sabato 28 aprile 2012

Thomas, l'uomo"mammo", e i suoi tre figli: il fallimento di un'ideologia

La faccenda di cui stiamo per parlare è complicata. Cerchiamo di spiegarla: Tracy Lagondino nasce nel 1974 alle Hawaii. E’ una bella ragazza che a un certo punto della sua vita vuole diventare un uomo, e nel 2002 si sottopone ad un’operazione per cambiare sesso. Rimuove il seno e fa cure di testosterone, ma non rimuove l’apparato riproduttivo, perché la sua compagna, Nancy, di undici anni più grande, dopo aver avuto due figlie ha subìto l’asportazione dell’utero, e non può più avere figli. Tracy, che nel frattempo è diventata legalmente un uomo di nome Thomas Beatie, con sembianze maschili ma apparato genitale femminile, non vuole precludersi la possibilità della prole.
Nel 2003 Thomas interrompe le cure ormonali e decide di affidarsi alla fecondazione artificiale. Secondo quanto risulta dalle cronache, il liquido seminale è di un “donatore”, acquistato, cioè, da una banca del seme, mentre ovocita ed utero sono di Thomas/Tracy: il concepimento sarebbe avvenuto con una inseminazione “fai-da-te”, con una banale siringa. Nel giugno del 2008 nasce Susan, partorita naturalmente, l’anno dopo Austin e nel 2010 Jensen. Le foto di Thomas “incinto” – un uomo col pancione, lo chiamavano “mammo” – hanno fatto il giro del mondo, ad ogni gravidanza.
Adesso si parla ancora di lui perché, dopo aver rimosso completamente l’apparto riproduttivo femminile e fattosi ricostruire i genitali maschili, diventato completamente uomo, insomma, ha annunciato al mondo la separazione dalla moglie. L’abbondante diffusione di servizi fotografici e interviste tv, radio, web, e chi più ne ha più ne metta, che ad ogni gravidanza del “mammo”, e relativo parto, hanno invaso i mezzi di comunicazione di mezzo mondo, accentua il lato commerciale di una vicenda decisamente surreale, che se non fosse adeguatamente documentata da un punto di vista medico e legale sembrerebbe inventata di sana pianta, e costruita su misura per succhiare soldi a un circuito mediatico in cerca di notizie sempre più sensazionali e fuori dall’ordinario. Una brutta trama per un film di quarta categoria, di quelli che però al botteghino incassano, eccome.
Purtroppo, pare sia tutto vero. Dico purtroppo perché ci sono di mezzo tre bambini, che sono esattamente come tutti gli altri bambini del mondo, con gli stessi diritti, in primis quello di avere una famiglia, cioè un padre e una madre. Tre bambini che non conosceranno mai il loro padre naturale – quello che ha venduto il proprio sperma alla banca del seme – e che sono stati partoriti da una donna che legalmente, e anche visivamente, è un uomo, una madre che è un padre anche fisicamente, e che ha pure disseminato il pianeta di foto, filmati e dichiarazioni che per sempre ricorderanno loro come sono venuti al mondo. Immagini di un uomo compiaciuto che mostra il pancione. Cosa penseranno, quali saranno i loro sentimenti, a cominciare dalla coscienza di sé, quando capiranno come sono andate le cose?
Quando si chiederanno chi è il loro papà e chi la loro mamma, quale potrà essere la risposta? Sarebbe ipocrita nascondersi dietro il politicamente corretto del “l’importante è che siano amati”. Si tratta di una situazione estrema e drammatica, creata dalla volontà personale, pianificata a tavolino, e non prodotta da eventi straordinari ma inevitabili. Quando sarà possibile interrogarsi su tutto questo, con franchezza, cominciando a riconoscere l’oggettività dei fatti, e cioè che un figlio non può essere un diritto da esigere a tutti i costi?

(Fonte: Assuntina Morresi, Il Sussidiario.net, 22 aprile 2012)

Il giurista: 29 buone ragioni per bocciare le nozze gay alla Camera

I promotori del matrimonio gay, e delle affini diciture, ci riprovano. E, a prima vista, potrebbe essere la volta buona. In commissione giustizia, alla Camera, è partito l’iter per dare alle unioni di fatto riconoscimento giuridico. La relatrice Giulia Bongiorno avrà il compito di esaminare le sette proposte in materia e farne la sintesi, mettendo a punto un testo unificato. Alcune, come le due presentate da Paola Concia, deputata del Pd, prevedono la possibilità di contrarre unioni civili anche per persone del medesimo sesso o l’introduzione del Patto civile di solidarietà (Pacs); altre, la regolamentazione, mediante semplice dichiarazione congiunta all'anagrafe del Comune, per conferire taluni diritti, quali la successione nel contratto di locazione, e l'estensione dell'assistenza sanitaria e penitenziaria. Altre ancora intendono conferire ai conviventi il diritto all'eredità o agli alimenti per il convivente. Tommaso Scandroglio, docente di Filosofia del diritto nell’Università di Padova, spiega a ilSussidiario.net che «difficilmente si arriverà mai al varo di una legge in proposito. Le proposte di questo tipo, fino a poco tempo fa - tra Pacs, Dico, veri e propri matrimoni gay - erano una ventina. Non se ne è fatto nulla allora e non credo che si arriverà a qualcosa di definitivo in futuro». Di certo, non in quello immediato: «non è pensabile che i partiti se ne occupino in questa fase di emergenza; una volta passate le elezioni, al contempo, è presumibile che tra gli schieramenti il fronte trasversale e contrario a unioni di questo genere si compatti come in passato».
Al di là degli ostacoli evidenti presenti, almeno in parte, nella pubblica opinione, le proposte di legge pongono dei problemi, anzitutto, dal punto di vista della Costituzione. «Laddove ci fosse l’istituzione di un matrimonio alternativo a quello previsto dall’articolo 29 della Costituzione, sarebbe necessario procedere alla modifica della nostra Carta fondamentale». Non mancano criticità neppure sul piano delle unioni civili. «Se si intendesse dar vita ad un istituto parallelo al matrimonio, si potrebbe facilmente obiettare che il nostro ordinamento già tutela il convivente in quanto convivente, ovvero in quanto persona e, quindi, soggetto di diritti». Eccone alcuni: «la giurisprudenza, in materia di affitti non fa distinguo tra conviventi e coniugi; in materia di successione esistono le donazioni e non sussistono problemi di questo tipo; esistono anche leggi che prevedono, in caso della donazione di organi, l’esplicito riferimento al convivente». Altri diritti, invece, sono specificamente attribuibili ai coniugi. «Pensiamo alla reversibilità della pensione. Una della caratteristiche comune a tutte le 20 proposte precedenti, era la previsione dei diritti specifici dei coniugi senza la correlativa indicazione dei rispettivi doveri».
Sta qui l’errore, anche in termini logici. «Il coniuge ha una serie di doveri specifici, non pochi in verità, quali quello di fedeltà, di assistenza, di educazione dei figli». Per semplificare: «Se una donna ha un figlio proveniente da un’altra relazione, il suo convivente non ha alcun dovere nei confronti del pargolo, mentre l’abbandono di minori è reato per il genitore». Qualcuno potrebbe pensare di risolvere facilmente la controversia attribuendo anche ai conviventi i doveri dei coniugi. «Tali proposte di legge non potranno perfezionarsi prevedendo i diritti corrispettivi. Perché, in tal caso, si tratterebbe di un matrimonio. Va da sé che, a quel punto, si riproporrebbero i suddetti problemi».
 
(Fonte: Paolo Nessi, Il sussidiario.net, 23 aprile 2012)

“Tutte single, orgogliose e felici...”

Un mattone dopo l’altro e cominci a immaginare come sarà la casa. Moderna, modernissima, anzi, di più: postmoderna. E infatti nell’architettura trovi rappresentati, un po’ qui un po’ lì, tutti gli stili, nessuno escluso.
Può davvero piacere a chi la sta costruendo, a chi l’abiterà, una casa così, ti chiedi, mentre lei cresce e cresce e cresce? Sembra tanto quegli appartamenti già arredati, che si affittano nelle grandi città agli studenti universitari: mobili recuperati da vecchie soffitte, stoviglie scheggiate e spaiate, oggetti di scarto in un’accozzaglia che cerchi di farti piacere ma non si può dire – no, non si può – che sia “bella”, e cioè come la vorresti davvero.
Questo prova il tuo cuore, mentre la casa si mostra, mostruosa.
E però, siccome ti incuriosisce sapere come sarà davvero, una volta finita, chiedi.
“Non c’è un architetto, non c’è un progetto”, la risposta. Son passati quei tempi: vecchiume! Ognuno può metterci, ora, liberamente, un pezzetto di sé, perché le case del futuro sono così: niente disegni e niente regole. Via libera al gusto, alla fantasia, ai desideri del momento. Si improvvisa. Guarda qui, ti dice Assia Baudi di Selve, porgendoti il suo ultimo articolo su Io Donna, il supplemento del Corsera. “Leggi e capirai”. Capirò?
Comincio a leggere, partendo dal titolo. “Se la mamma sceglie l’autosufficienza”.
Scrive la giornalista: “Negli Stati Uniti più della metà delle madri sotto i trent’anni non è sposata. Per il New York Times è la ‘nuova normalità’. Se il ‘per sempre’ ormai non è più una certezza, il desiderio di maternità resiste, anzi vince. E va oltre il rapporto di coppia (e le sue complicazioni). Nella relazione esclusiva e autonoma con i figli, alcune donne trovano forza e serenità”. Andando avanti con la lettura capisci che Io Donna ne ha incontrate alcune. “Tutte single, orgogliose e felici. Tutte impegnate a costruire nuovi modelli affettivi”.
E Assia Baudi di Selve te le presenta, queste madri single, orgogliose e felici. La prima: Benedetta Emmer, 46 anni. “Ha fatto una figlia da sola quattro anni fa con l’inseminazione artificiale a Londra”, scrive la giornalista. Che poi passa la parola alla protagonista. “Ho avuto a lungo sensi di colpa, perché sono omosessuale e stavo imponendo a mia figlia un unico genitore, impresentabile. Poi ho deciso di combattere: nessuno può permettersi di giudicare se sono una buona madre, né la legge, né Dio”. Alla domanda chi sono le figure di riferimento maschili, così risponde: “I padri degli altri bambini, i mariti delle mie sorelle, il compagno di mia madre”. “Il donatore scelto – aggiunge – è ateo, lavora nella City di Londra e ha donato il suo seme a un’associazione di gay e lesbiche di comune accordo con la moglie”. La seconda è Maria Grazia Ciaccio, 45 anni, che ha deciso di chiamare la figlia Gea “perché è un nome corto e immenso. È la Dea di tutto”. La terza: Guendalina Salini, 39 anni, artista. “L’unica cosa che non potrei dire di me è che sono single: al contrario mi sento legata da forte empatia a varie persone e realtà locali, a valori di condivisione e di sostegno reciproco che muovono reazioni di bellezza, sostenibilità, mediterraneità. Insieme con Oikos Sostenibile e con l’Accademia del Rinascimento Mediterraneo, lavoriamo per fondare una nuova famiglia umana”.
La quarta: Viola Naj Oleari, 36 anni, disegnatrice di gioielli. “Tutto è più facile quando ti relazioni solo con tuo figlio, senza dover pensare alla gestione della coppia. C’è più libertà”.
Un’altra: Barbara Pullera, 37 anni, racconta: “Se avessi continuato ad aspettare il grande amore, le possibilità biologiche di avere un bambino si sarebbero ridotte: avevo già 34 anni”. E così è volata in Danimarca per l’inseminazione assistita e ha scelto un donatore danese alto, perché è piccola di statura e soprattutto “aperto”. “Fare un figlio con un compagno sbagliato, o un amico, avrebbe reso tutto più complicato. Così non devo litigare con nessuno. E se mi innamorerò sarà una scelta libera non condizionata dai bisogni: io un figlio ce l’ho già”.
Presentate alcune tra le ideatrici & abitatrici di queste case postmoderne, siccome Io Donna è un supplemento colto di un quotidiano colto – mica un giornaletto di gossip! – non può mancare il marchio di autorevolezza che si addice ad un’inchiesta di tutto rispetto. Eccolo. L’occhio critico di Lella Ravasi Bellocchio (nomen omen), che psicanalizza non solo le protagoniste dell’articolo, ma, per deformazione professionale, le donne tutte, allargandosi all’intera società. E infatti: “Tutto è in rapida trasformazione oggi – commenta – anche le relazioni, e vale la pena essere aperti a scelte che propongono nuovi modelli affettivi”. Vale davvero la pena, ti chiedi?
Ho letto il servizio fino in fondo, due volte.
Immagino questa casa in cui le donne “fanno” i figli come si fanno le torte, e li “fanno” da sole. Una casa in cui i maschi di riferimento per i bambini sono tutti e nessuno (i padri degli altri bambini, i mariti delle sorelle, i compagni delle madri…). In cui i donatori di seme sono scelti a catalogo e con cura: atei, benestanti, ideologizzati, politically correct; alti se si è basse, bassi se si è un po’ troppo alte… “Giusti”, insomma. Come immaginando, in barba alle circostanze della vita, in barba al libero arbitrio, che i figli saranno un mix tra queste madri “orgogliose, felici, impegnate” e quei padri che vedono poco o non vedranno mai: atei, benestanti, ideologizzati, politically correct, “aperti”, soprattutto… “Giusti” come li ha in mente la loro mamma, che – c’è da scommetterci – se però le parli del progetto T4 e dell’eugenetica nazista strabuzza gli occhi inorridita. Non capisce o non vuole capire?
Una casa al cui ingresso c’è il cartello divieto-d’entrata-per-i- maschi, un Don’t disturb bene in vista o, forse, l’orario per le visite, come in ospedale. In cui vige un unico comandamento: l’autodeterminazione. Dove “matrimonio” e “famiglia” sono parolacce impronunciabili e un uomo accanto è un impiccio, una complicazione. Una casa in cui l’innamoramento è sganciato dall’amore, che è sganciato dall’atto sessuale, che è sganciato dall’apertura alla vita. In cui vai a capire cosa significa che “la nuova famiglia umana” (?) sarà “sostenibile e mediterranea” (?).
Forse, come la figlia di Maria Grazia, la casa si chiamerà Gea, “la Dea (lettera maiuscola ndr) del tutto” (?).

Un mattone dopo l’altro ed è ormai chiaro come sarà la casa che l’ideologia dominante, persuasiva e pervasiva, impone come la “nuova normalità”. Certo, un campione di così poche donne può essere, anzi è, un campione di scarso valore statistico. Ma il messaggio è chiarissimo e non deve passare inosservato. Non può.
Occorrono dunque uomini e donne al lavoro: un popolo intero. Occorrono braccia, energie, mattoni nuovi. Occorre tornare al disegno, all’origine, al Progettista. Senza, non c’è casa che regga alle insidie del tempo, alle mode…

(Fonte: Luisella Saro, Cultura Cattolica, 14 aprile 2012)

Suore americane “commissariate”

Il buon cattolico sicuramente pensa che chi ha scelto la vita religiosa, metta il sacrificio Eucaristico al centro delle feste comandate, e lo faccia con particolare zelo e solennità.
Se pensate questo, però, non conoscete le suore americane. In molti ordini di suore negli Stati Uniti le buone sorelle si pongono la questione se sia opportuno o meno che «l'Eucarestia sia al centro delle loro celebrazioni comunitarie solenni», perché purtroppo «la celebrazione della Messa richiede un sacerdote ordinato, qualche cosa che alcune suore giudicano "discutibile"». Detto in altri termini, vedere un maschio sull'altare è intollerabile per suore intrise di «femminismo radicale», le cui superiore nazionali da anni e sistematicamente «protestano contro gli insegnamenti della Santa Sede in materia di ordinazioni delle donne», anzi li «rifiutano pubblicamente», benché si tratti d'insegnamenti che - come il Papa ha ribadito di recente - dichiarano il rifiuto di queste ordinazioni definitivo e irrevocabile. Può darsi che la presenza di un maschio che celebra Messa dia fastidio a queste suore anche per un'altra ragione, in quanto - sempre spalleggiate e anzi guidate dalle loro superiori nazionali - hanno adottato un atteggiamento sulle «persone omosessuali» - trattandosi di suore, particolarmente persone lesbiche - che, per usare forse un eufemismo, «non corrisponde all'insegnamento della Chiesa in materia di sessualità umana».
Il problema se si debba o no ammettere il prete a celebrare la Messa nelle feste dei conventi di suore non dev'essere occasionale, se è vero che se ne occupa il «Systems Thinking Handbook», che è «un manuale per la formazione dottrinale delle superiori religiose». E quale soluzione propone il manuale? Una bella discussione democratica, convento per convento, dove si esclude che scopo del «dialogo» sia «accettare l'insegnamento della Chiesa». Si tratta invece d'imparare a dare spazio non solo alla «mentalità occidentale» - che procede per dottrina e per logica, e potrebbe portare a concludere che sulla Messa va seguito quanto la Chiesa insegna - ma anche al «modello mentale organico», più tipico delle religioni orientali, dove ciascuna sorella va dove la porta il cuore.
Naturalmente, una volta adottato questo «modello mentale organico» - il cui nome più preciso sarebbe relativismo - per decidere che cosa è bene pensare e insegnare nei conventi di suore americani, non c'è nessuna ragione di fermarsi alla Messa. Il rifiuto della dottrina della Chiesa in tema di sessualità, omosessualità, ma anche «famiglia», «aborto» e «eutanasia» è dato per scontato. Ma ormai non ci si ferma più alla morale. In molti casi la franca e democratica discussione condotta secondo il nuovo modello porta a rifiutare «la Trinità, la divinità di Cristo e il carattere ispirato della Sacra Scrittura». E neppure qui ci si arresta.
Nel corso dell'assemblea annuale delle superiore religiose statunitensi del 2007 una delle oratrici principali, la suora e teologa domenicana Laurie Brink, ha affermato che molte suore ormai hanno deciso di andare «al di là della Chiesa» e ora anche «al di là di Gesù», verso un orizzonte di vaga religiosità dove Gesù è un maestro fra tanti altri e «lo spirito del Sacro» vive in tutte le religioni, anzi «in tutta la creazione».
È vero che molte congregazioni di suore fanno un buon lavoro caritativo e promuovono pratiche a sostegno dei poveri che spesso sono «conformi alla dottrina sociale della Chiesa». Ma questo non basta, e non distingue le suore da una comune associazione umanitaria, se rischia di andare perduto «il fondamentale centro e punto focale cristologico della consacrazione religiosa, il che porta a sua volta a perdere il senso costante e vivo della Chiesa».
Se tutto quanto avete letto finora tra virgolette derivasse da un'inchiesta giornalistica sarebbe già abbastanza grave. Ma viene da un documento del Magistero. Si tratta della «Valutazione dottrinale della Conferenza delle Superiore Religiose Femminili [degli Stati Uniti]», resa pubblica dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 18 aprile 2012, come si precisa su ordine e con l'approvazione di Benedetto XVI. Si tratta del risultato di un lavoro iniziato nel 2008, condotto sotto la guida del vescovo di Toledo, nell'Ohio, mons. Leonard Blair, il quale ha esaminato le assemblee annuali, le politiche e i documenti della Conferenza delle Superiore, la Leadership Conference of Women Religious (LCWR). Il documento dà atto delle risposte fornite dalla LCWR al vescovo Blair e alla Congregazione, che giudica «inadeguate».
Le superiore da una parte hanno risposto che tutti gli interventi alle loro assemblee sono pronunciati a titolo personale: il che non convince, risponde il documento vaticano, perché anni di interventi vanno tutti nello stesso senso e perché le Conferenze delle Superiori Religiose sono esplicitamente regolate dal diritto canonico e «approvate dalla Santa Sede», e come tali hanno «una responsabilità positiva per la promozione della fede e per offrire alle comunità che ne fanno parte e al più vasto pubblico cattolico una posizione chiara e persuasiva a sostegno della visione della vita religiosa proposta dalla Chiesa».
Dall'altra parte, le suore hanno utilizzato un vecchio argomento che - per coincidenza all'estremo opposto della teologia si sente ripetere in questi giorni anche da alcuni «tradizionalisti». Le suore, cioè, affermano che è obbligatorio per i cattolici, religiose comprese, seguire solo tra gli insegnamenti del Magistero quelli infallibili o che almeno «sono stati dichiarati insegnamenti autorevoli». Il documento vaticano risponde che, a parte il fatto che alcuni degli insegnamenti pubblicamente rifiutati dalla LCWR, tra cui quelli che negano il sacerdozio alle donne, per non parlare della Trinità o della divinità di Gesù Cristo, rientrano certamente in questa categoria, il buon fedele cattolico, e tanto più la religiosa che ha fatto voto di obbedienza, sono tenuti a seguire anche il Magistero ordinario e non solo quello straordinario.
Alla diagnosi - secondo cui la situazione della LCWR è «grave», «davvero preoccupante» e su alcuni punti perfino «scandalosa» - segue nel documento vaticano la terapia. La Congregazione per la Dottrina della Fede nominerà un Arcivescovo Delegato, assistito da due vescovi, sotto la cui guida la LCWR dovrà riformare i suoi statuti. Il famoso «Systems Thinking Handbook» sarà «ritirato dalla circolazione mentre si procederà alla sua revisione». Il materiale formativo sarà rivisto per renderlo conforme al «Catechismo della Chiesa Cattolica». Gli oratori alle assemblee annuali e ai principali convegni della LCWR dovranno essere approvati dall'Arcivescovo Delegato. Si procederà a una revisione della vita liturgica, assicurandosi che «l'Eucarestia e la Liturgia delle Ore abbiano un ruolo centrale». L'Arcivescovo Delegato resterà in carica «fino a cinque anni». I danni prodotti sono tali che potrebbero non bastare.

(Fonte: Massimo Introvigne, La Bussola quotidiana, 20 aprile 2012)

Le trappole dell’ipersessualizzazione moderna

Aids, aborto, separazioni e divorzi in continuo aumento, omosessualità, pedofilia, zoofilia, pornografia, mode indecenti e volgari, stupri e violenze sessuali perfino in ambito domestico: ecco i frutti avvelenati di una miscela culturale fatta di relativismo etico, femminismo libertario e ipersessualizzazione moderna. Quest’ultimo fenomeno, raramente studiato in modo scientifico e coi giusti parametri forniti dalla visione morale cattolica, è stato oggetto di un saggio a più voci che resterà come un punto fermo nella ricerca del rapporto tra mass-media e sessualità indotta (cfr. Mugnaini & altri, Erosi dai media. Le trappole dell’ipersessualizzazione moderna, San Paolo, 2011, pp. 170, € 13).
Partendo dalla consapevolezza che oggi «contenuti di tipo sessuale pervadono i programmi televisivi e cinematografici, le immagini pubbliche, le riviste, internet e gli altri media di intrattenimento» (p. 5), gli autori notano come l’ideologia contemporanea presenti la sessualità, in tutte le sue forme, «come ricreativa e senza conseguenze negative» (p. 5).
Le industrie del sesso, ormai diffuse su tutti i continenti, non badano ai risvolti destrutturanti, inibenti, devianti e traumatizzanti della pornografia e della lussuria eretta a valore, ma cercano di «fare audience, interessare, coinvolgere, stimolare e agganciare lo spettatore e l’acquirente» (p. 7). Se si è potuto stabilire che un giovane, ogni anno, è «esposto dai media a 10.000-15.000 riferimenti, battute e allusioni sessuali» (p. 8), non deve davvero stupire il parallelo innalzamento di patologie varie e di difficile soluzione come perversioni, depressioni, fobie di ogni genere e disturbi alimentari.
Secondo il professor Mugnaini la nudità e i riferimenti sessuali sono così onnipresenti che tendono a forgiare un tipo umano nuovo completamente succubo dei condizionamenti mass-mediatici: i dati riportati dallo psicologo dell’infanzia sono agghiaccianti e disarmanti, e non abbiamo lo spazio per riportarli qui (comunque, cf. pp. 19-20 per TV e Cinema, e pp. 21-23 per Internet). Altri canali di sessualizzazione precoce, coattiva e deviante sono le riviste per adolescenti (specie per ragazze e ragazzine), i giochi elettronici e i video-game, le mode, i concerti e i locali di intrattenimento, anzitutto la discoteca.
Da questa cultura del “sesso libero” (ovvero sganciato da responsabilità, pudore e moralità), prevalente nell’odierno occidente liberale e nichilista, è derivato il disprezzo del corpo ridotto ad oggetto e merce di scambio, ma anche la banalizzazione dell’omosessualità, della pedofilia, della prostituzione, del tradimento come liberazione, della stessa violenza come fonte di soddisfazione dell’istinto. La cosa paradossale e forse ignorata all’inizio della valanga dell’ipersessualizzazione moderna (negli anni 60-70) è che proprio il retto e normale esercizio della sessualità, che dovrebbe avvenire sempre all’interno della coppia sposata, avrebbe finito per essere compromesso nella marea nera della licenza e del porno.
Gli Autori dimostrano con numerose citazioni scientifiche che negli ultimi anni, parallelamente al dilagare della sessualità giovanile, sono cresciuti i fenomeni, un tempo rari, di difficoltà sessuale nei termini di impotenza, frigidità, sterilità, dipendenze patologiche, sintomi depressivi e “dismorfofobici” (nati dal confronto con il divo o l’attrice idealizzati dai media), carenze affettive, solitudine esistenziale e alto tasso di suicidi nei consumatori di sesso a pagamento e on line, etc. etc. Che su tutta questa nube nera, né casuale né inevitabile, scenda al più presto una ventata di aria pura, fatta di castità, di moderazione, autocontrollo, elogio del dominio di sé, e ritorno al valore imperituro del matrimonio cristiano e della famiglia, specie numerosa.

(Fonte: Fabrizio Cannone, Corrispondenza Romana, 24 aprile 2012)

mercoledì 25 aprile 2012

La «teologia» di Augias fa acqua da tutte le parti

Come spunto per comprendere la natura e lo scopo della preghiera, vale la pena ritornare sulle «lezioni» di teologia date al cardinal Giuseppe Betori da Corrado Augias, su cui è già intervenuto Rino Cammilleri.
Riassumiamo la vicenda: dopo mesi di siccità in Toscana, Betori (arcivescovo di Firenze) ha incoraggiato i cristiani a pregare Dio affinché piovesse. Apriti cielo: così si può esprimere il senso della reazione di Augias su «Repubblica» e di due lettori del quotidiano. Apriti cielo, non nel senso di unirsi anche loro ad invocare la pioggia, bensì come espressione scandalizzata per quanto detto dal cardinale.
Secondo Augias, «Pregare perché dio faccia o non faccia una certa cosa implica che la sua volontà possa essere influenzata, è la stessa logica di chi invoca un miracolo». Inoltre, prosegue Augias, «Ogni dio è, per il suo credente, molto buono e onnipotente. Perché dunque volerne piegare la volontà secondo i nostri interessi?».
Ora, Augias non coglie il fatto che per i cristiani la preghiera non modifica affatto la volontà di Dio. Come dice Tommaso d’Aquino, «noi preghiamo non allo scopo di mutare le disposizioni divine: ma per impetrare quanto Dio ha disposto di compiere mediante la preghiera dei santi; e cioè, come dice S. Gregorio, affinché gli uomini, “pregando meritino di ricevere quanto Dio onnipotente aveva loro disposto di donare fin dall'eternità”» (Summa Theologiae, II-II, q. 83, a. 2).
È (anche) per questo motivo che Dio, pur conoscendo perfettamente tutti i desideri umani, nondimeno vuole che gli uomini glieli esprimano pregando.
Tra l’altro (come è ben evidente nelle Confessioni di Agostino), pregando acquisiamo la consapevolezza (o aumentiamo la comprensione) sia della nostra finitezza e miseria (confessio peccatorum), sia della grandezza di Dio (confessio laudis), diventiamo consapevoli (o maggiormente consapevoli) del nostro bisogno di cercare e amare Dio stesso.
Appoggiandosi a Baruch Spinoza (1632-1677), Augias dice che «invocare da Dio il bene possibile della pioggia significa attribuirgli il male certo della siccità il che per un cardinale è grave».
Che cosa vuol dire «per un cardinale è grave»? Vuol dire che ha deragliato dall’insegnamento di Gesù? Ma, allora, ragionando come Augias, bisognerebbe rimproverare anche lo stesso Gesù di aver deragliato da se stesso: bisognerebbe bacchettare Gesù per aver chiesto al Padre «venga il tuo regno», attribuendo così a Dio il male del non realizzato avvento del suo regno, oppure bacchettarlo per aver chiesto al Padre «dacci oggi il nostro pane quotidiano», attribuendo così a Dio il male della fame o dell’ingiusta remunerazione del lavoro, bisognerebbe rampognare Gesù per aver detto al Padre «liberaci dal male» attribuendo così a Dio il male che schiavizza o aggredisce l’uomo, ecc. Bisognerebbe altresì sgridarlo per aver detto, in occasione della risurrezione di Lazzaro, «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato», attribuendo così a Dio il male dell’acutissima sofferenza patita dalle sorelle di Lazzaro fino a quel momento ed il male della sofferenza che esse avrebbe continuato a patire se Lazzaro non fosse risorto.
In generale, bisognerebbe bacchettare Gesù per aver insegnato: «Chiedete e vi sarà dato».
Anche Gesù ha deragliato dall’insegnamento di Gesù? O era teologicamente ignorante? In tal caso ci sentiamo di scusarlo, visto che non poteva leggere né i libri di Spinoza né quelli di Augias.
Soprattutto, Augias tralascia la differenza tra volere e tollerare. Quando un medico sottopone un malato di tumore alla chemioterapia, sa con certezza che il malato patirà una serie di pesantissime conseguenze collaterali (vertigini e/o spossatezza e/o vomito, ecc): ma questi effetti non li vuole, bensì li tollera. Ci sono dunque cose che provochiamo consapevolmente, ma che non vogliamo, bensì tolleriamo: queste cose sono conseguenze collaterali delle azioni, cioè conseguenze che la volontà non vuole né come fine né come mezzo, bensì che essa tollera perché vuole qualcos’altro (per esempio perché vuole la guarigione dal tumore nel caso della chemioterapia, o la guarigione da altre malattie nel caso di altri medicinali che hanno effetti collaterali; ho fatto esempi solo nell’ambito medico, ma se ne potrebbero fare molti altri: sulla nozione di effetto collaterale sono costretto a rinviare a G. Samek Lodovici, L’utilità del bene, Vita e Pensiero, Milano 2004, capitolo 6).
Applicando (secondo il metodo dell’analogia) questo discorso a Dio, si può dunque distinguere il volere di Dio dal tollerare di Dio. Così, per esempio, pregare perché Dio faccia piovere non significa per forza pensare che Dio voglia la siccità, bensì che la tolleri in vista di un qualche bene.
Ovviamente questo discorso non è compatibile con la filosofia di Spinoza, secondo cui «poiché l’intelletto divino non si distingue dalla sua volontà, affermiamo la stessa cosa quando diciamo che Dio vuole o diciamo che Dio intende una cosa» (Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1972, p. 152).
È chiaro: se conoscere equivale a volere, quando Dio conosce una cosa con ciò stesso la vuole, quindi Dio non può provocare una cosa consapevolmente senza con ciò stesso volerla, dunque non può esistere una differenza tra provocare consapevolmente e volere, né tra tollerare e volere. Ma questa equivalenza tra intelletto e volontà divina affermata dal grande Spinoza discende dalle aporetiche (per motivi che qui non si possono spiegare) premesse del suo sistema, dalla sua nozione di sostanza (derivata da Cartesio), dal suo immanentismo panteista, ecc.
Ps: per la cronaca, in Toscana è tornata la pioggia; di più: già Sabato Santo, e poi nella notte di Pasqua, sulle Alpi Apuane è scesa di nuovo persino la neve.

(Fonte: Giacomo Samek Lodovici, La Bussola quotidiana, 15 aprile 2012)

Io, sacerdote, scandalizzato...

Io che per voi sono sacerdote, ma con voi sono cristiano, qualche volta mi scandalizzo. Poche volte… e non sono le debolezze umane a scandalizzarmi, piuttosto l'arroganza ridicola e assurda di chi pretende di essere qualcuno o qualcuno importante. Questo mi scandalizza. Di chi pretende di sapere più di coloro che sanno davvero e questo è il segno della più patetica di tutte le ignoranze. E questo mi scandalizza. Dirsi cristiano o cristiana e poi infischiarsene olimpicamente di quanto la Chiesa, nella voce dei legittimi pastori professa, difende e insegna. Questo mi scandalizza. Parla duro, oggi, il Signore nel Vangelo e, scusatemi, per oggi parlerà duro anche questo Suo sacerdote.
Mi scandalizza l'atteggiamento, balordo e maleducato, di chi, dicendosi cristiano o cristiana non sa trattare con un minimo di rispetto e considerazione il Papa, i Vescovi, i ministri di Dio. Mi scandalizza l'incoerenza brutale di troppi cattolici che nella vita pubblica e nel modo di trattare gli altri disdicono con patetica sfrontatezza tutto quanto poi vengono a "professare", tra virgolette, in chiesa. Mi scandalizza la madornale stupidità di chi usa internet per rinnegare la propria appartenenza alla Chiesa, affrettandosi ad appoggiare il primo scemo che abbia qualcosa da dire contro la Chiesa. "Il Papa venda il suo anello per sfamare gli affamati del Congo". Andiamo a mettere in vendita, all'asta, la Pietà, così sfamiamo la gente di chissà dove… e andando non solo a sottoscrivere, ma anche a condividere pornografia, bestemmi e scelleratezze ed esserne fiero. Questo mi scandalizza. Così facendo non sono né freddi né caldi, né cristiani né atei… sono tiepidi.
Ebbene, col Libro dell'Apocalisse io vi ricordo che "i tiepidi saranno vomitati dalla bocca di Dio." E dico tutto questo non nascosto dietro la sicurezza vigliacca di un computer, nel soggiorno della propria casa, ma dalla cattedra più sacra che ci sia in questo Paese, dalla cattedra della Parola di Dio. Mi scandalizza che ben lungi dal prendere decisioni coraggiose, anche radicali - il Signore parla oggi di tagliare una mano, un occhio, un piede - per il bene della propria salvezza eterna, preferisce tagliare e ritagliare il tempo della preghiera, della messa, della catechesi, dell'adorazione, della confessione e di tutto quanto mantiene effettivamente viva la propria fede. Il resto non si tocca. Ma in quanto alla fede si riferisce accomodatevi, siamo alla svendita totale. Mi scandalizzano i genitori che, anziché farsi aiutare dagli altri educatori, anche quelli dell'ambito della fede, tagliano ogni eventuale correzione o richiamo, generando così piccoli bulli e teppisti, totalmente impreparati per la vita e destinati con ogni probabilità al più strepitoso fallimento in tutti i campi della vita. Altro che genitori… Complici! I primi e inescusabili responsabili della vita sciupata dei figli, che pensano che il parroco debba essere un simpaticone disposto a fare tutti gli sconti immaginabili se vuole che il figlio o la figlia vengano alla catechesi.
Ebbene, capitelo bene, una volta per tutte, il parroco non è qua per accontentare tutti, ma per insegnarvi l'ardua e impegnativa via della salvezza. Di tagli parla oggi il Signore. Bene! Io ve ne suggerisco la versione aggiornata. Si tagli la lingua chi la usa per diffamare, per spettegolare, per calunniare, per uccidere. Tagli la linea telefonica chi la usa per distruggere l'unità delle famiglie, delle comunità, delle persone. Tagli la connessione di internet chi la usa per rimanere "appoltronato" nella mediocrità di un mondo virtuale nel quale di impegno o apporto positivo non c'é proprio nulla, tranne che un patetico cyber-fannullare che fa perdere in modo penoso il senso della realtà, nonché dare una patetica visione dei propri squallidi interessi. Dia un taglio alla superficialità, alla banalità, alla vanità, alla superbia petulante chi vive chiuso nel proprio egocentrismo, incapace di scoprire quanta silenziosa sofferenza si aggira nel nostro mondo, nel nostro tempo. L'ultima frase del Vangelo odierno parla dell'Inferno, del quale io vi parlo sempre molto poco perché preferisco orientarvi in positivo, ed è una scelta che mantengo, evidentemente, ma più di una pecora insolente farà bene a ricordare oggi e ogni tanto, la drammatica possibilità che incombe sulla vita di ognuno di noi. Lo stesso Signore che insegna oggi che chi non è contro di noi è per noi, è quello che dice, senza contraddirsi, che chi non è per Lui è contro di Lui. E che chi non raccoglie con lui, disperde. Quel Signore che esige decisioni chiare ed effettive, non solo affettive, non solo chi dice "Signore, Signore" entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi compie veramente la volontà del Padre. Quel Signore che attende prese di posizione senza tentennamenti e senza ripensamenti.
Nel professare adesso il Credo, io intendo rinnovare a Lui la mia fede assoluta e la mia disponibilità totale alla Sua volontà, fede che si deve dimostrare nell'obbedienza alla Sua Parola. Obbedienza… non è una parolaccia. Obbedienza alla Parola di Dio. Chi non è disposto all'obbedienza della fede… sì, perché la fede implica un'obbedienza, non può essere cristiano. Chi non è disposto all'obbedienza della fede, se ne torni a casa, perché viene in chiesa a perdere il tempo. Chi è disposto, ma non solo adesso, bensì per tutta la vita, a mostrare al Signore la disponibilità della Madonna, degli angeli che rimasero fedeli, dei santi di tutti i tempi, professi allora ad alta voce, con me, il Credo, ma non solo con le labbra, ve ne prego… con il cuore, anzi, con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze, come ci insegna il primo comandamento. Amen.

(Fonte: Padre Juan Pablo Esquivel, su Facebook, 22 aprile 2012)

Il Gesù di David Cameron

Il Primo Ministro britannico David Cameron durante un ricevimento dato in occasione della Santa Pasqua a Downing Street, si è ricordato di essere un cristiano. Con il tipico understatement anglicano ha pubblicamente e pudicamente esternato i propri personali sentimenti religiosi. Il ricevimento non è stata l’unica opportunità per Cameron di professare la propria fede. In un altro messaggio pasquale, infatti, il premier ha avuto modo di sottolineare come «il Nuovo Testamento ci dica molto del carattere di Gesù: un uomo di incomparabile compassione, generosità, grazia, umiltà e amore», «valori che lo stesso Gesù ha incarnato e che tutti, credenti e non credenti, possono condividere ed ammirare». Questo è il cristianesimo di David Cameron: l’ammirazione di un uomo per il suo eccezionale carattere. Che, poi, questo Uomo sia anche stato Dio, incarnato, morto e risorto per la salvezza dell’umanità, sembra essere del tutto indifferente. Come indifferenti paiono essere, per Cameron, gli insegnamenti di quell’Uomo.
Non è un caso, ad esempio, che il Primo Ministro sia uno strenuo e convinto sostenitore dei matrimoni omosessuali e della possibilità di ridefinire per legge il concetto di matrimonio, secondo criteri innovativi stabiliti dal governo.
Non è un caso, ad esempio, che l’Esecutivo guidato da Cameron abbia deciso di non sostenere il ricorso presentato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da un gruppo di lavoratori cristiani licenziati per la croce che portavano al collo (dal cristiano Cameron ci si sarebbe aspettati una maggior attenzione in merito a quelle odiose vicende).
Non è un caso, ad esempio, che in materia di bioetica il premier britannico abbia a suo tempo votato a favore della possibilità di creare gli ibridi uomo-animale, mostrando di credere alla fandonia che una simile mostruosità genetica potesse aiutare lo sviluppo della ricerca scientifica. Il 20 maggio 2008, peraltro, lo stesso Cameron, in un’intervista alla GMTV, ribadì pubblicamente «la necessità di non ostacolare il progresso della scienza medica», perché sarebbe stato interesse dell’intera umanità «sconfiggere malattie come l’epilessia, la paralisi cerebrale e le patologie del motoneurone». Ciò che colpì particolarmente il mondo pro-life in quell’occasione fu l’incredibile superficialità con cui Cameron aveva liquidato la questione degli ibridi: «Non si tratta di creare una sorta di mostro di Frankenstein, ma semplicemente di prendere l’ovocita di una mucca e iniettarvi un po’ di DNA umano e tenerlo dentro solo per 14 giorni».
In un’intervista resa al quotidiano Daily Mail il 17 marzo 2008 sull’aborto eugenetico, ancora Cameron fece letteralmente infuriare gli attivisti pro-life. Il leader conservatore,
infatti, si dichiarò favorevole all’aborto tardivo anche in caso di lievi malformazione del feto. Pesarono, allora, le sue parole in quell’intervista a proposito della proposta di cambiare la norma che consente l’aborto fino a 39 settimane nel caso di accertate disabilità del nascituro. «Io non avallerò quella proposta», fu la secca replica del leader tory, «e l’attuale legge deve rimanere esattamente com’è».
Un abortista eugenetico, a favore degli omosessuali, e indifferente alla deriva cristiano-fobica che sembra imperversare nel Regno Unito, questo è David Cameron. Il ritratto perfetto di un anglicano politically correct. Questa è la tragedia del cristianesimo in Gran Bretagna, una religione all’acqua di rose, ridotta a buoni sentimenti in cui si ammira, con una venatura di neo-arianesimo, la figura di un personaggio storico che ha mostrato all’umanità il suo meraviglioso carattere, la sua «incomparable compassion, generosity, grace, humility and love».
La cosa più scandalosa è che, parlando in occasione della Pasqua, un cristiano come si professa Cameron, non abbia minimamente accennato al Cristo Risorto. Anche lui, come tutti i credenti nella fede del Nazareno, dovrebbe conoscere le parole dell’Apostolo delle Genti: «Si Christus non resurrexit, stulta est fides vestra». Se Cristo non fosse risorto dai morti la fede cristiana si sarebbe ridotta ad un’assurda follia, una fede per stolti, che forse può andar bene per i cristiani politicamente corretti, ma che di certo non può essere accolta da tutti coloro che ancora si ostinano a credere davvero nell’Incarnationis Mysterium. La questione, del resto, l’aveva centrata, con la sua consueta e lucida profondità, il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij in un appunto scritto per il celebre romanzo I demoni: «Su Cristo, potete discutere, non essere d’accordo (…) tutte queste discussioni sono possibili e il mondo è pieno di esse, e a lungo ancora ne sarà pieno; ma io e voi, Šatov, sappiamo che sono tutte sciocchezze, che Cristo, se è solo uomo, non può essere Salvatore e fonte di vita, e che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la pace per l’uomo, la fonte della vita e la salvezza dalla disperazione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la garanzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole “Il Verbo si è fatto carne”, e nella fede in queste parole».

(Fonte: Gianfranco Amato, Riscossa Cristiana, 18 aprile 2012)

La missione della famiglia

Nel giorno in cui Benedetto XVI festeggia i suoi sette anni di pontificato pubblichiamo questa sua riflessione tratta dall'ultimo libro "L'amore si apprende. Le stagioni della famiglia" in uscita per San Paolo e Libreria Editrice Vaticana (pp. 218, euro 16).
Il presupposto dal quale occorre partire, per poter comprendere la missione della famiglia nella comunità cristiana e i suoi compiti di formazione della persona e trasmissione della fede, rimane sempre quello del significato che il matrimonio e la famiglia rivestono nel disegno di Dio, creatore e salvatore. (...)
Matrimonio e famiglia non sono in realtà una costruzione sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? cosa è l’uomo? E questa domanda, a sua volta, non può essere separata dall’interrogativo su Dio: esiste Dio? e chi è Dio? qual è veramente il suo volto?
La risposta della Bibbia a questi due quesiti è unitaria e consequenziale: l’uomo è creato ad immagine di Dio, e Dio stesso è amore. Perciò la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’autentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama. Da questa fondamentale connessione tra Dio e l’uomo ne consegue un’altra: la connessione indissolubile tra spirito e corpo: l’uomo è infatti anima che si esprime nel corpo e corpo che è vivificato da uno spirito immortale. Anche il corpo dell’uomo e della donna ha dunque, per così dire, un carattere teologico, non è semplicemente corpo, e ciò che è biologico nell’uomo non è soltanto biologico, ma è espressione e compimento della nostra umanità. Parimenti, la sessualità umana non sta accanto al nostro essere persona, ma appartiene ad esso. Solo quando la sessualità si è integrata nella persona, riesce a dare un senso a se stessa.
Così, dalle due connessioni, dell’uomo con Dio e nell’uomo del corpo con lo spirito, ne scaturisce una terza: quella tra persona e istituzione. La totalità dell’uomo include infatti la dimensione del tempo, e il “sì” dell’uomo è un andare oltre il momento presente: nella sua interezza, il “sì” significa “sempre”, costituisce lo spazio della fedeltà. Solo all’interno di esso può crescere quella fede che dà un futuro e consente che i figli, frutto dell’amore, credano nell’uomo. La libertà del “sì” si rivela dunque libertà capace di assumere ciò che è definitivo: la più grande espressione della libertà non è allora la ricerca del piacere, senza mai giungere a una vera decisione; è invece la capacità di decidersi per un dono definitivo, nel quale la libertà, donandosi, ritrova pienamente se stessa. In concreto, il “sì” personale e reciproco dell’uomo e della donna dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e al tempo stesso è destinato al dono di una nuova vita. Perciò questo “sì” personale non può non essere un “sì” anche pubblicamente responsabile, con il quale i coniugi assumono la responsabilità pubblica della fedeltà.
Nessuno di noi infatti appartiene esclusivamente a se stesso: pertanto ciascuno è chiamato ad assumere nel più intimo di sé la propria responsabilità pubblica. Il matrimonio come istituzione non è quindi una indebita ingerenza della società o dell’autorità, l’imposizione di una forma dal di fuori; è invece esigenza intrinseca del patto dell’amore coniugale.
Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il “matrimonio di prova”, fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell’uomo. Il suo presupposto è che l’uomo può fare di sé ciò che vuole: il suo corpo diventa così una cosa secondaria dal punto di vista umano, da utilizzare come si vuole. Il libertinismo, che si fa passare per scoperta del corpo e del suo valore, è in realtà un dualismo che rende spregevole il corpo, collocandolo per così dire fuori dall’autentico essere e dignità della persona.

(Fonte: Benedetto XVI, L'amore si apprende. Le stagioni della famiglia, Ed. Vaticana, 2012)

La riforma liturgica secondo Brian Moore

Tante sono le critiche, e di varia natura, che la riforma liturgica post-conciliare ha portato con sé. Tra di esse spiccano quelle del cardinal Ratzinger, sia per la loro puntualità teologica, sia soprattutto per l’autorevolezza di colui che le ha pronunciate. L’espressione più forte l’allora Cardinal Ratzinger la usò nel 1992 introducendo un saggio di mons. Klaus Gamber: «la riforma liturgica non è stata una rianimazione, ma una devastazione».
Numerosi sono gli autori che hanno condiviso quest’affermazione, mai però, se non vado errato, la riforma liturgica e i suoi problemi, hanno dato luogo ad un romanzo storico come quello di Brian Moore – Cattolici - edito in edizione originale nel 1972, a soli 3 anni dalla promulgazione del Novus Ordo Missae (Cattolici, Lindau, Torino 2012, pp. 100, € 12) da cui è stato tratto un bellissimo film.
Lo scrittore cattolico irlandese immagina una Chiesa devastata dal modernismo a causa del Concilio Vaticano IV e di una riforma liturgica da strapazzo a cui si oppone, nel mondo intero, un unico convento di monaci, residenti in una sperduta isola irlandese, continuando la celebrazione more antiquo. Vista l’affluenza crescente di fedeli da ogni parte del mondo, i superiori dell’Ordine monastico, temendo l’inizio di una contro-rivoluzione cattolica, inviano un sacerdote, padre James Kinsella, per farli adeguare alla norma imposta da Roma.
Che cosa accadrà? Lo lascio scoprire al curioso lettore… Segnalo però da subito gli interessantissimi dialoghi tra i monaci (conservatori) e l’inviato (modernista) di Roma.
Ad un certo punto, l’abate irlandese definisce così il problema di fondo, soggiacente alla stessa riforma della Messa: «L’ortodossia di ieri è (diventata) l’eresia di oggi» (p. 57).
Un altro monaco, che probabilmente esprime le posizioni dell’autore, spiega così le sue ragioni al Kinsella: «(…) vedete, è la cosa più normale che ci sia, non abbiamo fatto nulla perché iniziasse tutto questo, abbiamo continuato a dire la messa a Cahirciveen nel modo in cui lo abbiamo sempre fatto, nel modo in cui siamo stati educati a fare. La messa! La messa in latino, il sacerdote con le spalle rivolte ai fedeli affinché sia lui che i fedeli guardino l’altare dove c’è Dio. Offrire a Dio il sacrificio quotidiano della messa. Il pane e il vino che diventano il corpo e il sangue di Gesù Cristo, nel modo in cui Gesù disse ai suoi discepoli di fare durante l’Ultima Cena.
“Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue. Fate questo in memoria di me”. Dio ha mandato suo Figlio per redimerci. Suo Figlio è venuto sulla terra ed è stato crocifisso a causa dei nostri peccati e la messa è la commemorazione della crocifissione, del sacrificio del corpo e del sangue di Gesù Cristo a causa dei nostri peccati. E la messa è detta in latino poiché il latino è la lingua della Chiesa, la Chiesa è una e universale, così il cattolico poteva andare in ogni chiesa del mondo, qui come a Timbuctu, o in Cina, e ascoltava la stessa messa, l’unica messa che c’era un tempo, la messa in latino. Che poi la messa fosse in latino e il popolo non parlasse il latino, questo era parte del mistero della messa, perché la messa non parlava al nostro vicino ma a Dio. Dio onnipotente!
Abbiamo fatto così per quasi duemila anni e in tutto questo tempo la chiesa è stata il luogo dove si stava tranquilli, rispettosi, era un posto silenzioso perché Dio era lì, Dio era sull’altare, nel tabernacolo, in forma di ostia e di calice di vino. Era la casa del Signore, dove ogni giorno si compiva il miracolo quotidiano. Dio veniva tra noi. Un mistero. All’opposto questa nuova messa non è un mistero, ma una barzelletta, una cantilena, non parla a Dio, parla al nostro vicino; è per questo che è in inglese, in tedesco, in cinese e in ogni altra lingua che la gente parla in chiesa. Dicono che è un simbolo, ma un simbolo di cosa? E’ uno spettacolo, ecco cos’è» (pp. 43-45). Non c’è altro da aggiungere.

(Fonte: Fabrizio Cannone, Riscossa Cristiana, 4 aprile 2012)

venerdì 20 aprile 2012

Il dramma della Chiesa di oggi

«La situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi» è stata al centro dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Messa crismale dello scorso 5 aprile. Non si è trattato di una generica denuncia: il Papa ha fatto esplicito riferimento alla situazione della Chiesa in Austria, dove è stato pubblicato un Appello alla disobbedienza del movimento Pfarrer-Iniziative (Iniziativa dei parroci). Questo appello, sottoscritto da quattrocento sacerdoti austriaci, chiede tra l’altro il sacerdozio femminile, l’abolizione dell’obbligo del celibato sacerdotale, la comunione per i divorziati risposati. Punti su cui, come nel caso dell’ordinazione sacerdotale delle donne, la Chiesa si è espressa in maniera irrevocabile e definitiva.
Va sottolineato come la disobbedienza degli esponenti del clero denunciata dal Papa non rappresenta un episodio di isolata indisciplina, ma l’adesione organizzata ad errori od eresie. Essa si presenta dunque come uno scisma, almeno potenziale. La distinzione fondamentale tra eresia e scisma risale a san Girolamo, che definisce eresia la perversione del dogma, mentre lo scisma è la separazione della Chiesa (In Epist. ad Titum, PL, vol. 26, col. 598). Nell’eresia prevale dunque una separazione dottrinale o teologica, nello scisma una separazione disciplinare o ecclesiale. Non tutte le eresie si traducono in scismi, ma ogni scisma presuppone generalmente un’eresia.
La storia della Chiesa, fin dalla sua nascita, è la storia delle sue persecuzioni, ma anche degli scismi e delle eresie che, fin dalle origini, ne hanno minato l’unità. San Paolo, nelle sue lettere, fa spesso riferimento a queste deviazioni dall’insegnamento di Cristo e della Chiesa, che già si presentavano tra i fedeli. Così, nella Lettera agli Efesini, li ammonisce a «non camminare, come camminano i gentili, nella vanità del proprio pensamento, con l’intelletto oscurato dalle tenebre, lontani dalla via del Signore, per causa dell’ignoranza che v’è in essi» (Ef. 4,17-18). L’origine di questo allontanamento dalla via del Signore è nella mancanza di sottomissione dell’uomo a Gesù Cristo, unica Via, Verità e Vita.
«Gesù Cristo – ricorda il Papa nella sua Omelia – ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la Tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada». Il sacerdote dovrebbe sempre ripetere con il Vangelo: «La mia dottrina non è mia (Gv. 7,16). «Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. (…) Ma la disobbedienza – ha detto il Papa – è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?»
Un tempo, sulle dichiarazioni eterodosse di esponenti del clero si sarebbe steso un velo di pietoso silenzio. Oggi che il Papa stesso ha dato l’allarme, tacere è una colpa, anche se parlare significa portare alla luce gravissime responsabilità. E’ quanto accade ancora una volta in Austria, dove il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ha recentemente ratificato l’elezione di Florian Stangl, un 26enne dichiaratamente omosessuale, nel consiglio della Parrocchia di Stützenhofen, nella sua Arcidiocesi (cfr. “Corrispondenza Romana”, n. 1237, 11 aprile 2012).
Il giovane, ufficialmente iscritto come convivente con un “compagno” nei registri civili, è stato eletto a grande maggioranza nel consiglio della sua comunità ecclesiale, ma il Parroco, don Gerhard Swierzek, in conformità a quanto prescrive il Diritto canonico, ha manifestato la propria opposizione alla nomina. Il neo-eletto peraltro non si era detto per nulla disposto a rinunciare alla sua situazione, di fatto e di diritto omosessuale, respingendola anzi come «una richiesta irrealistica».
Il caso è rimbalzato sui mass-media ed è intervenuto personalmente l’arcivescovo di Vienna che, dopo aver invitato a pranzo Florian Stangl ed il suo convivente, ha rilasciato un’intervista all’emittente tv “ORF”, in cui si è detto «molto impressionato» dal giovane omosessuale, «umanamente, personalmente e cristianamente» e ha illustrato davanti alle telecamere la decisione di confermarlo a capo del Consiglio pastorale, malgrado l’avviso contrario del parroco. Il Cardinale ha affermato di aver voluto guardare «prima agli uomini che alla Legge» e ha poi ha annunciato l’intenzione di rivedere le regole di accesso, «per chiarire i requisiti necessari per i candidati».
Il cardinale Schönborn ha avuto come suo Vicario generale ed uomo di fiducia mons. Helmut Schüller, lo stesso che ora guida il movimento dei disobbedienti Pfarrer-Iniziative, e a suo tempo ha consegnato alla Congregazione del Clero un memorandum, accompagnato da una nota personale sul tema del celibato sacerdotale, affinché «qualcuno a Roma sappia cosa pensa una parte dei nostri laici dei problemi della Chiesa».
In Italia, il presule che più di ogni altro sembra in sintonia con Schönborn, è Sua Eminenza il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano. Il “Corriere della Sera” del 23 marzo ha dedicato un ampio servizio all’ultimo libro del cardinale, scritto in dialogo con il senatore-chirurgo Ignazio Marino.
Nel volume, dal titolo Credere e conoscere, il cardinale Martini, presentato dal giornalista come «una delle massime autorità spirituali del nostro tempo», afferma che il comportamento omosessuale «non può venire né demonizzato né ostracizzato». «Io ritengo che la famiglia vada difesa (…) – aggiunge il porporato – però non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi nella Chiesa se la prende con le unioni civili. Io sostengo il matrimonio tradizionale con tutti i suoi valori e sono convinto che non vada messo in discussione. Se poi alcune persone di sesso diverso, oppure anche dello stesso sesso, ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non sia?» (“Corriere della Sera”, 23 marzo 2012).
Il Papa, il 13 marzo, nella visita ad limina dei vescovi americani, ha criticato «le potenti correnti politiche e culturali che cercano di alterare la definizione legale del matrimonio», affermando che «le differenze sessuali non possono essere respinte come irrilevanti per la definizione del matrimonio». Benedetto XVI ricorda che l’unione omosessuale, regolata o no dallo Stato, non può ricevere nessuna approvazione dalla Chiesa. E se l’ordinazione della donna viola la legge rivelata da Dio, l’omosessualità infrange, oltre alla legge della Chiesa, la legge naturale, impressa dal Signore in ogni cuore umano.
Il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 2357, definisce le relazioni omosessuali «gravi depravazioni», «intrinsecamente disordinate», «contrarie alla legge naturale» ed «in nessun caso» da approvarsi. A che serve celebrare il ventesimo anniversario dell’entrata in vigore di questo Catechismo se si tollera che siano gli stessi uomini di Chiesa a metterlo in discussione, nelle parole e nei fatti? E come immaginare di far fronte allo scisma che incombe, senza colpire chi favorisce gli errori all’interno della Chiesa, anche se rivestito della porpora cardinalizia?

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 19 aprile 2012)

Auguri santo Padre: non sei solo!

Inizia l'ottavo anno di pontificato di Benedetto XVI, eletto il 19 aprile 2005, settantottenne, in meno di un giorno nel conclave più numeroso mai riunitosi nella storia. Una data celebrata con gioia e preceduta da quella, tradizionalmente privata, dell'ottantacinquesimo compleanno, che però non ricorreva nella serie dei Papi dal 1895 e che quindi è stata festeggiata con più calore del solito.
Per queste feste d'aprile si moltiplicano dunque i rallegramenti e gli auguri, giunti da tutto il mondo per esprimere un affetto e una stima generali, in questa misura non prevedibili al momento dell'elezione. Non va dimenticato infatti il cumulo di pregiudizi, se non addirittura di opposizioni, con il quale la rapidissima scelta del collegio dei cardinali era stata accolta in diversi ambienti, anche cattolici. Pregiudizi e opposizioni che nei confronti del cardinale Ratzinger risalivano almeno alla metà degli anni Ottanta ma che in nulla corrispondevano alla sua vera personalità.
Il successore di Giovanni Paolo II - che pure era stato il suo più autorevole collaboratore, quasi subito voluto a Roma dal Papa polacco, anch'esso a lungo osteggiato - venne a lui contrapposto, secondo stereotipi abusati. Un pontificato apertosi dunque in salita e che il Pontefice ha saputo affrontare giorno per giorno con lucida e paziente serenità, dimostrata già il 24 aprile quando chiese preghiere ai fedeli perché non fuggisse, "per paura, davanti ai lupi".
Era quella omelia la prima di una ormai lunga serie, che per limpidezza e profondità non sfigurerà accanto alle predicazioni di Leone Magno, le prime conservate di un vescovo di Roma, caratterizzate da un esemplare equilibrio tra eredità classica e novità cristiana, analogamente all'intenzione di Papa Benedetto di muoversi in armonia tra ragione e fede. Per rivolgersi e parlare a tutti, come ha suggerito nell'incontro di Assisi l'invito rivolto - per la prima volta, un quarto di secolo dopo quello voluto da Giovanni Paolo II tra credenti - anche ai non credenti, per annunciare il Vangelo al mondo di oggi.
Così è stato anche nell'omelia per la ricorrenza del compleanno - che coincide con quella del suo battesimo, il Sabato santo del 1927 - quando Benedetto XVI ha parlato dei santi ricordati nel calendario liturgico, Bernardetta Soubirous e Benedetto Giuseppe Labre, di Maria, la madre di Dio, e dell'acqua pura della verità di cui il mondo è assetato, spesso senza saperlo. Amici invisibili, ma non per questo meno reali, dei quali il Papa sente la vicinanza nella comunione dei santi. Così come sente l'amicizia di tanti che per lui ogni giorno pregano, o anche solo guardano a lui con simpatia, ascoltando con attenzione le sue parole.

(Fonte: Osservatore Romano, 19 aprile 2012)

venerdì 13 aprile 2012

Ancora appunti sul “Magistero” del Priore di Bose

Due cose colpiscono nella querelle sorta attorno alle critiche mosse da Antonio Livi a Enzo Bianchi, occasionate da un articolo di Bianchi, su La Stampa dell’11 marzo, sulla nuova edizione di Essere cristiani di Hans Küng.
La prima è la difficoltà di Enzo Bianchi a valutare autocriticamente la portata dei suoi interventi, sia che cadano su un terreno ricettivo (dove attecchiscono senza che lui per primo ne possa controllare i frutti) sia che arrivino a menti e ad ambienti critici nei suoi confronti, ove vengono di regola, ma legittimamente, valutati con allarme se non con ostilità. Su questo punto tornerò.
La seconda è la preziosa occasione di riflessione e mediazione che Avvenire poteva mettere a frutto, ma ha mancato. Marco Tarquinio, il direttore del quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha perso (e in modo irragionato e scomposto: da vecchio collaboratore del giornale me ne dolgo) l’opportunità di offrire finalmente uno spazio al severo, duro, dibattito che percorre la Chiesa cattolica da alcuni anni su questioni della massima importanza: in primo luogo la quotidiana diluizione della “fides quae” (cioé dei contenuti della dottrina della fede) che avviene per molte vie e, non secondariamente, attraverso la manipolazione militante o abitudinaria del Vaticano II.
L’Avvenire di Tarquinio preferisce invece incrementare nei cattolici italiani una koinè magmatica di “sociale” e “spirituale”, senza domandarsi se il bagno nell’emozionale attivistico e nei fasti dell’ecclesialese che – con eccezioni – vi dominano, non si accodi alla perdita di rigore dell’intelletto cattolico di questi anni, e non stenda una patina opaca anche sulla forza e determinatezza dell’insegnamento papale.
Può darsi che la valutazione che Livi ha dato della “predicazione” di Bianchi (in effetti inarrestabile, senza tregua, per cento canali) abbia ecceduto in durezza. Livi recentemente ha pubblicato un importante volume sulla teologia come scienza della fede (contro le derive di quella “filosofia religiosa” venduta per teologia che infesta le facoltà cattoliche e molta produzione teologica), libro di cui Avvenire non ha finora parlato e che le librerie cattoliche si guardano bene dal mettere in evidenza. Da un’intelligenza esercitata al rigore come quella di Livi non sorprende che sia arrivata una reazione dura, nell’attimo in cui il fenomeno deprecato gli è sembrato superare ogni soglia di tollerabilità.

Questo traboccare, lo sappiamo, può essere provocato anche solo da una goccia. Anch’io avevo messo da parte l’articolo di Bianchi su Küng: un episodio, non così minore, di mancanza di responsabilità non solo nei confronti dei tanti che bevono le sue parole ma della sua stessa intelligenza. Chiedo: si può scrivere di Hans Küng su un giornale (che prevede una quota di lettori occasionali e non sistematici di ciò che si scrive) senza prendere esplicitamente da lui le distanze, e non tanto per opportunità ma per l’obiettiva pericolosità di un autore che ha prodotto danni enormi alla Chiesa? Non è legittimare, anzi incentivare presso il lettore (magari un “sincero cercatore di Dio”) la lettura di qualsiasi altra cosa di Küng, dai pamphlet più insidiosi e in odore di eresia alle piatte eppure maliziose compilazioni storico-religiose, dalle costanti e insolenti aggressioni a Roma ai velleitari progetti di “etica mondiale”? Non prevale in Bianchi, in questi casi, una presunzione di “magistero” divenuta talmente automatica da mettere, come Livi ha denunciato, sullo stesso piano Küng e Roma, giocando cioè a una sorta di superiore terzietà? Una goccia, magari, nel mare degli interventi del priore di Bose, eppure un brutto sintomo.
A suo tempo avevo lasciate “pro bono pacis” nel mio cassetto delle annotazioni sulle pagine iniziali de La differenza cristiana, un lettissimo volumetto di Bianchi pubblicato da Einaudi nel 2006. Ora è forse il momento di usarle. Nessun processo all’autore; ma una conferma di quell’enunciare incoerente o equivoco che, a più modesti livelli, sta corrompendo il laicato colto e settori del clero delle generazioni di mezzo, anzitutto.
Si possono sottolineare già le coordinate offerte dall’indice del libro: 1. “Una laicità del rispetto”, ove si indulge in formule problematiche come “laicità, una garanzia per la religione”, o “chi minaccia il cristianesimo” fino a “l’etica, un dono dell’esperienza”; poi: 2. “La differenza cristiana” in cui, dopo aver ricordato che “la fede non si impone”, si insiste sul dato che “i cristiani non sono perseguitati” e si proclama: “Siate profeti, ma non entrate in politica”; per finire con: 3. “Dialogare e accogliere l’altro”, ove colpisce la formula “un solo Dio, molti modi per dirlo” e altre del tipo “sei diverso da me, quindi ti accetto”. Verrebbe da dire sorridendo che siamo nel cuore del cattolicesimo politicamente corretto. Ma non è più l’ora di sottovalutare il peso di alcune di queste formule che, per usare un’immagine, non stanno a galla ma trascinano sul fondo coloro che vi si aggrappano.
Sottolineo subito la piega anti-apologetica di Bianchi. La tensione e l’assuefazione anti-apologetica non vanno considerate una virtù. Come è enorme la ricchezza che l’apologetica ha donato alla Chiesa (dai primi Padri ad Agostino, nei secoli, fino agli intelletti che guidarono le grandi conversioni nella cultura europea tra Otto e Novecento), così il suo mancato esercizio ha snervato, reso incolto e intimistico l’intelletto cristiano comune. Per Bianchi invece, nella da lui temutissima sfida laici-cattolici, la Chiesa rischierebbe di sentirsi “costretta ad esprimersi” (!) in modo apologetico, e con ciò a non essere più capace di sostenere in termini di pacifico confronto la sua collocazione nella “compagnia degli uomini” (pp. 3-4).
Naturalmente, per Bianchi, molto della conflittualità è da imputare alla Chiesa, a un suo “presenzialismo” che privilegia “tematiche e linguaggi di scontro”, una opzione – si suggerisce – gratuita e irresponsabile. Proseguendo su questa strada “ne patirebbe la stessa evangelizzazione” (p. 4). Da ciò il lettore ricava che il parlare a voce alta dei due recenti pontificati e di alcune conferenze episcopali non ha ragion d’essere nel merito ed è contrario all’autentica pastorale.
Sintomatico esordio per tutto il volumetto: assenza di diagnosi dell’attualità storica – che la Chiesa dovrebbe leggere meramente come un’astorica “compagnia” – e una concezione della differenza cristiana esonerata, forse perché immunizzata, dalla dimensione critica, se non quella indotta dall’intelligencija e molto praticata da Bianchi: libertà civili, democrazia, pacifismo, declamazione giustizialista, pauperista e simili.
Certo, Bianchi condanna l’eccesso libertario (”reificazione della libertà”), poiché i cristiani credono che in ogni essere umano vi sia una legge, un ethos non rivelato, non scritto, non codificato, eppure “presente ed eloquente”. In questo consisterebbe l’universalità stessa dell’umano. La Chiesa è di conseguenza “presidio di autentico umanesimo”. Ma come? Egli dice: come spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali. In Bianchi, la concessione alla Chiesa d’essere presidio di umanesimo e l’accettazione di una sua funzione pubblica (“patrimonio di sapienza non destinato a restare negli spazi del culto privato”) prendono subito la strada vetero-habermasiana dell’agire comunicativo. Non si capisce come possa un “presidio” coincidere a priori con un’arena o una funzione di confronto di etiche e atteggiamenti individuali: arena ove la materia da presidiare non può che essere questa stessa funzione dialogica, in sé protettiva di qualsiasi contenuto e atteggiamento messo correttamente in campo. Neppure Habermas è più convinto che la Verità sia mero “Diskurs”.
D’altronde un “presidio”, se il termine non è solo retorico, suppone un pericolo e un’azione di prevenzione e difesa; che è altro dall’apertura di spazi dialogici fini a se stessi. Sfugge a Bianchi che solo l’agire recente, anche conflittuale, della Chiesa è la negazione di quel confinamento al culto privato che egli teme, e che la dimensione di “setta per quanto influente” è proprio ciò che la recente politicità della Chiesa cattolica nega. Ma chi legga attentamente Bianchi sa di non potersi attendere molta consequenzialità argomentativa in un quadro ideologico pur coerente.
Per Bianchi, naturalmente, non v’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. Il priore critica la laicità alla francese, ma la “giusta laicità” sarebbe di “grande giovamento alla Chiesa”. I cristiani vi troverebbero protezione contro l’utilizzo della fede come “religione civile”, termine con cui egli designa del tutto erroneamente l’uso strumentale della religione da parte di quanti “misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare”. Sullo sfondo del conflitto attuale egli evoca ancora gli eccessi del cesaropapismo e della teocrazia latina medievale. Vi sarebbero, secondo Bianchi, forze che vogliono un ruolo dominante della Chiesa, cioè che non vogliono che la Chiesa mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del Vangelo. Le istituzioni religiose verrebbero piegate alla “mediazione”, con una vicendevole “strumentalizzazione” di poteri religiosi, politici e sociali (pp. 14-15). Tutto ciò sarebbe contrario alla parola, profezia liberante, che chiede la rinuncia agli idoli societari.
Questi luoghi comuni non rappresentano solo una confusione estrema – come qualsiasi studioso coglie – tra teocratismo, disciplinamento religioso della società, religione civile, come tra mediazione politica e “strumentalizzazione” delle parti. In tutto il corso del libretto si invocano, come formule di rito, dialogo, ethos e spazio sociale condiviso; e naturalmente “integrazione”, nelle scontatissime pagine sui rapporti interetnici. Paradossalmente, questo corpo retorico che si sviluppa attorno all’espressione “presidio” è affine, senza che Bianchi lo sospetti, al vero quadro ideologico della moderna religione civile: “religione” subordinata alla “volonté générale” di una comunità roussoviana senza conflitto.
Dunque la Chiesa sarebbe “presidio di autentico umanesimo” da esercitare nello spazio pubblico; ma presidio vacuo, poiché ogni sua azione autorevole, se in contrasto con la “volonté générale”, sarebbe in sé, per Bianchi, “spegnimento di profezia” e “sacrificio agli idoli societari”. Nell’idea che “la profezia della Chiesa” si dia nella conformità alla “volonté générale” hanno creduto, a lungo, tutte le subculture cristiane subalterne dell’intelligencija rivoluzionaria. Oggi è tutto dimenticato, ma la religione civile che pretende il dominio è sempre quella dell’intelligencija (dei diritti emancipatori, oggi), mentre è difficile per la Chiesa esercitare il proprio “presidio” pubblico. Né sarà possibile che lo eserciti mai se seguirà il canone di Bianchi: “I pastori chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia ma non pretendono che la legge evangelica [ma non era il diritto naturale, “ethos non rivelato, non scritto, eppure eloquente” universalmente? - p.d.m.] sia tradotta in legge vincolante per tutti”.
“Evangelizzazione e dialogo, dunque!”. Ma come e su che cosa, se la preoccupazione maggiore è che “la definizione della verità [per Bianchi “prodotta e definita dalla Chiesa stessa” (p. 92)] rischia di sostituirsi alla Verità vivente, Gesù Cristo risorto”? La sudditanza ai “valori” dell’azione politica dell’intelligencija unita alla de-dogmatizzazione sono una pericolosa miscela, che non sarà Bose a trattenere sull’orlo del precipizio fideistico. Nel suo più recente libro “Per un’etica condivisa”, pubblicato nel 2009, il priore di Bose mostra, infatti, che anche in lui la scivolata prosegue. A p. 46 generosamente sostiene che è ancora possibile “raggiungere al cuore del loro vissuto ordinario” gli uomini di oggi: “È ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio. Certo, per fare questo appare oramai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via dell’esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi”. Ovviamente la strada è, invece, quella del restare “attaccati” a “un Dio soprattutto raccontato, spiegato da Gesù Cristo”.
Che poi il Dio “raccontato, spiegato” da Gesù sia, anche nelle omelie dei parroci poco provveduti, il Dio del “forse Gesù non ha detto questo”, del “probabilmente non è avvenuto quello che l’evangelista racconta”, cioè della critica biblica orecchiata, diffusamente maneggiata senza criteri ermeneutici e senza teologia, insomma il Dio di un Gesù ricostruito arbitrariamente, a Bianchi non interessa. Né gli interessa, sul terreno dei fondamentali, che il Concilio Vaticano II non abbia annullato il rapporto necessario tra Scrittura e Tradizione, che solo può garantire la vera “doxa” sul “Dio spiegato da Gesù Cristo”. Purtroppo, su questo terreno, l’impietosa lettura di Livi tocca difetti e pericoli reali.
Sarebbe stato meglio per Bianchi non arroccarsi nel: “Io? quando mai?”. I “maestri” devono adattarsi, ormai, a un altro regime comunicativo e a maggiore autocontrollo; meglio se anche a una maggiore riflessione.
Scrivo questo con dinanzi agli occhi anche l’ultima sortita pubblica di Bianchi, su La Stampa della domenica di Pasqua. L’articolo-omelia è per gran parte opinabile nei limiti della legittima diversità tra tutti noi. Personalmente, né da un giornale né da un pulpito vorrei sentirmi dire che nella Pasqua i cristiani “innanzitutto leggono una storia di passione e di morte”. Ritengo evidente che nella Pasqua i cristiani anzitutto rivivono la resurrezione e “leggono” ciò che in apertura della veglia pasquale recita l’Exultet, quando invoca uno squillante, regale annuncio “pro tanti Regis victoria”. Sarà la diversità delle nostre sensibilità comunicative, o qualcos’altro, che il finale dell’articolo di Bianchi rivela?
In effetti il priore di Bose poteva arrestarsi sulla battuta “politica” contro il Crocifisso come “simbolo culturale”, un tema complicato del genere “religione civile”, per affrontare il quale si richiederebbero categorie giuste. Pazienza. Ma egli si avventa sul terreno della testimonianza cristiana del Risorto: i cristiani ricordano e si dicono – scrive – “semplicemente questo: l’amore vissuto da Gesù ha vinto la morte… Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso [che significa? è un escamotage per evitare di dire che non era di ordine soprannaturale? - p.d.m.] ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio”. Per un cristiano augurare la buona Pasqua sarebbe, quindi, affermare: “Vorrei dirti che l’amore vince la morte”.
La protezione che l’inciso “il Figlio di Dio e la Parola ecc.” esercita sulle 14 righe finali dell’articolo è minima. Restano la romanticheria dell’enunciato: “l’amore vince la morte”, tutto minuscolo, pura enfasi adatta a tutti gli approdi, aperta a tutte le concezioni, da quella delle lettere giovannee al clima del romanzo rosa e della canzonetta. Quale “amore”? E quale “morte”? Abbiamo riflettuto e battagliato su morte e antropologia cristiana per anni, perche i “maestri” arrivino a dirci queste miserie? Qui non c’è neppure il buon senso (o il coraggio, su un quotidiano laico) di introdurre le maiuscole come a suggerire che, comunque, si intendono la vetta incarnata dell’Agape e la visione della Morte propria, poniamo, della teologia paolina della redenzione: “Ubi est mors aculeus tuuus, ubi est mors victoria tua?”.
L’affermazione, poi, che “ciò che Gesù ebbe di eccezionale fu di ordine umano” è follemente equivoca. È la ripetizione di un topos del protestantesimo liberale. È per questo che Bianchi non dice che Gesù ha vinto la morte, ma che “l’amore vissuto da Gesù” lo ha fatto, cioè che a salvarci è stata semplicemente l’esperienza amorevole dell’umanissimo Gesù. Davvero i “teologi” del Gesù solo amore – questi neopietisti postmoderni – pensano che per vincere la Morte non sia stato necessario il Signore della Storia?
Il tutto è irresponsabilmente ai margini, se non fuori, della cristologia dei grandi Concili, di quei fondamenti trinitari e cristologici irrinunciabili la cui alterazione, frequente, conduce sempre a una predicazione dimezzata e infantile, a un cristianesimo informe, alla corruttela “teologica” dei best seller di un Vito Mancuso. Così, a cascata. Solo l’intervento di Pietro, temo, solo il “confirma fratres tuos” potrà fermare questa incosciente, gaia e stolida, caduta collettiva.

(Fonte, Pietro De Marco, Firenze, 9 aprile 2012)