seconde nozze, infatti, il nuovo verbo riformatore comunque immesso nel circuito mondiale dei media vale più del favore effettivamente raccolto tra i padri sinodali dalle proposte di Kasper o di Spadaro.
La partita potrà durare a lungo. Ma papa Francesco è paziente. Nella “Evangelii gaudium” ha scritto che “il tempo è superiore allo spazio”.

(Fonte: (Sandro Magister, www.chiesa, 17 ottobre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350897
 

“Matrimonio e seconde nozze al Concilio di Trento”. Damnatio Memoriæ?

Il padre gesuita Giancarlo Pani, docente di storia del cristianesimo presso l'Università di Roma "La Sapienza", ha recentemente pubblicato un saggio su "La Civiltà Cattolica" del titolo "Matrimonio e ‘seconde nozze’ al Concilio di Trento". In essa egli difende la pratica matrimoniale greca di "oikonomia" secondo la quale i matrimoni falliti possono essere sciolti e i coniugi hanno il permesso di risposarsi, o più spesso avere i loro "nuovi matrimoni dichiarati validi" dalla Chiesa “dopo un periodo di penitenza". Egli si augura palesemente che questa "tradizione tollerante" possa fare strada anche nella Chiesa cattolica.
A conforto di tale aspirazione, egli rivendica nientemeno che l’autorità del Concilio di Trento, che ritiene abbia implicitamente sancito la pratica greca del divorzio nei suoi "canones de sacramento matrimonii".
La sua tesi ha due difetti. Il primo e più serio qui semplicemente lo accenno. Nel suo saggio, egli non solo assume ma addirittura afferma più volte che questa forma di divorzio e di nuovo matrimonio non è in conflitto con la dottrina dell'indissolubilità, senza fornire nessun argomento a sostegno. L'affermazione è stata confutata da Germain Grisez, John Finnis e William E. May vent’anni fa nella loro risposta critica ai vescovi tedeschi Walter Kasper, Karl Lehmann e Oskar Saier, che avevano proposto una soluzione per permettere ai cattolici divorziati e risposati in Germania di accedere all'eucaristia.
Il secondo problema riguarda l'interpretazione di Pani del canone 7 di Trento sull’indissolubilità. Egli segue la fortunata interpretazione del gesuita fiammingo Piet Fransen (1913-1983), la cui ricostruzione, anche se ampiamente accolta, è gravemente difettosa (1). L'articolo di Pani riassume abbastanza gli eventi dell'agosto del 1563, per cui non è necessario ripeterli qui. Ma c’e una storia più ampia che esige delle osservazioni.
Anche se la Chiesa ortodossa orientale – scrive Pani – "ha affermato e riconosciuto rigorosamente l'indissolubilità del matrimonio", tuttavia ha consentito il divorzio e le seconde nozze in alcuni casi. I padri e i teologi a Trento sapevano dell'antico "ritus" (costume) dell'Oriente e l’hanno rispettato. Molti padri conciliari avevano dubbi circa la "clausola d’eccezione" nel Vangelo di Matteo ("tranne nei casi di porneia"). Essi dubitavano che la rivelazione divina escludesse assolutamente un nuovo matrimonio in caso di adulterio. Dato il dubbio, decisero di "parlare chiaramente sulla indissolubilità del matrimonio, ma anche di dire che tale dottrina non può essere considerata come una parte costitutiva della [divina] rivelazione". I loro dubbi hanno raggiunto il punto culminante nell'agosto del 1563 con il famoso intervento della delegazione veneziana, che ha esortato i padri conciliari, per il bene delle pratiche di divorzio dei Greci in terre cattoliche, a non condannare direttamente il divorzio e il nuovo matrimonio in caso di adulterio. La petizione ha avuto successo e alla fine il Concilio ha approvato una formulazione indiretta del canone 7. Questo ovviamente perché la grande maggioranza dei padri conciliari hanno preferito lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio.
Pani lamenta che questa "pagina" nell'insegnamento di Trento sul matrimonio "sembra essere stata dimenticata dalla storia". Ma come può essere stata dimenticata quando Walter Kasper (2), Charles Curran (3), Michael Lawler (4), Kenneth Himes (5), James Coriden (6), Theodore Mackin S.J. (7), Victor J. Pospishil (8), Francis A. Sullivan SJ (9), Karl Lehmann (10), e Piet Fransen S.J. (solo per citarne alcuni) l’hanno ripetuta continuamente nel corso degli ultimi cinquant'anni? In realtà questa ricostruzione risale al XVII secolo. Il teologo antiromano Paolo Sarpi e il giansenista Jean Launoy (12) hanno sostenuto che il Concilio intendeva lasciare aperta la questione se a volte fosse legittimo risposarsi dopo il divorzio (13).
Pani incolpa i segretari e i cronisti del Concilio per il loro "silenzio eloquente" su questa storia. Ma un'interpretazione alternativa del loro silenzio mi sembra più ovvia e corretta: la ricostruzione di Pani è una creazione postconciliare. Questo non vuol dire che gli eventi che egli cita, in particolare l'intervento di Venezia, non abbiano avuto luogo. Certo che hanno avuto luogo. Ma non vi è alcuna base storica per la sua affermazione secondo cui il Concilio – e con questo intendo la stragrande maggioranza dei vescovi votanti – avrebbe letto il canone 7 come se lasciasse curi le pratiche di divorzio dei Greci. Molti studiosi prima della metà del XX secolo hanno sostenuto che Trento intendeva definire l'assoluta indissolubilità [del matrimonio] come una verità "de fide", per esempio Domenico Palmieri (14) e Giovanni Perrone (15), l'illustre autore e redattore del francese "Dictionnaire de Théologie Catholique” Alfred Vacant (16) e il teologo dogmatico George Hayward Joyce, S.J. (17). Più di recente la stessa tesi è stato difesa dal futuro papa Joseph Ratzinger (18) e dai teologi morali Germain Grisez e Peter Ryan, S.J. (19).
Per dimostrare a fondo la falsità dell'interpretazione di Pani-Fransen occorrerebbe un trattato della lunghezza di un libro. Ma molte cose si possono dire per dimostrare che essa è discutibile. Per capire le vere intenzioni dei padri a Trento, non dobbiamo guardare subito, come fa Pani, l'intervento della delegazione veneziana. Dobbiamo guardare per prima cosa il consenso solido come roccia dei padri e dei teologi in ogni precedente discussione sul matrimonio, dal 1547 fino all'agosto del 1563.
Quando il canone 6 (che divenne il canone 7) fu presentato ai padri il 20 luglio del 1563, dopo aver subito diverse riscritture fu formulato così:
"Se qualcuno dirà che a causa dell'adulterio di un coniuge il matrimonio può essere sciolto, e che è lecito per entrambi, o almeno per il coniuge innocente che non ha dato nessun motivo per l'adulterio, di risposarsi, e che non è un adultero colui che licenzia una adultera e ne sposa un'altra, né è un'adultera colei che licenzia un adultero e ne sposa un altro: sia anatema" (20).
Non vi è nulla di straordinario in questa formulazione, in quanto il suo contenuto è più o meno lo stesso del contenuto delle proposizioni precedentemente condannate (numeri 3-5), proposte al Concilio da Angelo Massarelli, il segretario generale, nell'aprile del 1547 (21). Questa formulazione condanna in forma diretta le proposizioni che il matrimonio può essere sciolto a causa di adulterio; che non è mai lecito per i coniugi adulteri di risposarsi; e che il coniuge che ripudia un coniuge adultero e si risposa non è colpevole di adulterio.
Fin dalle prime discussioni di Trento questo è stato il consenso dei padri conciliari. Per quanto riguarda le "auctoritates", i prelati hanno fatto riferimento a Nostro Signore e a san Paolo, ai Canoni Apostolici, a Girolamo, Ambrogio, Agostino, Crisostomo, Origene, Ilario, ai papi Innocenzo I, Leone I, Alessandro III e ai Concili di Milevi, Elvira, Costanza, Firenze e Lateranense IV, tra altri. Quando pensatori cattolici del XVI secolo come Erasmo e Catarinus hanno suggerito che la dottrina dell'assoluta indissolubilità debba essere annacquata, le loro proposte sono state condannate dalle facoltà di teologia delle università di Colonia, Lovanio e Parigi. La conclusione di Agostino che la clausola d’eccezione in Matteo va letta in conformità con gli insegnamenti più restrittivi che si trovano in Luca 16, Marco 10 e Romani 7, 1-3 era accettata da quasi tutti. "Separazione di letto, non di legame", era il motto del momento.
Pani menziona il significativo dubbio contro l’indissolubilità assoluta [del matrimonio] esposto dal vescovo di Segovia il 14 agosto del 1563, come fa ogni altro autore che segue questa interpretazione (22). Ma egli non menziona che dall'inizio delle discussioni sul matrimonio una maggioranza rilevante e coesa ha affermato, contro il punto di vista segoviano, il motto agostiniano "letto, non legame", senza eccezioni. Alcuni nomi dovrebbero essere sufficienti a dimostrare questo: il presidente del concilio e legato pontificio cardinale Cervinus; gli arcivescovi Materanus, Naxiensis, Aquensis, e Armacanus; i vescovi Aciensis, Sibinicensis, Chironensis, Sebastensis, Motulanus, Motonensis, Mylonensis, Feltrensis, Bononiensis, Sibinicensis, Chironensis, Aquensis, Bituntinus, Aquinas, Mylensis, Lavellinus, Mylensis, Caprulanus, Grossetanus, Upsalensis, Salutiarum, Caprulanus, Veronensis, Maioricensis, Camerinensis , Thermularum, Mirapicensis e Vigorniensis.
In una dichiarazione sommaria registrata negli Acta il 6 settembre del 1547, si legge: "Le risposte dei padri erano varie; ma la stragrande maggioranza erano d’accordo che l'adulterio non può sciogliere un matrimonio; che se uno sposa un'altra persona quando il suo coniuge è ancora in vita commette adulterio; e che per nessuna ragione possono essere separati, tranne che nel letto”. (23). Riguardo alle "auctoritates" che si oppongono a questo punto di vista, la maggioranza ha concordato "che la separazione deve essere intesa solo come separazione del letto, e non del vincolo secondo l'interpretazione dei dottori (e l'insegnamento di San Paolo in 1 Cor 7, 10ss e Romani 7, 2ss, di Marco 10, 11, di Luca 16, 18 e dello stesso Matteo 5, 32)" Infine, la maggioranza ha concordato “che la comprensione della Scrittura dovrebbe essere secondo l'insegnamento della Chiesa” (24).
Quando la bozza del canone 6 fu presentata il 20 luglio del 1563, più di duecento padri del Concilio (cardinali, arcivescovi, vescovi, abati e generali delle congregazioni) intervennero a commentarla. Tutti sapevano che la fine dei dibattiti sul matrimonio si avvicinava. Se ci fossero stati dubbi diffusi o insoddisfazione tra i padri circa la destinazione della formulazione, l'inclusione dell'anatema, o le sue implicazioni per le pratiche di divorzio dei Greci (25), ci si sarebbe aspettato un notevole numero di "non placet" al canone. Ma solo 17 esprimettero disapprovazione, soprattutto a causa delle "opinioni dei Greci". Più dell'85 per cento dei prelati votanti erano soddisfatti per la formulazione diretta dell'anatema che condannava le seconde nozze dopo l'adulterio, con una larga maggioranza che approvò esplicitamente il suo contenuto ("placet").
Tre settimane più tardi, l'11 agosto, arrivò la proposta di Venezia di una formulazione indiretta. Circa 136 prelati si esprimettero a favore della proposta. Come si spiega questo cambiamento? Forse perché i padri conciliari preferivano lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio, come Pani e altri suggeriscono? Tale conclusione deve essere respinta. È verosimile che in meno di tre settimane la stragrande maggioranza dei prelati votanti abbiano abbandonato l’indissolubilità assoluta per consentire alcuni casi di divorzio e seconde nozze? Nella versione finale del canone 7 il Concilio adottò quattro altri importanti cambiamenti che contraddicono questa conclusione.
In primo luogo, aggiunse la frase "iuxta evangelicam et apostolicam doctrinam" per far capire che le successive proposizioni che condannano la negazione dell'indissolubilità nei casi di adulterio hanno la loro origine nella rivelazione divina.
In secondo luogo, sostituì il termine normativo "non dovrebbe... contrattare" ("non debere... contrahere") con il termine sostanziale "non può... contrattare" ("non posse... contrahere") rendendo chiaro che un nuovo matrimonio dopo il divorzio non è solo sbagliato, ma addirittura impossibile, sempre.
In terzo luogo, per garantire che il canone riguardava in modo trasparente l'indissolubilità del vincolo del matrimonio, adottò il termine "vinculum matrimonii" in sostituzione di "matrimonium".
Infine, introdusse per la prima volta una prefazione dottrinale ai canoni sul matrimonio. Ciò era chiaramente mirato ad istituire un quadro dottrinale all'interno del quale i canoni devono essere letti e interpretati. L’introduzione fonda la verità della indissolubilità sulla legge naturale (l'ordine creato), sull'ispirazione dello Spirito Santo nel Antico Testamento e sulla volontà e l'insegnamento di Gesù come espresso nel Nuovo Testamento. E afferma che sono condannati non solo gli "scismatici" ma anche "i loro errori" ("eorumque errores"), cioè le loro proposizioni erronee sulla natura del matrimonio, compresa la loro indiscutibile negazione della indissolubilità assoluta del matrimonio.
La spiegazione più plausibile per l'improvvisa svolta è che i padri conciliari restavano comunque convinti che il matrimonio non può essere sciolto a causa di un adulterio o di qualsiasi altra cosa, e che questo doveva essere insegnato come una verità di fede. Essi si erano trovati pronti a insegnare ciò nella forma di un anatema diretto che condannava la sua negazione. Ma l'intervento di Venezia li aveva mesi in guardia da una possibile conseguenza di questo atto, vale a dire il turbamento del delicato equilibrio dei rapporti tra i cristiani greci e la gerarchia romana nelle isole del Mediterraneo.
Erano certi che la proposizione che affermava l'indissolubilità assoluta del matrimonio era vera e apparteneva alla rivelazione divina, e avevano l’intenzione di insegnare entrambe le cose, ma di farlo in modo da ridurre al minimo le conseguenze indesiderabili. Non hanno fatto ricorso a una formulazione indiretta a motivo di dubbi circa l'interpretazione della "clausola d’eccezione", per la paura dello scandalo di "anatematizzare Ambrogio" o perché volessero lasciare i Greci liberi di seguire le loro antiche usanze di divorzio. L'appello di Venezia ha avuto successo per il motivo pastorale che una formulazione indiretta poneva una probabilità minore di turbare le relazioni greco-romane nei territori veneziani.
L'idea di Pani che nella pubblicazione del canone 7 i padri intendevano soltanto condannare Lutero e i riformatori ma lasciare fuori dalla critica le pratiche di divorzio dei Greci è in contrasto con il giudizio motivato sulla indissolubilità assoluta del matrimonio della stragrande maggioranza dei padri e dei teologi del Concilio dalla primavera del 1547 alla fine dell'estate del 1563. Come Ryan e Grisez affermano: "Anche se Trento non anatematizza [esplicitamente] la pratica della 'oikonomia', il canone 7 comporta che la sua applicazione alle 'seconde nozze' dopo il divorzio è contraria alla fede" (26).
La formula ironica di Pani, "damnatio memoriae", è davvero adatta. Ma non sono gli atti, i segretari, i cronisti o i commentatori del Concilio che impongono il silenzio sull'insegnamento di Trento. Si tratta piuttosto di coloro che, in nome della "misericordia evangelica", vogliono sostituìre una verità di fede con una "tollerante" fantasia.
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NOTE
(1) La tesi di dottorato di Fransen sul canone 7 ("De indissolubilitate Matrimonii christiani in casu fornicationis. De canone Septimo Sessionis XXIV Concilii Tridentini, luglio-novembre 1563") è stata presentata alla Gregoriana nel 1947. Nel 1950, Fransen pubblicò altri sei saggi influenti sulla rivista "Scholastik" sull'insegnamento di Trento sul matrimonio, che sono ristampati in una raccolta di saggi di Fransen intitolata "Ermeneutica dei Concili e altri studi", ed. H.E. Mertens e F. de Graeve, Leuven University Press, 1985. Egli ha riassunto le conclusioni di questi saggi in un saggio inglese molto letto dal titolo "Il divorzio a causa della Adulterio - Il Concilio di Trento (1563)", stampato in un numero speciale della rivista "Concilium", dal titolo "Il futuro del matrimonio come istituzione", ed. Franz Böckle, New York, Herder and Herder, 1970, 89-100.
(2) Kasper, "Theology of Christian Marriage", New York, Crossroad, 1977, note 87, p. 98, also p. 62.
(3) Charles Curran, "Faithful Dissent", Sheed & Ward, 1986, 269, 272.
(4) Michael Lawler, “Divorce and Remarriage in the Catholic Church: Ten Theses,” New Theology Review, vol. 12, no. 2 (1999), 56.
(5) Kenneth Himes and James Coriden, “The Indissolubility of Marriage: Reasons to Reconsider,” Theological Studies, vol. 65, no. 3 (2004), 463.
(6) Ibid.
(7) Theodore Mackin, "Divorce and Remarriage", New York, Paulist Press, 1984, 388.
(8) Victor J. Pospishil, "Divorce and Remarriage", New York, Herder and Herder, 1967, 66-68.
(9) Francis Sullivan, "Creative Fidelity: Weighing and Interpreting Documents of the Magisterium", New York, Paulist Press, 1996, 131-134.
(10) Karl Lehmann, "Gegenwart des Glaubens", Mainz, Matthias-Grünwald-Verlag, 1974, 285-286.
(11) Paolo Sarpi (1552 -1623), "Istoria del Concilio Tridentino", Londra, 1619; Traduzione in inglese: "History of the Council of Trent" (1676). La sua "Istoria", molto letta dai protestanti, è stata criticata come orientata contro la curia romana; vedi L.F. Bungener, "History of the Council of Trent", New York, Harper & Brothers, 1855, xix-xx.
(12) Jean de Launoy (1603-1678); vedi "De regia in matrimonium potestate" (1674), par. III, art. I, cap. 5, n. 78; in "Opera", Colonia/Ginevra, 1731, tom. 1, cap. I, p. 855.
(13) Bossuet scrisse di Sarpi: "Era un protestante sotto un abito religioso, che ha recitato la messa senza credere in essa, e che rimase in una Chiesa che egli considerava idolatra". Vedi Bertrand L. Conway, CSP, “Original Diaries of the Council of Trent,” The Catholic World, vol. 98 (Oct. 1913-March 1914), 467.
(14) Domenico Palmieri, "Tractatus de Matrimonio Cristiano", Typographia Polyglotta SC de Propaganda Fide, Roma, 1880, p. 142.
(15) G. Perrone, SJ., "De Matrimonio Christiano", vol. 3, Rome, 1861, bk. 3, ch. 4, a. 2, p. 379-380.
(16) A. Vacant, s.v., “Divorce", in ”Dictionnaire de théologie catholique", 1908, vol. XII, cols. 498-505.
(17) George Hayward Joyce, S.J., "Christian Marriage: An Historical and Doctrinal Study", London: Sheed and Ward, 1933, 395.
(18) In un saggio del 1972, "Zur Frage nach der Unauflöslichkeit der Ehe: Bemerkungen zum dogmengeschichtlichen Befund und zu seiner gegenwärtigen Bedeutung" (in Ehe und Ehescheidung: Diskussion Unter Christen, a cura di Franz Henrich e Volker Eid, München, Kösel, 1972, 47, 49), Ratzinger dice che egli segue Fransen sul canone 7. Nel 1986 egli dimostra però che ha cambiato idea: "La posizione della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio sacramentale e consumato... è stata infatti definita nel Concilio di Trento, e così appartiene al patrimonio della fede "(vedi citazione in Charles Curran, "Faithful Dissent", Sheed & Ward, 1986, p 269).
(19) Peter F. Ryan, S.J. and Germain Grisez, “Indissoluble Marriage: A Reply to Kenneth Himes and James Coriden", Theological Studies 72 (2011), 369-415.
(20) CT, IX, 640.
(21) See CT, VI, 98-99.
(22) CT, XI, 709.
(23) CT, VI, 434.
(24) CT, VI, 434-435.
(25) “Non placet, quia ferit Graecos and Ambrose” (Arcivescovo Cretensis), CT, IX, 644.
(26) Op. Cit., nota 180.
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Fonte: E. Christian Brugger, www.chiesa.it, 17 ottobre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350897
 

giovedì 16 ottobre 2014

Il Vangelo della famiglia nell'Occidente secolarizzato

Quella cellula fondamentale della società che è la famiglia sta attraversando un periodo di straordinariamente rapida evoluzione.
Ormai appaiono ovvi i rapporti prematrimoniali e pressoché normali i divorzi, molto spesso come conseguenza della rottura della fedeltà coniugale. Ci allontaniamo così dalla fisionomia tradizionale della famiglia, nei paesi e nelle civiltà segnati dal cristianesimo.
Negli ultimi decenni poi, almeno in Occidente, siamo entrati in territori inesplorati. Si sono fatta strada, infatti, le idee del "gender" e dei “matrimoni omosessuali”.
Alla radice di tutto ciò vi è il primato, e quasi l’assolutizzazione, della libertà individuale e del sentimento personale. Perciò il legame familiare deve essere plasmabile a piacere e comunque non impegnativo, fino a scomparire o ad essere praticamente irrilevante.
Nella medesima logica questo legame deve essere accessibile a ogni tipo di coppia, sulla base della rivendicazione di una totale uguaglianza che non accetta le differenze, soprattutto quelle riconducibili a una volontà esterna, sia essa umana (le leggi civili) o divina (la legge naturale).
Rimane forte e diffuso, tuttavia, il desiderio di avere una famiglia e possibilmente una famiglia stabile: desiderio che si traduce nella realtà di tante famiglie “normali” e anche di numerose famiglie autenticamente cristiane. Queste ultime sono certo una minoranza, ma consistente e assai motivata.
La sensazione che la famiglia propriamente intesa stia scomparendo è dunque in buona parte frutto della distanza tra il mondo reale e il mondo virtuale costruito dai mezzi di comunicazione, sebbene non si debba dimenticare che questo mondo virtuale influisce potentemente sui comportamenti reali.
A uno sguardo sereno ed equilibrato appaiono quindi poco fondati, riguardo alla famiglia e al suo futuro, il pessimismo unilaterale e la rassegnazione. Vale piuttosto anche per la pastorale della famiglia l’atteggiamento del Concilio Vaticano II verso i tempi nuovi, atteggiamento che possiamo riassumere nel binomio accoglienza e riorientamento verso Cristo salvatore.
In concreto, nella "Gaudium et spes", nn. 47-52, abbiamo riguardo al matrimonio e alla famiglia un nuovo approccio, assai più personalistico ma senza rotture con la concezione tradizionale. Poi le catechesi sull’amore umano di san Giovanni Paolo II e l’esortazione apostolica "Familiaris consortio" hanno costituito un grande approfondimento, che apre prospettive nuove e affronta molti dei problemi attuali. Sebbene queste catechesi non potessero misurarsi esplicitamente con gli sviluppi più recenti e più radicali, come la teoria del "gender" e il matrimonio tra persone dello stesso sesso, hanno tuttavia già posto, in buona misura, le basi per affrontarli.
Indubbiamente la pratica pastorale non sempre è stata all’altezza di questi insegnamenti – e del resto non può mai esserlo compiutamente –, ma si è mossa nella loro linea con importanti risultati: sono anche suo frutto, infatti, le nostre giovani famiglie cristiane.

Ora, con papa Francesco, abbiamo due sinodi riguardo alle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione, dopo il concistoro del febbraio scorso che è già entrato nell’argomento: una tappa ulteriore in questo cammino di accoglienza e riorientamento che tutta la Chiesa è chiamata a percorrere con fiducia.
L’ottica dei due sinodi deve essere chiaramente universale e nessuna area geografica o culturale può pretendere che i sinodi si concentrino solo sui propri problemi.
Ciò premesso, per l’Occidente le questioni più rilevanti sembrano essere quelle più radicali sorte negli ultimi decenni. Esse spingono a ripensare e rimotivare, alla luce del Vangelo della famiglia, il significato e il valore del matrimonio come alleanza di vita tra l’uomo e la donna, orientata al bene di entrambi e alla generazione ed educazione dei figli e dotata di una decisiva rilevanza anche sociale e pubblica.
Qui la fede cristiana deve mostrare una vera creatività culturale, che i ainodi non possono produrre automaticamente ma possono stimolare, nei credenti e in quanti si rendono conto che è in gioco una fondamentale dimensione umana.

Continuano però ad interpellarci e sembrano diventare sempre più acute anche altre questioni, già ripetutamente affrontate dal magistero. Tra queste quella dei divorziati risposati.
La "Familiaris consortio", n. 84, ha già indicato l’atteggiamento da assumere: non abbandonare coloro che si trovano in questa situazione, ma al contrario averne speciale cura, impegnandosi a mettere a loro disposizione i mezzi di salvezza della Chiesa. Aiutarli quindi a non considerarsi affatto separati dalla Chiesa e a partecipare invece alla sua vita. Discernere bene, inoltre, le situazioni, specialmente quelle dei coniugi abbandonati ingiustamente rispetto a quelle di chi ha invece colpevolmente distrutto il proprio matrimonio.
La medesima "Familiaris consortio" ribadisce però la prassi della Chiesa, “fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati”. La ragione fondamentale è che “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata e attuata dall’Eucaristia”.
Non è dunque in questione una loro colpa personale ma lo stato in cui oggettivamente si trovano. Perciò l’uomo e la donna che per seri motivi, come ad esempio l’educazione dei figli, non possono soddisfare l’obbligo della separazione, per ricevere l’assoluzione sacramentale e accostarsi all’Eucaristia devono assumere “l’impegno di vivere in piena castità, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”.
Si tratta indubbiamente di un impegno molto difficile, che di fatto viene assunto da pochissime coppie, mentre sono purtroppo sempre più numerosi i divorziati risposati.
Si stanno cercando quindi, da tempo, altre soluzioni. Una di esse, pur mantenendo ferma l’indissolubilità del matrimonio rato e consumato, ritiene di poter consentire ai divorziati risposati di ricevere l’assoluzione sacramentale e di accostarsi all’Eucaristia, a precise condizioni ma senza doversi astenere dagli atti propri dei coniugi. Si tratterebbe di una seconda tavola di salvezza, offerta in base al criterio della "epicheia" per unire alla verità la misericordia.
Questa via non sembra però percorribile, principalmente perché implica un esercizio della sessualità extraconiugale, dato il perdurare del primo matrimonio, rato e consumato. In altre parole, il vincolo coniugale originario continuerebbe ad esistere ma nel comportamento dei fedeli e nella vita liturgica si potrebbe procedere come se esso non esistesse. Siamo quindi di fronte a una questione di coerenza tra la prassi e la dottrina, e non soltanto a un problema disciplinare.
Quanto alla "epicheia" e alla "aequitas" canonica, esse sono criteri molto importanti nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate alle norme di diritto divino, sulle quali la Chiesa non ha alcun potere discrezionale.
A sostegno dell’ipotesi predetta si possono certamente addurre soluzioni pastorali analoghe a quelle proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrate in qualche misura anche nella prassi, ma esse non ottennero mai il consenso dei Padri e non furono in alcun modo dottrina o disciplina comune della Chiesa (cfr. la lettera della congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 novembre 1994, n. 4). Nella nostra epoca, quando, per l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio, il problema si è posto nei termini attuali, esiste invece, a partire dall'enciclica "Casti connubii" di Pio XI, una chiara e costante posizione comune del magistero, che va in senso contrario e che non appare modificabile.

Si può obiettare che il Concilio Vaticano II, senza violare la tradizione dogmatica, ha proceduto a nuovi sviluppi su questioni, come quella della libertà religiosa, sulle quali esistevano encicliche e decisioni del Sant'Ufficio che sembravano precluderli.
Ma il paragone non convince perché sul diritto alla libertà religiosa si è prodotto un autentico approfondimento concettuale, riconducendo questo diritto alla persona come tale e alla sua intrinseca dignità, e non alla verità astrattamente concepita, come si faceva in precedenza.
La soluzione proposta sui divorziati risposati non si basa invece su un simile approfondimento. I problemi della famiglia e del matrimonio incidono inoltre sul vissuto quotidiano delle persone in maniera incomparabilmente più grande e concreta rispetto a quelli della fondazione della libertà religiosa, il cui esercizio nei paesi di tradizione cristiana già prima del Vaticano II era comunque in larga misura assicurato.
Dobbiamo quindi essere molto prudenti nel modificare, riguardo al matrimonio e alla famiglia, le posizioni che il magistero propone da gran tempo e in maniera tanto autorevole: in caso contrario sarebbero assai pesanti le conseguenze sulla credibilità della Chiesa.
Ciò non significa che ogni possibilità di sviluppo sia preclusa. Una strada che appare percorribile è quella della revisione dei processi di nullità del matrimonio: si tratta infatti di norme di diritto ecclesiale, e non divino.
Va quindi esaminata la possibilità di sostituire il processo giudiziale con una procedura amministrativa e pastorale, rivolta essenzialmente a chiarire la situazione della coppia davanti a Dio e alla Chiesa. È molto importante però che qualsiasi cambiamento di procedura non diventi un pretesto per concedere in maniera surrettizia quelli che in realtà sarebbero divorzi: un’ipocrisia di questo genere sarebbe un gravissimo danno per tutta la Chiesa.

Una questione che va al di là degli aspetti procedurali è quella del rapporto tra la fede di coloro che si sposano e il sacramento del matrimonio.
La "Familiaris consortio", n. 68, mette giustamente l’accento sui motivi che inducono a ritenere che chi chiede il matrimonio canonico abbia fede, sia pure in grado debole e da riscoprire, rafforzare e far maturare. Sottolinea inoltre che delle ragioni sociali possono lecitamente entrare nella richiesta di questa forma di matrimonio. È sufficiente pertanto che i fidanzati “almeno implicitamente acconsentano a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il matrimonio”.
Voler stabilire ulteriori criteri di ammissione alla celebrazione, che riguardino il grado di fede dei nubendi, comporterebbe invece gravi rischi, a cominciare da quello di pronunciare giudizi infondati e discriminatori.
Di fatto, però, sono purtroppo molti oggi i battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio. Si pone dunque la questione se essi possano validamente contrarre un matrimonio sacramentale.
Su questo punto rimane di valore fondamentale l’introduzione del cardinale Ratzinger al volumetto "Sulla pastorale dei divorziati risposati" pubblicato nel 1998 dalla congregazione per la dottrina della fede.
Ratzinger (Introduzione, III, 4, pp. 27-28) ritiene che si debba chiarire “se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è 'ipso facto' un matrimonio sacramentale”. Il Codice di diritto canonico lo afferma (can. 1055 § 2) ma, come osserva Ratzinger, il Codice stesso dice che ciò vale per un valido contratto matrimoniale, e in questo caso è precisamente la validità a essere in questione. Ratzinger aggiunge: “All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di 'non fede' abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi”.
Sembra pertanto accertato che, se veramente non c’è fede, non c’è nemmeno il sacramento del matrimonio.
Riguardo alla fede implicita la tradizione scolastica, con riferimento a Ebrei 11, 6 (“chi si avvicina a Dio deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”), richiede almeno la fede in Dio rimuneratore e salvatore.
Mi sembra però che questa tradizione vada aggiornata alla luce dell’insegnamento del Vaticano II, in base al quale possono giungere alla salvezza che richiede la fede anche “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia”, compresi coloro che si ritengono atei o comunque non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio (cfr. "Gaudium et spes", 22; "Lumen gentium", 16).
Ad ogni modo questo insegnamento del Concilio non implica affatto un automatismo della salvezza e uno svuotamento della necessità della fede: mette invece l’accento non su un astratto riconoscimento intellettuale di Dio bensì su una, per quanto implicita, adesione a lui come scelta fondamentale della nostra vita.
Alla luce di questo criterio, nella situazione attuale sono forse da ritenere ancora più numerosi i battezzati che di fatto non hanno fede e che pertanto non possono contrarre validamente il matrimonio sacramentale.
Sembra quindi davvero opportuno e urgente impegnarsi a chiarire la questione giuridica di quella “evidenza di non fede” che renderebbe non validi i matrimoni sacramentali e che impedirebbe per il futuro ai battezzati non credenti di contrarre un tale matrimonio.
Non dobbiamo nasconderci, d’altra parte, che si apre così la via a cambiamenti molto profondi e carichi di difficoltà, non solo per la pastorale della Chiesa ma anche per la situazione dei battezzati non credenti.
È chiaro infatti che essi hanno, come ogni persona, diritto al matrimonio, che contrarrebbero in forma civile. La difficoltà maggiore non sta nel pericolo di compromettere il rapporto tra ordinamento canonico e ordinamento civile: la loro sinergia è già diventata infatti molto debole e problematica, per il progressivo allontanarsi del matrimonio civile da quelli che sono i requisiti essenziali dello stesso matrimonio naturale.
L’impegno dei cristiani e di quanti siano consapevoli dell’importanza umana e sociale della famiglia fondata sul matrimonio dovrebbe piuttosto essere rivolto ad aiutare gli uomini e le donne di oggi a riscoprire il significato di quei requisiti. Essi si fondano nell’ordine della creazione e proprio per questo valgono per ogni tempo e possono concretizzarsi in forme adatte ai tempi più diversi.
Vorrei terminare richiamando l’intenzione comune che anima coloro che stanno intervenendo nel dibattito sinodale: tenere insieme, nella pastorale della famiglia, la verità di Dio e dell’uomo con l’amore misericordioso di Dio per noi, che è il cuore del Vangelo.

 
(Fonte: Card. Camillo Ruini, espressonline, 13 ottobre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350894

Il vero dilemma: indissolubilità o divorzio

Dopo una settimana di sinodo una cosa risulta certa: il vero fuoco della discussione è l'ammissione o no del divorzio nel matrimonio cattolico.
Nel sinodo la parola divorzio è tabù. Nessuno dice di voler arrivare lì. Tutti proclamano a gran voce che la dottrina dell'indissolubilità deve rimanere intatta.
Quando però si vuole dare la comunione eucaristica ai divorziati risposati è come se di fatto, nel loro caso, il sacro vincolo coniugale originario non sussista più. Come già le Chiese ortodosse, anche la Chiesa cattolica ammetterebbe di fatto le seconde nozze.
È questa infatti la via battuta dai fautori dell'innovazione: non una irrealistica campagna per il divorzio cattolico, che solo alcuni teologi come Andrea Grillo o Hermann Häring reclamano esplicitamente, ma la proposta di un soccorso misericordioso a chi si vede negare la comunione perché risposatosi civilmente dopo lo scioglimento civile del proprio matrimonio sacramentale.
La proposta è allettante. Si presenta come medicina nei casi di sofferenza per un "diritto" sacramentale negato. Non importa che tali casi siano numericamente pochissimi. Bastano per far da leva a un cambiamento i cui effetti si prevedono enormemente più grandi.
La sociologia religiosa avrebbe molto da dire in proposito. Fino alla metà del Novecento, nelle parrocchie cattoliche, il divieto della comunione a chi era in una posizione matrimoniale irregolare non poneva problemi, perché restava praticamente invisibile. Anche dove la frequenza alla messa era alta, infatti, quelli che si comunicavano ogni domenica erano pochi. La comunione frequente era solo di chi si accostava frequentemente anche alla confessione. La riprova era il doppio precetto che la Chiesa rivolgeva alla gran massa dei fedeli: di confessarsi "una volta l'anno" e di comunicarsi "almeno a Pasqua".
Il non accedere alla comunione non era quindi uno stigma visibile di punizione o di emarginazione. Il motivo principale che tratteneva la gran parte dei fedeli dalla comunione frequente era l'altissimo rispetto per l'eucaristia, alla quale si doveva accedere solo dopo adeguata preparazione, e sempre con timore e tremore.
Tutto cambia negli anni del Concilio Vaticano II e del dopoconcilio. In breve la confessione va a picco mentre la comunione diventa un fenomeno di massa. Tutti o quasi vi accedono, sempre. Perché nel frattempo cambia l'idea corrente del sacramento eucaristico. La presenza reale del corpo e del sangue di Gesù nel pane e nel vino consacrati decade a presenza simbolica. La comunione diventa come il bacio di pace, un segno di amicizia, di condivisione, di fraternità, "della serie: tutti vanno avanti, allora lo faccio anch'io", come disse papa Benedetto XVI, che tentò di ripristinare il senso autentico dell'eucaristia tra l'altro facendo inginocchiare i fedeli a cui dava l'ostia in bocca.
In un simile contesto, era inevitabile che il divieto di comunicarsi fosse assunto tra i divorziati risposati come la negazione pubblica di un "diritto" di tutti al sacramento. La rivendicazione era ed è di pochi, perché la gran parte dei divorziati risposati è lontana dalla pratica religiosa, mentre tra i praticanti non mancano quelli che comprendono e rispettano la disciplina della Chiesa. Ma su questa tipologia ristrettissima di casi si è impostata, dagli anni Novanta e principalmente in alcune diocesi di lingua tedesca, una campagna per il cambiamento della disciplina della Chiesa cattolica in materia di matrimonio, che ha raggiunto l'acme nel pontificato di papa Francesco, col suo palese consenso.
Il concentrarsi del sinodo sulla questione dei divorziati risposati rischia inoltre di far perdere di vista situazioni molto più macroscopiche di crisi del matrimonio cattolico.
Poco prima del sinodo, ad esempio, è uscito nelle librerie italiane un reportage sull'azione pastorale impostata dall'allora cardinale Jorge Mario Bergoglio nelle periferie di Buenos Aires.
Da lì si apprende che la gran parte delle coppie, nella misura dell'80-85 per cento, non è sposata ma semplicemente convive, mentre tra gli sposati "la maggioranza dei matrimoni sono invalidi, perché la gente si sposa immatura", ma neppure ci prova poi a farne accertare la nullità dai tribunali diocesani.
Sono i "curas villeros", i preti inviati da Bergoglio nelle periferie, a fornire questi dati e a specificare con fierezza che si dà comunque la comunione a tutti, "senza alzare barricate".
Le periferie di Buenos Aires non sono un caso isolato, nell'America latina. E danno prova non di un successo ma semmai di un'assenza o di un fallimento della pastorale matrimoniale. In altri continenti il matrimonio cristiano è alle prese con sfide non meno gravi, dalla poligamia agli accoppiamenti forzati, dalle teorie del "gender" ai "matrimoni" omosessuali.
Di fronte a una sfida siffatta, questo sinodo e il successivo decideranno se la risposta adeguata sarà quella di aprire un varco al divorzio oppure di restituire al matrimonio cattolico indissolubile tutta la sua forza e bellezza alternativa, rivoluzionaria.


(Sandro Magister, www.chiesa.espressonline.it, 13 ottobre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350894