giovedì 26 novembre 2015

Il vuoto trionfalismo dei teologi alla moda

Non passa giorno che sui giornaloni laicisti non compaia qualche cattolico famoso che non annunci l'inizio di una nuova Chiesa. Dichiarazioni superbe e irreali, un copione già visto dopo il Concilio Vaticano II: il deserto delle Chiese occidentali dovrebbe indurre a prudenza, come facevano le parole di don Barsotti e Paolo VI. Una lettera al direttore.

Caro direttore,
credo alle riforme, non alle rivoluzioni. Le prime appartengono alla storia della Chiesa, le seconde no. Le prime portano al bene, a rinnovare nella continuità, a pulire le incrostrazioni; le seconde nascono da uno spirito ideologico e utopico: si propongono non il rinnovamento ma la distruzione e la ricostruzione totale e portano sempre con sé, inevitabilmente, violenza e intolleranza.
Per questo, come tanti, sono stupito di leggere ogni giorno, da parte di uomini di Chiesa o di laici cattolici famosi alla Melloni, dichiarazioni del genere: Nasce la nuova Chiesa della tenerezza; La Chiesa ha cambiato passo; Nulla sarà più come prima; C'è aria nuova nella Chiesa...
Queste dichiarazioni suonano irreali e superbe. Mentre si condanna il trionfalismo curiale, mentre si predica la povertà, mentre si proclama la modestia degli appartamenti e delle macchine (ottima cosa, benché da chiarire), si fanno nel contempo proclami altisonanti, orgogliosi, stonati.
Ma forse non c'è nulla di nuovo. Cinquant'anni fa circa, la Chiesa fu pervasa dall'idea che si stesse vivendo una "nuova Pentecoste", una "nuova era", che si fosse trovata la ricetta per convertire il mondo, convertendosi ad esso. Oggi, a rileggere quelle dichiarazioni trionfalistiche, mentre si osservano le chiese, i seminari, i conventi dell'Occidente sempre più vuoti, non si può fare a meno di dire: quanto sono distanti, le dichiarazioni superbe dalla realtà!
Mentre penso queste cose, rileggo don Divo Barsotti, che è stato consioderato l'ultimo mistico del Novecento, un uomo ascoltato e consultato dai papi.
Nel 1967 scriveva: «Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, una orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico. Tutto il cristiano deve compiere in ‘trepidazione e timore’; al contrario qui il trionfalismo che si accusava come stile della curia (cioè dei conservatori alla Ottaviani, ndr), diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del Concilio, la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo…Tutto il resto è retorica… Solo i santi salvano la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più».
Potrebbero calzare, queste parole, per i teologi alla moda che si pavoneggiano sui grandi giornali, che trovano spazio ogni giorno sul Corriere della SeraRepubblicala Stampa e sul Sole 24 ore (non proprio i posti adatti per esporre l'umiltà evangelica)? Potrebbero calzare per le interminabili discussioni e dichiarazioni verbose, logorroiche, dei Sinodi e dei convegni ecclesiali di oggi?
Sempre Barsotti, il 22 gennaio 1968 annotava: «Mi sento polemico, duro e intollerante. Certi adattamenti non li capisco, certi rinnovamenti mi sembra siano solo tradimenti. Non riesco a capire chi sia Dio per tanti teologi, per tanti scrittori, per tanti preti e religiosi. Non riesco a credere che quello che fanno, che quello che dicono, che quello che scrivono, derivi davvero da una fede vissuta, da una vita religiosa profonda, dalla preghiera. Come potrei accettare il loro discorso?».
Intorno a lui i teologi alla moda si pavoneggiavano sui giornali, mutavano la teologia, la liturgia, la pastorale, promettendo "magnifiche sorti e progressive" per la Chiesa tutta, in primis per quella europea, tedesca, francese, belga... cioè per le chiese che avevano riversato i loro fiumi nel Tevere della tanto vituperata Città Eterna.
Dirà Paolo VI: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa (il trionfalismo non cristiano di Barsotti, ndr). È venuta, invece, una giornata di nuvole, di tempesta, di buio».
Ne trarranno una lezione, i trionfalisti? Si accorgeranno che mentre le loro tesi trovano spazio sui media del potere, la fede cresce invece in quelle terra, come l'Africa, i cui pastori vivono e parlano ben altra vita e ben altra dottrina?

(Fonte: Francesco Agnoli, La nuova bussola quotidiana, 25 novembre 2015)


Schiave, spose, bombe umane: le donne del jihadismo

Nel gennaio 2004 per la prima volta una madre palestinese di appena 21 anni si fece esplodere uccidendo quattro israeliani e lasciando due figli, l’uno di 18 mesi e l’altro di tre anni. L'attentato, consumatosi a Gaza, rappresentò un grave salto qualitativo nella strategia dell’estremismo islamico. L'identikit dell'aspirante “martire” era progressivamente mutato. Si era passati dal maschio giovane motivato dalla disperazione economica o dalla sete di vendetta nei confronti del “nemico sionista”, all'adulto di entrambi i sessi spinto da una scelta ideologica indipendente dallo status socio-economico-religioso e ispirata da una crisi di identità, come avevano dimostrato gli attentatori dell’11 settembre. Il caso della giovane Reem Reyashi, benestante e sostanzialmente laica, ampliava spaventosamente le possibilità di arruolamento dell'esercito della morte coinvolgendo le madri, ovvero le persone che più di altre dovrebbero avere a cuore la salvaguardia della vita propria e dei propri figli. 
D’altronde il 9 novembre 2005 la belga Muriel Degauque, 38 anni, convertita all’islam, si fece esplodere a bordo di un'auto imbottita di esplosivo sulla strada per Baquba, sessanta chilometri a nord di Bagdad. 
Nel febbraio 2008 la fabbrica del terrore fece un altro atroce e disumano balzo in avanti poiché si ebbe l’abbietta strumentalizzazione della vita di due ragazze disabili, trasformate in bombe umane e fatte esplodere da Al Qaeda in due mercati di Bagdad, provocando il massacro di oltre 70 persone. Questa tendenza è stata tristemente confermata da un reportage sulle donne kamikaze trasmesso dalla televisione Al Jadid/New TV il 19 agosto 2008. Agghiacciante fu la testimonianza di una giovane donna che si fa chiamare “Amante di Gerusalemme”: “Questa è la cintura che portiamo intorno alla vita, così che possiamo farci esplodere premendo un bottone. E’ un bottone di sicurezza. Non esplodiamo se non lo schiacciamo. Solo quando Dio instilla il desiderio nel nostro cuore… la nostra forza non è nel corpo, ma nel cuore”. 
Se è difficile comprendere come si possa giustificare e autorizzare un attentato suicida da parte di un uomo, lo è ancora di più qualora si tratti di una donna. Sembrerebbe un controsenso. Invece l’estremismo islamico, che ritiene che la donna debba coprirsi, vivere una vita riservata, muta parere qualora possa diventare uno strumento utile per ottenere un fine, ovvero uno strumento di resistenza. E’ sufficiente leggere una fatwa emessa dallo shaikh Yusuf al-Qaradawi sulle donne kamikaze per comprendere il ragionamento che sottende all’autorizzazione: “L’operazione di martirio è la più alta forma di jihad sulla via di Dio […]una donna ha il diritto di parteciparvi accanto agli uomini” poiché “possono talvolta fare ciò che è impossibile per gli uomini”. Ma la parte più interessante riguarda la questione del velo, di cui al-Qaradawi è sempre stato un estremo fautore: “Per quanto riguarda il velo, una donna può indossare un cappello o qualsiasi altra cosa per coprirsi il capo. Qualora necessario può togliere il velo per portare a compimento l’operazione perché morirà per la causa di Dio e non vuole esibire la sua bellezza o i suoi capelli. Quindi non vedo alcun problema nel togliere il velo in questa occasione”.
È evidente come la donna venga automaticamente esentata dai doveri che dovrebbe assolvere per essere una buona musulmana come si legge nell’articolo 18 dello statuto di Hamas: “La donna, nella casa e nella famiglia dei combattenti, si tratti di una madre o di una sorella, ha il suo ruolo più importante nell’occuparsi della casa e nell’allevare i figli secondo i concetti e i valori islamici, e nell’educare i figli a osservare i precetti religiosi preparandosi al dovere del jihad che li aspetta. Pertanto è necessario prestare attenzione alle scuole e ai programmi per le ragazze musulmane, così che si preparino a diventare buone madri, consapevoli del loro ruolo nella guerra di liberazione. Le donne debbono avere la consapevolezza e le conoscenze necessarie per gestire la loro casa. La frugalità e la capacità di evitare gli sprechi nelle spese domestiche sono requisiti necessari perché ci sia possibile continuare la lotta nelle difficili circostanze in cui ci troviamo. Le donne dovranno sempre ricordare che il denaro equivale al sangue, che non deve scorrere se non nelle vene per assicurare la continuità della vita sia dei giovani sia dei vecchi”. 
Con lo Stato Islamico si è aperta una nuova era in cui si assiste all’apoteosi della strumentalizzazione della donna in quanto madre, moglie, ma anche e soprattutto come corpo al servizio dei combattenti. 
Nel numero 7 della rivista Dabiq compare un’intervista a Umm Basir al-Muhajirah (Madre di Basir l’emigrata) ovvero la moglie di Amedy Coulibaly, uno degli attentatori di Charlie Hebdo. Qui la moglie del “martire” invita le “sorelle” ad aiutare e sostenere “i mariti, i fratelli, i padri e i figli”, a “essere forti e coraggiose” nel sostenere gli uomini della loro famiglia nel loro sforzo verso Allah. Da questo momento la rivista dello Stato Islamico dedica una rubrica alle donne gestita da Umm Sumayyah al-Muhajirah (madre di Sumayyah l’Emigrata). Al pari di Umm Basir ha compiuto l’egira verso lo Stato islamico ed è non solo un modello per le altre musulmane, ma diventa altresì un mentore. Rammenta l’obbligo dell’egira per uomini e donne e narra le storie delle donne che sono migrate abbandonando la “miscredenza” (kufr) in cui vivevano. “Tutte le storie iniziano con la sorella che decide di partire per la causa del suo Signore. Il primo ostacolo che la muhājirah deve affrontare è la famiglia. E chissà che cosa è la famiglia! Nella maggior parte dei casi, le famiglie sono composte da musulmani laici, ai quali proporre l’egira è come sbattere la testa contro una roccia. E’ vero che la loro la sorella è il loro onore ed è loro diritto temere per lei, ma perché e non temono per il loro onore, quando la sorella si vuole recare a Parigi o Londra per una specializzazione”.
Umm Sumayyah ricorda il caso di una “sorella che è partita accompagnata dal marito e fu fermata dai soldati del tiranno (taghut) all’aeroporto dopo che i suoi genitori avevano avvisato la polizia” e si stupisce del fatto che nonostante fosse accompagnata dal suo “guardiano” la polizia l’abbia fermata. Le parole di Umm Sumayya mirano a coinvolgere, a convincere altre donne a migrare e a non avere paura dello Stato islamico che invece garantisce loro i veri diritti in quanto musulmane. Tra questi diritti indubbiamente spicca la poligamia. Umm Salamah, nell’ultimo numero di Dabiq, illustra alle donne che sono migrate e che hanno assorbito valori occidentali che non devono essere gelose, che devono accettare che il proprio marito sposi altre donne: “ogni sorella dovrebbe sapere che quando suo marito vuole sposare un’altra donna, non è obbligato a chiederle il consenso, né chiederle l’autorizzazione, né cercare di accondiscendere alle sue richieste. Se lui attuerà questa scelta sarà per generosità.” 
Non si può tacere il fenomeno del “jihad del matrimonio” poiché se gli uomini che aderiscono allo Stato Islamico abbracciano un’ideologia jihadista, al contempo abbracciano una visione machista del mondo nella quale la donna può essere strumento di attacco e combattente, ma laddove la visione della donna come corpo al servizio dei combattenti non viene esclusa anzi viene esaltata. Se tutte le ideologie dell’islam radicale considerano la donna come corpo, come sedizione, ma in prima istanza come oggetto e strumento di piacere dell’uomo, l’ideologia dell’ISIS può essere considerata l’apoteosi di questa visione. Inoltre al pari del suicidio femminile in nome di Allah, come si è osservato soprattutto nella Fratellanza musulmana, il “jihad al-nikah”, il jihad del matrimonio, viene considerato un modo per purificare il proprio corpo unendosi, anche con matrimonio temporaneo, chi combatte il vero jihad, quello con le armi. Ancora una volta la sottomissione totale ad Allah corrisponde per la donna alla sottomissione all’uomo che svolge un ruolo in prima linea nella vita, nel jihad e nella sharia.
Per concludere, studi recenti evidenziano che alla radice della migrazione femminile verso lo Stato Islamico si trova, come nel caso di quella maschile, anche la ricerca di identità come conseguenza di una mancata integrazione, di carenze affettive e di disagio psico-sociale. Lo stesso disagio, la stessa predisposizione alla manipolazione si riscontra anche nelle donne che aderiscono all’ideologia dell’Isis senza migrare. E’ il caso di Hasna Aït Boulahcen, la donna che è rimasta vittima – o forse si è fatta esplodere – durante il recente blitz a Saint-Denis dopo gli attentati parigini. Hasna, 26 anni, dopo un’infanzia in cui è stata maltrattata da genitori che si sono ben presto separati, è stata data in affido tra gli 8 e i 15 anni a un’altra famiglia. A 15 anni ha abbandona la famiglia che l’ha accolta e ha avviato una vita marcata da droga e alcool. Nell’ultimo anno il cambiamento: niqab e avvicinamento all’islam radicale. Il resto è storia nota.
E’ evidente che la donna, in quanto madre e moglie, potrebbe rappresentare la chiave di volta per arginare la radicalizzazione, ed è per questo motivo che ogni processo di de-radicalizzazione dovrebbe passare attraverso un maggiore monitoraggio e una maggiore integrazione delle musulmane nelle nostre società. Basterebbe passeggiare per le vie di Moelenbeek o di Saint-Denis per comprendere quanto le donne siano la punta dell’iceberg di una ghettizzazione che vede nel loro velo – talvolta integrale – un microcosmo simbolico di un velo ben più spesso che separa certe realtà e quartieri dall’ambiente circostante che viene visto e sentito come ostile.

(Fonte: Valentina Colombo, La nuova bussola quotidiana, 23 novembre 2015)


mercoledì 25 novembre 2015

Ma quel funerale "laico" non è la vera risposta

Commozione, cordoglio, partecipazione. Una grande folla ha assistito al funerale laico – come è stato chiamato – della giovane Valeria Solesin, la ventottenne veneziana morta a Parigi a seguito dell'attentato terroristico del 13 novembre scorso. Hanno parlato il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Patriarca Francesco Moraglia. Per il governo era presente il ministro della difesa Roberta Pinotti, che ha letto un messaggio del presidente francese Hollande.
La salma è stata esposta in una piazza dal nome di un santo cristiano ed evangelista, sullo sfondo di una basilica cattolica. Ma non è stato un funerale cattolico né di altra religione, è stato un funerale «aperto a tutte le fedi», come ha detto il padre della ragazza, compreso l'ateismo, che però non è una fede, ma l’assenza di fede. La volontà della famiglia era - se mi posso permettere un’interpretazione - di contrapporre all’odio e al fanatismo religioso dei terroristi assassini, la ragione e l’apertura tollerante propria non di una fede confessionale, ma di una fede laica nell’umanità. Per questo, così almeno mi sembra di aver capito, il funerale non solo è stato definito “laico” o “con rito civile”, come spesso è accaduto in altri tristi eventi, ma è stata esplicitamente espressa la volontà che fosse aperto a tutte le religioni – anche se in concreto c’è stata la presenza evidente solo di tre di esse – ed anche a visioni non religiose, agnostiche o atee.
La volontà della famiglia va rispettata e con essa il dolore di tante persone, le lacrime e la commozione evidenti in piazza San Marco. All’evento, però, è stato anche attribuito il significato politico di contrasto morale nei confronti del terrorismo. É già stato detto, e lo si dirà ancor di più, che il funerale laico di piazza san Marco è una risposta al terrorismo. Qualcuno si spingerà anche a dire che è la nostra risposta, la risposta dell’Europa, la risposta dell’Occidente. Su questo aspetto, nel rispetto delle buone intenzioni di tutti i partecipanti al funerale, è lecito fare alcune riflessioni.
«Aperto a tutte le fedi». Vien subito da pensare, però, che anche i sanguinari terroristi di Parigi avevano una fede religiosa. Anche la Francia che canta la Marsigliese e nel cui spirito ospita, finanzia e tutela le Femen oppure vuole togliere ogni traccia pubblica del cristianesimo, è una fede. Anche la fede nell'umanità che ha motivato la scelta delle modalità di questo funerale può essere considerata una fede, una credenza in qualcosa di importante e dal valore assoluto. Ma non tutte le fedi credono in questa religione dell'umanità, e non solo l'islam terrorista e violento. Il funerale di Venezia è stato talmente ragionevole da ammettere, in linea di principio, anche le fedi che combattono la ragione e talmente religioso da ammettere, sempre in via di principio, anche le ragioni che combattono la fede.
Questa fede nell’umanità ha i contorni tanto dilatati, imprecisi e generici da essere facile da proclamare, più difficile da definire e impossibile da difendere. Per una fede del genere, così tanto estensiva e così poco intensiva, quanti sono disposti a lottare oltre che cantare la Marsigliese? É proprio questa fede ad alimentare il ventre molle dell’Europa. La risposta europea e occidentale al terrorismo islamista può essere questa indifferenza rispetto alle fedi, ritenute tutte uguali, come le visioni della vita, che oggi quasi tutti equiparano alle fedi religiose, ritenendo le une e le altre prive di ragioni e frutto di sentimento e di scelte private? Anche la lotta al terrorismo ha bisogno di fede e di ragione.
Ma quali l’Occidente non lo sa più. Le telecamere hanno ripreso in piazza San Marco un grande folla. Ma ognuno era lì per il suo Dio, rispondendo a chiamate diverse e ritenute tra loro incommensurabili, perché non ci sarebbe una misura nelle fedi, non una ragione nelle religioni. Sicuramente tutti i partecipanti sono andati per un senso profondo di umanità. Se però interrogati su cosa essi intendessero per umanità avrebbero dato risposte diverse.
Non può essere questa la risposta dell’Europa e dell’Occidente al terrorismo islamista. Se così fosse vorrebbe dire che Europa e Occidente non hanno risposta o, peggio, che risposta non c’è. «Siamo pronti a difendere i nostri valori». Ma su quali siamo veramente concordi e pronti a lottare, se consideriamo tutte le fedi uguali e diverse, comprese anche le visioni laiche della vita fino all’ateismo? Tutt’al più si parla di libertà e di pace, due concetti che, da soli, sono insufficienti per costituire una comunità. Tutt’al più si parla di tolleranza, che se assolutizzata come avviene oggi in Europa e in Occidente, è il concetto più intollerante che ci sia. Tutt’al più si parla di libertà di religione senza sapere in cosa consisterebbe il limite oltre il quale non permetterla più.
Abbiamo bisogno di riscoprire tra noi una vera comunità morale e per farlo bisogna ricominciare un rapporto serio e non qualunquista con le religioni e specialmente con la religione che ha fatto l’Occidente. Non è il cristianesimo ad avere bisogno dell’Occidente, è l’Occidente ad avere bisogno del cristianesimo.

(Fonte: Stefano Fontana, La nuova bussola quotidiana, 25 novembre 2015)


mercoledì 18 novembre 2015

Il monsignore gay e l’ex abate: la doppia morale

Il gossip ecclesiale gode di ottima salute in queste settimane. Cospirazioni sinodali, il caso di monsignor Chamarsa, Vatileaks hanno sfilato di recente sul red carpet di tutti i principali media mondiali. Da ultimo la sete di scandali di giornali e Tv ha trovato appagamento nella notizia che l’ex abate di Montecassino, Pietro Vittorelli, è stato indagato per aver usato in modo indebito 500mila euro, soldi che appartenevano alla Curia. Vittorelli vantava plurime aderenze con esponenti del mondo della politica non proprio immacolati dal punto massmediatico e non solo. 
Ricordiamo Piero Marrazzo, ex governatore della Regione Lazio, il quale si era rifugiato a Montecassino per sfuggire al polverone mediatico-giudiziario scatenatosi per le sue frequentazioni con transessuali, e Angelo Balducci, già presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, arrestato nel febbraio 2010 nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti per le Grandi opere. Dopo l’esperienza monastica don Pietro scoprì la politica. Lo troviamo, infatti, in abiti borghesi nell’ottobre del 2014 ad un convegno organizzato nella sede italiana del Parlamento europeo a Roma, accanto al consigliere regionale del Lazio Mario Abbruzzese e ad Antonio Tajani, primo vicepresidente del Parlamento europeo. Il viso di dom Pietro era però conosciuto anche nell’ambiente gay, dove si presentava con il nome di Marco Venturi. Si vocifera di festini e orge in una casetta sulla Casilina, di pratiche erotiche estreme, di viaggi e cene sontuose, di pernottamenti in hotel pentastellati (a volte le ricevute erano a 4 zeri), nonché di uso di droghe, a cui Vittorelli non avrebbe rinunciato nemmeno dopo un ictus che lo avrebbe lasciato malconcio su una sedia a rotelle. 
Tutte licenze che il Vittorelli-Venturi si concedeva distraendo fondi dell’ordine, destinati - ripetono i media - ai poveri. Insomma l’ex abate è la sintesi perfetta dell’incarnazione del male per la vulgata corrente: un religioso che ruba ai poveri, si dà a pratiche omosessuali, vive sfarzosamente, fa uso di droghe, è amico di politici e uomini danarosi (tra i molti, Lapo Elkan) su cui girano molte voci poco lusinghiere ed è pure indagato. Eppure, ci vien da dire, il giudizio sulle condotte oggettivamente riprovevoli di dom Pietro è un tantino ipocrita. Si rabbrividisce di fronte ai suoi festini a luci rosse. Ma la libertà sessuale secondo i cliché correnti non dovrebbe essere concessa a tutti, religiosi compresi? Per la cultura laica se Dio non esiste così come i suoi precetti sulla castità, perché vietare godimenti venerei ai sacerdoti? Nei giornali patinati in allegato ai quotidiani è tutto un florilegio del sesso libero da tabù, di triangoli amorosi, di scappatelle e orgette con effetto catartico sulla psiche e la vita di coppia. Perché negarlo anche a chi ormai è un ex prete? 
Si grida “Vergogna!” perché dom Pietro frequentava bei maschioni. Eppure quei giornali che sbattono in prima pagina le vicende di Vittorelli sono gli stessi che berciano in continuazione sulla normalità di ogni orientamento sessuale. E che dire poi della presunta tossicodipendenza dell’ex abate? Il governo e molti esponenti politici è da tempo che spingono per una liberalizzazione dei trip a base di droghe.
In breve, il caso Vittorelli mette in luce che ci sono vizi e vizi, peccati cattolici e peccati laici. Prendiamo ad esempio la vicenda del “collega” Chamarsa.  Questi dai media è stato trattato bene, anzi benissimo, spesso elogiato per quel suo ormai famigerato outing. Perché Chamarsa aveva rispettato alcune regole auree del politicamente corretto: non era stato scoperto con le mani nella marmellata, ma era stato lui per primo ad aprire il vaso di Pandora; appariva come vittima di una Chiesa conservatrice e retriva e pioniere del nuovo che avanza in campo dottrinale, non aveva mai rubato (peggior peccato mortale in questa nuova chiesa dei pauperisti) e la sua relazione omosessuale non aveva il baricentro sulla voglia di trasgressione, bensì sull’ “affetto”. Insomma nel salotto del mondo che conta si presenta bene Chamarsa, con l’abito buono.
Il raffronto tra Vittorelli e Chamarsa è allora illuminante. A ben vedere non importa di quali nefandezze si macchia un prelato, ma è questione di stile. Importa il come, non il cosa. In altri termini non esiste una dose minima di peccato ad uso personale che non suscita riprovazione sociale. Dose, superata la quale, scatta la censura e la lacerazione di vesti. Tu uomo in talare puoi comportarti come i tuoi omologhi laici in fatto di sesso e sballo, l’importante è rispettare le regole del gioco dettate dalla vulgata corrente. Rivendica per te il piacere erotico in ogni sua declinazione come sana espressione della tua personalità e scamperai alla censura. Non farti scoprire nel godere di ogni bassezza edonistica, ma vendila come conquista sociale e rivendicala come gesto di libertà. Vivi pure di istinti, ma vestili con i panni nobili dei diritti civili. Si badi bene. Non è stata questa una difesa di Vittorelli, ma solo prurito per l’incoerenza di giudizio.


(Fonte:Tommaso Scandroglio, La nuova bussola quotidiana, 17 novembre 2015)


giovedì 12 novembre 2015

Il dialogo in famiglia sostituito da Tv e smartphone

Nell'udienza generale dell'11 novembre 2015, proseguendo il ciclo sulla famiglia, Papa Francesco ha proposto una meditazione sulla convivialità. La famiglia cristiana, ha detto Francesco, si ritrova a tavola, dove si parla, si prega, si condividono gioie e dolori. Ma troppo spesso oggi la tavola è il luogo di un rapporto sbagliato con il cibo, condizionato dalla pubblicità e dalle mode, e di un «silenzio dell'egoismo» coperto dalla televisione o dagli smartphone. La convivialità, ha spiegato il Papa, è «l’attitudine a condividere i beni della vita e ad essere felici di poterlo fare». 
In generale, «condividere e saper condividere è una virtù preziosa! Il suo simbolo, la sua “icona”, èla famiglia riunita intorno alla mensa domestica. La condivisione del pasto – e dunque, oltre che del cibo, anche degli affetti, dei racconti, degli eventi… – è un’esperienza fondamentale». Nella festa, e qualche volta nel lutto, ritrovarsi intorno a una tavola manifesta il senso di essere una famiglia. La convivialità «è un termometro sicuro per misurare la salute dei rapporti: se in famiglia c’è qualcosa che non va, o qualche ferita nascosta, a tavola si capisce subito. Una famiglia che non mangia quasi mai insieme o in cui a tavola non si parla, ma si guarda la televisione o lo smartphone è una famiglia “poco famiglia”. Quando i figli a tavola sono attaccati al computer, al telefonino, e non si ascoltano fra loro, questo non è famiglia, è un pensionato». 
Gesù stesso «insegnava volentieri a tavola» e le sue parabole usano spesso l'immagine del convito. Tutto questo ha preparato i discepoli all'esperienza sconvolgente del sedere alla tavola imbandita del Corpo e del Sangue di Cristo nel giorno dell'istituzione dell'Eucarestia. È anche in questo senso che «la famiglia è “di casa” alla Messa, proprio perché porta all’Eucaristia la propria esperienza di convivialità e la apre alla grazia di una convivialità universale, dell’amore di Dio per il mondo. Partecipando all’Eucaristia, la famiglia viene purificata dalla tentazione di chiudersi in sé stessa, fortificata nell’amore e nella fedeltà, e allarga i confini della propria fraternità secondo il cuore di Cristo».Oggi la convivialità diventa ancora più importante. «In questo nostro tempo, segnato da tante chiusure e da troppi muri, la convivialità, generata dalla famiglia e dilatata dall’Eucaristia, diventa un’opportunità cruciale. L’Eucaristia e le famiglie da essa nutrite possono vincere le chiusure e costruire ponti di accoglienza e di carità». 
Sì, «l’Eucaristia di una Chiesa di famiglie, capaci di restituire alla comunità il lievito operoso della convivialità e dell’ospitalità reciproca, è una scuola di inclusione umana che non teme confronti! Non ci sono piccoli, orfani, deboli, indifesi, feriti e delusi, disperati e abbandonati, che la convivialità eucaristica delle famiglie non possa nutrire, rifocillare, proteggere e ospitare». Attraverso la «memoria delle virtù familiari» può nascere uno sguardo nuovo sui problemi della società. Tutti «abbiamo conosciuto, e ancora conosciamo, quali miracoli possono accadere quando una madre ha sguardo e attenzione, accudimento e cura per i figli altrui, oltre che per i propri. Fino a ieri, bastava una mamma per tutti i bambini del cortile! E ancora: sappiamo bene quale forza acquista un popolo i cui padri sono pronti a muoversi a protezione dei figli di tutti, perché considerano i figli un bene indiviso, che sono felici e orgogliosi di proteggere».
I tempi, si dirà, sono cambiati: ed è vero. «Oggi molti contesti sociali pongono grandi ostacoli alla convivialità familiare. È vero, oggi non è facile». Eppure «dobbiamo trovare il modo di recuperarla: a tavola si parla, a tavola si ascolta. Niente silenzio, quel silenzio che non è il silenzio delle monache, è il silenzio dell’egoismo: ognuno ha o la sua televisione o il suo computer… e non si parla. No, niente silenzio. Recuperare quella convivialità familiare pur adattandola ai tempi». Attenzione, però. «La convivialità sembra sia diventata una cosa che si compra e si vende, ma così è un’altra cosa. E il nutrimento non è sempre il simbolo di una giusta condivisione dei beni, capace di raggiungere chi non ha né pane né affetti. Nei Paesi ricchi siamo indotti a spendere per un nutrimento eccessivo, e poi lo siamo di nuovo per rimediare all’eccesso con le diete. Quella che una volta era vera convivialità familiare, «la pubblicità l’ha ridotta a un languore di merendine e a una voglia di dolcetti».
L'icona della convivialità è l'Eucarestia. «Il Signore spezza il suo Corpo e versa il suo Sangue per tutti. Davvero non c’è divisione che possa resistere a questo Sacrificio di comunione; solo l’atteggiamento di falsità, di complicità con il male può escludere da esso». Occorre ricreare un circolo virtuoso fra la convivialità familiare e la convivialità eucaristica. «L’alleanza viva e vitale delle famiglie cristiane, che precede, sostiene e abbraccia nel dinamismo della sua ospitalità le fatiche e le gioie quotidiane, coopera con la grazia dell’Eucaristia, che è in grado di creare comunione sempre nuova con la sua forza che include e che salva».
  
(Fonte: Massimo Introvigne , La nuova bussola quotidiana, 11 novembre 2015


mercoledì 4 novembre 2015

Nuovi Corvi, vecchie strategie

L’arresto in Vaticano di monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e di Francesca Immacolata Chaouqui, accusati di aver passato a giornalisti documenti riservati riguardanti le finanze vaticane, rappresenta una nuova sgradevole puntata della stagione dei “corvi”. Probabilmente è un episodio che non è collegato al primo Vatileaks se non per le modalità dell’accaduto e per il fatto che ancora una volta persone chiamate a servire il Papa hanno tradito la sua fiducia. Fatto sta che giovedì 5 novembre usciranno due libri costruiti con il materiale trafugato e con confidenze personali.
Deve esser chiaro che non c’è nulla che giustifichi tali azioni, anche se qualcuno pensasse in questo modo di fare il bene del Papa o della Chiesa. 
Detto questo ci sono un paio di aspetti che vale la pena mettere in rilievo. Il primo riguarda la modalità - canali informali - delle nomine spesso usata in questo pontificato, anche in quelle episcopali. È vero che dato il funzionamento della macchina vaticana, la trafila ordinaria per le nomine può risultare farraginosa e rimanere ostaggio di burocrazia e cordate varie. Ma è altrettanto vero che le scelte fatte sulla base di intuizioni o di segnalazione degli amici degli amici, al di fuori di processi seri di selezione, comportano altrettanti rischi, se non peggiori.
È il caso sicuramente della Chaouqui, nominata a sorpresa nella commissione incaricata di studiare la riforma del sistema economico-finanziario della Santa Sede: era stata raccomandata – a quanto da lei stessa dichiarato – proprio da monsignor Vallejo Balda, che peraltro da segretario della Prefettura per gli Affari economici aveva svolto un ottimo servizio. Eppure che fosse una nomina discutibile era chiarissimo, per chi conoscesse il soggetto. Tanto che il vaticanista Sandro Magister aveva messo subito in evidenza i motivi della inidoneità (clicca qui), ricordando i veleni sparsi durante il precedente pontificato e poi anche i suoi conflitti d’interesse: la Chaouqui lavorava infatti per la Ernst & Young, società di consulenza poi curiosamente ingaggiata dalla Santa Sede. Ma è rimasta una denuncia isolata, soprattutto perché la maggior parte dei vaticanisti ha preferito continuare a costruire un’aurea di infallibilità intorno a papa Francesco, anche su questioni dove non è in discussione il Magistero, magari pensando a prossime nomine. Quanto sta avvenendo in questi giorni dimostra però che così facendo si fa il male del Papa che a parole si dice di difendere.
Del resto il caso Chaouqui non è l’unico: lo stesso Magister aveva immediatamente sollevato il caso di monsignor Battista Ricca, nominato nel 2013 da papa Francesco prelato dello IOR, ma con una brutta storia di scandalo pubblico legato all’omosessualità durante il suo servizio presso la nunziatura in Uruguay.  E altri personaggi che hanno scalato posizioni in questi anni rischiano di provocare problemi in un prossimo futuro. 
Una seconda questione riguarda le reazioni della stampa. Anche se non manca chi prova a riciclare il ritornello della “vecchia guardia” che si oppone alle riforme di papa Francesco, questa volta stupisce l’estrema prudenza, il distacco di quanti fino a pochi giorni fa gridavano al complotto a ogni piè sospinto, perfino per una lettera con tanto di firme consegnata a mano al Papa. Indubbiamente stavolta lo schema della “vecchia guardia” non funziona un granché, visto che la Chaouqui è nomina tutta bergogliana e lo stesso Vallejo Balda da papa Francesco era stato promosso.
Ma la sensazione è che ci sia anche dell’altro. Come se si aspettasse di leggere il contenuto dei libri in uscita per capire verso chi lanciarsi o con quali argomenti. Del resto essendo il tema le finanze della Santa Sede, non si può non ricordare che a capo del dicastero dell’Economia c’è quel cardinale George Pell che da mesi è nel mirino di progressisti e stampa di regime. Hanno già provato – invano - a coinvolgerlo in un caso di pedofilia in Australia; lo hanno poi preso di mira per la lettera dei 13 cardinali durante il Sinodo sulla famiglia. E ora, la Vatileaks 2 potrebbe metterlo in serio imbarazzo. Il motivo di tanto accanimento è che nel Consiglio dei 9 cardinali chiamati a coadiuvare papa Francesco nella riforma della Curia, Pell rappresenta l’unica voce chiaramente opposta a certe pretese progressiste. E vista l’aria che tira di questi tempi, non ci si può stupire di nulla.

(Fonte: Riccardo Cascioli, La nuova bussola quotidiana, 3 novembre 2015)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-nuovi-corvivecchie-strategie-14287.htm

 

Vaticano, là dove osano i corvi

Parafrasando un titolo di un vecchio film si può dire che il Vaticano è là dove osano i corvi. Dopo la triste vicenda del maggiordomo che fotocopiava i documenti dal tavolo di lavoro di Papa Benedetto XVI, e fu Vatileaks 1, oggi va in onda il secondo episodio con passaggio di documenti che riguardano le vicende economiche del Vaticano. E siamo in pieno Vatileaks 2.
Di mezzo c'è ancora il giornalista Mediaset, Gianluigi Nuzzi, che ha fatto la sua bella fortuna anche grazie al maggiordomo Paolo Gabriele, il primo corvo, e che sta per presentare in libreria il suo nuovo scoop - “Via Crucis” - probabile frutto del lavoro dei nuovi corvi, che da ieri sono in stato di arresto da parte della Gendarmeria Vaticana. 
Si tratta del monsignore spagnolo Lucio Angel Vallejo Balda, 54 anni, già segretario della Prefettura degli Affari economici e della Commissione di studio sulle attività economiche e amministrative della Santa Sede, e  la pr italiana Francesca Immacolata Chaouqui, 33 anni, già componente della Commissione referente sulle attività economiche della Santa Sede (Cosea), dove era stata assunta proprio su segnalazione di Vallejo Balda. La dottoressa Chaouqui è stata già rilasciata per aver dimostrato collaborazione alle indagini, mentre il prelato rimane in stato di fermo.
Oltre a Nuzzi, questa volta c'è di mezzo anche un altro giornalista, Emiliano Fittipaldi, gruppo Espresso, che pubblica “Avarizia”, un altro libro sempre sul tema scandali e soldi in Vaticano. Su questi tomi, previsti in uscita per giovedì prossimo, la Sala Stampa della Santa Sede fa sapere che si tratta di una “operazione i cui risvolti giuridici ed eventualmente penali sono oggetto di riflessione da parte dell’Ufficio del Promotore in vista di eventuali ulteriori provvedimenti, ricorrendo, se del caso, alla cooperazione internazionale.”
Una vicenda triste che mette insieme monsignori, giornalisti e affaristi, che girano, anzi volteggiano, intorno ai sacri palazzi. I nuovi corvi avrebbero passato ai giornalisti frasi pronunciate dal Papa in occasioni private, documenti relativi alle revisioni contabili e alla riorganizzazione della curia. 
Quindi, pur essendo questa volta nominati da Papa Francesco, la situazione rimane la stessa di Vatileaks 1: persone di fiducia del pontefice, di fatto, lo tradiscono. Tra l'altro sulla  Chaouqui le chiacchiere si sprecavano già all'epoca della sua nomina, estate 2013. Come scriveva l'informato vaticanista Sandro Magister le notizie su di lei erano già nelle mani della Segreteria di Stato Vaticana, ma il Papa procedette in autonomia su quelle nomine. Era conosciuta per essere la fonte degli scoop di “Repubblica” a proposito delle vicende di Vatileaks 1 e anche di interviste anonime poco prima del conclave che elesse papa Bergoglio. Ed era sempre la Chaouqui che vantava la sua amicizia con Gianluigi Nuzzi, oltre che essere la fonte del noto sito Dagospia.com in materia di Chiesa e dintorni. 
Con buona probabilità fu proprio monsignor Balda a scavalcare il suo superiore, il “bertoniano” cardinale Versaldi, e a consigliare la nomina della Chaouqui direttamente al Papa. Il quale assegnò allo stesso monsignore poteri di un certo spessore all'interno della commissione. "Coordinatore che ha poteri di delegato ed agisce in nome e per conto della commissione nella raccolta di documenti, dati ed informazioni necessari allo svolgimento delle funzioni istituzionali", così si leggeva nel chirografo papale di istituzione della commissione a proposito del ruolo di monsignor Balda.
Per quanto riguarda i due libri di prossima uscita si deve sottolineare che la Sala Stampa vaticana sottolinea come  «non concorrono in alcun modo a stabilire chiarezza e verità, ma piuttosto a generare confusione e interpretazioni parziali e tendenziose. Bisogna assolutamente evitare l’equivoco di pensare che ciò sia un modo per aiutare la missione del Papa.»  
In mezzo a questa confusione gli unici a rimetterci sono proprio coloro che cercano chiarezza e verità, perchè anche le interpretazioni mediatiche di questo Vatileaks 2 potrebbero essere tendenziose. Così come lo furono quelle di Vatileaks 1.

(Fonte: Lorenzo Bertocchi, la Nuova bussola quotidiana, 3 novembre 2015)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-vaticano-la-dove-osano-i-corvi-14288.htm