lunedì 25 aprile 2011

Finalmente una voce autorevole contro lo spot Ikea. Ma i “soliti” non ci stanno!

La pubblicità dell'Ikea ritrae due uomini fotografati di spalle che si tengono per mano e sopra lo slogan: «Siamo aperti a tutte le famiglie». In basso, sotto la foto, compare invece una scritta dove il colosso svedese spiega: «Noi di Ikea la pensiamo proprio come voi: la famiglia è la cosa più importante». E sottolinea: quello «che cerchiamo di fare è rendere più comoda la vita di ogni persona, di ogni famiglia e di ogni coppia, qualunque essa sia».
«Contrasta a gamba tesa contro la nostra Costituzione, offensivo, di cattivo gusto. L'Ikea è libera di rivolgersi a chi vuole e di rivolgere i propri messaggi a chi ritiene opportuno. Ma quel termine "Famiglie" è in aperto contrasto con la nostra legge fondamentale che dice che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio, in polemica contro la famiglia tradizionale, datata e retrograda». Lo ha affermato il sottosegretario alla Famiglia Carlo Giovanardi intervenendo al programma KlausCondicio di Klaus Davi.
Alla domanda se il Governo ricorrerà al Giurì di autodisciplina pubblicitaria, Giovanardi ha risposto: «No, ma a noi piacerebbe una campagna pubblicitaria che dicesse "siamo aperti all' intera comunità", nel senso che i clienti di una multinazionale sono uomini, donne, anziani, giovani, senza preclusioni di nessun tipo. Ma diverso è attaccare la Costituzione italiana con tale violenza. Spero che l'Ikea non utilizzi più quell'annuncio per le prossime aperture annunciate in varie città». Il sottosegretario ha poi giudicato «grave e di cattivo gusto che una multinazionale svedese, a cui il nostro Paese sta dando tanto in termini di disponibilità e che sta aprendo centri commerciali a manetta, venga in Italia e dica agli italiani cosa devono pensare polemizzando contro la loro Costituzione. Credo che molti clienti dell'Ikea non lo riterranno gradevole». Nella pubblicità, tuttavia, non c'è alcun riferimento alla Costituzione o alla legislazione italiana. Sollecitato infine sulla frase dell'Ikea «Noi portiamo la giustizia sociale», Giovanardi ha spiegato che «la giustizia sociale è quella di dare un occhio di riguardo a coloro i quali, oltre ai diritti, si assumono anche dei doveri».
Non sono tardate le risposte e le levate di scudi. «L'ineffabile sottosegretario alla Famiglia del governo del bunga bunga, Carlo Giovanardi, ci rifila la sua filosofia moraleggiante il giorno prima di Pasqua», attacca Franco Grillini, responsabile Diritti civili e associazionismo dell'Italia dei Valori, . «Addirittura- aggiunge- Giovanardi invita l'azienda a ritirare la sua pubblicità con intento volutamente censoreo e con buona pace del presunto spirito liberale del suo capo». Con una battuta al vetriolo attacca pure Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia: «Nemmeno alla vigilia di Pasqua Carlo Giovanardi, sottosegretario alla famiglia, sa contenere la sua frustrazione per il fatto che la sua delega sulla famiglia non ha a disposizione nemmeno un euro». Al cianuro anche la posizione dei radicali: «Il (molto) sottosegretario alla Famiglia Giovanardi ha dichiarato, letteralmente, che Ikea è contro la legge, anticostituzionale e manda messaggi violenti, solo perché ha promosso una pubblicità con due ragazzi che si tengono per mano», dice Sergio Rovasio, segretario Associazione Radicale Certi Diritti, che aggiunge: «Frasi del genere potevamo sentircele dire da un qualche ministro del governo teocratico iraniano, o da un alcolizzato di osteria, non certo da un rappresentante del Governo italiano»

(Fonte: Corriere della sera, 23 aprile 2011)


Pedofilia nella Chiesa. Un’analisi a mente fredda

C’è stato un periodo in cui ogni giorno veniva pubblicato dai giornali un nuovo caso di pedofilia nella Chiesa. “Nuovo”, si fa per dire: si trattava il più delle volte di casi risalenti a 40-50 anni fa, casi spesso già noti e chiusi dal punto di vista giudiziario, in qualche caso con i diretti responsabili addirittura scomparsi. Era più che evidente che si trattava di una campagna ben orchestrata per mettere in difficoltà la Chiesa. Quello che più ha colpito è che si chiedeva non tanto la condanna dei responsabili (come detto, spesso già condannati e in qualche caso defunti), quanto piuttosto le dimissioni dei Vescovi e dello stesso Papa, accusati di aver coperto i responsabili, di aver occultato i casi, di aver insabbiato le pratiche… Che si trattasse di una congiura risulta dal fatto che gli stessi organi di informazione, che tanto si sono indignati per gli abusi perpetrati dal clero, non sembrano molto interessati a casi simili che vedono coinvolte altre categorie di persone.
Nella campagna dello scorso anno non ha giocato alcun ruolo il fattore economico, come era invece accaduto in precedenza negli Stati Uniti, dove la denuncia di abusi era divenuta un vero e proprio business (recentemente l’avvocato Donald H. Steier ha condotto un’inchiesta, con la quale si dimostra che circa la metà delle denunce di abusi commessi da sacerdoti negli Stati Uniti era interamente falsa o perlomeno enormemente esagerata). Lo scandalo del 2010 è stato esclusivamente di tipo mediatico: non si è trattato tanto di nuove denunce di tipo legale, finalizzate a ottenere un risarcimento, quanto piuttosto di una campagna stampa tendente a divulgare alcuni vecchi casi, allo scopo di dimostrare le “connivenze” dell’establishment ecclesiale.
Come ha reagito la Chiesa? Beh, diciamo che si è fatta trovare piuttosto impreparata e non ha saputo sempre rispondere in maniera ferma alle accuse spesso strumentali che le venivano rivolte. Sicuramente un certo “senso di colpa” per i reali abusi compiuti dal clero e per una effettiva sottovalutazione del fenomeno le ha impedito di reagire con lucidità agli attacchi. I sociologi parlerebbero di una “crisi di panico”, che ha determinato, almeno a livello mediatico, reazioni talvolta impacciate o un tantino superficiali (come la ripetizione, a mo’ di mantra, di alcuni slogan, quali “trasparenza”, “tolleranza zero”…). Bisogna però riconoscere che i provvedimenti canonici che, dopo qualche tentennamento, sono stati adottati sono stati tutti molto seri e ponderati.
A questo proposito vanno segnalate le nuove Norme sui delitti più gravi, pubblicate nel luglio 2010. Innanzi tutto, bisogna notare che i “delitti più gravi” non sono solo gli abusi sessuali, ma sono tutti quei delitti di cui si occupa la Congregazione per la dottrina della fede (CDF): delitti contro la fede (eresia, apostasia e scisma), i delitti contro la santità dei sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza, il delitto di attentata ordinazione di una donna e i delitti più gravi contro i costumi. Questi ultimi, nelle nuove norme sono due: «1° il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni; (…) 2° l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i quattordici anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento». Per tali delitti è prevista una pena proporzionata alla gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione. La prescrizione per i delitti riservati alla CDF è stata elevata a 20 anni (nel caso degli abusi su minori, essa decorre dal giorno in cui la vittima compie 18 anni). È prevista anche la possibilità di procedere per via amministrativa (decreto extragiudiziale). Viene confermato il segreto pontificio per tutti questi tipi di cause. Già nell’aprile 2010, inoltre, era stata resa nota una Guida alla comprensione delle procedure di base della CDF riguardo alle accuse di abusi sessuali, nella quale, a proposito della dibattutissima questione di un’eventuale denuncia dei colpevoli alla magistratura, si precisa: «Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte».
La Chiesa però non ha reagito allo scandalo pedofilia soltanto sul piano giuridico, emanando norme più restrittive, ma anche su un piano spirituale e pastorale. Ed è soprattutto su questo piano che si è mosso il Santo Padre Benedetto XVI (il quale — giova ricordarlo — da Prefetto della CDF si era adoperato per l’avocazione alla Santa Sede di tutte le cause di abuso su minori). In tutti i suoi numerosi interventi il Papa non si è mai messo a polemizzare con i mezzi di comunicazione per le notizie, vere o false, che riportavano; non si è mai difeso dalle ingiuste accuse che gli venivano mosse; non ha mai gridato al complotto; non si è mai lasciato andare ad atteggiamenti di vittimismo; ma ha sempre invitato a cogliere nello scandalo un’occasione di conversione e di rinnovamento spirituale per la Chiesa. Tra tali innumerevoli interventi, ne vanno ricordati in modo particolare due: la lettera ai cattolici d’Irlanda (19 marzo 2010) e il discorso natalizio alla Curia Romana (20 dicembre 2010).
La lettera alla Chiesa irlandese è stata presentata dalla stampa come un invito a denunciare i preti pedofili alla magistratura. In realtà, il Papa, rivolgendosi a Vescovi, ha detto loro: «Continuate a cooperare con le autorità civili nell’ambito di loro competenza» (n. 11) e, rivolgendosi ai sacerdoti responsabili di abusi, li ha ammoniti: «Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti» (n. 7). Ma nessuno si è preoccupato di mettere in luce il carattere eminentemente pastorale della lettera. Benedetto XVI propone alla Chiesa irlandese «un cammino di guarigione, di rinnovamento e di riparazione», e la invita a «riconoscere davanti al Signore e davanti agli altri, i gravi peccati [si noti che il Santo Padre parla di “peccati”, non di “reati”] commessi contro ragazzi indifesi» (n. 2). Anche ai sacerdoti e ai religiosi colpevoli propone un cammino di preghiera e di penitenza, invitandoli a non disperare della misericordia di Dio (n. 7). A tutti i fedeli il Pontefice chiede di offrire, per un anno intero, le penitenze del venerdì (digiuno, preghiera, lettura della parola di Dio, opere di misericordia) per «ottenere la grazia della guarigione e del rinnovamento per la Chiesa in Irlanda» (n. 14). Li incoraggia inoltre a riscoprire il sacramento della Riconciliazione e ad attendere all’adorazione eucaristica riparatrice (ib.).
Ma è soprattutto nell’allocuzione natalizia ai prelati della Curia Romana che Benedetto XVI ha dato una lettura tutta spirituale dello scandalo in cui la Chiesa è stata coinvolta durante l’Anno sacerdotale. Lo ha fatto citando una visione di sant’Ildegarda di Bingen, nella quale compare una donna — la Chiesa — col volto cosparso di polvere e il vestito strappato. Il Santo Padre ha così commentato la visione:
«Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato — per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere».
Come si può vedere, un approccio diverso sia da quello di chi è preoccupato solo di difendere la Chiesa dagli attacchi dei media, sia da quello di chi pensa di risolvere il problema unicamente con i processi, canonici o civili che siano. Un approccio spirituale che ci permette di vedere anche nelle situazioni peggiori un’occasione di purificazione e di rinascita. Dice sant’Ambrogio, riferendosi alle prove della Chiesa: «Abluitur undis, non quatitur» (Lettera 2); le onde della tempesta, nonché scuotere la barca, la lavano. Ciò che, agli occhi del mondo, potrebbe apparire come il colpo di grazia che mette a morte la Chiesa, si rivela quale autentico “colpo di grazia” che le ridà vita.

(Fonte: Senzapelisullalingua.it, 23 aprile 2011)



Padre Cantalamessa e la dottrina cattolica sulla Provvidenza…

«Terremoti, uragani e altre sciagure che colpiscono insieme colpevoli e innocenti non sono mai un castigo di Dio. Dire il contrario, significa offendere Dio e gli uomini».
Lo afferma padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, nell’omelia alla presenza del Papa in Vaticano in occasione della celebrazione della liturgia del Venerdì Santo. Le parole del frate cappuccino sono una chiara risposta alle affermazioni del vice direttore del Cnr, Roberto de Mattei, cattolico tradizionalista, il quale ai microfoni di Radio Maria, commentando lo tsunami che ha colpito il Giappone lo scorso 11 marzo, aveva affermato che il sisma andava letto come un castigo divino in rapporto al peccare degli uomini; e aveva precisato: «Gli attacchi contro di me sono un tipico esempio della dittatura del relativismo denunciata da Benedetto XVI. Io non ho fatto altro che riaffermare la tradizionale dottrina cattolica sulla provvidenza. Come insegnano san Tommaso e sant’Agostino: nell’universo non accade nulla che non sia voluto, o almeno permesso, da Dio per precise ragioni. E tra di esse non è da escludere l’ipotesi di un castigo divino, anche se in materia non vi è certezza». Il numero due del Consiglio nazionale delle ricerche, De Mattei, ha poi ribadito il 20 aprile il suo concetto in un nuovo intervento a Radio Maria: «La teologia cristiana insegna che quando è un popolo a soffrire una grande catastrofe si tratta spesso di un castigo che serve a scontare i suoi peccati. Le sciagure collettive non sono permesse da Dio solo per scontare i nostri peccati sociali, ma anche per ricordarci la nostra precarietà o per purificarci attraverso la sofferenza, ma sempre per ottenere un bene maggiore». E per sottolineare «il castigo di Dio», de Mattei riporta un episodio del terremoto di Messina. «Nella mattina di domenica del 27 dicembre 1908 erano apparse nella città strisce con la scritta “Gesù Cristo non è mai esistito”, e per dimostrare l’empia affermazione, alla sera, in un pubblico dibattito era seguita una processione blasfema che era giunta fino alla spiaggia: un crocifisso era stato buttato a mare tra lazzi e oscenità». Poche ore dopo, all’alba del 28 dicembre, Messina venne distrutta da un terremoto e dal successivo maremoto che provocò circa 80 mila morti. De Mattei cita inoltre la distruzione di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale, preannunciata alla santa Faustina Kowalska «per i peccati che in essa si commettevano, soprattutto l’aborto».
Pur non condividendo in toto tale tesi, Padre Cantalamessa chiarisce tuttavia che tali catastrofi «sono però un ammonimento: in questo caso, l’ammonimento a non illuderci che basteranno la scienza e la tecnica a salvarci. Se non sapremo imporci dei limiti, possono diventare proprio esse, lo stiamo vedendo, la minaccia più grave di tutte», dando in questo passaggio un accenno anche alla vicenda delle centrali nucleari di Fukushima. «La globalizzazione – ha detto ancora Cantalamessa – ha almeno questo effetto positivo: il dolore di un popolo diventa il dolore di tutti, suscita la solidarietà di tutti. Ci dà occasione di scoprire che siamo una sola famiglia umana, legata nel bene e nel male. Ci aiuta a superare le barriere di razza, colore e religione».
Questi fatti contingenti ─ aggiungiamo noi ─ devono soprattutto essere un ammonimento a cogliere l’invito di Dio a cambiare mentalità, a dare una svolta definitiva all’andazzo desolante di leggere tutto in chiave “fatalista” e materialista, prescindendo da Dio, scordandoci che l’uomo, con tutto ciò che lo riguarda, è stato creato per “personificare” l’immagine del suo creatore.


(Fonte: Agerecontra.it, 23 aprile 2011)


La Risurrezione è un fatto

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato». La Chiesa è nata dalla costatazione di un fatto: Gesù crocifisso morto e sepolto, è risuscitato. E la comunità cristiana continua ad essere costruita sul fondamento di questo fatto. Essa non è raccolta primariamente attorno all’insegnamento religioso di un maestro; non è in primo luogo la comunità di coloro che accettano di vivere secondo un determinato codice morale. Più semplicemente, è la comunità di coloro che credono alla narrazione del seguente fatto: Gesù è risorto.
È un fatto realmente accaduto nella storia - un fatto storico - di cui gli Apostoli sono testimoni e non certo gli inventori. È un fatto: non un mito o un simbolo creato per comunicarci significati religiosi, o per stimolarci ad impegni etici.
Nello stesso tempo però la risurrezione di Gesù non è stato un semplice ritorno alla vita che viveva prima della morte, alla sua vita terrena. Ma nella sua risurrezione, Cristo anche col suo corpo è entrato nella gloria dell’esistenza del Padre e posto nella sua stessa condizione. Come di dice l’apostolo Paolo, Egli «si trova … assiso alla destra di Dio». L’umanità del Verbo incarnato, il suo corpo crocefisso e morto è divenuto partecipe della stessa vita di Dio.
Riflettiamo bene su questo fatto. Nella sua umanità in tutto simile alla nostra, nella sua carne fragile e mortale come la nostra, Gesù è divenuto partecipe della vita eterna di Dio: questo è ciò che è accaduto nella risurrezione. È dunque la più grande “trasformazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova. Non per niente durante questi giorni pasquali sentirete spesso ripetere: “Cristo risorto non muore più; la morte non avrà più nessun dominio su di lui”.
L’apostolo Paolo insegna che esiste una condivisione vera e propria da parte dell’uomo della condizione di Cristo risorto. Con Cristo ed in Cristo siamo resi capaci anche noi, così come tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo, e siamo chiamati ad entrare e a compiere quel “salto” decisivo dentro alla dimensione di vita nuova di cui Cristo risorto è sorgente e causa.
Con la sua risurrezione Egli ha dato inizio ad una nuova umanità, ad un modo nuovo di essere e di vivere; una novità che penetra continuamente dentro tutto il mondo del peccato, lo purifica e lo trasforma, e lo attira a Sé.
Questa purificazione e trasfigurazione avviene concretamente mediante la Chiesa: mediante la fede alla predicazione del Vangelo ed i sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucarestia. La presenza della Chiesa impregna la vita dell’uomo e l’universo intero della potenza trasformante del Signore risorto, comunicando a chi crede la stessa vita divina.
Pertanto, «la Chiesa può, così, essere concepita come il “Corpo di Cristo” e l’organo congeniale attraverso cui il Risorto esercita la sua signoria e dispiega la sua forza vitale. Essa diventa, in questo senso, la comunità di Pasqua nel mondo» [L. Scheffczyk].
È questo che la Chiesa porta nel mondo: la forza di Cristo risorto, che trasforma la nostra povera umanità devastata dal peccato. Ed è questa la sorgente da cui scaturisce la capacità, il dovere ed il diritto della Chiesa di educare, e la sua legittimazione a farlo.
Dal fatto della Risurrezione di Gesù, che dispiega la sua forza trasformante attraverso la Chiesa, nasce il bisogno per il credente di testimoniare dentro ogni ambito della vita la signoria del Risorto: «e ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio».
Oggi più che mai, i discepoli del Signore sono chiamati a fuggire da un rinunciatario ripiegamento in se stessi e a collegare continuamente la proposta evangelica coi bisogni più profondi del cuore umano. E le nostre città oggi hanno particolare bisogno di testimoni del Signore risorto, perché hanno bisogno di ritrovare quel coraggio di esistere senza del quale non possono non avviarsi sul viale del tramonto, e non congedarsi dalla storia.

La Risurrezione del Signore è la grande forza che Dio, ricco di misericordia, ha immesso nella storia di ogni uomo e di tutta l’umanità. È la risurrezione corporea di Gesù che dà all’uomo il diritto di sperare: sempre e comunque.


(Fonte: Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, Labussolaquotidiana.it, 23 aprile 2011)


mercoledì 20 aprile 2011

La Settimana Santa è seguire una Persona

La liturgia della Settimana Santa, e nello stesso tempo la vita cristiana, vuol dire seguire Cristo nel suo culmine, l’offerta di sé al padre Onnipotente per salvare l’umanità dal peccato. Seguire i riti della Settimana Santa vuol dire seguire le orme di Cristo. Non si possono seguire i riti e nello stesso tempo non vivere quello che Cristo stesso è, cioè seguire la sua persona.
La Settimana santa, che è chiamata così perché è il cuore di tutto l’anno, vuol dire che Gesù non è un’idea ma è una persona da seguire. E il fatto che noi scorriamo attraverso la liturgia i momenti drammatici, conclusivi della vicenda terrena di Gesù, vuol dire che per ottenere da Cristo la vita bisogna seguirne le orme ed essere così guariti, come dice san Pietro: “Egli ci ha dato l’esempio perché ne seguiamo le orme”. Non è soltanto un messaggio o uno sguardo esteriore ma significa guardare Cristo e unirsi a lui nella medesima offerta totale nel sacrificio di sé.
Questo comincia già con la Domenica di Passione, chiamata comunemente delle Palme, ma che è domenica di Passione perché è il primo termine del binomio, il secondo è la domenica pasquale. La domenica di Passione sta alla domenica di Pasqua come la morte di Cristo sta alla sua Glorificazione. Sin dall’antichità il racconto della Passione ha impressionato profondamente la comunità cristiana e viene considerato un unicum che non si può frazionare. Viene proposto già alla domenica perché la domenica della Passione è la domenica che introduce Cristo non solo in Gerusalemme, ma anche nel Sacrificio. Nella liturgia bizantina l’ingresso in Gerusalemme viene evocato al momento dell’offertorio, quando si portano i doni del pane e del vino per l’eucarestia; si fa una processione che nel simbolismo orientale sta ad indicare l’ingresso di Cristo in Gerusalemme, perché Cristo è entrato a Gerusalemme per dare compimento al suo sacrificio.
E’ anche il senso del trionfo delle palme, perché la palma vuol dire vittoria: la vittoria è quella del martirio, i martiri vengono rappresentati in genere con la palma. Cristo è il martire per eccellenza, entra nel santuario per dare testimonianza dell’offerta totale di sé, è l’immolazione sacrificale per i peccati del mondo.
Giustamente quindi la Chiesa ha trattenuto nella domenica – e non solo il venerdì - che precede la Resurrezione la meditazione sulla Passione di Cristo, che così è davanti allo sguardo di tutta la Chiesa. La Passione del Signore, dice la preghiera di colletta della scorsa domenica, deve portare a vivere e agire secondo la carità che spinse il figlio di Dio a dare la vita per noi. Quindi guardare a Cristo significa proprio questo: vivere e agire in quella carità che lo spinse a dare la vita per noi. Per fare questo c’è bisogno del suo aiuto, della sua grazia. Anche la colletta delle Palme ha un significato simile: si prega il Signore onnipotente che avendoci dato come modello Cristo nostro salvatore che si è fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, noi possiamo sempre aver presente l’insegnamento della sua Passione per partecipare alla gloria della Resurrezione. Qui si dimostra la natura esemplare della Passione di Cristo, ma non solo. Non è solo un esempio da seguire ma anche una grazia da ricevere, perché attraverso la sua Passione, la sua efficacia, noi siamo fatti partecipi della gloria, della Resurrezione.
Ancora una volta, come dice il Papa nel libro “Gesù di Nazaret”, si rivela che l’onnipotenza di Dio, il suo essere vicino al mondo, il suo salvare il mondo, non passa attraverso i criteri mondani o la potenza o la forza del mondo, ma attraverso quella debolezza, quella discrezione, quella vicinanza che è propria di un essere che è libero e ci ha creati liberi, che vuole vincere convincendoci con il suo amore.
Questo è il senso della apertura della Domenica delle Palme e della Settimana Santa, che possiamo descrivere come una grande sinfonia, usando un linguaggio musicale. Si passa dalla gioia dell’ingresso in Gerusalemme alla tristezza della Passione per poi tornare, dopo la gioia della mistica cena, all’angoscia del Getsemani, poi ancora al dramma che sfiora quasi la tragedia del Venerdì Santo, la morte di Cristo che sarebbe una tragedia se Cristo non fosse resuscitato; e quindi poi alla speranza, l’attesa del sabato e alla gioia prorompente, ma tutta profonda e interiore, della Domenica di Resurrezione.
Il triduo pasquale richiama i tre giorni promessi da Cristo, in cui avrebbe sofferto, sarebbe stato crocifisso, sepolto, però al terzo giorno sarebbe resuscitato. Il triduo, il terzo giorno visto come il giorno creato dal Signore, terzo giorno che coincide con l’ottavo della Creazione: il primo giorno dopo il sabato, ovvero dopo i sette giorni della Creazione, l’ottavo è la nuova Creazione.
All’interno di questo grande affresco si colloca il triduo pasquale che ha un anticipo il Giovedì santo, perché il triduo pasquale strettamente inteso è venerdì, sabato e domenica. Però nella liturgia latina c’è un inizio il giovedì sera con la commemorazione della Cena del Signore, per cui i tre giorni vanno dal vespro del giovedì fino al vespro della domenica. E’ l’unico momento dell’anno in cui si celebra una messa per commemorare la Cena del Signore, perché – contrariamnete a quanto molti credono - la messa non commemora l’ultima cena. La messa è la ripresentazione del sacrificio di Cristo sulla croce e quindi la cena di Cristo, l’ultima cena, in realtà non è più celebrata perché i gesti che Gesù ha compiuto in quella cena sono stati trasfigurati nell’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla Croce.
Una nota va dedicata alla lavanda dei piedi, che si ricorda nella messa del Giovedì santo. Solo Giovanni parla della lavanda dei piedi, con cui vuole sottolineare che quanto Cristo ha fatto e ha detto, cioè l’eucarestia ovvero l’offerta di sé, ha un simbolo nel gesto della purificazione compiuta. E’ un servizio che egli fa perché vuole indicare che l’eucarestia è un culto che implica un servizio, l’eucarestia deve essere obbedita, non può essere creata, inventata, manipolata. Bisogna obbedire. Siamo in un’epoca di grande anarchia liturgica, invece proprio la lavanda dei piedi è un atto sacro che è tranquillamente speculare a quello della consacrazione del pane e del vino. Gesù ha voluto dire: guardate che dovete lasciarvi lavare i piedi da me, dovete lasciarvi fare da me, non dovete mettere voi davanti a me. Lo ha detto chiaramente quando Pietro gli disse che giammai si sarebbe fatto lavare i piedi, e sappiamo come Gesù gli ha risposto. Aldilà di riduzionismi di natura caritatevole o sociologica, la lavanda dei piedi ha un profondo significato sacramentale, richiama che il sacramento dell’eucarestia è il sacramento dell’obbedienza dell’uomo a Dio perché Cristo ha obbedito al padre facendosi – come lui dice – battezzare con un battesimo di sangue. Battesimo che a nessuno è dato di poter ricevere se non lo vuole, se non lo decide lui, il Signore. E quindi ogni sacramento non è un bene disponibile, nemmeno da parte della Chiesa. La Chiesa non dispone dei sacramenti, li amministra. Tantomeno un prete o un laico può immaginare di manipolare i sacramenti. Egli deve servirli – servire la messa, si diceva una volta – deve servirli come Cristo ha servito i discepoli.
Poi il Venerdì santo è dedicato tutta alla Passione di Cristo, non c’è nemmeno la messa. Già la messa del Giovedì santo si celebra solo in Occidente, ma si è introdotta come un momento commemorativo, mentre la vera grande messa è quella della veglia pasquale, l’unica messa che ricorda tutto il mistero pasquale: dall’eucarestia alla morte sulla croce, alla sepoltura, alla Resurrezione. Il Venerdì santo non c’è messa ma è tutto dedicato alla commemorazione liturgica attraverso le preghiere, il centro è l’adorazione della Croce dopo aver meditato sulla Passione secondo San Giovanni.
Il Sabato santo è un giorno senza alcuna liturgia perché dedicato alla meditazione e all’attesa. Meditazione su Cristo sepolto e attesa della sua Resurrezione. E’ il giorno del silenzio dove Dio parola tace. Ma parla attraverso il figlio che è sceso fino nel profondo della terra per mostrare la sua condivisione con la condizione umana. Morto e sepolto. Ed è proprio colui che parola eterna si è incarnato, venuto nella nostra carne, sceso in terra, che è sceso anche sotto terra, “agli inferi” come dice il Credo apostolico. Cioè è sceso laddove secondo la tradizione ebraica c’erano le ombre dei morti, coloro che l’avevano preceduto ma non erano entrati in Paradiso perché il Paradiso era serrato dopo la cacciata di Adamo. Cristo, morendo, ha riaperto il Paradiso ed è sceso agli inferi: ha preso per mano i progenitori Adamo ed Eva, e poi tutti i patriarchi e tutti i giusti che, pur essendo stati giusti, non avevano potuto entrare nel Paradiso perché chiuso, Paradiso che invece la morte di Cristo ha riaperto.
Cristo scende fino agli inferi, un mistero poco conosciuto anche perché non ha una sua rappresentazione liturgica; ce l’ha iconografica ma non liturgica. Il Sabato santo è la discesa dell’anima di Cristo fino agli inferi, mentre il corpo rimane sepolto in attesa del ricongiungimento anima, corpo e spirito per risorgere. Questo viene celebrato nella notte di Pasqua quando tanta gente (celebrare vuol dire numerosi) accorre per ricordare, per vivere l’avvenimento che certamente è avvenuto nella storia, come ricorda Benedetto XVI, ma che ha superato la storia. La resurrezione di Cristo è un avvenimento storico ma nello stesso tempo ha superato la storia, ha inaugurato una nuova storia, la storia di Dio aperta al compimento futuro. E quindi viene celebrata la veglia attraverso alcuni elementi fondamentali anche per la stessa natura: il fuoco, la luce, l’acqua, il vino, il pane, l’olio: tutti i sacramenti entrano in gioco la notte di Pasqua per indicare che Cristo ha fatto nuove tutte le cose. Attraverso il rinnovamento delle cose, anche quelle materiali, fa passare la potenza della sua resurrezione.
Dall’efficacia della Croce alla potenza della Resurrezione nella notte della domenica. Efficacia e potenza, sono due termini piuttosto dimenticati oggi perché nella pastorale e nella catechesi ormai Cristo è ridotto a un’idea, a un progetto, addirittura a un sogno, come si può leggere in tanti titoli, anche ecclesiastici. Ma Cristo non è un progetto e neanche un sogno, Cristo è una persona, un fatto presente con il quale noi siamo chiamati a vivere. Non solo a condividere un’idea o seguire un esempio, ma vivere per ricevere una vita, che noi chiamiamo con una parola tradizionale: Grazia, cioè una vita donata gratis. A motivo dell’offerta sacrificale Cristo ha reso efficace ogni offerta, ogni pur minima azione umana, e quindi da questa efficacia si passa alla potenza della Resurrezione perché se Cristo non fosse risorto la nostra fede non esisterebbe, come ricorda l’apostolo Paolo.
Quindi il prorompere del fuoco all’inizio della veglia indica proprio questa potenza divina che dalla Creazione passa attraverso la liberazione di Israele dall’Egitto, giunge fino alla Resurrezione e alla Pentecoste, il fuoco dello Spirito Santo. E poi naturalmente tutto è meditato con quella trilogia di lettura-salmo-preghiera che caratterizza la liturgia della Parola, la lunga liturgia della Parola della notte pasquale. Si passa quindi all’acqua – terza parte della veglia - che distrugge il peccato e regala una vita che salva, che rigenera. E dalla rigenerazione del Battesimo si passa al quarto momento della veglia che è l’Eucarestia, il Signore risorto che con le sue cicatrici si mostra spezzando il pane e consacrando il vino. E quindi tutti sono riconciliati e tutti sono veramente gioiosi, quella gioia che l’exultet, questo celebre inno che apre la veglia pasquale, fa risalire al cielo, agli angeli e a tutte le schiere degli angeli per la Resurrezione che viene partecipata anche ai mortali. In un certo senso in questa unione di angeli e uomini si riprende anche il tema della notte di Natale, il Gloria in excelsis deo.
Ecco così che si arriva alla domenica di Pasqua che vede le donne di primo mattino andare al sepolcro, trovarlo vuoto, non poter compiere, pur premurose, quell’atto di compassione che non avevano potuto fare per l’imminenza della festa il venerdì al tramonto. Ma quella premura questa volta è stata preceduta da un’altra premura sorprendente, quella del Padre onnipotente che ha visto il sacrificio del Figlio e gli ha restituita una vita più bella e più grande, come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis: la Resurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma è una vita più grande, una vita che nasce dall’amore. Così la ragione eterna, il logos eterno coincide con l’amore indistruttibile, perché Dio è il logos, è il vero, è parola, è ragione, perché Dio è essenzialmente amore.
E così si chiude con il vespro di Pasqua il triduo, che poi ovviamente riecheggia per ben otto giorni nell’ottava di Pasqua e poi per 50 giorni fino alla Pentecoste, come se fosse – dice Sant’Agostino - una sola grande domenica.

(Fonte: Nicola Bux, Labussolaquotidiana, 15 aprile 2011)


Di quei sublimi misteri della Passione. La verità dei Vangeli.

A ridosso della Settimana Santa può essere utile la consapevolezza di farne anche la memoria di fatti realmente accaduti, proprio come ce li propongono gli evangelisti. Abbiamo già acquisito qualche punto fermo: l’ultima cena, l’arresto, il processo, la crocifissione, la morte e la sepoltura di Gesù avvennero durante il 14 nisan, un venerdì, giorno di parasceve. Il 15 nisan, Pasqua, quell’anno (il 33) cadeva casualmente di sabato. Il giorno ebraico è anticipato di 6 ore rispetto al modo di contare che utilizziamo noi: il 14 nisan andava perciò -grossolanamente - dalle 18 del giovedì alle 18 del venerdì, mentre il venerdì al tramonto era già “il giorno dopo”, cioè sabato.
Queste informazioni, circostanziate e prive di contraddizioni nei Vangeli, permettono di valorizzare al massimo le celebrazioni del Triduo pasquale, nelle ore esatte in cui avvennero i fatti, evitando di farsi distrarre da eventuali perplessità dovute a presunte inesattezze che non ci sono.
Qui ci occupiamo dei giorni immediatamente precedenti, anch’essi indagabili con dovizia di particolari. Giovanni scrive che «sei giorni prima di Pasqua» (Gv 12,1) ci fu un banchetto a Betania, a casa di Lazzaro, che Gesù aveva resuscitato dai morti. Essendo la Pasqua il 15 nisan, siamo qui nel giorno 9 nisan. Gesù aveva viaggiato un po’ per arrivare da Lazzaro: nel finale del capitolo 11 è spiegato che in precedenza si era allontanato da Gerusalemme, andando ad Efraim.
Il Vangelo di Giovanni, che non ha motivo di essere ritenuto scritto molti anni dopo gli altri, è l’unico a descrivere la resurrezione di Lazzaro: questo fatto è curioso, dal momento che proprio quest’episodio infiammò gli animi, sia di chi vedeva in Gesù l’atteso Messia, sia di chi, come Caifa, giunge alla deliberazione di fare di Gesù il capro espiatorio per salvare la nazione dalle pretese dei romani (Gv 11,47-50). È ben strano che l’episodio di Lazzaro sia rimasto fuori dall’annuncio dei vangeli fin dopo il 70 d.C. come crede chi attribuisce al Vangelo giovanneo una genesi così tardiva.
La logica cronologica di Giovanni è lineare: mentre il Sinedrio decide della morte di Gesù, approssimandosi la Pasqua Gesù muove verso la Città santa. Gesù non trasgrediva insulsamente la Legge ed è da ritenere improbabile che abbia camminato il sabato, il giorno 8 nisan.
Il 9 nisan del 33 è infatti domenica e Gesù giunge a Betania. Il “banchetto” (Gv 12,2-7) non è quello che seguirà a casa di Simone il lebbroso pochi giorni dopo, anche se anticipa lo scandalo suscitato dallo “spreco” di costoso olio versato per onorare Gesù da Maria, sorella di Lazzaro. Soprattutto Giuda se ne adonta, per “motivi umanitari”. La rabbia è tale che i capi del Sinedrio pensano di togliere di mezzo anche Lazzaro, un annuncio vivente della strana regalità di Gesù.
“Il giorno seguente” al modo antico inizia dalle 18 di quella stessa domenica sera. Più probabilmente è nella mattinata successiva (di lunedì) che Gesù entra trionfalmente in città. Il Papa Benedetto XVI ci offre nel suo ultimo libro bellissime riflessioni sulla regalità di Cristo (cap. 1), riferendosi a Genesi 49,10 a Zaccaria 9,9 ed al Salmo 118: secondo le Scritture! È il 10 nisan e non è “un caso”: secondo l’usanza è il giorno in cui si procura l’agnello per il sacrificio (Es 12,3), proprio nel decimo giorno. È impressionante come la storia e la profezia si diano appuntamento.
Gesù dunque giunge in città: se fosse stata ancora la nostra domenica, fu di sera; più logicamente è già il nostro lunedì, comunque è il 10 di nisan. È uno dei rari episodi descritti da tutti e quattro i vangeli (Mt 21,1; Mc 11,1; Lc 19,28; Gv 12,12). Da Betfage, approssimandosi alle mura, Gesù piange su Gerusalemme (Lc 19,28). Poi entra in città e va al tempio: Marco descrive come osservasse attentamente ogni cosa (Mc 11,11). Essendo tardi, Gesù andò a Betania, con i dodici. I vangeli seguono con precisione la “vita da pendolare” che contraddistingue Gesù da questo lunedì sera, entrando cioè nel 11 nisan, fino al giovedì dell’ultima cena, entrando nel 14 nisan.
Il giorno seguente, sempre 11 nisan, ma già nel nostro martedì, Gesù ritorna a Gerusalemme: è il primo transito presso il fico che viene maledetto (Mc 11,12). Arrivato al tempio, nell’area esterna a quella più sacra, Gesù scaccia i mercanti, ripetendo quanto aveva già fatto due anni prima (episodio descritto solo nel vangelo di Giovanni al capitolo 2). Questa purificazione del tempio è narrata dai tre sinottici (Mt 21,12; Mc 11,14 e Lc 19,45). Venuta la sera (Mc 11,19) Gesù ritorna a Betania.
La mattina dopo il drappello ritorna a Gerusalemme. Adesso siamo arrivati al mercoledì mattina, ed è il giorno 12 nisan. Ripassano davanti al fico seccato (Mt 11,20). Pietro, impressionato dal fatto del giorno precedente, ritorna sull’argomento (in un certo senso è “un’ingiustizia”: non era la stagione dei fichi). Gesù parla di perdono, per chi saprà perdonare.
Arrivati ancora al tempio, questo è giorno di grandi discorsi (Mt 21; Mc 11; Lc 20 e 21; Gv 12). In particolare qui Gesù parla diffusamente di escatologia. Il vangelo di Giovanni, sempre il più ”fresco” malgrado lo si voglia far passare per “teologico”, ci attesta che una voce in cielo si fa udire dai presenti: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò», mentre lo sconcerto serpeggia tra chi asserisce di aver sentito un tuono e chi un angelo. Gesù specifica: «Questa voce non è per me, ma per voi. Adesso si fa giudizio del principe di questo mondo; adesso il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. Ed io, quando sarò innalzato da terra, trarrò tutto a me» (Gv 12, 29-30). Segue un esplicito rimando al profeta Isaia.
Uscendo dal tempio, Gesù ne commenta le costruzioni imponenti (Mt 24,1; Mc 13,1). Ormai siamo arrivati all’ora attesa, di cui il Figlio è a conoscenza. Le parole usate sono inequivocabili. Hanno fatto imbufalire gli avversari. Gesù, prudentemente, in quelle ore si nasconde da essi (Gv 12,36).
Ritorna a Betania. È mercoledì sera, siamo già nel 13 nisan. I Vangeli sinottici sono concordi: «sapete che tra due giorni è la Pasqua» (Mt 26,2 e Mc 14,1) con Luca a specificare che si avvicinavano gli azzimi e la Pasqua (gli azzimi sono dal 14 nisan, quando si inizia a ripulire la casa da ogni traccia di pane lievitato). La cronologia sinottica è allineata a quella giovannea. Questa è la giornata in cui prende corpo la cospirazione, con il tradimento di Giuda (Mt 26,3-5; Mc 14,1-2; Lc 22,2) con l’ipocrita attenzione a non rovinare la festa, per paura del popolo.
È evidente qui la giustezza della doverosa presa di posizione di Benedetto XVI, nel suo recente libro, per separare chiaramente le responsabilità dei “capi” da quelle del “popolo” ebraico. Proprio per evitare le ire del popolo, i capi agirono clandestinamente, con un arresto ed un processo notturno, ed una tragica comparsata davanti a Pilato, inizialmente seccato per l’orario e per i modi: dato che per non contaminarsi i sinedriti non potevano entrare da Pilato, a lui toccava scomodarsi ed uscire (Gv 18,28-29). Gesù stesso fa notare agli accusatori che c’è distanza tra i “capi” ed il “popolo”: all’arresto fa presente che non è stato preso quando insegnava nel tempio alla luce del sole ed è stato invece arrestato come un malfattore, condotto in catene, nel cuore della notte.
Torniamo al 13 nisan. Gesù è a ancora Betania: nella serata di mercoledì mangia a casa di Simone il lebbroso (Mt 26,6 e Mc 14,3). Di nuovo urta lo “spreco” di soldi per onorare Gesù. Tutto lascia presumere che è la seconda volta in quattro giorni; probabilmente l’autrice del gesto potrebbe essere ancora la stessa donna. Si ripetono i mormorii, di chi non accetta la diseconomia, forse non soltanto da parte di Giuda; ma per lui in particolare questa volta è troppo: va dai sommi sacerdoti e concorda un prezzo per il tradimento, tra l’altro di gran lunga inferiore a quello dell’olio profumato. È il prezzo necessario per indennizzare il padrone in caso di morte accidentale causata ad un suo schiavo (Mt 26,14-16; Mc 14,10-11). La mattina dopo è giovedì. A sera inizia il 14 nisan.
È certo che il libro della Sapienza fu scritto qualche decennio prima di questi fatti: leggendone il capitolo 2, in particolare dal versetto 13 al 20, ci si possono fare davvero tante domande. E pregare.

(Fonte: Ruggero Sangalli, Labussolaquotidiana.it, 16 aprile 2011)


Avete sentito l'ultima di Odifreddi?

Sul suo seguitissimo blog ospitato dal sito di «Repubblica», Piergiorgio Odifreddi ha comparato la figura del fondatore di facebook a quella del fondatore del cristianesimo. Sproloquiando per l’ennesima volta su Gesù e sul cristianesimo, il matematico di Cuneo ha fatto l’ennesimo buco nell’acqua. Mi limito solo alla discussione di alcune sue tesi.
Per Odifreddi, «sembra che Gesù non avesse un gran senso dello humour: secondo san Giovanni Crisostomo, piangeva spesso, ma non rise mai».
Ora, se è vero che nei vangeli il verbo ridere non viene mai a lui riferito esplicitamente, nondimeno in questi testi ci sono altri verbi, che designano azioni di Gesù, che possono benissimo indicare implicitamente anche il suo ridere, come ha illustrato di recente Gianfranco Ravasi.
Ed Helmut Gollwitzer, in La gioia di Dio, si è concentrato sul vangelo di Luca rilevandovi la frequente presenza di verbi relativi alla gioia ed all’esultanza, anche di Gesù. Di certo egli interveniva alle feste (si pensi alle nozze di Cana) e, in generale, apprezzava il mangiare ed il bere, tanto che anche per questo motivo veniva stigmatizzato dai moralisti di quell’epoca: «È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori”» (Mt 11,19).
Che poi l’iconografia e la filmografia abbiano frequentemente rappresentato un Gesù sempre severo e ieratico (una lodevole eccezione è una splendida scena di The Passion di Mel Gibson, in cui il giovane Gesù e sua madre scherzano e ridono), non deve far cadere nel riduzionismo odifreddiano.
Veniamo a Giovanni Crisostomo e ad altri teologi che hanno negato la possibilità del riso di Gesù: essi hanno dimenticato che Cristo ha assunto tutto della condizione umana ad eccezione del peccato, cosicché l’unione delle due nature, umana e divina, ha sicuramente comportato la presenza del riso, dello humor e del buonumore nella vita terrena di Gesù, dato che, per dirla con Aristotele, l’uomo è l’unico vivente mortale che ride.
Naturalmente, questo argomento teologico non può valere per Odifreddi; che però appoggia la sua tesi all’autorità del Crisostomo, invece che ad un’analisi critica dei testi evangelici, proprio lui che accusa i cristiani di essere cretini (ha scritto che il cristianesimo è «una religione per letterali cretini […] indegno della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo») perché non critici e sottomessi all’autorità.
Veniamo a un’altra tesi di Odifreddi: «la religione dei Vangeli ci mise secoli per attecchire nel mondo occidentale, mentre quella di Facebook ha avuto presa istantanea. In sette anni esatti, dalla sua consacrazione nel febbraio 2004, ha già conquistato seicento milioni di utenti: cioè, più di metà dei cattolici che la Chiesa può vantare nell’intero mondo, dopo due millenni di indaffarata predicazione. Io non so chi se ne andrà prima: se i Vangeli o Facebook».
Qui il pensiero di Odifreddi è piuttosto risibile (tanto per tornare al tema di prima e per dimostrargli che almeno il cattolico che qui scrive riesce a ridere). Intanto, è evidente che l’iscrizione a Facebook è facilissima e si fa in pochi minuti, non richiede alcun impegno di vita (che poi uno viva attaccato a questo social network è un altro discorso), mentre l’adesione alla vita cristiana, che pur è fonte di gioia, implica anche impegni faticosi e talvolta difficili da onorare.
Inoltre Facebook non comporta, di per sé, alcun cambiamento delle proprie convinzioni profonde, non richiede di andare contro la mentalità corrente, non implica (come invece a volte succede a chi si converte) l’ostilità dei propri amici, né la condanna da parte dei propri genitori, e men che meno il martirio, laddove invece oggigiorno il 75 % degli episodi di violenza e di discriminazione contro gruppi religiosi vede i cristiani come vittime. Si può dire lo stesso per gli iscritti a Facebook? L'iscrizione a Facebook può del resto restare in sonno (a volte succede) e non essere seguita dal suo uso, mentre l’adesione al cristianesimo richiede una dedizione per tutta la vita.
In più il cristianesimo è vittima di una bimillenaria e quotidiana mistificazione, di accuse e critiche di innumerevoli Odifreddi (mentre contro facebook ci sono solo alcune voci isolate) e l’attacco sistematico si avvale oggigiorno di mezzi planetari di mistificazione di massa. Che poi, per i motivi appena esposti e per altri, il numero dei credenti possa diventare esiguo nel mondo, il cristianesimo l’ha sempre messo in conto come possibilità prevista dal vangelo: «quando il Figlio dell'uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?» (Lc, 18,8).
Tuttavia, spiace di dover deludere certi avvoltoi, ma, nonostante tutto, nonostante le martellanti campagne mediatiche e l’alimentazione degli scandali, spesso gonfiati, quei credenti in Cristo che sono i cattolici dal 2000 stanno aumentando e dal 2008 al 2009 (anno a cui si riferiscono gli ultimi dati) sono cresciuti di quindici milioni, corrispondenti ad un aumento del 1,3 %, arrivando così a quota un miliardo e 181 milioni. A volte si tratta di bambini piccoli che vengono battezzati, e che ovviamente poi possono rinnegare il battesimo. Ma in diversi luoghi questi battesimi riguardano anche gli adulti. Soprattutto – questo è il dato che più conta perché riguarda solo adulti consapevoli –, nonostante il leitmotiv planetario della pedofilia nella Chiesa, Odifreddi sappia che il numero dei sacerdoti cattolici è cresciuto dell’1,34 %, passando da 405mila a 410mila.
Per Odifreddi, ancora, il Vangelo «racconta un sacco di storie esagerate o inventate» e la figura di Gesù è quella di «predicatore […] invasato e pedante». Ora, quanto alla storie esagerate, nei vangeli colpisce piuttosto la sobrietà, talvolta persino scarna, con cui gli autori, con lo stile di un cronista, riferiscono fatti che potrebbero essere al contrario molto carichi di grande enfasi, per esempio i miracoli. Anche chi pregiudizialmente esclude la possibilità di questi ultimi dovrebbe riconoscere questa sobrietà.
Che nei Vangeli ci siano storie inventate lo sostengono da due millenni i suoi oppositori, ma ci sono fior di libri sulla credibilità dei vangeli, per esempio, e limitandoci solo al panorama italiano, i lavori di Vittorio Messori, Andrea Tornielli, Marta Sordi, Ilaria Ramelli e tanti altri. Che poi Gesù fosse invasato, il che vuol dire «ossessivamente dominato da una grave eccitazione» (Devoto Oli) è una deduzione di Odifreddi, che si picca di fare anche lo psicologo e di saper tracciare un profilo psicologico di Gesù.
Odifreddi lo trova anche pedante, che vuol dire «persona che rivela un’insistente, noiosa e spesso inintelligente meticolosità» (sempre per il Devoto Oli). Ma che il Gesù dei vangeli risulti inintelligente è smentito clamorosamente da alcuni episodi: per esempio la disputa da fanciullo coi dottori della legge, oppure le acutissime risposte ai tranelli che gli furono tesi sul tributo a Cesare e sulla lapidazione dell’adultera.
Infine, a Odifreddi Gesù risulta noioso: eppure questa figura ha affascinato o perlomeno ha attirato l’interesse di quasi tutti gli esseri umani che ne hanno sentito parlare, anche di moltissimi non cristiani, anche di molti atei, per esempio Nietzsche, che ha provato verso Gesù non già indifferenza bensì molto odio e talvolta anche molta ammirazione, tanto da definirlo «L’uomo più nobile» (in Umano, troppo umano, I, § 475). Tutti cretini anche questi atei? Cretino anche Nietzsche? È proprio così noioso sentire parlare di vita eterna, di bene e di male, di felicità, di amore, di significato della vita, della possibile fecondità della sofferenza? Certo, a Odifreddi interessano di più gli articoli di cui è autore; ma il pedante risulta essere proprio lui, che noiosamente ripete le sue litanie anticristiane come un disco rotto.

(Fonte: Giacomo Samek Lodovici, Labussola quotidiana.it, 2 marzo 2011)


giovedì 14 aprile 2011

Il Demonio e gli esorcismi: il punto di vista di un esperto.

Padre Gabriele Amorth è l’esorcista più famoso del mondo, fondatore e presidente ad honorem dell’Associazione internazionale degli esorcisti. Riportiamo parte di una sua intervista apparsa su internet, per dare un’idea più seria e competente su tale materia, anche in considerazione della “moda”, oggi così tanto in auge, di parlare e di fare scoop giornalistici sull’argomento (vedi la recente trasmissione delle Iene su Italia 1). Da parte della Chiesa sarebbe auspicabile maggior rigore nella regolamentazione di tali esorcismi “esibizioni” che si prestano più a offrire spettacolarità di cattivo gusto, che a combattere seriamente il demonio.
Padre Amorth, come venite considerati, voi esorcisti, all’interno della Chiesa?
AMORTH: Siamo trattati malissimo. I confratelli sacerdoti che vengono incaricati di questo delicatissimo compito sono visti come dei matti, degli esaltati. In genere sono appena tollerati dagli stessi vescovi che li hanno nominati.
Il fatto più clamoroso di questa ostilità?
AMORTH: Abbiamo tenuto un convegno internazionale degli esorcisti vicino a Roma. E abbiamo domandato di essere ricevuti dal Papa. Per non dargli l’aggravio di aggiungere una nuova udienza alle tantissime che già fa, abbiamo semplicemente chiesto di essere ricevuti in udienza pubblica, quella in piazza San Pietro del mercoledì. E senza nemmeno la necessità di essere citati tra i saluti. Abbiamo fatto regolare domanda, come ricorderà perfettamente monsignor Paolo De Nicolò, della Prefettura della casa pontificia, che ha accolto a braccia aperte la nostra richiesta. Il giorno prima dell’udienza però lo stesso monsignor De Nicolò ci ha detto – a dire il vero con grande imbarazzo, per cui si è visto benissimo che la decisione non dipendeva da lui – di non andare, che non eravamo ammessi. Incredibile: 150 esorcisti provenienti dai cinque continenti, sacerdoti nominati dai loro vescovi in conformità con le norme del diritto canonico che richiedono preti di preghiera, di scienza e di buona fama – quindi un po’ il fior fiore del clero –, chiedono di partecipare a un’udienza pubblica del Papa e vengono buttati fuori. Monsignor De Nicolò mi ha detto: «Naturalmente le prometto che le invierò subito la lettera con le motivazioni». Sono passati cinque anni, e quella lettera la aspetto ancora.
Certamente non è stato Giovanni Paolo II ad escluderci. Ma che a 150 sacerdoti venga proibito di partecipare a una udienza pubblica del Papa in piazza San Pietro spiega quanto sono ostacolati gli esorcisti dalla loro Chiesa, quanto sono malvisti da tante autorità ecclesiastiche.
Lei col demonio ci combatte quotidianamente. Qual è il più grande successo di Satana?
AMORTH: Riuscire a far credere di non esistere. E ci è quasi riuscito. Anche all’interno della Chiesa. Abbiamo un clero e un episcopato che non credono più nel demonio, negli esorcismi, nei mali straordinari che il diavolo può dare, e nemmeno nel potere che Gesù ha concesso di scacciare i demoni.
Da tre secoli la Chiesa latina – al contrario della Chiesa ortodossa e di varie confessioni protestanti – ha quasi del tutto abbandonato il ministero esorcistico. Non praticando più esorcismi, non studiandoli più e non avendoli mai visti, il clero non ci crede più. E non crede più nemmeno al diavolo. Abbiamo interi episcopati contrari agli esorcismi. Ci sono nazioni completamente prive di esorcisti, come la Germania, l’Austria, la Svizzera, la Spagna e il Portogallo. Una carenza spaventosa.

Non ha nominato la Francia. Lì la situazione è differente?
AMORTH: C’è un libro scritto dal più noto esorcista francese, Isidoro Froc, dal titolo: Gli esorcisti, chi sono e cosa fanno. Il volume, tradotto in italiano dall’editrice Piemme, è stato scritto per incarico della Conferenza episcopale francese. In tutto il libro non si dice mai che gli esorcisti, in certi casi, fanno esorcismi. E l’autore ha più volte dichiarato alla televisione francese di non avere mai fatto esorcismi e che mai li farà. Su un centinaio di esorcisti francesi, solo cinque credono al demonio e fanno gli esorcismi, tutti gli altri mandano chi si rivolge a loro dagli psichiatri.
E i vescovi sono le prime vittime di questa situazione della Chiesa cattolica, da cui sta scomparendo la credenza nell’esistenza del demonio. Prima che uscisse questo nuovo Rituale, l’episcopato tedesco ha scritto una lettera al cardinale Ratzinger in cui affermava che non occorreva un nuovo Rituale, perché non si dovevano più fare gli esorcismi.

È compito dei vescovi nominare gli esorcisti?
AMORTH: Sì. Quando un sacerdote viene nominato vescovo, si trova di fronte ad un articolo del Codice di diritto canonico che gli dà l’autorità assoluta per nominare degli esorcisti. A qualsiasi vescovo il minimo che si può chiedere è che abbia almeno assistito a un esorcismo, dato che deve prendere una decisione così importante. Purtroppo, non accade quasi mai. Ma se un vescovo si trova di fronte a una seria richiesta di esorcismo – che cioè non viene fatta da uno svitato – e non provvede, commette peccato mortale. Ed è responsabile di tutte le terribili sofferenze di quella persona, che a volte durano anni o una vita, e che avrebbe potuto impedire.
Sta dicendo che la maggior parte dei vescovi della Chiesa cattolica è in peccato mortale?
AMORTH: Quando ero ragazzino il mio vecchio parroco mi insegnava che i sacramenti sono otto: l’ottavo è l’ignoranza. E l’ottavo sacramento ne salva più degli altri sette sommati assieme. Per compiere peccato mortale occorre una materia grave ma anche la piena avvertenza e il deliberato consenso. Questa omissione di aiuto da parte di molti vescovi è materia grave. Ma questi vescovi sono ignoranti: non c’è dunque deliberato consenso e piena avvertenza.
Ma la fede rimane intatta, cioè rimane una fede cattolica, se uno non crede nell’esistenza di Satana?
AMORTH: No. Le racconto un episodio. Quando incontrai per la prima volta don Pellegrino Ernetti, un celebre esorcista che ha esercitato per quarant’anni a Venezia, gli dissi: «Se potessi parlare con il Papa gli direi che incontro troppi vescovi che non credono nel demonio». Il pomeriggio seguente padre Ernetti è tornato da me per riferirmi che il mattino era stato ricevuto da Giovanni Paolo II. «Santità», gli aveva detto, «c’è un esorcista qui a Roma, padre Amorth, che se venisse da lei le direbbe che conosce troppi vescovi che non credono nel demonio». Il Papa gli ha risposto, secco: «Chi non crede nel demonio non crede nel Vangelo». Ecco la risposta che ha dato lui e che io ripeto.
Mi faccia capire: la conseguenza è che molti vescovi e molti preti non sarebbero cattolici?
AMORTH: Diciamo che non credono a una verità evangelica. Quindi semmai li taccerei di propagare un’eresia. Però intendiamoci: uno è formalmente eretico se viene accusato di qualcosa e se persiste nell’errore. Ma nessuno, oggi, per la situazione che c’è nella Chiesa, accusa un vescovo di non credere nel diavolo, nelle possessioni demoniache e di non nominare esorcisti perché non ci crede. Eppure potrei farle tantissimi nomi di vescovi e cardinali che appena nominati in una diocesi hanno tolto a tutti gli esorcisti la facoltà di esercitare. Oppure di vescovi che sostengono apertamente: «Io non ci credo. Sono cose del passato». Perché? Purtroppo perché c’è stata l’influenza perniciosissima di certi biblisti, e potrei farle molti nomi illustri. Noi che tocchiamo ogni giorno con mano il mondo dell’aldilà, sappiamo che ha messo lo zampino in tante riforme liturgiche.
Per esempio?
AMORTH: Il Concilio Vaticano II aveva chiesto di rivedere alcuni testi. Disobbedendo a quel comando, si è voluto invece rifarli completamente. Senza pensare che si potevano anche peggiorare le cose anziché migliorarle. E tanti riti sono stati peggiorati per questa mania di voler buttare via tutto quello che c’era nel passato e rifare tutto daccapo, come se la Chiesa fino ad oggi ci avesse sempre imbrogliato e ingannato, e solo adesso fosse finalmente arrivato il tempo dei grandi geni, dei superteologi, dei superbiblisti, dei superliturgisti che sanno dare alla Chiesa le cose giuste. Una menzogna: l’ultimo Concilio aveva semplicemente chiesto di rivederli quei testi, non di distruggerli.
Il Rituale esorcistico, per esempio: andava corretto, non rifatto. C’erano preghiere che hanno dodici secoli di esperienza. Prima di cancellare preghiere così antiche e che per secoli si sono dimostrate efficaci, bisognerebbe pensarci a lungo. E invece no. Tutti noi esorcisti, utilizzando per prova le preghiere del nuovo Rituale ad interim, abbiamo sperimentato che sono assolutamente inefficaci.
Ma anche il rito del battesimo dei bambini è stato peggiorato. È stato stravolto, fin quasi ad eliminare l’esorcismo contro Satana, che ha sempre avuto enorme importanza per la Chiesa, tanto che veniva chiamato l’esorcismo minore. Contro quel nuovo rito ha protestato pubblicamente anche Paolo VI. È stato peggiorato il rito del nuovo benedizionale. Ho letto minuziosamente tutte le sue 1200 pagine. Ebbene, è stato puntigliosamente tolto ogni riferimento al fatto che il Signore ci deve proteggere da Satana, che gli angeli ci proteggono dall’assalto del demonio. Hanno tolto tutte le preghiere che c’erano per la benedizione delle case e delle scuole. Tutto andava benedetto e protetto, ma oggi la protezione dal demonio non esiste più. Non esistono più difese e neppure preghiere contro di lui. Lo stesso Gesù ci aveva insegnato una preghiera di liberazione, nel Padre nostro: «Liberaci dal Maligno. Liberaci dalla persona di Satana». In italiano è stata tradotta in modo erroneo, e adesso si prega dicendo: «Liberaci dal male». Si parla di un male generico, di cui in fondo non si sa l’origine: invece il male contro cui nostro Signore Gesù Cristo ci aveva insegnato a combattere è una persona concreta: è Satana.

Lei ha un osservatorio privilegiato: ha la sensazione che il satanismo si stia diffondendo?
AMORTH: Sì. Tantissimo. Quando cala la fede aumenta la superstizione. Se uso il linguaggio biblico, dico che si abbandona Dio e ci si dà all’idolatria, se uso un linguaggio moderno, dico che si abbandona Dio per darsi all’occultismo. Lo spaventoso calo della fede in tutta l’Europa cattolica fa sì che la gente si getti tra le mani di maghi e cartomanti, mentre prosperano le sette sataniche. Il culto del demonio viene reclamizzato a masse intere attraverso il rock satanico di personaggi come Marilyn Manson, e viene dato l’assalto anche ai bambini: giornali a fumetti insegnano la magia e il satanismo.
Diffusissime le sedute spiritiche, in cui si evocano morti per averne risposte. Ora si insegna a fare sedute spiritiche con il computer, con il telefono, con il televisore, con il registratore ma soprattutto con la scrittura automatica. Non c’è più nemmeno bisogno del medium: è uno spiritismo “fai da te”. Secondo i sondaggi, il 37 per cento degli studenti ha fatto almeno una volta il gioco del cartellone o del bicchierino, che è una vera seduta spiritica. In una scuola in cui mi avevano invitato a parlare, i ragazzi hanno detto che la facevano durante l’ora di religione sotto gli occhi compiaciuti dell’insegnante.

E funzionano?
AMORTH: Non esiste distinzione tra magia bianca e magia nera. Quando la magia funziona, è sempre opera del demonio. Tutte le forme di occultismo, come questo grande ricorso verso le religioni d’Oriente, con le loro suggestioni esoteriche, sono porte aperte per il demonio. E il diavolo entra. Subito.
Io non ho esitato a dire immediatamente, nel caso della suora uccisa a Chiavenna e in quello di Erika e Omar, i due ragazzi di Novi Ligure, che c’era stato un intervento diretto del demonio perché quei ragazzi erano dediti al satanismo. Proseguendo l’indagine la polizia ha poi scoperto, in entrambi i casi, che questi ragazzi seguivano Satana, avevano libri satanici.

Su cosa fa leva il demonio per sedurre l’uomo?
AMORTH: Ha una strategia monotona. Glielo ho detto, e lui lo riconosce… Fa credere che l’inferno non c’è, che il peccato non esiste ma è solo un’esperienza in più da fare. Concupiscenza, successo e potere sono le tre grandi passioni su cui Satana insiste.
Quanti casi di possessione demoniaca ha incontrato?
AMORTH: Dopo i primi cento ho smesso di contarli.
Cento? Ma sono tantissimi. Lei nei suoi libri dice che i casi di possessione sono rari.
AMORTH: E lo sono davvero. Molti esorcisti hanno incontrato solo casi di mali diabolici. Ma io ho ereditato la “clientela” di un esorcista famoso come padre Candido, e quindi i casi che lui non aveva ancora risolto. Inoltre, gli altri esorcisti mandano da me i casi più resistenti.
Il caso più difficile che ha incontrato?
AMORTH: Ce l’ho “in cura” adesso, e da due anni. È la stessa ragazza che è stata benedetta – non è stato un vero esorcismo – dal Papa a ottobre in Vaticano e che ha creato scalpore sui giornali. È colpita 24 ore su 24, con tormenti indicibili. I medici e gli psichiatri non riuscivano a capirci nulla. È pienamente lucida e intelligentissima. Un caso davvero doloroso.
Come si cade vittime del demonio?
AMORTH: Si può incappare nei mali straordinari inviati dal demonio per quattro motivi. O perché questo costituisce un bene per la persona (è il caso di molti santi), o per la persistenza nel peccato in modo irreversibile, o per un maleficio che qualcuno lancia per mezzo del demonio, o quando ci si dedica a pratiche di occultismo.
Durante l’esorcismo di posseduti, che tipo di fenomeni si manifestano?
AMORTH: Ricordo un contadino analfabeta che durante l’esorcismo mi parlava solo in inglese, e io avevo bisogno di un interprete. C’è chi mostra una forza sovrumana, chi si solleva completamente da terra e varie persone non riescono a tenerlo seduto sulla poltrona. Ma è solo per il contesto in cui si svolgono, che parliamo di presenza demoniaca.
A lei il demonio non ha mai fatto del male?AMORTH: Quando il cardinale Poletti mi chiese di fare l’esorcista io mi raccomandai alla Madonna: «Avvolgimi nel tuo manto e io sarò sicurissimo». Di minacce il demonio me ne ha fatte tante, ma non mi ha mai fatto nessun danno.

Lei non ha mai paura del demonio?
AMORTH: Io paura di quella bestia? È lui che deve avere paura di me: io opero in nome del Signore del mondo. E lui è solo la scimmia di Dio.
Padre Amorth, il satanismo si diffonde sempre di più. Il nuovo Rituale rende difficile fare esorcismi. Agli esorcisti si impedisce di partecipare a una udienza con il Papa a piazza San Pietro. Mi dica sinceramente: cosa sta accadendo?
AMORTH: Il fumo di Satana entra dappertutto. Dappertutto! Forse siamo stati esclusi dall’udienza del Papa perché avevano paura che tanti esorcisti riuscissero a cacciare via le legioni di demoni che si sono insediate in Vaticano.
Sta scherzando, vero?
AMORTH: Può sembrare una battuta, ma io credo che non lo sia. Non ho nessun dubbio che il demonio tenti soprattutto i vertici della Chiesa, come tenta tutti i vertici, quelli politici e quelli industriali.
Sta dicendo che anche qui, come in ogni guerra, Satana vuole conquistare i generali avversari?
AMORTH: È una strategia vincente. Si tenta sempre di attuarla. Soprattutto quando le difese dell’avversario sono deboli. E anche Satana ci prova. Ma grazie al cielo c’è lo Spirito Santo che regge la Chiesa: «Le porte dell’inferno non prevarranno». Nonostante le defezioni. E nonostante i tradimenti. Che non devono meravigliare. Il primo traditore fu uno degli apostoli più vicini a Gesù: Giuda Iscariota. Però nonostante questo la Chiesa continua nel suo cammino. È tenuta in piedi dallo Spirito Santo e quindi tutte le lotte di Satana possono avere solo dei risultati parziali. Certo, il demonio può vincere delle battaglie. Anche importanti. Ma mai la guerra.

(mario, 14 aprile 2011)


mercoledì 13 aprile 2011

La Littizzetto a “Che tempo fa” di Fazio: i profughi? Che li aiutino i Vescovi!

I cattolici sono indignati con Rai 3. Si sentono bersagliati ingiustamente e si sono stancati di subire in silenzio. Prendo a simbolo un giovane prete, che chiamerò don Gianni, un bravissimo sacerdote che - fra le altre cose, insieme ad altri - si fa in quattro e dà letteralmente la vita, per aiutare immigrati, emarginati, “barboni” e tossicodipendenti.
L’ultimo episodio che ha fatto indignare lui e molti altri come lui, è stata l’incredibile invettiva contro la Chiesa fatta da Luciana Littizzetto a “Che tempo che fa”, domenica sera (che sta pure su Youtube). È considerato un caso emblematico della tendenza di Rai 3, la rete simbolo dell’Italia ideologica. Il programma è quello di Fabio Fazio, programma cult della sinistra salottiera.
È noto che ogni domenica sera la Littizzetto fa le sue concioni  avendo come spalla lo stesso Fazio. Ebbene domenica, parlando di Lampedusa, a un certo punto - senza che c’entrasse nulla - la Luciana si è lanciata in un attacco congestionato contro la Chiesa, a proposito dell’arrivo dei clandestini tunisini, e ha urlato ai vescovi «dicano qualcosa su questa questione». I vescovi, a suo parere, stanno sempre a rompere «e adesso stanno zitti… fate qualcosa! Cosa fanno?».
A me pare che non esista affatto l’obbligo per la Chiesa di farsi carico di tutti i clandestini che vengono dall’Africa. In ogni caso il quotidiano dei vescovi, “Avvenire”, ieri ha sommessamente obiettato alla Littizzetto che la Chiesa non ha taciuto affatto e che proprio la scorsa settimana il segretario generale della Cei, monsignor Crociata ha convocato una conferenza stampa per informare che 93 diocesi hanno messo a disposizione strutture capaci di ospitare 2500 immigrati, caricando sulla Chiesa tutte le spese.
Ma questa risposta di “Avvenire” è uscita in ultima pagina, sussurrata e con un tono benevolo, sotto il titolo: “Chissà se Lucianina chiede scusa”. Fatto sta che attacchi come quelli della Littizzetto sono stati visti e ascoltati da milioni di telespettatori e ben pochi avranno letto la documentata risposta di “Avvenire”. Forse si può e si deve rispondere anche più energicamente. C’è chi vorrebbe pretendere le scuse del direttore di Rai 3 e soprattutto il diritto di replica.  In nome dei tantissimi sacerdoti, suore e cattolici laici che in questo Paese da sempre, 24 ore al giorno, sputano sangue per servire i più poveri ed emarginati e che poi si vedono le Littizzetto e tutta la congrega di intellettualini e giornalisti dei salotti progressisti che, dagli schermi tv, impartiscono loro lezioni di solidarietà.
Sì, perché la Littizzetto non si è limitata a questo assurdo attacco (condito di battute sul cardinal Ruini). Poi, fra il dileggio e il rimprovero morale, si è addirittura impancata a seria maestra di teologia e ha preteso persino di evocare il “discorso della montagna” - citato del tutto a sproposito - per strillare ai vescovi e alla Chiesa: «ero nudo e mi avete vestito, ero malato e mi avete visitato, avevo sete e mi avete dato da bere... Il discorso della montagna lì non vale perché sono al mare?».
E poi, sempre urlando, ha tuonato: «c’è la crisi delle vocazioni, ci sono seminari e conventi vuoti: fate posto e metteteli lì, che secondo me poi sono tutti contenti». 
Non sarebbe neanche il caso di segnalare che l’ignoranza della Littizzetto è pari alla sua arroganza, perché il “discorso della montagna” sta al capitolo 5 del Vangelo di Matteo, mentre i versetti citati da lei - che non c’entrano niente - stanno addirittura al capitolo 25 (quelli sul giudizio finale che non piacerebbero proprio alla comica di Rai 3). Non sarebbe il caso di sottolineare la gaffe se la brutta sinistra che ci ritroviamo in Italia non avesse elevato comici come lei al rango di intellettuali e addirittura di maestri di etica e di civiltà.
Apprendo addirittura (da Internet) che «il 22 novembre 2007 Luciana Littizzetto ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il prestigioso premio De Sica, riservato alle personalità più in luce del momento nel mondo dello spettacolo e della cultura».  Se queste sono le “personalità della cultura” che vengono premiate addirittura da Napolitano è davvero il caso di dire “povera Italia!”. Mi viene in mente Oscar Wilde: «Chi sa, fa. Chi non sa insegna».Chi conosce il Vangelo e lo vive, come il mio amico don Gianni, si fa in quattro per dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Chi invece non lo conosce, pretende di insegnarlo, lautamente pagato per le sue scenette comiche su Rai 3, e si lancia all’attacco dei “preti”.
Visto che sia la Littizzetto che Fazio - il quale ha assistito a questa filippica sugli immigrati senza obiettare, facendo ancora la spalla - mi risulta siano ben retribuiti e non vivano affatto nell’indigenza, vorrei sapere, da loro due, di quanti immigrati si fanno personalmente carico. Quanti ne ospitano a casa loro? Quanto danno o sono disposti a dare, dei loro redditi, per accogliere e spesare tunisini, libici e altri clandestini? Considerata l’invettiva della Littizzetto e il suo pretendere che altri (la Chiesa) ospitino gli immigrati a casa loro, non posso credere che lei per prima non faccia altrettanto. Sarebbe veramente una spudoratezza inaccettabile. Vorrebbe allora - gentile signora Luciana - mostrarci la sua bella casa piena di tunisini che lei avrà sicuramente ospitato?
La Chiesa non ha certo bisogno delle lezioni di “Che tempo che fa” per spalancare le sue braccia a chi non ha niente. Lo fa da duemila anni. E dà pure per scontato che il mondo non se ne accorga e neanche la ringrazi. Ma che addirittura debba essere bersagliata dalle lezioncine è inaccettabile, soprattutto poi se a farle fossero persone che non muovono dito per i più poveri.
Intellettuali, comici e giornalisti dei salotti progressisti che spesso schifano l’italiano medio (e anzitutto i cattolici), che stanno sempre sul pulpito, col ditino alzato, a impartire lezioni di morale, di solito non vivono nell’indigenza. Molti di loro trascorrono le giornate fra gli agi, in belle case e al riparo di cospicui conti in banca. Qualcuno - come si è saputo di recente - si avventura pure in investimenti sbagliati. Temerari.
Io non so come vivano loro la solidarietà. Ma a me personalmente non è mai capitato di trovarne uno che fosse disposto a coinvolgersi in iniziative di solidarietà e di carità verso i più infelici quando le ho proposte loro. Ce ne saranno, ma io non ne ho mai trovati. Prima di impancarsi a maestri e censori degli altri, non sarebbe il caso che anzitutto testimoniassero ciò che fanno loro personalmente?Noi cattolici educhiamo i nostri figli alla carità come dimensione vera della vita. Mio figlio di 14 anni trascorre il sabato mattina con altri coetanei, insieme a don Andrea, a portare generi alimentari a barboni e famiglie indigenti. E a far loro compagnia. Don Andrea educa i suoi ragazzi portandoli anche con le suore di Madre Teresa che vanno a cercare i clochard, se ne prendono cura, li lavano, li medicano, li rifocillano.
Io non ho mai visto un solo intellettuale di sinistra lavare un barbone. Invece i preti, le suore e i cattolici che lo fanno sono tantissimi. Sono persone che fin da giovani hanno deciso di donare totalmente la loro vita, per amore di Gesù Cristo. Hanno rinunciato a una propria famiglia, vivono nella povertà (i preti, titolati con studi ben superiori alla media, vivono con 800 euro al mese) e servono l’umanità per portare a tutti la carezza del Nazareno.
La Chiesa sono questi uomini e queste donne. È di questi che straparlano spesso certi intellettuali da salotto. Non so quanto se ne rendano conto, soddisfatti e compiaciuti come sono di se stessi. Non so se sono ancora in grado di provare un po’ di vergogna. Ma so che questa sinistra intellettuale (quella - per capirci - che se la prende con i crocifissi e che sta sempre contro la Chiesa) fa davvero pena, fa tristezza. Certamente è quanto ci sia di più lontano dai cristiani. 

(Fonte: Antonio Socci, Libero News.it, 8 aprile 2011)

NOTA: Sorprende che una persona come la Littizzetto, così sensibile alle disavventure degli immigrati senzatetto, non decida di mettere a disposizione uno dei suoi 13 immobili, distribuiti tra Torino e Milano. La comica infatti, oltre che a pontificare e diffamare dai salotti televisivi chi veramente e discretamente si dedica a soccorrere gli ultimi,  ha prodotto negli anni un interessante patrimonio immobiliare: con un reddito da 1.824.084 euro si è collocata tra i primi 500 contribuenti in italia e ha dimostrato, da buona milionaria quale è, una vera passione per il mattone, comprando anno dopo anno una casa dietro l’altra. Chissà se metterà a disposizione di qualche famiglia nordafricana un paio di edifici nel centro di Torino? Sicuramente così, almeno lei, potrebbe veramente seguire il famoso “discorso della montagna”…

Chiesa e omosex, ambiguità da chiarire

Ci sono diversi modi di accogliere gli omosessuali, ma quello dell'associazione Kairos e di padre Alberto Maggi a Firenze non sembra coerente con l’insegnamento della Chiesa. Per lo meno stando a quanto scrive l’Unità dell’11 aprile, dove si legge appunto di un incontro avvenuto a Firenze per celebrare i dieci anni di attività di un gruppo, Kairos, formato da cristiani omosessuali che accolgono gli omosessuali all’interno della Chiesa.
L’articolo riporta una serie di slogan già sentiti e ripetuti, contro “l’antica religione basata sulle leggi e la nuova che si fonda sull’accoglienza e sull’amore”, quasi a voler mettere in contrapposizione dialettica l’Antico e il Nuovo Testamento, la Legge e il Decalogo rispetto alle Beatitudini.
Il dovere di accogliere chiunque come persona è ciò che la Chiesa ha sempre insegnato. Ma, appunto, come persona, non mettendo l’omosessualità sullo stesso piano della condizione eterosessuale come se fossero la stessa cosa. Qui sta il punto sul quale i gruppi come Kairos si distanziano profondamente dal Magistero della Chiesa, che riconosce l’esistenza di un progetto di Dio che si esprime anche attraverso la sessualità e che considera l’inclinazione omosessuale  “oggettivamente disordinata” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358).
Non esiste la persona in astratto, ma quella persona, maschio o femmina, unica e irripetibile.
Per cui l’omosessuale non soltanto deve essere accolto come persona, ma aiutato in modo particolare, con un’attenzione speciale. Ma aiutato a fare che cosa? A crogiolarsi nei suoi problemi? Ad affermare pubblicamente la propria identità, come vorrebbero i movimenti gay, che accusano la società omofoba di impedire agli omosessuali di manifestare pubblicamente la loro condizione? Ad accettarsi così come Dio lo avrebbe voluto, cioè appunto un gay?
Spesso coloro che sentono pulsioni omosessuali hanno più buon senso del politicamente corretto, anche sacerdote, che dice loro di non preoccuparsi. “Come faccio a non preoccuparmi – mi dicevano molti di loro – se capisco di subire forme di attrazione che non desidero e che percepisco come innaturali?”.
Così, per rispondere a domande come questa, frequenti più di quanto non si creda, è nato alcuni anni fa in diocesi di Milano il gruppo Chaire (www.obiettivo-chaire.it), proprio per aiutare chi si trova in questa condizione indesiderata a superare questa fase, aiutandolo con mezzi spirituali e psicologici a conoscere che esiste un progetto di Dio e che nessuno viene mai abbandonato dal Creatore dell’uomo. In sostanza, Chaire nasce per trasmettere il Magistero della Chiesa in tema di sessualità e di identità di genere, e contemporaneamente per non lasciare solo chi volesse essere aiutato a superare una condizione non voluta.
Chaire nasce dall’esperienza di un medico americano, Joseph Nicolosi, che con la sua terapia riparativa si è attirato l’odio di tutti i movimenti gay del mondo, che lo accusano di volere “riparare” le persone. In realtà tutti coloro che scelgono di praticare questa terapia lo fanno liberamente e circa il 30% di loro ritrova la condizione eterosessuale.
Quello che spesso anche all’interno del mondo cattolico si stenta a comprendere è la posta in gioco. In discussione non c’è soltanto la carità di aiutare una persona a ritrovare l’equilibrio perduto o mai provato. Si tratta di molto di più, di riconoscere che l’omosessualità e in genere i disturbi legati alla sessualità sono la manifestazione di un disagio che rischia di mettere in discussione il progetto originario di Dio sull’uomo. Non è vero, come si tende a fare credere, che tutto sia cultura e che non esista un dato naturale, legato alla propria sessualità, che l’uomo è invitato a scoprire e ad accogliere. Non è vero che tutto ciò che l’uomo desidera relativamente alla propria sessualità sia necessariamente un bene da perseguire. E non dovrebbe essere eccessivamente difficile rendersene conto.
Certamente, la vita spesso produce ferite, anche profonde, frequentemente legate a problemi inerenti alla sessualità. Ma nessuna ferita può cambiare il progetto originario. Le ferite vanno accettate e medicate avendo cura di tenere insieme la verità del progetto con la carità dell’accompagnamento: questo, e non altro, dovrebbero proporre le realtà ecclesiali che si sforzano di essere fedeli all’insegnamento della Chiesa in tema di sessualità e omosessualità.

(Fonte: Marco Invernizzi, La bussola quotidiana, 13 aprile 2011)