martedì 29 maggio 2012

Mons. Anatrella contro l'ideologia del gender

Mi era sfuggito a suo tempo un importante articolo sull’ideologia che inesorabilmente sta avanzando, prendendo sempre maggior consistenza nella nostra società. Data la grandissima attualità dell’argomento, lo riporto molto volentieri anche se un po’ datato:
«Le parole di mons. Tony Anatrella, sabato 15 0ttobre a Brescia, meritano di essere ricordate a lungo. «Non abbiate paura di combattere l’ideologia del gender, che sarà il tormentone del secolo, anche se troverete opposizioni e ostilità, e soprattutto timore anche all’interno della Chiesa. Siate una minoranza profetica, che fa proprie le parole del beato Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato, nel 1978, quando appunto invitò a non avere paura di Cristo».
Il pubblico presente al Convegno promosso dall’Ufficio famiglia e dall’Ufficio pastorale della salute della diocesi di Brescia, oltre a molte altre associazioni attive nel campo dell’ideologia di genere, era composto da più di duecento persone che hanno pagato un prezzo d’ingresso per ascoltare le due lunghe e profonde relazioni del sacerdote e psicanalista francese, consultore dei pontifici consigli della salute e della cultura. I presenti sono rimasti profondamente colpiti dall’appello finale di mons. Anatrella, dall’incitamento a sollevare il velo di silenzio e di ipocrisia che attanaglia il mondo delle diocesi e delle parrocchie sull’ideologia di genere, che ha preso il posto del marxismo e che, come fece quest’ultimo nel secolo scorso, continua a penetrare oggi nel corpo sociale e in quello ecclesiale, senza che i pastori e gli uomini di cultura se ne rendano conto e predispongano un’adeguata reazione culturale.
Eppure, ha raccontato mons. Anatrella, l’ideologia di genere è presente in mezzo a noi da ormai cinquant’anni e il Magistero della Chiesa ha prodotto l’importante Lettera della Congregazione sulla dottrina della fede sulla collaborazione fra l’uomo e la donna già sette anni fa (31 maggio 2004) così come i principali dicasteri vaticani se ne occupano da decenni. Ciononostante, il tema fatica ad essere messo nelle agende dei piani pastorali, raramente vengono organizzati convegni o conferenze sul tema nelle diverse diocesi, insomma si continua a percepire molta ignoranza o molta paura.
E invece bisogna fare conoscere la gravità del pericolo rappresentato dall’ideologia di genere. A questo fine Anatrella ne ha ripercorso l’origine e lo sviluppo, il suo rapporto con le diverse correnti del movimento femminista, il suo legame con l’ideologia marxista: «L’ideologia di genere, generata dalle scienze sociali, è un nuovo idealismo a immagine del marxismo, contrario all’interesse dell’uomo», ha detto nel suo intervento. E ha usato come traccia per interpretare e giudicare questo fenomeno l’enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI, considerata una pietra miliare per affrontare il tema.
Quindi nella seconda parte della giornata, Anatrella ha voluto indicare la strada del matrimonio come l’unica capace di esprimere la complementarietà dei sessi, perché solo attraverso l’unione fra l’uomo e la donna nel matrimonio si può portare a compimento la complementarietà dei sessi, voluta da Dio ed espressa nella creazione del maschio e della femmina («maschio e femmina li creò»). Durante la sessione pomeridiana, mons. Anatrella ha anche voluto descrivere il problema rappresentato dalla diffusione dell’omosessualità, una piaga che colpisce soprattutto i giovani, una condizione di disagio che può essere superata, anche con la psicoterapia, ma che spesso non si vuole affrontare. Anatrella ha così polemizzato con le numerose lobby che spingono i governi, sotto la pressione delle diverse agenzie dell’ONU e dei mass-media, quasi tutti allineati sul pensiero unico, a legalizzare le unioni omosessuali e la possibilità di adottare dei figli da parte di coppie omosessuali: «I Paesi occidentali commettono un grave errore […] ammettendo nel nucleo centrale della legge, la coesistenza di una contraddizione sul senso della coppia, del matrimonio, della famiglia».
Anatrella si è soffermato a lungo sugli effetti distruttivi prodotti sul corpo sociale dalle cattive leggi: ha riportato dati inquietanti relativi al divorzio in Europa, ricordando come nel periodo 1998-2008 si sono conclusi 10,5 milioni divorzi nei 27 paesi dell’Unione europea, che hanno coinvolto 14,5 milioni di bambini, e contemporaneamente ha messo in evidenza il calo di matrimoni, per cui nel 2008 ci sono stati 725mila matrimoni in meno rispetto al 1980, ma 334mila divorzi in più: ci stiamo così avvicinando al rapporto di un divorzio ogni due matrimoni ogni anno (1milione di divorzi ogni 2,3 milioni di matrimoni). Anatrella ha così messo in evidenza, dati alla mano, come si sia passati dalla guerra fra le classi a quella fra i sessi, in nome di una ideologia che nega l’esistenza di una natura umana, perché l’uomo sarebbe unicamente il prodotto della cultura e quindi la mascolinità e la femminilità «non sono che costruzioni sociali», espresse dal contesto sociale di un periodo della storia.
Pur insistendo sulla drammaticità della situazione, mons. Anatrella ha concluso con un richiamo a darsi da fare e a sperare, ricordando che il marxismo è stato sconfitto proprio perché ci sono state minoranze che hanno saputo resistere al clima di omologazione culturale dell’epoca. Così anche l’ideologia di genere potrà essere superata, se vi saranno delle minoranze che supereranno la paura e sapranno offrire il loro tempo a una nuova evangelizzazione che sappia mostrare l’errore di questa nuova «eresia antropologica».
 
(MaLa da: Marco Invernizzi, la Bussola quotidiana, 17 ottobre 2011)


Magdi Cristiano Allam: “Da cristiano dico: nessuno osi toccare il Papa”

Aiuto, c’è un terremoto che sta scuotendo dalle fondamenta la Chiesa e che interpella la coscienza di tutti i cristiani cattolici! L’autorità del Papa viene messa in discussione, la credibilità della Curia romana è compromessa, la Chiesa perde sempre più carisma in seno alla società sempre più scristianizzata, lo Stato del Vaticano si consolida come un’entità materialistica e relativista come se fosse un qualsiasi altro Stato del mondo.
E noi discepoli di Gesù, popolo della Chiesa, assistiamo disorientati, talvolta sfiduciati, all’immagine inverosimile e schizofrenica che ci mostra, da un lato, il Vicario di Cristo costretto a difendersi su questioni terrene che esulano dal Magistero universale e, dall’altro, il Vaticano al centro di scandali e complotti semplicemente inconcepibili per un’istituzione fondata sulla trascendenza della dimensione spirituale dell’umanità e inconciliabili per chi ha scelto di dedicare la propria vita alla testimonianza della fede cristiana.
Come cattolico credo nel Papa quale vicario di Gesù depositario del dogma dell’infallibilità pontificia nel suo Magistero universale di salvezza dell’umanità. Come cristiano credo nella Chiesa la cui missione è di diffondere la verità in Cristo attraverso la testimonianza che coniuga la verità predicata, i valori coltivati e le opere buone realizzate. Come Magdi Cristiano ho un’immensa ammirazione nei confronti di Benedetto XVI che, dopo essere stato il faro che più di altri mi ha illuminato dentro quale autentico testimone di fede e ragione, mi ha donato il giorno più bello della mia vita ricevendo dalle sue mani il battesimo, la cresima e l’eucaristia.
Ebbene confesso che oggi provo sconcerto quando vedo il mio Papa, il cui fisico, la cui indole e la cui storia ispirano esclusivamente spiritualità, trascendenza e amore sublime, costretto a infrangere e a scalfire il suo alto Magistero universale per difendersi o giustificarsi su questioni di cui non dovrebbe mai occuparsi neppur lontanamente, che concernono trame oscure per screditarlo e nuocere alla Chiesa, i cui protagonisti fanno parte della ristretta cerchia di collaboratori laici e religiosi, che chiamano in causa malversazioni finanziarie, complotti per egemonizzare il potere al vertice del Vaticano, scandali di abusi sessuali orditi da sacerdoti votati alla castità, misteri su morti sospette imputate a pastori della Chiesa.
Quando tocco con mano che tutt’attorno è degradato, che l’insieme delle istituzioni dalla famiglia alla scuola, dalla società allo Stato, dai mezzi di comunicazione di massa alla politica, dal sistema finanziario all’economia reale hanno cessato di essere dei punti di riferimento che corrispondono a delle certezze positive e costruttive, dico: No! Non toccate il Papa! Lasciateci questo residuo faro che ci illumina dentro, capace con la modestia dei saggi e la semplicità dei maestri di accompagnarci umanamente per mano, facendo leva sulla ragione che ci accomuna, fino ad abbracciare quei valori non negoziabili che sostanziano l’essenza della nostra umanità e che corrispondono alle fondamenta del messaggio del Dio che si è fatto Uomo.
Quando il primo di questi valori non negoziabili, la sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, viene violato nel cuore della nostra Europa che si vergogna delle proprie radici giudaico-cristiane, ai più alti livelli e trasversalmente, così come è accaduto lo scorso 24 maggio da parte del Parlamento Europeo, la mia difesa del Papa si accresce sempre più. Mi domando, esterrefatto, come sia stato possibile che in un’Europa destinata a scomparire demograficamente perch´ ha il più basso tasso di natalità al mondo, che dovrebbe pertanto valorizzare la centralità della famiglia naturale nella ricostruzione sociale, sostenendo concretamente la maternità e l’emancipazione dei giovani per incentivare la natalità, sia stata invece approvata a larga maggioranza (430 favorevoli, 105 contrari, 59 astenuti) una risoluzione che partendo dalla «lotta contro l’omofobia» approda alla legittimazione del matrimonio omosessuale?
Come è possibile che quest’Europa, che si fonda con un’identità cristiana, sia arrivata a idolatrare la moneta e a negare la nozione stessa di verità, al punto da concepire che l’apice della civiltà corrisponda all’aborto, all’eugenetica, all’eutanasia e al matrimonio omosessuale? Come è possibile che ben 115 deputati del Ppe (Partito Popolare Europeo), che dovrebbe essere la cornice unitaria di formazioni cristiane, abbiano votato a favore della risoluzione (i contrari sono stati 67 e gli astenuti 37)?
Di fronte all’imperversare della dittatura finanziaria e al dilagare della dittatura del relativismo, io sto con il Papa e prego il Signore di concedere lunga vita a Benedetto XVI, salvaguardandolo da tutti coloro che non gli vogliono bene fuori e dentro la Chiesa!
Io difendo il Papa perchè la sua testimonianza di fede e ragione ci salverà dal baratro in cui siamo sprofondati riscattando in noi la certezza della verità e il sano amor proprio, senza cui cesseremmo di essere noi stessi a casa nostra. Viva il Papa!

(Fonte: Magdi Cristiano Allam, Il Giornale, 28 maggio 2012)

Le quarantenni in fuga dalla Chiesa

L'argomento è affrontato in un articolo di Armando Matteo «La fuga delle quarantenni - Nuovi scenari del cattolicesimo italiano», e acquista particolare interesse alla luce della riflessione dei vescovi italiani, che cominciano oggi la loro 64.ma assemblea generale con come primo punto all'ordine del giorno il ruolo degli adulti: «gli adulti nella comunità: maturi nella fede e testimoni di umanità», è il titolo scelto dalla Cei. L'autore del saggio, docente di Teologia fondamentale all'Urbaniana, mette a fuoco «il progressivo allontanamento delle giovani generazioni femminili dal cattolicesimo», un «elemento di novità particolarmente significativo ed allarmante, - commenta - in un Paese in cui la trasmissione della fede è da sempre matrilineare». Le donne si allontanano sempre più dalla Chiesa cattolica, e se il fenomeno si inserisce nel più generale abbandono da parte dei giovani, ha radici più lontane: si constata «fuga delle quarantenni» dalla Chiesa, con conseguenze preoccupanti sulla vita ecclesiale e la trasmissione della fede, denuncia la Rivista del Clero italiano, mensile della Università cattolica, invitando inoltre ad interrogarsi sulle conseguenze della «scomparsa delle suore» e sulle ricadute che la progressiva diminuzione delle appartenenti a ordini religiosi femminili ha sulla Chiesa.
Nella pratica religiosa, e più in generale nella vicinanza alla Chiesa, osserva Matteo analizzando i dati di alcune ricerche sociologiche recenti, «è sulla linea femminile che si registra il mutamento generazionale più alto: lo scarto rispetto alla frequenza alla messa tra gli uomini nati prima del 1970 e quelli nati dopo il 1970 è di 15 punti, è invece di ben 25 punti lo scarto tra le donne nate prima del 1970 e quelle nate dopo il 1970; e, in riferimento alla fede in Dio - prosegue Matteo - si passa da uno scarto maschile di soli 7 punti, tra i nati prima e quelli dopo il 1970, a uno femminile di 12 punti, prendendo in considerazione le nate prima e quelle dopo il 1970». Il 1970 è in qualche modo una data simbolo, poiché è «con le donne nate nel 1970 che inizia quel progressivo cammino di omogeneizzazione dei comportamenti tra uomini e donne in relazione alla pratica della fede» che si compie nelle giovani nate dopo il 1981. I giovani nati dopo questa data, maschi e femmine, hanno comportamenti convergenti circa la pratica religiosa e, a parte il fatto che le ragazze pregano di più, maschi e femmine in egual misura «vanno di meno in chiesa, credono di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga ad essere cattolici». Questa generazione di donne ha iniziato a «rompere una tradizionale alleanza con la realtà della Chiesa, una alleanza che - afferma la Rivista del clero - ha sicuramente giovato ad entrambi i partner, ma che ora chiede di essere di nuovo rinegoziata». Riflettendo sul ruolo delle madri nella trasmissione della fede e sul peso degli ordini femminili nella Chiesa cattolica, Matteo conclude con una domanda: non è che «negli ultimi anni ci si è preoccupati più delle conseguenze sociali, politiche, economiche, culturali della fede, dando per ovvio l'esistenza e la trasmissione di questa stessa fede? Parlare di fede, di iniziazione alla fede, di nuova evangelizzazione, - osserva l'autore - significa dunque in misura significativa parlare delle quarantenni e della loro fuga»

(Fonte: Giacomo Galeazzi, La Stampa, 21 maggio 2012)

Quando non ci sono più valori né ideali

C’è una danza che fuoriesce da ogni riga letta, una crociera del dolore e della sofferenza, un rumore persistente che straripa nei tanti articoli di giornale, nelle trasmissioni televisive, negli incontri organizzati per parlare di questo fenomeno che è diventato una somma che non sta più nella casella predisposta per contenerne l’urto.
Il reato è di per sé un’azione ignobile, l’omicidio ne è l’estensione più palese, per cui stare a polemizzare, a perdere tempo sulla declinazione da affibbiare a chi uccide una donna, disquisendo si tratti di femminicidio o più semplicemente del reato di assassinio.
Non mi pare il caso di giocare con il codice penale, è un azzeramento del valore della vita umana, è l’annullamento di un ruolo complementare ben preciso, per cui c’è in atto un vero e proprio distoglimento dalla sacralità della donna-femmina, della figlia-madre, della compagna-moglie. Come a voler significare che in una società come la nostra, attraversata da una illegalità diffusa, dove erroneamente è indicata la nicchia-minoranza formata dal malaffare, dalla criminalità, dai soliti noti, invece la furbizia omertosa, la disonestà sotto i più impensabili artifizi, conferma la maggioranza degli individui: dal vandalismo adolescenziale, al bullismo scolastico; dal ritenere legale comprare, vendere e consumare droga per ottenere denari, per farsi e ubriacarsi, al non pagare l’iva, non pagare le tasse e via dicendo.
Questo in-agire quotidiano partorisce un preciso interesse personale che tocca ogni ambito e ogni tasca, quella piena e quella vuota, producendo minore attenzione verso la regola, il senso civico, l’azione morale che sta a responsabilità di ognuno.
Una prassi che consegna lauree e incensi al più lesto di mano, alimentando la miseria umana, la miserabilità più profonda che alberga nel cuore dell’uomo, del maschio, del conduttore per eccellenza.
Quando la vita diventa una semplice stanzialità sociale, priva di sentimenti e passioni eccezionali, ciò riduce aspettative, sogni e speranze, la stessa fiducia è una fiamma destinata a consumarsi, allora maturano le situazioni di degrado, lo scarso valore di autostima, di rispetto della propria persona e competenze, comporta l’annullamento dell’altro, in questo caso della donna, che rimane anello debole, presenza fragile, compagna di viaggio da sottomettere, opprimere e colpire.
Omicidio-femminicidio, è agire riconducibile a una violenza condensata, contratta e proiettata sulla donna, dentro il focolare ma pure fuori dove il tavolo dei valori è un documento di identità sbandierato bene, invece è violenza condensata nelle gestualità, nelle parole infide, che rappresentano il contrario e l’antitesi della buona educazione e credibilità.
La famiglia ha fallito, il nucleo educativo per eccellenza ha fallito, l’adulto nella sua infanzia e adolescenza ha fallito, così il modo di percepire la relazione, i sentimenti, l’amore, diventa un doppio salto mortale: lo sguardo non è mai indietro a indagare, a verificare, elaborare, ma lanciato in avanti, dove ciò che è ritenuto ostile, si configura come una sbalorditiva secessione praticata con il maglio, con il taglio, mai con la mediazione della coscienza adulta che sa fare i conti con i bilanci più fallimentari.
La violenza in famiglia, dentro la coppia non è tema da prendere sottogamba, da licenziare con una sorta di indifferenza intellettuale, è sbagliato domiciliarsi sulla sponda dell’irreversibilità, della accettazione di un male sociale, ben sapendo che il sopruso, la prepotenza letale, non sono gagliardetti acquistati al supermercato degli infanti a vita.
Questa violenza non è eredità biologica, né sommossa neuronica accidentale, è il prodotto di una cultura, di una illegalità, di un apprendimento di partenza, un conformismo ideologico che banalizza gli ideali più alti senza alcuna vergogna.

(MaLa da: Vincenzo Andraous, Cultura cattolica, 27 maggio 2012)


La Chiesa non si può capire con le categorie mentali di Scalfari!

«Così parlò Zarathustra» scrisse un giorno Nietzsche. Così parlò l’«anitra selvatica» si può dire a proposito dell’articolo del saccente Scalfari, su Repubblica di domenica 27 maggio 2012. Dà una strana impressione la lettura del suo Editoriale sul giornale che è sua creatura: l’impressione di un alunno impreparato che, per rimediare una sufficienza alla interrogazione, raffazzona una serie di notizie, collegandole a modo suo, sperando che la farraginosa confusione eviti al professore di indagare sulla veridicità e sulla correttezza delle informazioni.
Così la sua personalissima ricostruzione spacciata per storica: “Da Pacelli a Ratzinger” ci fa conoscere il volto del Camerlengo, «un volto assolutamente inespressivo; non era un uomo ma una carica, una funzione, una pausa del cerimoniale»; la sua profonda conoscenza degli intellettuali che contano ci fa conoscere il pensiero del «cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più accreditati nella materia» di cui tratta; ci fa sapere che Berlusconi «fa ridere» di fronte a quel principe che era Pio XII, che «come tale si comportò e come tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e militari, attori e operai, imprenditori e barbieri».
Potrei andare avanti a citare tutti i luoghi comuni di questa «anitra selvatica»: storico illuminato (?) e per l’occasione anche profeta (?), che riesce a descrivere il futuro della Chiesa dopo «il pontificato lezioso [che] andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica».
In un editoriale, il sunto del sunto del sunto. Non lo accetterebbero neanche ad un’interrogazione di scuola media, ma tant’è. Per i fedelissimi di Repubblica “l’ha detto Scalfari” e dunque è vero. Per gli altri, impossibile confrontarsi con chi ha già chiaro tutto, con chi possiede il senso luminoso della storia ed anche la palla di vetro per (pre)vedere il futuro.
Noi - umili servitori della vigna del Signore – anziché perder tempo con le anatre che starnazzano, siamo abituati ad ascoltare quanto il Signore stesso («se volete lo Spirito Santo») ci fa capire della Chiesa cattolica, che – il Cielo ne sia lodato – è qualcosa di ben diverso da quanto il nostro Scalfari ha in testa. Caro Eugenio, «ci sono più cose in cielo e in terra, […] , di quante ne sogni la sua filosofia». Abbiamo la grazia di incontrare qualcosa di più grande e vero, qualcosa che sa dare ragioni e speranza al cammino dell’uomo. E se vediamo quello che già Ratzinger chiamava la sporcizia nella Chiesa, sappiamo che l’esperienza quotidiana ci mostra altri e più veri segni della presenza rinnovatrice del Signore. E non sono i personaggi evocati da Scalfari. Riporto quello che ha detto il futuro Papa nella Via Crucis del 2005: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo. Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta; spera che tu, essendo stato trascinato nella caduta della tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi». (Don Gabriele Mangiarotti, Cultura Cattolica, 27 maggio 2012).
Ebbene, caro Scalfari: prima di scrivere l'editoriale in questione avrebbe dovuto ascoltare anche quanto ha detto ieri il Papa, avrebbe dovuto piegarsi al suo dolore e sentire la forza della sua certezza. L'analisi che ci propone oggi degli ultimi pontificati da Pio XII a Benedetto XVI è un tentativo di interpretare la vita della Chiesa con logiche di potere puramente politico, come se la questione seria della Chiesa fosse di sopravvivere al mondo e non di portare dentro la storia ciò per cui Gesù l'ha posta e la sostiene, la proposta ad ogni uomo della via per trovare se stesso. Non che, come lei sostiene, la Chiesa non soffra delle ferite infertele da un potere sempre più subdolo e incombente, ma le energie di cui vive la Chiesa le sono date dalla presenza di Gesù, la sua affezione sempre appassionata e viva, capace di mantenere salda la sua dimora, e mentre tutto cospira per farla precipitare è più certo il suo procedere dentro la storia. È grande il dolore del Papa di fronte al male che entra dentro le mura della casa del Signore, ancor più certo il suo cammino, perché, come ha detto ieri il Papa, sa che sulla vita della Chiesa è Gesù a vigilare, a renderla più certa di ciò che porta.
È questo che, nella sua analisi, non prende in considerazione; del resto in questi difficili momenti la Chiesa è chiamata a verificare proprio questo, se la sua presenza nella storia si riduce a logiche di puro potere - e allora siamo vicini alla fine - oppure se ciò che fa vivere la Chiesa è Colui che le ha dato inizio e che oggi è in grado di darle un nuovo inizio. Nel dolore e nella certezza di Benedetto XVI c'è già questo nuovo inizio, è ciò di cui vive la Chiesa, è la presenza che sa portare il male per il bene di cui consiste. Vi è una domanda che emerge dentro la scena del mondo, oggi portata a travolgere tutto con lo scandalo di chi tradisce, è la domanda sulla consistenza della vita, è la domanda che si legge tra le pagine del Vangelo: "che serve all'uomo conquistare il mondo intero, se alla fine perde se stesso?": è questa la domanda che urge oggi; non le sue analisi, ma come poter ritrovare se stessi! Oggi è questo che la Chiesa ha da scoprire, dentro la bufera in cui sta passando. Diversamente da quanto lei pensa, essa ha un Papa che sa sorreggerla molto bene dentro questa dura sfida, un Papa che sa di che tenerezza è investita la vita dell'uomo, una tenerezza con cui viene vitalizzata ogni fibra dell’umano. È per questo che al posto della sua pessima conclusione ("Il pontificato lezioso andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica. Quanto di peggio per tutti”) c'è invece un'altra cosa da dire, che la Chiesa sa già trarre dalla presenza di Chi la fa vivere il meglio che deve ancora venire, quella tenerezza per l'uomo che Cristo ha portato nel mondo e ha consegnato alla sua dimora perché diventi sempre più appassionante e travolgente. Dentro le brutture del mondo è la bellezza di Cristo che la Chiesa porta ed è questa la sfida ancor più incalzante di oggi! (Gianni Mereghetti, il Sussidiario.net, 27 maggio 2012).
Ma si sa, questo è un problema di fede, e lei, caro Scalfari, ha più volte dichiarato di non averne. Allora, perché non fare più bella figura standosene zitto?

(MaLa, 28 maggio 2012)

«Carte segrete del Papa? I giornalisti hanno la sindrome di Dan Brown»

«Non è la prima volta che qualcuno dà addosso al Papa per il bene della Chiesa, ma danneggiare il Papa, pubblicando le sue carte private, e dichiarare di farlo “per il suo bene” lo trovo quanto meno sorprendente». Ad essere «molto perplesso» per le continue rivelazioni “a fin di bene” dei cosiddetti “corvi” del Vaticano, responsabili di aver fatto uscire dalla Santa Sede documenti riservati di Benedetto XVI, non è un osservatore qualunque ma Franco Pisano, un vaticanista con quasi 30 anni di esperienza, soprattutto all’Ansa, dove è stato capo dell’ufficio dei vaticanisti, che ha seguito fin dall’inizio il pontificato di Giovanni Paolo II.
D. Escono sempre nuove rivelazioni sui “corvi”. Oggi uno di loro, in forma anonima, ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica dopo la notizia dell’indagine a carico del maggiordomo del Papa.
Non so se l’intervista sia un falso, non ho elementi per dirlo ma è normale che a un certo punto si arrivi anche alle interviste anonime in casi come questo. Però bisogna stare attenti. Io ricordo bene che quando Giovanni Paolo II si operò di appendicite, uscirono dei corvi ante litteram. E un noto giornalista di un noto giornale pubblicò le parole anonime di un personaggio che rivelò che in realtà il Papa aveva un cancro e stava per morire. Gli anonimi escono sempre: a volte sono veri, ma a volte sono solo comodi.
D. Come giudica il modo in cui i giornali italiani stanno trattando il caso della pubblicazione delle “carte segrete” del Papa?
Hanno la Sindrome di Dan Brown. Quando ci sono problemi scottanti, come in tutte le cose umane, si fa di tutto per raccontare le cose della Chiesa fabbricando un’aura di mistero e complotto, anche dove non c’è. Ad esempio, lo scorso sabato il Papa ha ricevuto i pellegrini del Rinnovamento nello Spirito Santo. Di che cosa avrà mai parlato alla vigilia della Pentecoste? Dello Spirito Santo, direi, mi sembra abbastanza lineare. E invece i giornali sono riusciti a trovare nel suo discorso dei riferimenti ai corvi. Tutto viene forzato, si cerca il modo di coinvolgere la Chiesa in una vicenda che poi potrebbe essere anche solo una squallida storia di soldi, per quel che ne sappiamo finora. Ma cercare il complotto dovunque non è una novità.
D. Cioè?
Mi ricordo ad esempio che all’ultimo conclave erano arrivati giornalisti da tutte le parti del mondo. C’erano anche gli americani, che volevano sapere a tutti i costi chi era il Camerlengo, che nel Codice da Vinci è il protagonista. Io spiegai a qualcuno di loro, soprattutto a uno di Dallas, che il massimo del potere che il camerlengo aveva era di nominare a tempo un usciere. Insomma, un signor nessuno, non ha nessun potere reale. Gli americani ci sono rimasti malissimo.
D. Questa “storia squallida” però non è finzione. Sono coinvolte anche persone molto vicine al Papa.
Sono uscite delle carte private del Papa e questa non è una cosa molto carina. Che il cameriere di Benedetto XVI sia coinvolto poi è molto triste. Io mi ricordo che Angelo, il cameriere personale di Giovanni Paolo II, era una persona simpaticissima, affabile, parlava volentieri ma se gli chiedevi se a colazione il Papa si era fatto portare un cornetto o un panzerotto diventava muto. Non diceva un parola.
D. Però i “corvi” affermano di fare uscire notizie riservate per il bene della Chiesa e del Papa.
È sorprendente. La gente che dà addosso al Papa per il bene della Chiesa, a dir la verità, è sempre esistita. Mi lascia molto perplesso invece che chi mette in piazza documenti privati del Papa, danneggiando il Papa, dica di farlo per il bene del Papa. Poi si finisce sempre allo stesso modo: qualcuno ha già chiesto le dimissioni di Benedetto XVI. E con le dimissioni papali, ci sono persone che hanno fatto una fortuna economica. Vogliono così tanto bene alla Chiesa e al Pontefice da chiederne le dimissioni.
D. Perché lo fanno allora?
Semplice: perché non vogliono bene né alla Chiesa né al Papa. E per farlo mischiano tutto insieme, fanno un grande potpourri.
D. Però giornalisti come Gianluigi Nuzzi l’autore di “Sua Santità”, si trincerano dietro il “diritto di cronaca”.
Ai giornalisti può succedere di ricevere delle carte riservate, fa parte del gioco. Se si parla di come usarle, però, entra in gioco la coscienza personale. Secondo la deontologia professionale, se sono di interesse pubblico, è giusto farle uscire. Certo che se le carte si ottengono grazie a un furto o un reato, deve entrare in gioco la magistratura, e ho forti dubbi che si possano pubblicare.

(Fonte: Leone Grotti, Tempi, 28 maggio 2012)
 

Il corvo e le carte del Papa: cosa dicono i giornali

Tutto ha avuto inizio con la pubblicazione del libro “Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI”. Che, come si evince dal titolo, rivela alcuni documenti riservati e lettere private del Pontefice. A lungo si è parlato di uno o più “corvi”. Personaggi controversi che avrebbero trafugato scritti top secret girandoli, poi, al giornalista. Tra questi, secondo le voci fatte circolare dai suoi detrattori, ci sarebbe Ettore Gotti Tedeschi, di recente sfiduciato dall’incarico di presidente dello Ior, la banca vaticana. La persona che, materialmente, si sarebbe resa colpevole della fuga di notizie sarebbe, infine, stata individuata in Paolo Gabriele, il cameriere personale di Benedetto XVI, tra i pochi ad avere accesso a tutte le stanze degli appartamenti papali e, attualmente, nella mani della giustizia vaticana.
Massimo Franco, dalla pagine de Il Corriere della Sera si dice convinto che tutta la vicenda rappresenti l’esito di un lungo conflitto. Tra Bertone e gotti Tedeschi. Una sorta di vendetta. «L'impressione è che la sorte di Gotti Tedeschi sia stata segnata dalle sue perplessità sull'operazione di salvataggio dell'ospedale San Raffaele, voluta fortemente da Bertone e dalla sua cerchia; poi dalle resistenze del numero uno dello Ior di fronte al blitz natalizio che ha cambiato la legge antiriciclaggio». Secondo Repubblica, ci potrebbe essere dietro ben più di un semplice regolamento di conti. Per Marco Ansaldo esisterebbe un gruppo di cardinali, arcivescovi e monsignori che punta alla Segreteria di Stato. E, successivamente, a ottenere la maggioranza in Conclave per eleggere un pontefice scelto tra le proprie fila. «E le menti che hanno concepito il piano sono le stesse che hanno foraggiato i media, attraverso i "corvi", di carte segrete al fine di portare scompiglio e far cadere il governo vaticano». Non è detto che sia stato effettivamente Paolo Gabriele l’artefice delle rivelazioni all’esterno o che, per lo meno, possa aver agito da solo anche per Libero. La tesi accreditata è che la vicenda sia l’esito di una partita più grande. Quella che vede schierate in opposte fazioni il cardinal Bertone e tutti i suoi nemici. In molti, ricorda il quotidiano diretto da Belpietro, più volte hanno chiesto le dimissioni del successore di Sodano e in molti sanno che la Segreteria di Stato è un posto chiave da dove gestire l’organizzazione vaticana. Insomma, per Libero sarebbe, per il momento, Bertone il vincitore della partita. Specie considerando il fatto che il capo dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, con cui c’erano attriti, è stato obbligato alle dimissioni. Ma il suo vero successo consiste nel fatto che, d’ora in avanti, chi stesse per compiere un qualunque atto sgradito a qualcuno, potrebbe essere costretto a pensarci due volte per non essere sospettato di tradimento. Anche secondo il Giornale difficilmente potrebbe essere stata una sola persona a provocare la fuga di notizie. Luca Doninelli, in ogni caso, mette in guardia dalle tentazioni complottistiche, dal gusto che persuade chi intravede scandali e intrighi. La realtà è molto più complessa e molto più semplice: una brava persona convinta, magari, di fare del bene che non si rende contro del danno che crea. Ma il male, ricorda il giornalista e scrittore, si annida da per tutto, ed è ipocrita scandalizzarsi del fatto che possa annidarsi pure in Vaticano. Del resto, Gesù – si chiede – non predicava forse tra le prostitute e i ladroni. Vittorio Messori su La Stampa ricorda che la Curia romana è sempre stata un covo di vipere. Un tempo, almeno, era composta dai migliori elementi che esistessero sulla piazza. Alti prelati in grado fare il loro mestiere, fini politici e raffinati diplomatici. Oggi, dice il vaticanista, è composta da uomini mediocri. Anche lui, tuttavia, invita a non scandalizzarsi. Bisogna distinguere tra la Persona della Chiesa, che è santa, e il suo personale.
Il Fatto quotidiano reputa, pure lui, che si tratti di una vittoria di Bertone. Quanto sta accadendo, e soprattutto le dimissioni di Gotti Tedeschi, rappresentano una prova di forza del cardinale per far capire che le pressioni sul Papa di chi vorrebbe la sua sostituzioni sono destinate a tali esiti. Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, infine, spiega che da mesi si sapeva di qualcuno che stesse frugando tra le carte del Papa e di uomini a lui vicino pronti a tradirlo. Ma sapere è ben diverso dall’emettere sentenze di colpevolezza come hanno fatto la maggior parte dei giornali, ha sottolineato, ricordando ai lettori che,da mesi, il Papa si sta portando dentro un lungo e tormentato dolore.

(Fonte: Il Sussidiario.net, 27 maggio 2012)

Fede e crisi: “Suicida, ti assolvo”

Si sono presi porte in faccia dappertutto. Negli ultimi giorni della loro esistenza hanno girato a vuoto fra associazioni di categoria, sportelli comunali e sindacali, Caritas, sindaci, banche e finanziarie. Per chiedere un aiuto, la riscossione di un credito, un margine di tempo, un prestito, una parola di conforto. Non hanno cavato un ragno dal buco. E hanno finito la loro vita al chiuso di un capannone o di un ufficio, con una pistola alla tempia o una corda stretta al collo.
Giovanni Schiavon, Giancarlo Perin, Paolo Tonin, Antonio Tamiozzo, Ivano Polita, Paolo Trivellin, Paolo Mascagni, Walter Ongaro… Ogni nome racconta una storia, tutti insieme segnano un’epopea, quella della piccola impresa e del Nord-Est, del dio denaro, del capannone e degli «schei,» del «produco ergo sum» come collante sociale predominante. Se ne contano una ventina solo quest’anno, qualcuno dice di più, forse sono meno, chissà. Difficile stendere una tabella precisa con nomi e cognomi di imprenditori e lavoratori che si sono tolti la vita a causa della crisi economica. Perché, mai come in questi casi, di certo c’è solo la morte, mentre se ci si addentra nel labirinto delle cause si finisce per non trovare più l’uscita. Le uniche certezze, fra simili notizie giornaliere registrate ovunque in Italia, arrivano dai dati forniti dalla Cgia, l’associazione degli artigiani di Mestre, utili per capire la portata del fenomeno: 187 suicidi e 245 tentativi nel 2010, più 20 per cento rispetto a due anni prima. L’inasprirsi della crisi economica può solo rendere più drammatico il conto per 2011 e 2012.
L’altro punto fermo è la Chiesa. Una Chiesa che forse, per dirla con le parole di Francesco Moraglia, il nuovo patriarca di Venezia, «non sempre ha capito il dramma di chi è senza lavoro o di chi pensava fosse un soggetto robusto del mercato». Una Chiesa che di fronte a queste tragedie umane mostra la sua faccia migliore: quella dei pastori che vivono sul territorio e che sono vicini al gregge. Religiosi che sono pronti ad aprire le braccia e il portone della chiesa anche a chi ha commesso un atto come il suicidio, condannato dal cattolicesimo. Loro, i parroci, lasciano le questioni dottrinarie e di principio alle dispute dei sacri palazzi e celebrano i funerali di quelli che considerano caduti sul lavoro. L’escamotage è diventato prassi consolidata: la persona che si toglie la vita non lo fa per scelta ma per una situazione momentanea in cui si è venuta a trovare e che ha prodotto un obnubilamento delle facoltà. Nessuna volontà di morte deliberata e reiterata, come nel caso di Piergiorgio Welby, a cui furono negati i funerali.
Massimo Facchin ha 56 anni, metà dei quali passati da sacerdote. A dicembre dell’anno scorso ha accolto nella sua parrocchia padovana oltre 300 persone riunite attorno alla salma di Giovanni Schiavon, imprenditore edile che non riusciva a riscuotere crediti per oltre 200 mila euro. Nell’omelia don Massimo ha parlato di un uomo schiacciato da un sistema bloccato in cui le regole sono evaporate sotto i colpi della crisi: «Ci vuole più umanità, bisogna imparare ad avere più attenzione verso le persone, più rispetto delle buone regole della vita sociale. Noi siamo per aprire le porte della chiesa e della preghiera, lui ha trovato solo porte chiuse».
Oggi, a distanza di oltre quattro mesi, don Massimo ricorda ancora quei momenti, la commozione generale, il nodo in gola. E dice di non avere avuto la benché minima esitazione nel celebrare il funerale, né di avere mai pensato a una sorta di beneplacito delle alte sfere. «Siamo cristiani che pregano per un nostro fratello in difficoltà. Ha sbagliato, non è questo il modo di risolvere i problemi. Da fuori possiamo anche giudicare, ma non riusciremo mai a comprendere la reale portata del dramma che ha scombussolato quella mente».
Per don Massimo, quello di Schiavon è un «suicidio per disperazione», mentre nel caso di Welby si era di fronte a un «dispregio della vita». Da un parte, «un uomo soffocato che vede nel suicidio l’unica boccata d’aria». Dall’altra, una «volontà lucida» anche se «provata da una lunga sofferenza».
Paolo Trivellin aveva 46 anni, una piccola azienda edile a Noventa Vicentina. Aveva un contenzioso aperto per dei lavori all’interno della caserma Ederle di Vicenza. È andato lì a protestare con i suoi operai, ha chiesto invano che almeno loro venissero liquidati. Poi ha scritto quattro lettere e si è impiccato. Per l’ultimo saluto in chiesa è stato accolto da Angelo Corradin, prete dal 1982. Che durante l’omelia ha rivendicato il «diritto al lavoro e una vita dignitosa» e ha rivolto un invito alle istituzioni perché si adoperino per «non portare le persone alla disperazione ». Anche per lui nessun dubbio sul funerale: «Negli ultimi 30 anni è cambiato l’approccio della Chiesa, per fortuna il prete ha smesso di essere il giudice che decide se sei degno di una preghiera pubblica».
Gesto scaturito da un momentaneo blackout delle facoltà mentali: il concetto si ripete nelle parole di don Giovanni Baldo, di Borgoricco, provincia di Padova, a cui è toccato l’ultimo saluto alla salma di Giancarlo Perin, imprenditore di 52 anni molto conosciuto nella zona. E di don Francesco Pavin, missionario in servizio ad Altivole, Treviso, che è stato tra i primi ad accorrere nel capannone dove Paolo Tonin si è tolto la vita dopo settimane di agonia in cui si era incolpato pure per la siccità che non dava slancio ai suoi asparagi.
Ma in Veneto c’è una Chiesa che vuole essere in prima linea anche prima, non solo dopo. Davide Schiavon, sacerdote di 43 anni, da quattro direttore della Caritas di Treviso, ha creato un «centro di ascolto per imprenditori di microimprese in difficoltà». Lo sportello ha aperto lo scorso febbraio, a oggi sono 15 le persone che hanno chiesto aiuto. Depressione, prostrazione, angoscia, insonnia, vita privata che si sgretola: sono questi i tratti comuni. «Aiutiamo a individuare le possibilità di mercato, gli sbocchi, le prospettive, le decisioni più opportune da prendere». Perché quando la crisi morde, è meglio guardarla negli occhi.

(Fonte: Carmelo Abbate, Panorama, 7 Maggio 2012)


sabato 19 maggio 2012

Convivere prima del matrimonio aumenta il rischio di divorzio

Un articolo apparso di recente sul New York Times ha portato alla ribalta un tema piuttosto delicato e diffuso: la convivenza! “Ho trascorso più tempo ad organizzare il mio matrimonio che non ad essere felicemente sposata”: comincia così il racconto di Jennifer (il nome è inventato), una donna di 32 anni alla sua psicologa clinica Meg Jay dell’Università della Virginia, autrice dell’articolo sul quotidiano americano. La donna (che aveva già alle spalle il fallimento del matrimonio dei suoi genitori) confida alla psicologa di aver convissuto per più di 4 anni, prima di sposare quello che sarebbe diventato il futuro marito e di aver iniziato dopo la terapia anche la ricerca di un avvocato divorzista. Incredula si chiede: “Com’è potuto accadere?”
Nel 1960 negli Stati Uniti le coppie conviventi erano 450.000, mentre oggi il loro numero è aumentato vertiginosamente, fino ad arrivare a più di 7,5 milioni. Si calcola, inoltre, che più della metà dei matrimoni siano preceduti da convivenza. Oltre ai motivi più disparati che vengono enumerati, quali: la rivoluzione sessuale, la pianificazione delle nascite, i vantaggi di ordine economico, riguardanti la suddivisione di spese e bollette, un’ulteriore motivazione additata dai 2/3 dei giovani americani punta sulla convivenza come una forma di “prevenzione” del divorzio. Ciò emerge dai dati di un sondaggio nazionale del 2001, a cura del National Marriage Project.
Attualmente, però, gli studi dei ricercatori vanno nel senso propriamente opposto e l’esperienza degli sposi va a falsificare le convinzioni dei ragazzi americani. Dalle pagine dell’autorevole quotidiano statunitense si evince che “le coppie che convivono prima del matrimonio (e soprattutto prima di un fidanzamento o di un impegno chiaro), tendono ad essere meno soddisfatte del loro matrimonio e hanno più probabilità di divorziare rispetto alle coppie che non lo fanno”. I ricercatori precisano che non sono le caratteristiche individuali come l’istruzione, la religione o le idee politiche a compromettere la convivenza (“effetto negativo”), ma alcuni dei rischi sono insiti nella convivenza stessa.
Il Pontificio Consiglio per la Famiglia, nel suo Documento “Famiglia, matrimonio e ‘unioni di fatto’”, mette a confronto matrimonio e convivenza, chiarendo che: «la comunità familiare nasce dal patto d’alleanza dei coniugi. Il matrimonio che sorge da questo patto d’amore coniugale non è una creazione del potere pubblico, bensì un’istituzione naturale e originaria che lo precede. Nelle unioni di fatto, al contrario, si mette in comune l’affetto reciproco, ma allo stesso tempo manca quel vincolo coniugale di natura pubblica e originaria che fonda la famiglia. Famiglia e vita formano un’unità che deve essere protetta dalla società, in quanto si tratta del nucleo vivente della successione (procreazione ed educazione) delle generazioni umane» (n. 9).
Quando la psicologa domanda a Jennifer: ”Come siete arrivati alla convivenza?” lei risponde: “Ci siamo scivolati dentro, è successo. Stavamo un po’ da lui un po’ da me, ci piaceva stare insieme ed era più conveniente dividere le spese”. I ricercatori definiscono questo modus operandi come uno “scorrere, uno scivolare dentro”, anziché “decidere”. Nel Documento si legge ancora: «Le unioni di fatto non comportano diritti e doveri matrimoniali, né pretendono una stabilità basata sul vincolo matrimoniale. Si distinguono per la ferma rivendicazione di non implicare alcun vincolo. L’instabilità costante, dovuta alla possibilità di interrompere la vita in comune è, di conseguenza, caratteristica delle unioni di fatto» (n.4). Invece, «con il matrimonio si assumono pubblicamente, mediante il patto d’amore coniugale, tutte le responsabilità che derivano dal vincolo così stabilito. Da questa assunzione pubblica di responsabilità risulta un bene non solo per i coniugi e i figli nella loro crescita affettiva e formativa, bensì anche per gli altri membri della famiglia. La famiglia fondata sul matrimonio è così un bene fondamentale e prezioso per l’intera società, le cui fondamenta riposano solidamente sui valori che si concretizzano nei rapporti familiari e che trova la propria garanzia nel matrimonio stabile». (Pontificio Consiglio per la Famiglia, “Famiglia, matrimonio e ‘unioni di fatto’“, 2).
Pertanto la convivenza diventa, talvolta, la via di fuga dinanzi a scelte più convenienti (la suddivisione delle spese) oppure include il rimando o la mancata assunzione di vincoli e responsabilità. In un’epoca in cui dilagano edonismo e relativismo, il “per sempre” come categoria temporale incute sempre più timore e viene demonizzato, sostituito dal più semplice “forse” o dallo “stare insieme, finchè dura”. Decidere di scommettere tutta la propria vita sull’altro, di impegnarsi seriamente nel presente e nel futuro dell’eternità dell’amore mira a costruire orizzonti stabili al comune progetto di vita a due, a ricoprirlo di valenza giuridico-sociale e ad arricchire l’amore di significato e pienezza di senso.

(Fonte: Anna Paola Borrelli, UCCR, 8 maggio 2012)

Il Vaticano alle Olimpiadi

Per avere successo bisogna parlare male del Vaticano. Sembra infatti assodato che per ottenere un riscontro di pubblico in un’opera di fantasia — ma anche nei media — non si possa trattare delle cose d’Oltretevere senza dover tirare in ballo oscuri misteri, trame sotterranee, segreti inenarrabili. Senza, insomma, dover ricorrere allo scandalo, al pruriginoso, o comunque all’ipotesi sensazionalistica. Eppure è possibile trattare l’argomento con un altro sguardo, libero da preconcetti, da strumentali stereotipi, da volontà denigratoria a tutti i costi, e cogliere comunque nel segno: ovvero attirare l’attenzione dello spettatore e divertirlo senza ferire alcuna sensibilità. Lo dimostra 100 metri dal Paradiso che infatti parla del Vaticano in modo leggero, senza rinunciare al gusto della battuta salace al limite del dissacrante, ma sempre con rispetto.
Dunque niente codici antichi, niente angeli e demoni (peraltro avvincenti), niente missioni impossibili all’ombra del Cupolone, ma nemmeno torbide manovre di palazzo che tanto piacciono ai giornali, ma solo una trovata tanto improbabile quanto irresistibile: un monsignore che vuole portare una squadra con i colori vaticani nientemeno che alle olimpiadi di Londra. Altro che Clericus Cup.
Tra improbabili ambientazioni e l’immancabile presenza di Guardie Svizzere disseminate senza risparmio un po’ dovunque — ma che fanno tanto Vaticano — la commedia di Raffaele Verzillo è così ingenuamente inverosimile da potersi permettere di inventare senza apparire irritante o irriverente. Anzi, preso atto dell’idea fantasiosa che lo ispira e delle semplificazioni che ne derivano, il film riesce ad apparire persino verosimile in alcuni aspetti, nonostante qualche benevola caricatura, che tuttavia non guasta.
Ed è credibile, malgrado la mancanza di approfondimenti psicologici, soprattutto in alcuni personaggi. Come monsignor Angelo Paolini — dove è adombrato un immaginario segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali — che non è presentato nei panni del carrierista di curia nonostante il ruolo, ma come un prete normale, umanissimo, che vuole soltanto svecchiare il modo in cui la Chiesa entra in rapporto con il mondo, soprattutto con i giovani. E che prende troppo alla lettera l’indicazione di un superiore a non arrendersi di fronte a una difficoltà apparentemente insormontabile, creando qualche imbarazzo.
Un peccato veniale per un fine più alto: attirare attraverso lo sport l’attenzione del mondo sul Vaticano, anzi sulla Chiesa e sul suo messaggio, per trarne non tanto un beneficio d’immagine quanto un ritorno in termini di solidarietà concreta.
Ma c’è anche padre Rocco, parroco di strada come si definisce egli stesso, che prima di diventare sacerdote era un campione di scherma, e che oggi apre la sua chiesa anche di notte ai ragazzi del quartiere di Napoli in cui opera per tenerli insieme, per allontanarli da alcol, droga e criminalità. E non mancano i missionari, impegnati nel mondo a portare Dio agli uomini, insieme agli aiuti di una Chiesa vicina e sollecita verso chi è nel bisogno. Una Chiesa che sta in mezzo alla gente, che si sporca le mani.
Il film 100 metri dal Paradiso riesce insomma a parlare, sorridendo con levità, di buoni sentimenti, di riscatto, speranza, vocazione. E di Vaticano, con ironica simpatia.

(Fonte: Gaetano Vallini, ©L'Osservatore Romano, 10 maggio 2012)

Matrimoni omosessuali: le argomentazioni dei cattolici volutamente ignorate

Anche Pierluigi Battista (si veda la sua rubrica dal titolo inequivocabile «Il matrimonio gay non è una minaccia», apparsa ieri sul Corriere della Sera), prende posizione, palesemente favorevole, in merito alla legalizzazione delle unioni omosessuali. Posizione ovviamente rispettabile, anzi, tanto più rispettabile in quanto lo stile di Battista è tra i più lucidi e garbati.
Proprio per questo, però, dispiace dover rilevare come anche lui assuma una posizione argomentativa preconcetta e infondata, quella di chi pensa che i cattolici, convinti che questo tema costituisca «un’offesa alla religione cristiana», si oppongano per ragioni confessionali al riconoscimento dei diritti civili delle coppie gay. Di qui l’esortazione (sgradevolmente paternalistica) da lui rivolta ai credenti a smetterla di avvertire, quando si parla di questo argomento, un’«aura di sulfureo, peccaminoso, intollerabilmente anomalo».
Le cose non stanno così.

I cattolici (nella loro stragrande maggioranza) sono ben più maturi di come sembra ritenerli Battista; non si sentono «minacciati» né «offesi» da nessuno, né avvertono alcun’aura di sulfureo, quando ascoltano le tante (banali e monotone) istanze favorevoli al matrimonio gay. Semplicemente, essi vorrebbero non essere oggetto di fin troppo facili e infondate ironie e soprattutto che i loro argomenti (tante volte ribaditi su Avvenire con rigore e pacatezza) fossero presi sul serio. È esagerata questa richiesta? O è il minimo che si possa pretendere, in un dibattito pubblico di questa portata?
Riassumiamo la questione in pochi punti essenziali. Primo punto: il matrimonio eterosessuale non è un’invenzione della Chiesa; è un istituto giuridico, finalizzato a garantire l’ordine delle generazioni, riscontrabile in tutte (ripeto: tutte) le culture e in tutti (ripeto tutti) i tempi. Corollario: difendendo il matrimonio eterosessuale, la Chiesa difende non un dogma di fede o un principio della propria dottrina, ma una dimensione del bene umano oggettivo. Secondo punto: si può ben procreare, come Battista ci ricorda, al di fuori del matrimonio (questo lo sanno perfino i cattolici!), ma la funzione del matrimonio è proprio quella di porre un rigoroso ordine sociale nella procreazione, a garanzia delle nuove generazioni.
La crisi del matrimonio – fenomeno ciclico, ma in questo momento storico particolarmente acuto – va considerata con grande preoccupazione, perché è la causa fondamentale della crisi della famiglia, fattore insostituibile di stabilità intergenerazionale e di tutela sociale dei soggetti deboli. Corollario: piuttosto che riconoscere il matrimonio gay, naturalmente sterile, la società dovrebbe operare per un efficace sostegno delle famiglie (e in particolare di quelle numerose) e dovrebbe supportare, cosa che fa solo in minima parte, l’impegno delle famiglie a favore dei minori, dei malati, degli anziani.
Terzo punto: i diritti che secondo Battista dovrebbero essere attribuiti alle coppie gay sono molto meno eclatanti di quanto non possa apparire quando li si qualifica come «diritti civili»: essi non solo sono facilmente attivabili con quello che la scienza giuridica chiama il «diritto volontario» (reversibilità della pensione, subentro nel contratto di locazione, assistenza ospedaliera, diritti successori), ma in gran parte sono già ampiamente fruibili a seguito di interpretazioni estensive delle leggi vigenti fatte dalla Cassazione. Corollario: la vera posta in gioco, quando si dibatte sul matrimonio gay, è simbolica, non è giuridica né sociale; i suoi fautori vorrebbero che il diritto riconoscesse situazioni affettive, di cui nessuno vuole negare l’autenticità "privata", ma che non hanno però in sé e per sé, alcun rilievo "pubblico", e questo proprio in un momento storico in cui da parte di tanti ci si batte per allentare ulteriormente i vincoli istituzionali, che nascono dai legami matrimoniali (si pensi al "divorzio breve", ecc.).
Esiste una spiritualità del matrimonio, che i cattolici hanno carissima, quando riflettono sul carattere sacramentale riconosciuto da Gesù a questo vincolo. Non è però il matrimonio-sacramento che oggi è in crisi e che va difeso, ma il matrimonio "civile", come credo ben emerga dai punti che ho indicato. È su questi punti, privi di qualsiasi rilievo confessionale, che insistono da anni i cattolici, in quanto hanno a cuore il bene di tutti, credenti e non credenti. Perché non si forniscono loro risposte convincenti, anziché deformare le loro argomentazioni per poter farne oggetto di ironia?

(Fonte: Francesco D'Agostino, Avvenire, 15 maggio 2012)

Famiglia, il mondo cattolico attacca la Fornero

Attacco frontale del mondo cattolico al ministro Elsa Fornero, che ieri nel corso di un convegno sulla famiglia ha invitato a riflettere sui diritti delle coppie di fatto e delle convivenze tra persone omosessuali e ha detto che la famiglia tradizionale rischia ormai di diventare un’eccezione.
Dopo le critiche di ieri di vari esponenti del Pdl, oggi L’Avvenire, nell’editoriale di prima pagina, lascia trapelare la speranza che il ministro si autocorregga. La famiglia, scrive il giornale dei vescovi italiani, è ancora «il centro della società italiana, quel che tiene in piedi tutto il Paese». «È troppo - conclude l’editoriale - chiedere che chi ci governa, anche col “camice bianco” dei tecnici, mostri di adoperarsi per tenere insieme e dare un futuro al Paese, e non per incoraggiarlo a precarizzarsi e disgregarsi?».
Ancor più duro il Forum delle associazioni familiari, organizzazione cattolica promotrice del Family Day: «Quello del ministro Fornero è stato un gran brutto scivolone, tanto più perché‚ piovuto su un evento istituzionale che nel nome della Giornata internazionale della Famiglia dell’Onu, per la prima volta riusciva a mettere insieme istituzioni e societ… civile attorno alla famiglia» scrivono in una lettera aperta.
Insorge anche il Movimento cristiano dei lavoratori (Mcl): «la famiglia non è superata, e va sostenuta dallo Stato. È gravissimo che un ministro della Repubblica, per di più componente di un Governo “tecnico”, si lanci in considerazioni personali che scivolano sul terreno della politica, arrogandosi un ruolo di pretesa rappresentanza di interessi collettivi che, peraltro, non può competere in alcun modo a chi non Š stato eletto» ha detto il presidente Carlo Costalli, che parla addirittura di «dichiarazioni oltraggiose» e attacca: «Si rassegni il ministro Fornero e rispetti la Costituzione italiana che sancisce una “società naturale fondata sul matrimonio”. Si rassegni e pensi piuttosto a fare bene il suo lavoro di ministro tecnico, evitando sviste madornali come quella sugli esodati, che non giovano n‚ al Paese n‚ alla sua popolarità personale».
Non si sbilancia invece come al solito il ministro titolare della delega delle politiche familiari, Andrea Riccardi, che interpellato sulla questione risponde: «Non commento i discorsi di un ministro del Governo, ogni ministro dice quello che vuole. Il problema è la crisi del legame della società italiana, fatto da donne e uomini più soli. Questo mi sembra il problema». (Vatican Insider, 17 maggio 2012).
L’On. Eugenia Roccella, dal canto suo, risponde invece alla Fornero con il seguente Comunicato Stampa : «Mi dispiacerebbe pensare che il Ministro Fornero che non ha mai cercato facili consensi sulle riforme per il lavoro, ne cerchi invece sul fronte della famiglia e del riconoscimento pubblico delle unioni di fatto.
Se il Ministro leggesse i dati, scoprirebbe che la situazione italiana è profondamente diversa da quella di gran parte del resto d’Europa: la famiglia tradizionale è ancora la regola, i figli nascono all’interno del matrimonio avendo quasi sempre un padre e una madre, resiste una rete parentale di sostegno e di affetti e tutto questo ha costituito, come il Ministro certamente sa, l’ammortizzatore sociale fondamentale che ha permesso a questo paese di resistere nella bufera della crisi economica.
Altrove spesso ci sono ormai altissime percentuali di madri single e questo produce povertà femminile e infantile e volatilità del ruolo paterno, i divorzi sono in qualche caso addirittura più dei matrimoni e le relazioni familiari sono instabili e poco durevoli.
Non chiedo a Elsa Fornero di condividere delle idee o dei principi, le chiedo però di tenere nel dovuto conto il dettato costituzionale che riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e le chiedo, come Ministro del Welfare, di considerare le ricadute sul piano dello stato sociale di provvedimenti che rendono la famiglia più fragile e precaria, smagliando le reti di sostegno e di solidarietà così tipiche del nostro paese.
Il richiamo del Cardinal Bagnasco al divorzio breve arriva alla vigilia della discussione in Aula sulla proposta di legge. Si tratta di una questione importante e complessa, non riducibile alla sola problematica dei tempi di scioglimento del matrimonio. E’ necessario interrogarsi sul tipo di società e di futuro che vogliamo, capire se intendiamo promuovere una cultura di stabilità degli affetti o al contrario, accanto alla precarietà del lavoro, vogliamo favorire anche un'idea di precarietà dei legami e quindi un'idea di famiglia instabile e fragile.
La questione, inoltre, ha anche importanti ricadute economiche. In questo grave momento di crisi la famiglia ha rappresentato un eccezionale ammortizzatore sociale nel nostro paese; favorirne la disgregazione significa indebolire un collante sociale, e appesantire ancora di più il nostro sistema di welfare che ha già problemi di sostenibilità» (www.eugeniaroccella.it).

(MaLa, 17 maggio 2012)

Roma: Il concerto del primo maggio, una boiata pazzesca!

Come da programma anche quest’anno ci è toccata la sindacale punizione del concerto del 1° maggio, che come quella fantozziana della corazzata Potemkin rappresenta la tortura culturale di partito, alla quale nessuno sfugge; tutti applaudono, fintamente interessati, per timore di pubblica fustigazione e solo qualche voce isolata, fuori dal coro, osa una tantum alzarsi e dire quello che tutti segretamente pensano: è una boiata pazzesca!
Il paradosso di festeggiare i lavoratori proprio nel tempo in cui essi sono più sviliti dalla competizione economica globale e dal progresso tecno scientifico, rende conto, da una parte, dell’anacronismo delle categorie storiche e culturali della sinistra, motivo anche della sua inettitudine politica in tempi di governo; dall’altra, dell’astuta ipocrisia che il comunismo ha sempre coltivato nel vezzeggiare i suoi schiavi e farli credere liberi nella partecipazione attiva alla lotta armata di classe; che poi l’arma sia il fucile o la chitarra è indifferente.
Infine, paradosso nel paradosso, lo sperpero di denaro pubblico per infrastrutture e forze dell’ordine che tale concerto da un ventennio comporta; denaro prelevato per via fiscale a tutti i lavoratori per l’intrattenimento di pochi, lusso da tardo impero che la marea montante della crisi e della conseguente rastrellata fiscale avrebbe dovuto spazzare via insieme al posto fisso, all’art. 18, alle pensioni, alle Olimpiadi, tutti residuati di un’età del boom economico ormai sorpassata, ma comunque ben più cari e importanti di una versione sindacalistica di Sanremo, dal cui palco, fra l’altro, protervi predicatori già insultarono Cristo e il Papa.
Sequestrare la festa di San Giuseppe, patrono dei lavoratori, per trasformarla in festa dei lavoratori, che di per sé nient’altro sono che poveri uomini condannati a tirare in circolo la mola assegnatagli, è stata un’astuzia della secolarizzazione politica che forse l’attuale crisi del lavoro vendicherà, riportandola alla sua radice sacra.

(Fonte: Il Vento dell’Ovest, 1 maggio 2012)

giovedì 17 maggio 2012

Per “molti” o “per tutti”? Il richiamo del Santo Padre alla giusta interpretazione del testo evangelico

Il Papa ha recentemente inviato una Lettera all’Episcopato tedesco con la quale ordina che l’espressione “per tutti” attualmente presente nel Messale tra le parole della Consacrazione Eucaristica, venga mutata in “per molti”, perché, dice il Pontefice, questa è la traduzione esatta del testo greco originale del Vangelo.
Sappiamo come per molti secoli la Chiesa abbia usato la cosiddetta “Vulgata” latina, ossia la traduzione di S. Girolamo, la quale ha “pro multis”. Questa espressione, fraintesa, dette occasione all’eresia di Calvino, il quale credeva che Cristo non fosse morto per tutti ma solo per “molti” o addirittura, come lui credeva, per “pochi”, quelli che egli chiamava, abusando di un’espressione biblica, gli “eletti”.
Sappiamo come in Calvino, in ciò precorso da Lutero, esiste una doppia “predestinazione”: alcuni sono da Dio predestinati al paradiso, altri all’inferno. Da Dio viene tanto il bene quanto il male, tanto la grazia quanto il peccato.
Il Concilio di Quierzy dell’853 aveva già affrontato e risolto questo problema della predestinazione insegnando che essa, ben intesa, esiste come volontà salvifica di Dio, per cui Egli manda in paradiso, ma non manda nessuno all’inferno. Ognuno raggiunge quel destino eterno che corrisponde alle proprie opere: chi opera il bene va in paradiso, chi opera il male va all’inferno. Senonchè però, siccome è Cristo che salva con la sua grazia, chi si salva si salva perché il Padre lo salva, ossia lo predestina alla salvezza, mentre chi si danna si danna solo per colpa sua.
Gettando ulteriore luce su questo mistero, il Concilio di Trento dirà contro Lutero che negava i meriti della salvezza: l’uomo può e deve meritare il paradiso con le buone opere, ma questi stessi meriti, che egli si procura vivendo in grazia di Dio, sono a loro volta dono di Dio. Quindi Dio è la causa prima della salvezza. Mentre la dannazione è esclusivamente frutto dei meriti del peccato, atto esclusivo del peccatore, nel quale Dio non c’entra assolutamente nulla. Quindi il dannarsi dipende esclusivamente dal peccatore.
La Chiesa prese occasione dal Concilio di Quierzy per condannare la dottrina, definita “orribile”, di un certo monaco di nome Godescalco (Gottschalk), il quale invece già allora sosteneva che Dio manda anche all’inferno chi vuole che vada all’inferno, per quanto bene questo disgraziato cerchi di fare, perché Dio muove la stessa volontà di questo tale a compiere il peccato.
Purtroppo questa orribile eresia, che è una vera e propria bestemmia contro la bontà e la misericordia di Dio, in nome di un falso concetto della predestinazione, risorse col protestantesimo. Il protestantesimo di oggi invece, a parte alcune sette che conservano questo orientamento, come per esempio i testimoni di Geova, è passato nell’estremo opposto che sostiene che Dio salva tutti e che quindi tutti sono “predestinati”.
Ma è un’eresia anche questa, di segno opposto, messa in giro da Rahner, la quale oggi purtroppo ha molto successo anche tra i cattolici. Si potrebbe chiamare eresia del “buonismo”: siccome Dio è “buono”, anche il “male” in fondo è bene, tutti sono buoni, tutti sono in buona fede, tutti sono perdonati, tutti per essenza sono in grazia, tutti per essenza tendono a Dio, tutti si salvano. Il peccato non esiste, è solo uno “sbaglio in buona fede”. La Redenzione non è un’“espiazione” o una “riparazione”, ma semplicemente un perfezionamento supremo dell’uomo “già da sempre - come dice Rahner -, in tensione verso Dio”.
Il Concilio Vaticano II ha sviluppato in modo molto consolante e confortante la dottrina della possibilità che tutti si salvino, perché Cristo ha dato il suo sangue per tutti, offre a tutti la salvezza, offre a tutti i mezzi per salvarsi, anche a chi non Lo conosce, purché però sia onesto e in buona fede. In questo senso Cristo è il Salvatore dell’intera umanità, come dice il Papa nella sua Lettera: “l’universalità della salvezza proviene da Lui”.
Ma il Concilio non dice per nulla che di fatto tutti si salvano, anzi riporta alcuni passi del Vangelo i quali, con la parola del Cristo stesso, ci fanno capire che alcuni non si salvano, come del resto la Chiesa ha sempre sostenuto, in modo speciale nel suddetto Concilio di Quierzy.
Questo vuol dire che non tutti sono predestinati alla salvezza, ma solo quelli Dio ha “scelto” o “eletto”. Per questo, ancora nel Canone Romano della Messa il sacerdote chiede a Dio insieme con i fedeli presenti di poter esser posto da Dio “nel numero degli eletti”. L’idea di elezione evidentemente implica il prendere una parte da un tutto. Non si sceglie un tutto, ma solo una sua parte. Quindi solo una parte dell’umanità si salva, non tutta.
Questo dà fastidio alle orecchie di molti oggi, eppure questa è la verità di fede, negando la quale si cade nell’eresia. Si tratta semmai di accostarci a questa difficile verità trovando argomenti di convenienza che proporzionino anche qui la fede alla ragione. E del resto è questo il compito della teologia. Ho trattato di queste cose in un mio recente libro.
In riferimento a ciò il Papa distingue i “molti” dai “tutti” e dice: “Tutti” si muove sul piano ontologico – l’essere ed operare di Gesù comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, Egli giunge solo a “molti””. In altre parole: Cristo offre la salvezza a tutta l’umanità, ma di fatto Egli giunge solo a molti, ossia solo questi molti si salvano, quindi non tutti.
Tornando alla questione dei “per molti” o “per tutti”, bisogna dire che il Papa ci ricorda un’importante regola ermeneutica, valida sempre e in ogni caso nell’interpretazione della Bibbia, come del resto di qualunque testo letterario: un conto, dice il Pontefice, è tradurre e un conto è interpretare. La traduzione va fatta con fedeltà e precisione, anche se il testo che vien fuori è difficile o indigesto o antipatico. A questo punto ci può soccorrere un’opportuna interpretazione che ce lo rende digeribile ed accettabile, per non dire attraente.
Applicando questo metodo, Benedetto XVI dice con la schiettezza e la sicurezza del Pastore universale della Chiesa (anche se si rivolge solo all’Episcopato tedesco) che si deve riprendere la traduzione “per molti”, perché è quella esatta. Ciò non impedisce, anzi richiede che poi la si interpreti nel senso giusto, non nel senso calvinista. Allora “per molti” vuol dire “per tutti”, perché “molti” va inteso nel senso che Cristo si riferiva al fatto che gli uomini, nel loro complesso, sono molti. Ma non intendeva affatto con questi “molti” una parte che si opponesse al tutto.
La traduzione “per tutti”, dice pertanto il Pontefice, non è una vera traduzione, ma è un’interpretazione, per quanto valida, che di fatto si è imposta nel clima del postconcilio, preoccupato di sottolineare la “chiamata universale alla salvezza e alla santità”, che indubbiamente è uno dei grandi temi del Concilio, che sarebbe grave danno minimizzare o dimenticare. Ma occorre anche guardarsi bene dal fraintenderla alla maniera di Rahner e dei buonisti. “Per tutti” non vuol dire che tutti si salvano, ma semplicemente che possono salvarsi. Nei fatti, come ho detto e come la Chiesa ha sempre sostenuto, alcuni si salvano, altri si dannano, nel senso che ho spiegato sopra.
Accogliamo dunque con gratitudine questo richiamo del Vicario di Cristo che, in un punto così importante della Parola di Dio quali sono le parole della Consacrazione Eucaristica, ci precisa quali sono le parole esatte del testo evangelico, esortando nel contempo alla giusta interpretazione che deve evitare tanto l’eresia di Calvino quanto quella di Rahner.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa cristiana, 8 maggio 2012)

Alcune domande sulla famiglia

O una strada o l’altra. Non c’è una “terza via” di compromesso, come vorrebbe farci credere bugiardamente il mondo, mentre sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze devastanti del relativismo e del pensiero debole tanto sbandierati dall’intellighentia postmoderna. Pontificano, loro: gli intellettuali, gli analisti, i sociologi… e intanto – basta guardarsi intorno – gli uomini vagano disarmati, impantanati, impotenti, arresi. Disperati, spesso. Letteralmente. Senza più speranza.
La famiglia “cambia”. Soffre, la famiglia? Ci si sposa sempre meno? Aumentano i divorzi? I rapporti di coppia sono instabili, fragili, determinati dalla precarietà? È incredibile anche solo pensare, oggi, di poter dire e poi vivere la promessa “per sempre”?
E ancora: soffrono i figli di genitori separati? i figli nelle famiglie “allargate”? i figli divisi? i figli contesi? Come vive un bambino, un adolescente in una coppia costituita da due donne o da due uomini? Come si vive quando certe parole spariscono dal vocabolario e “mamma” e “papà”, siccome vogliono dire una donna e un uomo, sono considerate discriminanti e il politicamente corretto le cancella e le sostituisce con “genitore uno e genitore due”? Come si vive nell’epoca del congiuntivo e del condizionale, in cui, poiché le certezze scricchiolano, l’indicativo appare inadeguato e tutto fluttua, lingua italiana compresa?
Se questa è la foto della realtà d’oggi, della famiglia d’oggi, vale la pena ritornare sugli interventi degli ospiti alla trasmissione “Indaco”, condotta da Sergio Barducci su San Marino RTV.
La famiglia è cambiata e cambierà. Bisogna farsene una ragione. Punto.
A telecamere spente, volendo fare sintesi, le posizioni emerse sono due.
La prima: prendiamo atto della diagnosi (qualcuno, per la verità, ha addirittura messo in dubbio che lo stato di sofferenza vissuto dalle famiglie e dai figli possa essere annoverato tra le “malattie”…) e tanto basta. Questo, ad esempio, il punto di vista di Francesca Michelotti (Sinistra Unita), che afferma: “vengono avanti delle nuove istanze che è difficile non riconoscere in tempi nei quali vige la supremazia del diritto… Ciascun uomo e ciascuna donna hanno diritto di perseguire la propria felicità e se la propria felicità è in una famiglia diversa non credo che possiamo ergerci a giudici di modelli prefissati, precostituiti che spesso non sono più adeguati ai tempi”. Sempre lei, ad un certo momento della trasmissione, dice che “non è più il momento delle scelte irrevocabili” e che “la stabilità è un valore fino ad un certo punto”. Come poi pesi drammaticamente sui figli l’inquieto “guardarsi intorno” dei genitori, sempre più incapaci di assumersi responsabilità adulte, forse, rispetto al “benessere” di mamma e papà, è oggi da molti ritenuto problema di serie zeta. E invece, cambiano i tempi, cambia la famiglia, ma la sofferenza del cuore è uguale sempre. Sarebbe buona cosa ricordarlo.
Sulla stessa onda (fluttuante) della Michelotti, l’intervento di Michele Pazzini, segretario LGBT (Associazione lesbiche gay bisessuali transessuali) di S. Marino, che, fatto un excursus storico dalla famiglia patriarcale al modello nucleare costituito dalla coppia sposata con figli biologici, siccome guardando in giro vede coppie sposate con e senza figli, coppie non sposate, etero e omosessuali, facendo spallucce afferma che la famiglia è destinata a cambiare in continuazione, ad intraprendere percorsi nuovi e ritiene che il problema sia in realtà il fatto che manchi una “cultura della differenza”. Relativamente alle figure genitoriali, chi l’ha detto che come riferimenti servono una mamma (donna) e un papà (uomo)? Sono – a suo dire – ruoli che vanno continuamente rinegoziati e, a proposito dei bambini: “quelli che si ha paura di traumatizzare”, immaginandoli allevati da una coppia di due maschi o di due femmine, Pazzini così conclude: “I bambini sono quelli più predisposti perché hanno meno stereotipi e pregiudizi. Sono più pronti”. Se lo dice lui…
L’assessore alla cultura e all’istruzione di Cattolica (Rimini), la preside Anna Sanchi, si limita a prendere atto che nella sua scuola vede e incontra… di tutto un po’: “famiglie tradizionali, sposate con uno o due figli, famiglie senza figli (? ndr), famiglie divise, divise in accordo, con una presenza costante del ruolo di padre e di madre, famiglie che usano i figli come un pacchetto, famiglie miste culturalmente, famiglie completamente di origine non italiana, con tante problematiche e tante specificità”. “Non posso dire se è meglio o peggio” (un tipo di famiglia anziché un’altra), afferma in seguito, ma dal grande e variegato osservatorio che è l’Istituto comprensivo che dirige, il suo intervento appare un po’ meno “iperuranico” di quello di Michele Pazzini (che saprà tutto su LGBT ma evidentemente conosce poco il grave disagio vissuto da tanti bambini e adolescenti di oggi…), e dice che “se i genitori non sono capaci di gestire il loro tipo di famiglia i problemi ci sono”. E allora, forse… se la famiglia soffre, bisogna impegnarsi per trovare una terapia.
Decisamente diversa l’altra posizione emersa nel corso del dibattito televisivo: analizzata la realtà variegata della “famiglia” d’oggi e le problematiche ad essa legate, fatta la diagnosi, dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad una situazione di sofferenza (e dunque – inutile negarlo – di “malattia”) per cui bisogna affrettarsi a cercare delle cure.
Chiarissimo, a questo proposito, l’intervento dello psicologo Alessandro Meluzzi, che sostiene con forza che “non dobbiamo guardare (all’attuale situazione ndr) con una rassegnazione passiva, ma come ad un fenomeno critico da fronteggiare”. Della stessa idea l’onorevole Carlo Giovanardi: “Di fronte ai problemi collegati alla disaggregazione della famiglia, se c’è una patologia perché ho la febbre a 38, se la famiglia è malata o, come ha detto Cameron, siamo di fronte allo sfacelo della famiglia, il problema è che bisogna vedere se si lavora per far tornare la temperatura a 36,37 o se invece si va nella direzione di un’ulteriore disaggregazione”.
Se – come hanno indistintamente sottolineato tutti gli ospiti – la famiglia è una risorsa, un mattone fondamentale per l’intera società, è allora necessario chiedersi quanto teniamo alla sua “salute”. Solo in questo modo ciascuno, per i ruoli che svolge, si sentirà personalmente coinvolto a prestare aiuto laddove serve o a tentare di prevenire situazioni di disagio.
Meluzzi ha concluso il suo intervento sottolineando come la Chiesa faccia bene a testimoniare con forza il valore della famiglia “tradizionale”, anche se è messa in discussione dai numeri, dalle statistiche; numeri e statistiche che comunque non sono mai stati e non sono in grado di dire ciò che è bene e ciò che è male.
Siamo d’accordo con lui. Anche noi continueremo a dare risalto alle tante piccole storie di positività, che sono segno di speranza; segno che, in famiglia, con l’impegno di tutti è ancora possibile “stare bene”. Non taceremo sulle sofferenze dei più deboli: dei bambini e dei giovani che troppo spesso non hanno voce. Ci impegneremo perché le famiglie vengano tutelate ed aiutate. Non smetteremo di denunciare gli attacchi che quotidianamente vengono sferrati alla “famiglia”, così com’è concepita dalla Costituzione, in nome di desideri che si vorrebbe diventassero legge.
E siccome “cattolico” significa “universale”, desideriamo precisare che ci sta a cuore la salute della famiglia di qualsiasi continente, di qualsiasi latitudine. È questa la ragione per cui chiediamo con forza ai politici dei nostri Comuni, delle Province, delle Regioni, dello Stato… ma anche dell’intera Europa, ma anche del mondo, che si prendano a cuore e difendano sul serio la famiglia, intesa come istituzione naturale ed incontro amorevole e fecondo tra un uomo e una donna. Non possiamo dunque accettare che il concetto di “famiglia” venga usato – sarebbe meglio dire distorto – allo scopo, bieco, di ottenere o aumentare i consensi.
Non abbiamo padroni, non dobbiamo compiacere nessuno e, da sempre, ci piace parlare chiaro. Non si fosse capito, il riferimento è ai recenti discorsi del presidente Obama o del neo presidente francese Hollande. Saranno anche in perfetta linea con l’attuale politically correct, ma a sentire ciò che hanno detto è chiaro che né l’uno né l’altro vogliono bene alla famiglia. Né l’uno né l’altro desiderano il suo bene.

(MaLa, da: Luisella Saro, Cultura Cattolica, 12 maggio 2012)