mercoledì 26 ottobre 2011

“Troppi pastori scappano all’arrivo del lupo”. Padre Cavalcoli replica al Card. Cottier

Nella disputa in corso su www.chiesa e Settimo Cielo circa l’interpretazione del Concilio Vaticano II, l’intervento del cardinale Georges Cottier, teologo emerito della casa pontificia, non è passato liscio all’occhio attento di padre Giovanni Cavalcoli, suo confratello nell’ordine di san Domenico, docente di teologia a Bologna. Ecco qui di seguito la replica critica di questo grande teologo con cui mi onoro di intrattenere una fraterna amicizia:
«Mi è sembrato opportuno il richiamo del cardinale Georges Cottier al contributo in Concilio del teologo belga Gérard Philips, che collaborò alla preparazione della “Lumen Gentium”, circa la dottrina della Chiesa come “riflesso” della luce di Cristo. Non è infrequente, infatti, la tentazione di certi ambienti ecclesiali di ingigantire l’autorità della Chiesa nei confronti del suo divino Capo e Sposo, allontanandola con ciò stesso dalla guida che le viene da Cristo.
Mi è parsa buona anche la critica al professor Enrico Morini, simile a quella che gli feci io a suo tempo in questo blog.
Invece – con tutto il rispetto per un porporato così illustre, teologo emerito della casa pontificia, per di più mio confratello nel medesimo ordine domenicano – non condivido la convinzione del cardinale Cottier che oggi la Chiesa “rinuncia ad ogni mezzo di coercizione”.
Se così fosse, essa mancherebbe ad un suo dovere essenziale, per quanto certamente inferiore al dovere della clemenza, della misericordia e del dialogo.
L’enciclica “Ecclesiam suam” di Paolo VI, citata dal cardinale, è esplicitamente e solamente dedicata al dialogo e non rispecchia tutta la dottrina di Paolo VI e della Chiesa stessa. Il medesimo papa, in altra occasione, in un suo discorso ricordò esplicitamente che la Chiesa mantiene a tutt’oggi il suo potere coercitivo, ovviamente nell’ambito della legalità canonica.
Lo stesso diritto canonico, a proposito del potere coercitivo della Chiesa parla di “ius nativum”. Altrimenti che ci starebbero a fare i tribunali ecclesiastici e il diritto penale della Chiesa?
La convinzione di una certa tendenza postconciliare secondo la quale oggi la Chiesa non deve più irrogare pene è sbagliata e viene falsamente fatta risalire al Concilio Vaticano II e a papa Giovanni XXIII, il quale invece disse, per l’esattezza, che oggi la Chiesa preferisce la misericordia alla severità e non – come vorrebbero i buonisti – che usa solo la misericordia e mai la severità. Una misericordia senza giustizia diventa connivenza col crimine e con i criminali, lasciando gli offesi senza compenso e i delitti senza riparazione.
Una delle giuste lamentele che da cinquant’anni sorgono da molti ambienti del mondo cattolico è la denuncia di un’eccessiva indulgenza, per non dire debolezza, in molti pastori, sino al limite della connivenza o della complicità nei confronti di dottrine o costumi a larga diffusione che non sono conformi alla retta fede e degradano il livello morale dei fedeli e in genere della società.
Sono troppi oggi i pastori che scappano all’arrivo del lupo o nemmeno se ne accorgono. Un pochino di energia e di coraggio, pagando di persona, non guasterebbe, anzi sarebbe un’ottima misura, come è dimostrato da tutti i grandi e santi pastori della storia della Chiesa.
Anche tutta la recente chiassosa e bislacca polemica contro il professor Roberto de Mattei a proposito dei castighi divini dimostra che larga parte del mondo cattolico ha perso il concetto della giustizia divina, considerando Dio come un bonaccione cha lascia passare tutto e non chiude solo un occhio ma tutti e due.
È ovvio che certi sistemi penali del passato sono oggi assolutamente improponibili e addirittura ci fanno orrore, perché – ci son voluti dei secoli, ma questa è la storia – ci siamo accorti (meglio tardi che mai) che erano disumani ed antievangelici.
Ma il rifiutare questi e il pensare di risolvere i problemi dottrinali e morali solo con le cortesie e le dolci parole sono una pericolosa illusione, una tremenda ingenuità ed una nefasta utopia, per non dire un’ipocrisia, che denotano la dimenticanza delle conseguenze del peccato originale e finiscono per dare campo libero ai furbi ed ai prepotenti e lasciare senza difesa gli onesti, vittime delle menzogne e dei soprusi, con grave pregiudizio per il destino eterno di tutti».

(Fonte: Giovanni Cavalcoli, Corrispondenza Romana, 25 ottobre 2011)


Sorpasso islamico in Francia

Èsorpasso islamico in Francia. Una ricerca dice che i musulmani sono il gruppo religioso più visibile e prolifico nello spazio pubblico francese. Secondo il French Institute of Public Opinion si stanno costruendo più moschee che chiese e i fedeli islamici surclassano i cattolici.
Mohammed Moussaoui, presidente del Consiglio islamico di Francia, ha detto che si stanno costruendo centinaia di edifici di culto islamici, mentre la chiesa in dieci anni ne ha innalzati appena venti. Molte delle 60 chiese chiuse di recente saranno convertite in moschee, ma non basta: il principale imam di Parigi, Dalil Boubakeur, ha detto che, data la domanda, servono almeno 4.000 moschee.
Forti dei numeri esponenziali, i musulmani francesi diventano assertivi come mai: la Federazione nazionale della grande moschea di Parigi, il Consiglio dei musulmani democratici di Francia e un gruppo islamico noto come Collectif Banlieues Respect hanno chiesto ai cattolici di permettere che al venerdì le chiese inutilizzate vengano usate dai musulmani.
Ogni venerdì, nelle grandi città francesi, migliaia di musulmani chiudono strade e marciapiedi per consentire ai fedeli che non riescono a entrare in moschea di eseguire la preghiera rituale. Alcune moschee iniziano a trasmettere sermoni e canti nelle strade adiacenti, un fatto che il presidente Nicolas Sarkozy ha definito “inaccettabile”, perché trasformano la strada in un’“estensione della moschea”.
I dati dimostrano che Eurabia non è un fenomeno demograficamente quantitativo, ma religiosamente qualitativo. Nel deserto della laicità militante, con la sua coda secolarizzatrice, è l’irsuto islam a primeggiare. Nella “laïcité” moschee e oranti musulmani surclassano i cattolici. [Non è che tra breve anche l’Italia dovrà accorgersi di un analogo avvenimento?]

(Fonte: Il Foglio,  25 ottobre 2011)


Dodici miloni di euro per un convento di sole 7 clarisse… firmato Renzo Piano!

Accade in Francia, ai piedi della chiesa tanto amata dal Cardinal Ravasi e da qualche altro illuminato e strenuo difensore del brutalismo, Notre Dame du Haut, opera dell’esoterico Le Corbusier. Tre anni fa la fondazione Association Notre Dame Du Haut, proprietaria della chiesa (sic!) di Le Corbusier e del suolo ad essa adiacente, decise di affidare a Renzo Piano un progetto per amplificare la spiritualità del luogo…
Certo, data l’esperienza in fatto di spiritualità dell’architetto genovese, i membri dell’Associazione non potevano far scelta migliore! Ma affinché il progetto non restasse una scatola vuota hanno convinto delle suore Clarisse di Besancon a vendere il proprio convento e a trasferirsi nei nuovi spazi firmati Renzo Piano Building Workshop.
Agli inizi erano 12, oggi sono rimaste in 7, pienamente convinte della bellezza e della spiritualità delle nuove futuristiche celle. “Crediamo – dice la Badessa, suor Brigitte de Sigly, – che sia necessario lavorare sul concreto quando si parla di integrazione e di spiritualità. Noi lavoriamo dentro il generale movimento di apertura della Chiesa, e la Chiesa ci ha chiesto, venendo a Ronchamp, una presenza di preghiera. Noi siamo qui per dar vita alla collina”.
Sì, infatti il complesso realizzato da Piano, comprende anche un immancabile centro di preghiera multiconfessionale!
Ora passiamo però alle questioni economiche. Nel 2008 le suore clarisse hanno messo in vendita le loro proprietà immobiliari a Besancon, con l’intento di raggranellare fondi per la costruzione del nuovo “convento”. Evidentemente il denaro ricavato non è bastato a finanziare l’opera costata, secondo il sito delle stesse Clarisse, ben 12 Milioni di Euro. Così è stato messo in piedi un comitato di sostegno del progetto nell’aprile del 2009. Chi è il presidente di questo comitato? Naturalmente il Vescovo di Besancon, André Lacrampe!
12 Milioni di Euro divisi per 7 clarisse fanno circa 1,7 milioni di Euro a clarissa… Mica male per una comunità di “povere clarisse”, come si dichiarano sul loro sito le abitatrici, a dire il vero piuttosto attempate, del nuovo convento avvenieristico (ma molto anni ’70…). Può darsi anche che le Clarisse di per sé siano povere o meglio che vivano con poco, ma certo è scandaloso ed aberrante che pur praticando la povertà codeste figlie di Santa Chiara si siano fatte promotrici di un’inutile e terribilmente orrenda opera architettonica del valore di 12 Milioni di Euro. Il Vaticano che tanto parla della crisi economica, potrebbe prestare maggiore attenzione a sprechi così macroscopici. Anche perché la sempre maggiore evidenza di casi analoghi a quello di Ronchamp rischia di fomentare anche nei fedeli più devoti un giusto e sacrosanto disprezzo per l’affarismo clericale, la doppia morale dei Vescovi e l’ossimorica convivenza di povertà (a parole) ed esibita avidità di denaro per realizzare inutili monumenti all’archistar o all’artista del momento.
A volte mi vien da pensare che certi vescovi e certi/e religiosi/e siano davvero dei perfetti idioti (considerando il senso greco del termine “idiota=cittadino privato”, “colui che pensa a sé e non alla comunità”, opposto di “polita=il cittadino pubblico che vive per la comunità”). Date le condizioni nelle quali è ridotta la nostra Chiesa forse potrei aver ragione.

(Fonte: Francesco Colafemmina su “Fides et Forma” del 25/10/2011. Foto tratta da ArchitecturalRecord)


Lo chiameremo Facebook. E il bebè diventa oggetto

“Hai Facebook? “. “Certo che ce l’ho. Mio figlio è Facebook”. Il verbo “essere” non è un refuso di stampa ma è la vera e propria notizia. Nel giro di pochi mesi due coppie hanno chiamato il proprio figlio “Facebook” (qualche tempo fa nacque un bimbo di nome Yahoo). La prima coppia è egiziana: si tratta di un omaggio al social network più famoso al mondo il quale ha reso possibile la coordinazione on line tra i vari gruppi di rivoltosi che hanno rovesciato il governo di Mubarak.
La seconda è brasiliana. In quello spazio virtuale si sono conosciuti e lì è sbocciato il loro amore fatto di milioni di bytes. In realtà il figlio di quest’ultima coppia si chiama esattamente “Facebookson”, cioè figlio di Facebook. Questo perché la preoccupazione degli ufficiali dell’anagrafe non era tanto rivolta al cattivo gusto dei genitori, ma alla possibilità che il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, potesse fare loro causa per questioni di copyright sul marchio. Il risultato è che questo bebè sembra essere più figlio di Zuckerberg che di mamma e papà.
Qualche considerazione. Innanzitutto ci mettiamo dalla parte di queste povere creature che dovranno per tutta la vita spiegare agli altri perché si portano appresso un simile castigo di nome. Soprattutto quando Facebook forse non esisterà più, dato che queste invenzioni informatiche durano meno di un governo della vecchia repubblica (chi si ricorda ad esempio di My Space, social network che guadagnò cifre da capogiro e che usavano tutti?). In secondo luogo non è proprio il massimo della vita chiamarsi “Annuario scolastico”, perché questo è la traduzione letterale del termine “facebook”. Infatti Zuckerberg prese spunto da questi annuari, nei quali ci sono tutte le foto degli studenti di un liceo o di un’università, per inventare la sua piattaforma. Infine è indubbio che i due piccoli diventeranno loro malgrado testimonial della creazione di Zuckerberg, spot viventi di questo prodotto.
E qui sta il punto. Si è deciso di assegnare un nome ad un essere umano che identifica un prodotto. E’ un altro segnale della cosificazione della persona (per la proprietà transitiva va da sé che ora agli animali diamo nomi cristiani). In particolare – e le pratiche di fecondazione artificiale e clonazione comprovano ciò – il figlio è percepito come “bene mobile”, oggetto magari di lusso che arrederà l’esistenza. Nuovo il figlio, nuovo il nome dunque a designare un “articolo” che prima non c’era. E se nascesse a queste coppie un secondo figlio, logica vorrebbe che si assegnasse loro il nome di Facebook.2, la versione avanzata. La generazione è ormai sottoposta ad update.
Ma questa vicenda dai tratti tragicomici è paradigmatica anche perché ci dà la misura di quanto stia accelerando il processo di scristianizzazione. Siamo passati in poco tempo dai santi ai numi tutelari virtuali. Fino a ieri si poneva al neonato un nome di un santo. Farlo era come vincolare quel cittadino del Paradiso a fare bene il proprio dovere di santo e cioè a proteggere il piccolo, nella speranza poi che potesse infondergli un po’ delle sue virtù. Appena venuti su questa terra già si pensava alla patria celeste, già si sottoscriveva con l’assegnazione del nome del santo un’ipoteca per il Cielo. Il santo-beato-martire di cui portiamo il nome, nella prospettiva cristiana, è un membro di un club esclusivo assai influente per gli affari terreni e il cui aiuto dunque deve essere sempre invocato. I piccoli Facebook a chi potranno mai rivolgersi? A Zuckerberg? E poi quando festeggiare l’onomastico? Il giorno di fondazione di Facebook?
Inoltre la prassi consolidata, almeno fino all’altro ieri, di scegliere un nome comune privilegiava più la tradizione che l’eccentricità. Il nome non veniva scelto perché di moda o perché “suona bene” o perché originale, bensì perché era il concentrato di una cultura sapienziale vecchia di secoli se non di migliaia di anni. Innanzitutto a motivo del significato del nome stesso: “Emanuele” Dio con noi, “Alessandro” protettore degli uomini, “Riccardo” audace, “Mirella” degna di ammirazione. Ora, ad essere sinceri chiamarsi “faccia-libro” è davvero assai svilente. In secondo luogo l’ultimo arrivato in casa portava in genere un nome che era appartenuto ad un suo ascendente, al fine di perpetuare in lui lo spirito di una famiglia. Un segno della continuità delle tradizioni familiari. Il nome così diventava intriso di affetto, pronunciarlo era evocare la stessa persona del nonno o dello zio che non c’era più.
La notizia dei genitori che infliggono questa condanna anagrafica ai figli si sposa bene con un’altra notizia simile proveniente dall’Inghilterra: lì si può cambiare nome al costo di 33 sterline (consigliamo ai piccoli Facebook di trasferirsi in Inghilterra appena possibile). Nel giro di un anno c’è stato un boom di richieste, con un’impennata del 30%. I motivi sono dei più vari: cercare di sfuggire ai creditori e al fisco, anglizzare il proprio nome se straniero, fondere in unico cognome quello della moglie e del marito. Ma ovviamente ci sono anche ragioni ben più bizzarre. Tra queste svettano gli omaggi allo star system. E così si contano 30 Michael Jackson, 5 Amy Winehouse, 15 Wayne Rooney e 5 David Beckham. Una sorta di sbattezzo a favore di nuovi santi popolari non canonizzati. Già era accaduto al tempo dei futuristi tra i cui adepti si trovavano figli chiamati Ascensore o, con meno ardimento, Luce. Anche i comunisti in spregio alla tradizione cattolica chiamavano i propri pargoli ad esempio Primo, Secondo, Terzo ed Ultimo: meglio i numeri che i beati.
Ma perché cambiare nome? Da una parte questa moda è espressione delle derive di un certo capitalismo libertario: come si cambia auto così il nome, se è superato, se c’è ne uno più in voga, se è più trendy. Ma facendo così il nome diventa un gadget, un accessorio e perde la sua specificità, cioè l’individuazione della persona, la caratterizzazione semantica di un’unicità.
D’altro canto tale prassi è forse sintomatica del fatto che non vogliamo più accettare di essere chi siamo. E’ segno che l’identità è percepita come un vincolo, un fardello di cui liberarsi. Se posso decidere di cambiare con la chirurgia plastica la mia faccia (la parte più identificativa di noi), il mio sesso, se posso scegliere di avere un figlio con gli occhi celesti e i capelli color dell’oro, perché non decidere di mutare ciò che nominalmente mi identifica? Sbarazzarsi del vecchio, non scelto da me, per far posto al nuovo. E’ solo il soggetto l’unico artefice della sua vita: l’imposizione da parte dei genitori del nome viene percepita come ostacolo alla propria libertà. Nasce l’autonomastica, l’autodeterminazione onomastica.

(Fonte: Tommaso Scandroglio, La Bussola Quotidiana 24-10-2011)


Famiglia: tra “poliamore” relativista e poligamia islamica

Del mondo islamico l’Occidente relativista ha una scarsa conoscenza. E lo dimostra. Azzerando presepi e canti della Tradizione dalle aule scolastiche, tentando di sfrattare i Crocifissi dagli edifici pubblici, cancellando i riferimenti cristiani dal calendario gregoriano, e via di questo passo. Tutte cose che i musulmani non ci hanno mai chiesto.
E di fronte alle quali nel migliore dei casi sorridono perplessi, chiedendosi in che mondo siano capitati… L’Europa secolarizzata, no. Queste domande, benché inesistenti, se le pone. E – quel che è peggio – cerca anche di darsi le risposte. Rigorosamente sbagliate e fuori tempo massimo. Sta capitando ancora. Questa volta con la poligamia. Mentre nel Vecchio Continente c’è chi fa le prove tecniche per introdurla, nei Paesi islamici c’è chi sta pensando a come sbarazzarsene.
Già tempo addietro in Occidente si tentò di spacciarla quale nuova forma di rispetto delle religioni “altre”. Sennonché inserirla a forza in un sistema giuridico come il nostro, da sempre monogamico, parve a tutti uno sproposito, più facile a dirsi che a farsi. Adesso ci si riprova da un altro versante. Quello sociologico. Sull’inserto Sette del “Corriere della Sera” la si presenta, ad esempio, come la «ricetta magica» per «ravvivare» matrimoni altrimenti grigi, annoiati e spenti, al punto da finire con un divorzio in un caso su tre.
Figuriamoci, a chi già non sa gestire il normale ménage familiare con una sposa, proporgliene addirittura due o tre è una contraddizione in termini. Ma tant’è. Il nome è già stato inventato, tanto per indorare la pillola. Così come per aborto, eutanasia e compagnia cantante, spacciati quali “diritti civili”, anche per la poligamia è già pronto il sinonimo-placebo: è “poliamore”.
Lo ha estratto dal cilindro la giornalista francese Françoise Simpère, autrice di due libri, che son tutto un programma: Amar più uomini e Guida agli amori plurali per un’ecologia amorosa. Insomma, sfasciare la famiglia si sarebbe trasformato da delitto ad una forma di tutela dell’ambiente…
Evidente e fin troppo scoperto, questa volta, il tentativo mistificatorio, frutto di quel clima sessantottino, che oggi qualcuno pare voler riesumare. La Sympère non ne fa mistero, anzi: in un’intervista al magazine on line “Rue 89” ha affermato tranquillamente d’aver questa fissa sin dagli Anni Settanta. E di averla «sperimentata» personalmente, per poi propagandarla con espliciti intenti «rivoluzionari» contro la «società capitalista dura e possessiva».
Un sin troppo evidente impianto di odio ideologico, il suo, che nasconde solo un ulteriore attacco alla famiglia tradizionale ovvero all’unica possibile per diritto naturale e per buon senso. Tutto questo, paradossalmente, proprio quando il mondo musulmano, la poligamia, sta iniziando a smantellarla, poiché ritenuta svantaggiosa rispetto all’«evoluzione socioeconomica contemporanea ed alle sue conseguenze sulle strutture familiari», come spiega il settimanale “Jeune Afrique” nell’edizione on line dello scorso 23 settembre.
Per questo, l’islam “moderno” sarebbe pronto a reinterpretare anche il Corano, ove si legge: «Sposate pure a vostro gradimento due, tre o quattro donne, ma, se ritenete di non poter essere allo stesso modo equo con tutte, prendetene una sola» (IV, 3). Et voilà, ecco trovato la scappatoia, per giustificare una clamorosa marcia indietro, ancora avversata da molti come sacrilega, ma ben vista da un crescente numero di ben pensanti.
Che hanno un altro asso nella manica, niente meno che le parole del profeta Maometto, il quale, al genero Alì che gli chiese il permesso di prendere una seconda sposa, rispose: «Non lo autorizzo e non l’autorizzerò mai, poiché ciò che turba mia figlia turba me e ciò che fa male a lei, fa male a me» (Boukhari, n. 5230).
In Turchia la poligamia è stata abolita. In Tunisia è vietata dal Codice di Diritto Civile. In Marocco il Codice di Famiglia la autorizza solo «in casi di forza maggiore». In Algeria l’equità con tutte le spose va provata. Il Parlamento regionale del Kurdistan l’ha limitata al secondo matrimonio, a condizione però che la prima sposa soffrisse di una malattia sessualmente trasmissibile o di sterilità.
In Giordania viene sottoposta a «condizioni restrittive in vista di una trasformazione progressiva delle mentalità», secondo quanto riportato in un rapporto dello scorso anno, redatto dall’Alto Commissariato per i Diritti dell’Uomo dell’Onu.
Intanto, cresce la pressione sociale, mentre le classi dirigenti arabe si son già convertite da tempo ad una fedelissima monogamia. Insomma, Sympère e fans sembrano ormai fuori tempo massimo. L’orologio della Storia sta già voltando pagina. Sarà l’Europa a voler restare in ritardo?

(Fonte: Corrispondenza Romana, 19 ottobre 2011)


Assetati di sangue

Tutto passa e probabilmente lo shock generato dalla vista delle immagini relative alla morte di Muammar Gheddafi ha già lasciato il posto nel nostro immaginario ad altre sensazioni. Ma quello che è successo, mediaticamente parlando, giovedì scorso – quando il dittatore libico è stato ucciso – e nei giorni immediatamente successivi non può essere archiviato sbrigativamente. La fine del Colonnello era nell’aria da qualche giorno e i media non aspettavano altro che di poterla raccontare al mondo. Ma c’è modo e modo e quello esibito dalla televisione in questa circostanza è stato eccessivo sotto tutti i punti di vista.
Giovedì sera quasi tutti i principali telegiornali nazionali hanno mostrato le immagini di quella che si può a ragione definire un’esecuzione in piena regola, senza censure e senza preavvertire gli spettatori della crudezza delle immagini.
Tutto il mondo ha visto Gheddafi sofferente, pestato a sangue, strattonato da tutte le parti, trascinato per strada, linciato da giovani combattenti e poi ucciso con un colpo di pistola alla tempia. Il cortocircuito fra le immagini riprese in diretta dagli insorti armati di videofonino, oltre che di fucile, e la loro messa in onda nelle edizioni di punta dei tg ha procurato ancora una volta il suo esito cinico, provocando orrore e ribrezzo ma garantendo alle testate televisive picchi di audience che non si registrano tanto facilmente nella programmazione ordinaria.
Non paghe di questo, le televisioni hanno voluto ripetere decine e decine di volte la messa in onda di quelle drammatiche immagini, aggredendo un pubblico ormai assuefatto a tutto ma che, quando si trova di fronte all’orrore, ne rimane quasi ipnotizzato senza più riuscire a staccarsene. Non ne ha guadagnato il diritto di cronaca, né quello di essere compiutamente informati sui fatti del mondo, tantomeno la verità: a trarne beneficio è stata solo e soltanto l’audience.
Dal piccolo schermo le immagini della morte di Gheddafi si sono rapidamente riversate sugli altri media. Rese istantaneamente disponibili sul web, il giorno successivo erano su tutte le prime pagine dei principali quotidiani, che in molti casi hanno riportato all’interno l’intera sequenza dell’esecuzione del Colonnello a beneficio di chi eventualmente si fosse perso i tg della sera prima o ci chi volesse rivivere per un attimo il brivido dell’orrore.
In molti hanno accostato le immagini a quelle di piazzale Loreto, dove il cadavere di Mussolini fu appeso e oltraggiato, come pure a quelle della morte di altri dittatori, a conferma che non sono il progresso o il senso del pudore a stabilire i limiti di ciò che è lecito mostrare pubblicamente.
Lo statuto mediatico dei “cattivi” giustiziati negli ultimi tempi ha avuto connotazioni profondamente diverse da un caso all’altro. Quando Osama Bin Laden è stato scovato e ucciso da parte delle truppe americane specializzate, nessuno ha visto niente se non gli autori del blitz e, forse, i vertici del potere politico e militare Usa, che una foto ormai diventata icona ha immortalato mentre erano riuniti nella “Sala strategica” a seguire in diretta su un video l’operazione in corso. In quel caso, alcuni strateghi e molta parte dell’opinione pubblica sono rimasti addirittura delusi perché l’immagine del terrorista morto non era stata messa a disposizione della curiosità globale.
Qualche tempo prima era toccato a Saddam Hussein, mostrato nel momento della sua esecuzione per impiccagione; quella volta, però, i filmati erano stati interrotti subito prima che il cappio si chiudesse definitivamente intorno al suo collo. E, paradossalmente, la presa di Baghdad da parte delle truppe alleate con la conseguente caduta del dittatore era stata “documentata” – se così si può dire – dalle immagini che mostravano la sua statua abbattuta e calpestata a furor di popolo, metafora di un potere definitivamente schiantato al suolo dopo lunghi anni di tirannia.
La fine violenta e la successiva gogna riservate a cattivi della storia sono una costante, determinata dal bisogno di far vedere che non potranno più nuocere, dalla ricerca di condanne e punizioni esemplari che colpiscano gli occhi prima ancora che la testa, dal crescente bisogno di certificare mediaticamente la morte come pure l’esistenza in vita.
Nel caso di Gheddafi il cinismo e la deriva etica non si sono limitati alla messa in onda del drammatico video. Dapprima internet e poi, di riflesso, la tv e i giornali hanno integrato l’effetto shock del filmato originario trovando altre immagini girate durante la cattura e l’uccisione del Rais, andando nel frattempo a colmare anche le lacune sulla dinamica dei fatti e implementando in tempo reale gli archivi, diventati presto veri e propri dossier dedicati alla parabola del Colonnello.
Uno di questi, a disposizione nella versione online del “Corriere della sera”, si intitola significativamente “Game over” e la scelta lessicale non è soltanto un gioco di parole ma l’ennesima connotazione della sovrapposizione tra il piano della realtà dei fatti e quello della sua rappresentazione virtuale. Le due parole appartengono al linguaggio dei videogame e vederle stampate sul primo piano di un uomo ucciso barbaramente è un ulteriore sfregio a quella pietas che dovrebbe albergare naturalmente in ciascuno di noi, in qualunque situazione.
Anche di fronte alla morte violenta di un dittatore.


(Fonte: Marco Deriu, La Bussola Quotidiana, 24 ottobre 2011)


mercoledì 19 ottobre 2011

Indignados: cosa insegna la Chiesa ai giovani?

La violenza degli “indignati” è sotto gli occhi di tutti, e il fatto che non si sia fermata di fronte ai più sacri segni della fede cristiana la dice lunga sulle prospettive che si aprono per chi vuole percorrere questa via.
E non credo neppure alla distinzione: indignati = non violenti; Black bloc = violenti. C’è il seme della violenza nella concezione, nella cultura di chi esprime l’odio per chi è su posizioni diverse. C’è il seme della violenza nelle parole di Di Pietro, quando afferma che, di fronte alla crisi in cui viviamo, “può scapparci il morto” (e qui onore alle forze di polizia che, a Roma, non si sono fatte prendere la mano…). C’è il seme della violenza in chi non riconosce i principi non negoziabili (vita, famiglia, educazione) per sostituirli con la denuncia a senso unico della immoralità dei politici (del “politico”). C’è il seme della violenza in chi propone una onorificenza, tra l’altro nel giorno del santo patrono della città, per chi ha procurato la morte alla figlia, continuando in questo modo quella orribile violenza che non si è fermata neanche di fronte agli affetti familiari.
Però, di fronte a tutto questo, e a quelle immagini che speravamo di non vedere più (per chi ha vissuto gli incubi del ’68, degli anni ’70 e via dicendo…) cresce una domanda urgentissima: “ma chi educa questa generazione?”
Abbiamo da un lato accettato la emarginazione della Chiesa, ridotta ad agenzia morale che si vorrebbe rendere il notaio dei valori (e solo quelli) riconosciuti dal pensiero comune dominante; dall’altro abbiamo una chiesa che, in buona parte, dimenticando il magistero altissimo di Benedetto XVI (e prima di lui di Giovanni Paolo II) rinuncia ad annunciare Cristo, il vivente nella Chiesa, per accettare quei valori “comuni” che, senza il fondamento vivente di Gesù, sono parole incapaci di muovere e di commuovere l’animo giovanile.
E faccio questa ulteriore riflessione: noi, come Chiesa, attraverso l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, raggiungiamo circa il 90% dei giovani italiani. Ma quale esito ne abbiamo? Sarà mai possibile che la fede (certo, non il catechismo, perché la scuola non è la parrocchia) non sappia diventare cultura che parla al cuore e alla mente dei giovani?
Bisogna ritornare alla evangelizzazione, attraverso tutti gli strumenti possibili (“opportune et importune”, diceva San Paolo), quella evangelizzazione che è via alla promozione umana.
E l’esperienza dice che i giovani sono sensibili a questo richiamo, e sanno anche muoversi con generosità.
Basta solo che trovino maestri, maestri in umanità, cioè testimoni, che smettano di fare il verso al moralismo imperante, ma annuncino Cristo, “il più bello tra i figli dell’uomo”, come la ragione del vivere, il cammino della speranza.
Non solo li aspettiamo, questi maestri, ma ritengo che, proprio perché ci sono e non sono pochi, imparino a fare sentire la loro voce, e a determinare il lavoro comune.
Qui, col nostro sito, ci proviamo e qualche volta ci riusciamo.

(Fonte: Cultura cattolica.it, 16 ottobre 2011)


Il non-senso di Odifreddi offende la ragione

Piergiorgio Odifreddi non finisce mai di fornire occasioni di decostruzione.
Commentando sul suo blog (affidatogli dal sito di la Repubblica, che gli ha così dato un’enorme visibilità) le inqualificabili gravissime violenze commesse a Roma dai cosiddetti «indignati», Odifreddi non ha speso una solo parola di condanna per i fatti avvenuti. Speriamo davvero che non sia vero che chi tace acconsente, anche se potrebbero far pensare male affermazioni odifreddiane come: «Le manifestazioni di ieri hanno mostrato che anche in Italia la rabbia sale. Con ragione, ovviamente, visto da un lato il convergere della crisi economica mondiale e della crisi politica italiana, e dall’altro la mancanza di prospettive realistiche per risolverle entrambe. Non c’è dunque da stupirsi che qualcuno si secchi e passi alle maniere forti. Semmai, da stupirsi c’è che siano pochi a farlo» e questo «mentre la maggioranza dell’intorpidita popolazione sembra pensare o che le cose vadano bene così (la maggioranza governativa), o che esse si possano cambiare con azioni dimostrative quali una mezza giornata di assenteismo parlamentare o una manifestazione pacifica (l’opposizione)». Ma è meglio non pensar male e sicuramente ci sbagliamo.
Odifreddi non ha trovato di meglio che prendersela con padre Lombardi, portavoce della Santa Sede. Per quale motivo? Quasi tutti i media hanno riportato le immagini di uno di quei beceri violenti che, volontariamente entrato nella sala di una casa parrocchiale, ha preso una statua della Madonna di Lourdes e l’ha poi distrutta in strada. A quanto si legge, i suoi sodali hanno preso e distrutto anche un crocifisso. Padre Lombardi ha espresso una condanna per «gli atti di offesa alla sensibilità dei credenti».
Per Odifreddi questa reazione «è semplicemente comica. […] Che tra tutti i problemi di cui ci dovremmo preoccupare in questo momento ci fosse pure l’incolumità delle statuette della Madonna, non l’avremmo mai immaginato, se padre Lombardi non ce l’avesse fatto notare! E solo nel Sud del mondo (europeo o americano) qualcuno poteva pensare, e addirittura dire, che rompere un pezzo di gesso senza nessun valore potesse costituire un’offesa alla sensibilità di qualcuno. Anche se negli Stati Uniti, protestanti e più attenti a certe cose, i cattolici vengono non a caso chiamati “adoratori di statue”».
Ora, il blog di Odifreddi si intitola ""Il non senso della vita" e sarebbe meglio per lui poter rubricare le sue parole citate tra i non sensi. Se avesse scritto delle parole senza senso (degli strani versi, dei rumori), avrebbe con ciò dismesso l’esercizio della sua razionalità che (come dice già Aristotele quando confuta i negatori del principio di non contraddizione) è legata anche alla capacità di proferire (salvo patologie) parole sensate invece che meri suoni, ma avrebbe evitato di esporsi al ludibrio.
Intanto, da quel che scrive Odifreddi sembra che padre Lombardi si sia interessato solo della statua distrutta, quando invece il portavoce vaticano ha nettamente condannato tutte le violenze di sabato scorso, richiamando il commento che già aveva pronunciato il cardinale Vallini, vicario di Roma: «Le violenze avvenute ieri a Roma sono inaccettabili e ingiustificate. Condanniamo tutte le violenze e anche quelle ulteriori contro i simboli religiosi», ha detto padre Lombardi all’Adnkronos. E, ancora, «Il card. Vallini, Vicario di Roma, ha già espresso bene il sentimento di sgomento e di tristezza per quanto è accaduto ieri. Esprimiamo condanna per le violenze immotivate e gli atti di offesa alla sensibilità dei credenti compiuti ieri». Queste le parole di Lombardi.
Ma curiosamente Odifreddi ne ha omesso una parte. E, com’è noto, omettendo una parte di un discorso lo si può stravolgere o rendere spropositato. Purtroppo per Odifreddi, è vero che il suo discorso qui lo abbiamo necessariamente stralciato, ma sul suo blog è invece presente intero… nessuno lo ha stravolto, ed esprime davvero una pochezza non comune.
Odifreddi scrive che «solo nel Sud del mondo (europeo o americano) qualcuno poteva pensare, e addirittura dire, che rompere un pezzo di gesso senza nessun valore potesse costituire un’offesa alla sensibilità di qualcuno».
Proprio un ragionamento penoso. Ovviamente il problema non è il valore del gesso della statua, ma il valore simbolico del suo furto e della sua distruzione. Se qualcuno brucia la bandiera italiana o si mette volutamente a vomitare su un libro di Odifreddi il problema non è il valore della stoffa della bandiera e della carta del libro. Il problema è che il significato del gesto è offensivo.
E non perché i cattolici siano degli «adoratori di statue». Come spiega molto chiaramente il Catechismo della Chiesa Cattolica (punto 2132), «Il culto cristiano delle immagini non è contrario al primo comandamento che proscrive gli idoli. In effetti, "l'onore reso ad un'immagine appartiene a chi vi è rappresentato" [San Basilio di Cesarea, Liber de Spiritu Sancto, 18, 45: PG 32, 149C] e "chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto" [Concilio di Nicea II: Denz. -Schönm., 601; cf Concilio di Trento: ibid., 1821-1825; Conc. Ecum. Vat. II: Sacrosanctum concilium 126; Id., Lumen gentium, 67]. L'onore tributato alle sacre immagini è una “venerazione rispettosa”, non un’adorazione che conviene solo a Dio».

(Fonte: Giacomo Samek Lodovici, La Bussola Quotidiana, 19 ottobre 2011)


Roma, lo sfregio nichilista

La Santa Sede boccia l’«occupazione di Roma» e se non sarà necessario riconsacrare la chiesa assaltata è solo perché i black bloc non sono riusciti ad andare oltre le aule del catechismo e gli ambienti attorno alla sagrestia. Stamattina sul portone sfondata della parrocchia di San Marcellino e Pietro è stato affisso un biglietto con una preghiera che si conclude con le parole di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». E i giovani dei gruppi parrocchiali hanno deciso di autodefinirsi «impegnati» per differenziarsi dagli «indignati». Al rosario recitato dai fedeli, il cardinale vicario Agostino Vallini ha assicurato che mai la parola «vendetta» troverà seguito in quei luoghi sacri profanati.
Uno sfregio alla fede e alla comunità, concorda la gente del quartiere a ridosso di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa. «Hanno rubato anche le bevande e il cibo dei bambini del catechismo». mai prima d’ora una chiesa era finita nel mirino dei cortei violenti. Anzi al G8 di Genova, dieci anni fa, i cattolici pregavano nel santuario di Baccadasse durante la protesta antiglobalizzazione. E nella comunità di San Marcellino e Pietro ci si interroga sull’escalation di violenza e perché un luogo di accoglienza come una parrocchia sia diventata simbolicamente un «avamposto nemico» da espugnare."Un sacrilegio senza precedenti al quale risponderemo come ci ha insegna Benedetto XVI, cioè proponendo in maniera ancora più forte il Vangelo", afferma il portavoce del Vicariato di Roma, don Walter Insero.
Eppure a quella porta ogni giorno bussano e trovano aiuto extracomunitari e poveri. La profanazione è per tutti un fulmine a ciel sereno. Ha scandalizzato il mondo l’immagine-choc dei profanatori protagonisti sabato di un gesto sacrilego: alcuni incappucciati che distruggono nella parrocchia dei santi Marcellino e Pietro un crocefisso alla parete e una statua della Madonna strappata dal piedistallo, portata in strada e scaraventata per terra tra gli applausi e le grida di incitamento sacrilego di altri teppisti.
Il vecchio codice di diritto canonico (canone 1172) stabilisce, infatti, che una chiesa è profanata «dal delitto di omicidio (anche suicidio), da uno spargimento di sangue ingiurioso e rilevante, dall’essere usata adibita a usi empi e sordidi». In tal caso non può essere usata fino a quando non viene riconciliata con appositi riti. La statua mariana in frantumi sull’asfalto è l’atto conclusivo di una profanazione di un luogo sacro. Sabato, infatti, i black bloc sono entrati bestemmiando, hanno malmenato chi difendeva i simboli religiosi e hanno distrutto la statua della Madonna di Lourdes e un crocifisso. Il nuovo codice di diritto Canonico al canone 1211 stabilisce che «i luoghi sacri sono profanati se in essi si compirono con scandalo azioni gravemente ingiuriose, che a giudizio del vescovo sono tanto gravi e contrarie alla santità del luogo da non essere più lecito esercitare in essi il culto finché l’ingiuria non venga riparata con rito penitenziale, a norma dei libri liturgici».
Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi denuncia la violenza che solo nella capitale italiana ha caratterizzato «le proteste ispirate all’occupazione di Wall Street». Sabato il corteo degli indignados a Roma ha avuto risvolti violenti che non hanno risparmiato chiese e simboli religiosi e da giorni nel dibattito politico infuriano polemiche e proposte su come scongiurare scorribande dei «nuovi vandali» black bloc. Il Vaticano condanna la «violenza immotivata» e «gli atti di offesa alla sensibilità dei credenti». La città di Roma si è risvegliata sconvolta dagli scontri che hanno portato assalti e distruzione nelle vie centrali della capitale e il direttore della Sala stampa vaticana ha subito stigmatizzato la «giornata nera», facendo esplicito riferimento a quanto avvenuto alla parrocchia di San Marcellino e Pietro. A nome del Vaticano, padre Federico Lombardi ha condiviso lo «sgomento» espresso a caldo dal cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini mentre da Milano si levava anche la voce dell’arcivescovo Angelo Scola: «Ci offende profondamente come cristiani la distruzione della statua della Vergine e del crocifisso che esprime una grave violenza del più comune senso dell’umano».
Ai «giovani profanatori» il cardinale Vallini sente di dire «che la violenza non porta da nessuna parte, anzi peggiora le cose». Il dialogo, il confronto, anche il dissenso espresso in forme civili costruiscono il futuro di un paese democratico. Un «episodio molto grave che addolora tutti e che va inquadrare anche in un’altra profanazione che è quella della violenza che si è perpetrata a piazza San Giovanni», spiega Vallini:«Dobbiamo ritenere che è un momento molto difficile nel quale veramente si può perdere di vista il senso della vita dell’uomo, le sue relazioni fondamentali, il suo rapporto con Dio. È un momento molto brutto, speriamo che non torni più». Una violenza all’esterno della basilica di San Giovanni che ha finito con il ferire molto i credenti ma anche i non credenti, e infatti il vicario commenta «Ma certo, la violenza è sempre qualcosa di negativo. La violenza fatta alle immagini religiose, quella fatta a persone, la distruzione di cose non possono essere gesti o atti in nessun modo giustificati».
Ma oltre che ai profanatori, il cardinale Vallini si rivolge ai giovani in genere, invitandoli a «non scoraggiarsi, perché certo viviamo in un momento difficile, però tutte le problematiche che investono il mondo, ed in particolare il mondo occidentale, ci auguriamo che possano trovare, con l’impegno degli uomini di buona volontà, una qualche soluzione positiva».Sui fatti di Roma sono intervenuti diversi esponenti del mondo ecclesiale.
Un intervento durissimo l’ha voluto fare il vescovo di San Marino, Luigi Negri. Dice: “La radice di questa violenza tragica è nell’antiteismo e nell’anticristianesimo che costituiscono il fondo oscuro delle ideologie nelle quali ancora siamo immersi. L’ideologia nasce sempre dalla presunzione di poter sostituire alla presenza reale di Dio in Cristo e nel Mistero della Chiesa una visione astratta: ideologica, filosofica, scientifica, tecnologica. Questo tentativo, che precede e sostiene tutte le ideologie è rimasto, fortissimo, anche dopo il crollo dei miti politici dell’epoca contemporanea. In questi anni, l’anticristianesimo sembra essere non tanto il volto manifesto di una scelta di vita individuale consapevolmente assunta, quanto piuttosto il movimento che, in modo latente, anima e sostiene esistenze completamente decostruite nelle loro esigenze fondamentali. Dispiegandosi infine nel tentativo di eliminare Cristo e la tradizione cristiana, la sua presenza storica, reale e concreta, sola vera alternativa al dominio manipolatore del pensiero astratto. Tradizione cristiana come popolo nuovo che nasce dallo Spirito, segue Cristo presente e vive non più per se stesso, ma per Cristo risorto”.

(Fonte:Giacomo Galeazzi, Vatican Insider, 19 ottobre 2011)


Egitto: Massacro dei fratelli cristiani copti. Per cercar di capire...

Ho promesso al mio amico egiziano Maged, diacono della Chiesa copta, di informare i lettori del Blog sulla grave situazione persecutoria in cui oggi vivono i cristiani nel suo paese. Da ciò il motivo di questa attenta e approfondita analisi. Per consultare un servizio live del massacro, rimando al seguente indirizzo, segnalatomi dallo stesso Maged, che ringrazio. Il tutto per assicurare ai nostri fratelli cristiani copti, oltre che un sostegno morale anche le nostre preghiere.

«I gravi incidenti avvenuti al Cairo domenica 9 ottobre, nel corso dei quali hanno perso la vita ventiquattro cristiani copti (ma il numero potrebbe essere più alto), rappresentano un momento di preoccupante involuzione della “primavera egiziana” di cui si può cercare di individuare le responsabilità, e valutare i rischi, ma di cui è ancora prematuro prevedere le conseguenze.
Ridotto all’essenziale, l’episodio ruota intorno ad un affollato corteo che dal quartiere cairota di Shubra si dirigeva verso piazza Tahrir ed il centro della città, per protestare circa l’incendio di una chiesa copta, avvenuto nel villaggio di el Marinab ad Assuan, e rimasto impunito. Da quanto si desume dai racconti – peraltro assai confusi – il corteo, una volta giunto sul lungo Nilo all’altezza del centro, è stato aggredito da gruppi di facinorosi armati. Arrivato poi davanti alla sede della Televisione di Stato gli scontri tra i dimostranti copti ed i loro assalitori sono degenerati. A quel punto vi è stato un intervento dell’Esercito (non della Polizia, che di questi tempi in Egitto brilla per la sua assenza), un intervento molto brutale con l’uso di armi da fuoco e di blindati, che ha determinato, appunto, due dozzine di morti, forse di più e numerosi feriti. Le immagini dei blindati, lanciati a grande velocità, che investivano i manifestanti sono raccapriccianti. I resoconti fanno stato di cittadini musulmani scesi in strada per difendere i copti dall’attacco dei militari, e di altri musulmani, tra i quasi certamente dei salafiti, scesi in campo a fianco dei militari, contro i concittadini cristiani. Una situazione, quindi, molto confusa ed ambigua che viene a creare un grosso trauma in un momento molto delicato della transizione, a ridosso delle prime elezioni del post Mubarak, che avranno inizio, in varie fasi, a partire dalla fine di Novembre.
Siamo davanti ad un rigurgito dell’ostilità tra musulmani e cristiani in Egitto? Certamente le tensioni di sempre tra le due religioni si sono andate aggravando nell’ultimo periodo, ma non sembra questa la chiave di lettura di quanto è avvenuto. Non si è trattato infatti di uno scontro interconfessionale, ma di una deliberata provocazione nei confronti di una dimostrazione pacifica di cristiani copti, i quali sono poi stati brutalmente assaliti da unità militari.
È vero che, da sempre, i copti sono stati in Egitto cittadini di seconda classe. La legislazione in merito risale al periodo khediviale: i copti sono di fatto esclusi dalle cariche civili e militari più importanti, la costruzione di nuove Chiese ed il restauro delle antiche è sottoposto a autorizzazioni molto difficili da ottenere, le conversioni al cristianesimo sono represse pesantemente. Ma, entro questi limiti, le due religioni hanno convissuto per oltre mille anni e lo stillicidio di incidenti interconfessionali che si sono sempre verificati ha sempre avuto componenti tribali, legate a interessi locali o gelosie sociali.
Se mai, dal momento della caduta di Mubarak è stato chiaro il pericolo che forze esterne, che avessero interessi contrari ad una evoluzione democratica dell’Egitto, potessero utilizzare questa faglia della società egiziana per provocazioni mirate a far deragliare i progetti in corso. In effetti si è assistito in Egitto (come, d’altronde, anche in Tunisia) alla comparsa di attivi gruppi salafiti [islamici] che hanno inscenato provocazioni anti cristiane, molto probabilmente (e questo è un eufemismo) finanziati ed appoggiati da regimi arabi del Golfo, per i quali una evoluzione dell’Egitto verso la democrazia rappresenta un pericolo diretto. La tensione interconfessionale appare quindi aumentata.
Ma, fatta la tara di questi ricorrenti incidenti, non si può dire che tra cristiani e musulmani egiziani vi sia una situazione di aperto scontro e contrasto. Il mondo musulmano egiziano è molto articolato. È vero che salafiti e Jama’a Islamyia sono apertamente anti cristiani, ma si tratta di gruppi di dimensioni ridotte. I Fratelli Musulmani, che da soli rappresentano forse il venti per cento della popolazione, mantengono un atteggiamento di separatezza, ma di pacifica convivenza. I movimenti Sufi (molto avversati dagli islamisti) hanno anch’essi atteggiamenti amichevoli verso i copti e raccolgono anch’essi una porzione importante della popolazione. I successivi Sceicchi della Università di el Azhar si sono sempre espressi a favore della pacifica convivenza e contro ogni tipo di violenza interreligiosa.
Questa volta la provocazione sembra invece essere stata di altra natura e provenire da un’altra parte. La rimozione del Presidente Mubarak, e del suo gruppo familiare, non ha significato la sparizione del gruppo di potere socio-economico che si era formato all’ombra del regime. Si tratta di un folto gruppo di uomini di affari arricchitisi lavorando con articolazioni dello Stato, alti funzionari e alti dirigenti del Partito Nazionale Democratico corrotti, autorità locali il cui status sociale ed economico verrebbe direttamente minacciato da una democratizzazione del Paese. Fin dall’inizio della rivolta di piazza Tahrir hanno più volte assoldato centinaia di provocatori armati per creare incidenti in dimostrazioni dichiaratamente pacifiche, intimidire i dimostranti e giustificare l’intervento delle forze dell’ordine. È rimasta iconicamente famosa la loro irruzione in groppa a cammelli e cavalli in una delle prime manifestazioni di piazza Tahrir, episodio per cui è d’altronde in corso un processo ai possibili mandanti.
Questi epigoni del passato regime stanno organizzando vari partiti, di cui per il momento è difficile valutare la consistenza, per partecipare alle elezioni, cercando alleanze con altre forze più conservatrici, tra cui partiti islamici. Nel periodo più recente tuttavia questo settore della società si è trovato davanti ad una nuova minaccia. Sotto la pressione dei movimenti progressisti è stata infatti riesumata la “Treachery Law”, norma approvata all’epoca di Gamal Abd el Nasser per processare gli esponenti e profittatori del precedente regime monarchico e, in particolare, per privarli dei diritti politici. Vari Ministri di Mubarak e uomini di affari con essi collusi sono già sotto processo o riparati all’estero. La reazione promette di essere dura e decisa. Nel corso di una recente conferenza, cui hanno partecipato sei dei nuovi partiti che rappresentano questo settore della vita politica, un esponente dell’NDP ha dichiarato: “Non lasceremo il Paese alla gente di piazza Tahrir, abbiamo uomini che possono esercitare un completo controllo” , “Siamo in grado di incendiare l’Egitto”. È quindi molto probabile che la provocazione contro i dimostranti copti – che ripete d’altronde modelli già utilizzati dalla stessa parte politica – venga da questo settore politico ed abbia appunto lo scopo di attizzare le tensioni interreligiose per ostacolare il processo di transizione verso un regime più democratico. Anzi, che la responsabilità degli incidenti sia da attribuire a ex esponenti dell’NDP, lo ha affermato chiaramente la Guida dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie. L’attuale situazione è quindi delicatissima e basta davvero poco per destabilizzarla.
Ciò che sorprende però – ed è più difficile da spiegare – è la violenza della reazione dei militari (la polizia, ripeto, non ha svolto un ruolo di rilievo), e la loro scesa in campo contro i dimostranti copti che protestavano per un torto subito e, almeno fino a quel punto, erano stati le vittime di una grave aggressione. I morti ed i numerosi feriti sono stati quasi tutti copti, le persone arrestate anche, ed i giornali di proprietà statale, così come la televisione pubblica, hanno minimizzato gli incidenti ed attribuito la colpa ai cristiani. Sembra che una emittente televisiva di Stato abbia addirittura lanciato un appello alla cittadinanza incitandola a prendere le parti della polizia, cioè, in sostanza, a partecipare alla repressione della dimostrazione dei cristiani.
Sono fatti più facili da descrivere che da interpretare. È vero che il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) ed il Governo hanno condannato le violenze (chi non lo avrebbe fatto!), hanno promesso una inchiesta ed hanno chiesto scusa alle famiglie delle vittime. Ma per la prima volta dall’inizio della transizione politica l’Esercito ha represso nel sangue una dimostrazione pacifica, sembra aver abbandonato del tutto la posizione di arbitro “super partes” che si era già andata erodendo negli ultimi mesi, e sembra averlo fatto a favore degli esponenti del regime del deposto Presidente Mubarak, ancora numerosi e potenti nel Paese.
Occorre ricordare a questo proposito che gli alti gradi militari erano essi stessi organici al regime di Mubarak il quale, attraverso una rete molto estesa di industrie militari e para-militari, li aveva implicati in importanti gestioni economico/industriali: il “military industrial complex” esiste anche in Egitto e non è di dimensioni trascurabili. Anche questo può costituire un importante elemento di giudizio.
La reazione dei media non governativi è stata molto forte e, a conferma delle considerazioni di cui sopra, non si è soffermata troppo sui problemi interconfessionali, ma ha sopratutto denunciato l’atteggiamento dei militari che detengono il potere (“Il Maresciallo Tantawi se ne deve andare”), formulato dubbi sulla capacità del Consiglio Supremo delle Forse Armate di governare la transizione (“lo SCAF riproduce i peggiori comportamenti del regime di Mubarak”), espresso preoccupazioni a proposito della correttezza e trasparenza delle prossime elezioni, e anche il timore che i militari le vogliano rinviare per gestire il potere direttamente. Questa ipotesi – che è stata suscitata da una passeggiata che lo stesso Maresciallo Tantawi, ripresa dalla televisione di Stato, ha fatto nelle vie del Cairo in abiti borghesi – appare improbabile se non impraticabile, ed è stata seccamente smentita da fonti militari. Ma vale la pena riportarla per dare la sensazione di una atmosfera. Nel clima concitato che si è creato sono da registrare anche articoli di stampa che fanno stato di divisioni all’interno dello SCAF tra generali favorevoli alla evoluzione democratica e fautori della restaurazione. Ma qui entriamo nel campo di insondabili (almeno per ora) misteri.
Per concludere, la prima impressione che si può trarre a qualche giorno dagli avvenimenti è di una netta perdita di legittimazione politica da parte del Consiglio Superiore delle Forze Armate, che ha in questi mesi consumato gran parte del prestigio e della fiducia di cui godeva all’inizio della transizione. Ma, a meno che i risultati delle elezioni non ci sorprendano, le nuove forze politiche egiziane continuano ad essere estremamente frammentate e largamente impreparate a gestire il potere. Non sfugge ad un osservatore attento che quando, negli scorsi giorni, si sono aperti i termini per la presentazione delle liste elettorali, i primi a farlo sono stati i partiti che si richiamano all’eredità dell’NDP di Mubarak. Evidentemente erano gli unici ad essere pronti.
Il processo di transizione alla democrazia appare ancora lungo. Le elezioni per la Camera dei Deputati e per la Shura inizieranno a fine novembre e si dovrebbero protrarre, in varie fasi, fino a febbraio. Il nuovo Parlamento dovrà nominare una Assemblea Costituente che avrà sei mesi per produrre una nuova Costituzione, il che significa che le elezioni presidenziali avranno probabilmente luogo nel 2013. Si tratta di una “road map” che è già stata modificata più volte e che richiede una visione politica ed una continuità di azione di cui si sono viste fino ad ora poche tracce. Le forze progressiste ed innovatrici che fino a poche settimane fa chiedevano un rallentamento del processo elettorale per avere il tempo di prepararvisi, oggi ne chiedono invece una accelerazione perché temono che la dirigenza militare possa promuoverne una involuzione.
Nel frattempo la situazione economica sta peggiorando rapidamente e gli incidenti di cui qui scriviamo assesteranno certamente un altro grave colpo al turismo, uno dei principali cespiti dell’economia del Paese. Si assiste in queste settimane ad una recrudescenza di scioperi e proteste sindacali che, al di là delle loro pur valide motivazioni, possono prestarsi anch’essi a provocazioni e strumentalizzazioni politiche.
È quindi possibile che – quando con il senno di poi ripercorreremo la storia di questi mesi – l’incidente del 9 ottobre venga considerato un punto di svolta della “primavera egiziana”».

(Fonte: Francesco Aloisi de Larderel, Resetdoc.com, 13 ottobre 2011)


E dopo Marx venne il «gender»

La teoria del genere è la nuova ideologia alla quale fanno chiaramente riferimento l’Onu e le sue varie agenzie, in particolare l’Oms, l’Unesco e la Commissione su Popolazione e Sviluppo. Essa è inoltre diventata il quadro di pensiero della Commissione di Bruxelles, del Parlamento europeo e dei vari Paesi membri dell’Unione Europea, ispirando i legislatori di quei Paesi che creano numerosissime leggi concernenti la ridefinizione della coppia, del matrimonio, della filiazione e dei rapporti tra uomini e donne segnatamente in nome del concetto di parità e degli orientamenti sessuali.
Essa succede all’ideologia marxista, ed è al contempo più oppressiva e più perniciosa poiché si presenta all’insegna della liberazione soggettiva da costrizioni ingiuste, del riconoscimento della libertà di ciascuno e dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Tutti valori sui quali sarebbe difficile esprimere un disaccordo. A questo punto si rende necessario sapere se quei termini rivestano lo stesso significato che già conosciamo o se non servano, invece, a mascherare una concezione diversa che sta per essere imposta alla popolazione senza che i cittadini siano consapevoli di ciò che rappresenta.
Che cosa dice la teoria del genere? Questa ideologia pretende che il sesso biologico vada dissociato dalla sua dimensione culturale, ossia dall’identità di genere, che si declina al maschile o al femminile e persino in un genere neutro nel quale si fa rientrare ogni sorta di orientamento sessuale, al fine di meglio affermare l’uguaglianza tra gli uomini e le donne e di promuovere le diverse "identità" sessuali. Dunque il genere maschile o femminile non si iscriverebbe più nella continuità del sesso biologico poiché essa non gli è intrinseca, ma sarebbe semplicemente la conseguenza di una costruzione culturale e sociale.
In nome della bisessualità psichica, si sostiene che l’uomo e la donna hanno ciascuno una parte maschile e una femminile: il sesso biologico dunque non obbliga, né quanto allo sviluppo psicologico né per l’organizzazione della vita sociale. Al sesso maschile e a quello femminile si privilegia l’asessualità o l’unisessualità. Così un politico donna, allieva di Simone de Beauvoir, afferma che "i mestieri non hanno sesso", mentre altri, favorevoli all’organizzazione sociale degli orientamenti sessuali, sostengono che "l’amore" non dipende dall’attrazione tra l’uomo e la donna poiché esistono altre forme di attrazioni sentimentali e sessuali.
Tali sofismi appaiono evidenti e sono ripresi con facilità dai media che apprezzano il pensiero ridotto a cliché. Tutto viene messo sullo stesso piano: le singolarità sessuali marginali - che sono sempre esistite - devono essere riconosciute allo stesso titolo della condizione comune e generale dell’attrazione tra uomo e donna. Non è tollerato alcun discernimento, la psicologia maschile si confonde con quella femminile e si attribuiscono le stesse caratteristiche a tutte le forme di attrazione sentimentale mentre dal punto di vista psicologico non sono in gioco le stesse strutture psichiche.
In altre parole, la società non deve più organizzarsi attorno alla differenza sessuale, ma deve riconoscere tutti gli orientamenti sessuali come altrettante possibilità di dare diritto alla plurisessualità degli esseri umani che nel corso dei secoli è stata limitata dall’“eterosessismo”. Bisogna dunque denunciare questa ingiustizia e decostruire tutte le categorie che ci hanno portato a tale oppressione.
L’uomo e la donna non esistono, è l’essere umano a dover essere riconosciuto prima ancora della sua particolarità nel corpo sessuato. Sarebbe troppo lungo descrivere le diverse origini di questa corrente di idee partita innanzitutto dai medici che seguono casi di transessualismo, dagli psicanalisti culturalisti americani e dai linguisti che hanno studiato il linguaggio (gender studies) per farne emergere le discriminazioni nei confronti del genere femminile e degli stati intersessuati, per esempio per la concordanza del plurale in cui il maschile prevale sul femminile. Fu riciclata da sociologi canadesi e ripensata in Francia da diversi filosofi prima di essere recuperata, nuovamente negli Stati Uniti, dai movimenti lesbici alle origini del femminismo intransigente e ripresa poi dai movimenti omosessuali. La teoria del Genere tornò in Europa così trasformata. In realtà si tratta di una sistemazione concettuale che non ha nulla a che vedere con la scienza: è a malapena un’opinione.
Questo diventa inquietante nella misura in cui la maggior parte dei responsabili politici finisce per aderirvi senza conoscerne i fondamenti e le critiche che sono autoevidenti. I rapporti tra uomini e donne vengono presentati attraverso le categorie di dominante/dominato, della società patriarcale e dell’onniviolenza dell’uomo di cui la donna deve imparare a diffidare.
Da moltissimo tempo non siamo più in una società patriarcale ma, come sostiene la Chiesa, dobbiamo continuare a incamminarci verso una società fondata sulla coppia formata da un uomo e una donna impegnati pubblicamente in un’alleanza, segno che devono svilupparsi in questa autenticità. Da parecchi anni questa teoria viene insegnata in Francia all’università e, a partire dall’anno scolastico 2011-2012, sarà insegnata anche al liceo nei programmi di Scienze della vita e della terra delle classi prime. In nome di quali principi il Ministero dell’Educazione nazionale ha preso questa decisione e in seguito a quale forma di consultazione?
Non lo sa nessuno. Succede sempre così con le ideologie totalitarie, e ora con la teoria del genere. Viene imposta ai cittadini senza che questi se ne rendano conto e si accorgano che decisioni legislative vengono prese in nome di quest’ideologia senza che, a quanto pare, sia esplicitamente spiegato. Ciò è particolarmente significativo in una parità contabile tra uomini e donne - che non significa uguaglianza -, nel matrimonio tra persone dello stesso sesso con l’adozione di bambini in tale contesto, e nelle misure repressive che accompagnano questa corrente di idee che, in nome della non-discriminazione, non può essere rimessa in discussione o in Francia si rischia si essere sanzionati giudizialmente (legge sull’omofobia).
Ma questo vale anche per altri Paesi: è il caso della Germania, dove genitori che hanno rifiutato che i figli partecipassero a lezioni di educazione sessuale ispirate alla teoria del genere sono stati condannati a quarantacinque giorni di detenzione senza condizionale (febbraio 2011). Il falso valore della non-discriminazione impedisce di pensare, valutare, discernere ed esprimere, così come quello della trasparenza che spesso è estranea alla ricerca della verità.
Quanto all’egualitarismo che si allontana dal senso dell’uguaglianza, esso lascia intendere che tutte le situazioni si equivalgono, mentre se le persone sono effettivamente uguali in dignità, la loro scelta, il loro stile di vita e la loro situazione non hanno oggettivamente lo stesso valore. Non c’è nulla di discriminatorio nel sottolineare che solo un uomo e una donna formano una coppia, si sposano, vivono insieme, adottano e educano dei bambini nell’interesse del bene comune e in quello del figlio. Sono più capaci di esprimere l’alterità sessuale, la coppia generazionale e la famiglia, cellula base della società.

(Fonte: Tony Anatrella, Avvenire, 14 ottobre 2011)


giovedì 13 ottobre 2011

Ora basta! Jobs non era il Messia!

È nata una nuova religione: la Chiesa catodica. Che non rivela il senso della vita, ma vi priva del senso del ridicolo. Questa chiesa si è scelta come suo (involontario) messia (provvisorio, in base ai gusti del mercato) il povero Steve Jobs. A sua insaputa.
I suoi celebranti, prosternati e adoranti, sono giornalisti, intellettuali, vip di ogni genere, politici e opinionisti. I quali, non credendo più a Dio, non è che non credano in nulla, ma – come diceva Chesterton – credono a tutto.
Si sono convinti perfino che Jobs sia il messia: colui che “ha cambiato il mondo”.
D’altra parte nei decenni scorsi intellettuali, politici e giornalisti avevano acclamato come “salvatori dell’umanità” dei sanguinari tiranni, che avevano milioni di vittime sulla coscienza, quindi con quelli di oggi in fondo c’è un miglioramento: il buon Jobs non mai fatto male a nessuno.
Ha semplicemente dato sfogo alla sua inventiva, producendo tanti aggeggi elettronici, diventando un grosso industriale e accumulando un patrimonio enorme. La sua attività di industriale però non può spiegare lo stupefacente spettacolo di queste ore.
I tg che aprono su Jobs e occupano mezzo telegiornale, tutte le catene televisive del mondo che celebrano il defunto con tonnellate di incenso, come una divinità dei nostri tempi e poi i programmi della serata che inneggiano al “grande”, a colui che ha “realizzato il sogno dell’umanità”.
Un telegiornale ieri titolava: ““E ora? Come sarà il mondo senza di lui?”. Tranquilli: sarà esattamente come prima. Se l’umanità ha superato perfino la scomparsa dell’inventore della lavatrice, ce la farà anche stavolta.
Solo che della morte dell’inventore della lavatrice nessuno ha nemmeno dato notizia. Per la morte di Jobs invece siamo stati alluvionati dalle “lacrime” mediatiche.
Come si spiega? Si dice: la sua tecnologia ha cambiato le nostre abitudini. Bene. C’è qualcuno che conosce padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci? Non credo. Nemmeno fra giornalisti e intellettuali.
Eppure hanno cambiato la vita dell’umanità forse anche più di Jobs: hanno infatti inventato e brevettato il primo motore a scoppio. Auto, moto e quant’altro vengono da lì.
Scusate se è poco: senza di loro andremmo ancora a piedi, o in bicicletta. Ma restano del tutto sconosciuti (neanche noi italiani – loro connazionali – li riconosciamo come esempio di ingegno nostrano).
Volete un altro esempio proprio nel campo dei computer e di internet? Bene. C’è un tizio che – secondo me – è stato molto più decisivo di Jobs nel rivoluzionare i nostri modi di vivere e – sorpresa! – è un italiano. Solo che nessuno lo conosce. Almeno in Italia, perché in America lo conoscono benissimo: si chiama Federico Faggin e il 19 ottobre 2010 ha ricevuto dalle mani di Barack Obama il più alto riconoscimento americano in campo scientifico, la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione. E’ a lui che si deve il progetto del primo microprocessore, cioè quella cosina minuscola che fa funzionare tutti i nostri computer e tutti i congegni elettronici. Credo si possa dire che senza quest’invenzione non ci sarebbero né Internet, né Jobs, né Bill Gates, né Google, né Facebook, perché non ci sarebbero nemmeno i personal computer e gli smartphone. E tante altre cose.
Ma in Italia resta uno sconosciuto. Non ricordo di aver mai letto un articolo su di lui (tanto meno in prima pagina) o di aver visto un programma tv che mostrasse questo vanto del genio italiano.
Un altro caso. Qualcuno conosce il dottore Albert Bruce Sabin? Molto pochi. Eppure è colui che ha realizzato il vaccino antipolio che ha liberato l’umanità (e anche il popolo italiano) dalla terribile poliomielite. Ebbene Sabin, che poteva diventare miliardario con la sua scoperta, non ne ricavò neanche un dollaro. Rinunciò infatti a brevettarla e a sfruttarla in senso commerciale perché il prezzo del vaccino fosse alla portata di tutti. Disse: “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”.
Sabin era ebreo e aveva avuto due nipotine uccise dalle SS: nel suo cuore c’erano i tanti innocenti che soffrivano ingiustamente. Non vi sembra un grande? Non vi pare che abbia fatto una cosa immensa per l’umanità? Eppure alla sua morte, nel 1993, non si sono fatte paginate di giornali. Né editoriali dove si diceva che era un uomo che aveva cambiato il mondo.
Potrei continuare con gli esempi. Ce ne sarebbero tanti. E tutti dimostrerebbero che non si spiega l’enfasi mitologica dei media, i titoli messianici e queste ovazioni planetarie per Jobs.
Il Corriere della sera, per fare solo un esempio, ha dedicato – oltre all’apertura di prima pagina – otto pagine (ripeto: otto!) al decesso, peraltro annunciatissimo di Jobs. Non ha esitato – il “Corriere” – nemmeno a titolare: “A Cupertino come da Madre Teresa”.
E, per non farci mancare niente, ha affidato l’editoriale a Beppe Severgnini il quale ha occupato la prima pagina del quotidiano milanese per dare al mondo due fondamentali notizie: 1) “il primo portatile l’ho acquistato vent’anni fa in California” (e chi se ne frega!); 2) “il (mio) primo computer è stato un Macintosh: ci ho scritto il primo libro” (cosa che potrebbe gravare sulla coscienza di Jobs come un macigno).
Perfino i giornali di sinistra hanno partecipato alla devota processione con i turiboli per la mitizzazione di Jobs, sebbene sia un simbolo del grande capitalismo. “Il Manifesto” gli ha dedicato l’apertura e un editoriale laudatorio intitolato: “Un borghese rivoluzionario”.
E un altro titolo che (letto su un giornale comunista) fa un po’ ridere: “Il morso dell’utopia”. Di questo passo rischiano di mitizzare pure Berlusconi.
Anche “Avvenire” – il giornale dei vescovi – ha dedicato a Jobs un articolo (con foto) in prima e all’interno addirittura quattro pagine. Che francamente lasciano un po’ perplessi considerato che ci sono tantissimi missionari che donano la loro vita intera, fin da giovani, per assistere i più diseredati della terra, in condizioni durissime (ho presente certi lebbrosari africani) e la loro morte non è segnalata da nessuno, nemmeno sulla stampa cattolica.
Eppure credo che potrebbero testimoniare qualcosa, sulla vita e sulla morte. Penso che loro siano dei veri maestri. E la loro vita potrebbe essere più interessante e istruttiva della vicenda professionale di Jobs che in fin dei conti viene magnificato per delle massime che trasudano una certa banalità.
Sentite queste: “nella vita tutto serve”, “bisogna credere in qualcosa”, “quando la vita vi colpisce con una bastonata non scoraggiatevi”, “nessuno vuole morire, ma alla morte nessuno è mai sfuggito”.
Non c’era bisogno di Jobs: questi pensieri li abbiamo già sentiti tutti da nostra nonna. Decantare queste parole come perle filosofiche rischia di farci finire nell’assurdo o nel ridicolo.
Jobs è un uomo del nostro tempo. È stato un bravo inventore e un industriale di grande talento. Anche un tipo simpatico e tosto, per come ha vissuto la malattia. Ma, sinceramente, non mi pare uno che ha rivoluzionato la storia umana. Nemmeno un filosofo.
Le sole due frasi suggestive da lui pronunciate nel famoso discorso di Stanford non sono sue: sono citazioni (e lui peraltro lo dice esplicitamente). Eppure vengono evocate come massime del mito Jobs. “Continuate ad aver fame. Continuate ad essere folli” è una frase del “Whole Earth Catalog” di Steward Brand. Mentre “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo” è un pensiero della spiritualità monastica cristiana che Jobs lesse a 17 anni in forma di battuta umoristica: “Se vivrete ogni giorno come se fosse l’ultimo, un giorno sicuramente avrete avuto ragione”.
Jobs è stato semplicemente un creativo e un grosso industriale. Non facciamone il messia.
E non inventiamo miti per coprire il nostro vuoto. Credo che lui stesso, che continuava a vestire jeans e girocollo, avrebbe trovato assurda questa enfasi messianica planetaria.

(Fonte: Antonio Socci, Libero, 8 ottobre 2011)


Cercasi urgentemente vaccino contro i virus mediatici della fede

Il nuovo “pensiero debole” è in realtà più forte di quanto si creda. Si veste di qualunquismo, premessa del relativismo. E si nutre del dubbio metodico. Dismesse le vesti eleganti della filosofia, ha indossato quelle più comode del pamphlet. Non a caso recentemente ben due non credenti si sono pubblicamente proclamati dalla parte del Papa. Uno è stato Walter Veltroni dalle colonne de “Il Foglio” dello scorso 1 ottobre. L’altro, Costanzo Preve, sul sito dell’UCCR-Unione Cristiani Cattolici Razionali.
Ma, mentre il primo definisce le «insegne religiose» come «nuove ideologie auto rappresentative», evocando addirittura i fantasmi di Auschwitz e dei gulag sovietici, l’altro definisce la religione come il «deposito del senso complessivo delle cose». Mentre il primo vede nella politica la «via d’uscita» tra ideologie e nichilismo e le attribuisce addirittura il compito «di fornire un senso “laico” alla domanda di ragione dell’esistenza», il secondo bolla col titolo di «Armata Brancaleone mediatica» quel volto superbo dell’ateismo laico, che si pretende proprietario esclusivo «della razionalità e della scienza» e che vuol imporre il proprio «dio idolatrico» fondato su «di una concezione limitativa ed astorica di ragione».
Curioso Veltroni. Fa il filosofo a singhiozzo. Da una parte si dice interpellato dalle «ragioni sociali e psicologiche del dilagare della depressione», dall’altra non ne valuta minimamente quelle umane, filosofiche e spirituali. Invoca una «comunità di destino», destino cui poi però non dà nome, né ne indica la direzione. Parla di «speranza» quale antidoto alla «paura», ma non spiega in chi o in che cosa sperare. Spaesato nel ricercare la fonte del giusto in sé svincolato dal principio di maggioranza, “manipola” come plastilina il pensiero di Benedetto XVI in tema di “diritto naturale”, proponendone un’improbabile rilettura terrena e razionalistica.
Infine l’affondo: l’invito esplicito ai credenti a chiudere la fede nella propria sfera privata, per evitare «il cortocircuito integralista» ed a mettersi bene in testa di confidare solo ed esclusivamente nella «ragione». Insomma, un orizzonte da cui viene programmaticamente escluso qualsiasi riferimento al trascendente. L’intervento di Veltroni è per molti versi paradigmatico. È il lupo, che si veste da agnello, applaudendo il Papa, purché lasci a casa i propri dogmi ed usi solo un imprecisato «metodo critico», per discutere di politica, diritto e ragione.
Anche Preve dice di voler stare col Papa, però riconoscendogli la «superiorità della sua diagnosi filosofica sul presente storico rispetto a quella della tribù laico-postmoderna-ateo-sbeffeggiatrice». Ed aggiunge: «Se Ratzinger è per la legittimazione della categoria filosofica di verità, mentre i cosiddetti “laici” sono di fatto per il fisicalismo e per il relativismo, non ho dubbi. Pur essendo un allievo critico di Spinoza, Hegel e Marx e non un pensatore cristiano e neppure cattolico, sto dalla parte di Ratzinger». Il che è ancora riduzionistico, però è anche intellettualmente onesto…
Ma l’arrembaggio mediatico alla Chiesa non è finito qui, come dimostrano l’articolo del solito Hans Küng, pubblicato su “Repubblica” del primo ottobre, e contemporaneamente il libro Mal di Chiesa scritto da Gian Franco Svidercoschi, che in coro invocano un ritorno al Concilio Vaticano II e pongono in stato d’accusa su più fronti «il sistema di governo romano».
L’uno pretende l’abolizione del celibato per i preti e l’ammissione del sacerdozio femminile; l’altro plaude ad Assisi ed ecumenismo e considera incidenti di percorso Motu Proprio e la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani. Insomma, nulla di realmente nuovo sotto il sole.
Un’altra “stoccata e fuga” è giunta da Alexander Sokurov, il regista insignito del Leone d’Oro a Venezia. Dalle colonne de “La Stampa” dell’8 ottobre riscrive a modo suo tutto il Catechismo, spiegandoci che «il concetto di anima quasi non esiste», che in ogni caso «non viene data alla nascita»; svilisce lo spirito legandolo riduzionisticamente alla sola ragione; afferma che «solo la cultura può allontanare un popolo dallo stato selvaggio, la religione non basta»; assicura che Mefistofele è solo «un usuraio, un bravo giocoliere» e che «non fa nulla di soprannaturale».
Insomma, tranquilli, secondo costoro, finora la Chiesa ha scherzato… La verità è però un’altra. È che queste idee, falsamente propalate come moderne ed all’avanguardia, sono virus intellettualoidi per l’anima. Contro cui sarebbe bene trovare al più presto un vaccino.

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 12 ottobre 2011)