martedì 28 febbraio 2017

Un francescano attacca Angelina Jolie

Durissimo attacco del francescano dell’Immacolata Padre Giambattista Scozzaro (in religione Padre Giulio Maria) nei confronti della famosa attrice Angelina Jolie.
Scrive il frate che «in un video apparso recentemente su internet l’attrice Angelina Jolie racconta ad alcuni amici la sua esperienza di iniziazione in una setta satanica. Tutto viene raccontato nei particolari, i rituali macabri, la sfrenata sessualità, il tributo di sangue pagato tramite il sacrificio animale ed i tatuaggi (rappresentanti le porte dell’occulto nel nostro mondo)».
I fatti riferiti dall’attrice americana sarebbero risalenti al 1998, anno «in cui la Jolie non era altro che una figlia d’arte senza arte ne parte che recitava in film di nicchia senza prospettive. Dev’essere stato questo che l’ha spinta a provare l’ingresso in una società massonica e come per tutti gli altri partecipanti questo è avvenuto con un sacrificio iniziale. La Jolie quella notte fu costretta a sacrificare un serpente, dettaglio che riconduce un’appartenenza alla loggia massonica del serpente, setta molto radicata negli states che punta al disfacimento della società morale per l’introduzione di un era di barbarie e oscurantismo».
Sarà un caso, commenta Padre Scozzaro, «ma proprio a partire dal 1998 Angelina comincia ad ottenere le parti importanti e ad un anno di distanza vince persino l’oscar per il film cult “Ragazze Interrotte” (storia di dissoluzione e depressione giovanile con droga e sessualità ambigua). Nel 2001 arriva l’affermazione planetaria con il ruolo da protagonista in Tomb Raider, prima produzione cinematografica basata sul videogioco omonimo. Il film era intriso di significati esoterici, riunioni degli illuminati, extraterrestri, per culminare in un allineamento planetario che comporta un eclissi solare e conduce all’artefatto magico chiamato “Triangolo della luce”. Il film (non un successo di critica e pubblico a dire il vero) rappresenta il punto nodale della sua carriera, la Jolie diventa un sex symbol ed una delle attrici più richieste e pagate di Hollywood (industria cinematografica che per alcuni è basata sulla loggia massonica di cui sopra). In questi anni l’attrice si è impegnata nel sociale con opere di beneficenza, utilizzando parte dei suoi immensi ricavi per fare opere di filantropia ed adottare dei bambini sfortunati».
Ma per quali finalità, si chiede padre Scozzaro. «Nel 2001 è diventata ambasciatrice dell’Onu e nel 2003 parte integrante dell’Unicef, apparendo a livello mondiale come una delle figure di spicco dalla cultura globalizzata. Se questi fatti sembrano dimostrare l’indole della persona c’è chi sostiene che bisogna non farsi ingannare perché queste iniziative benefiche altro non sono che parte  integrante del piano della loggia massonica del serpente. In realtà, forse, il peccato più grande dell’attrice americana è stato quello di schierarsi in favore delle unioni omosessuali: nel 2003 quando si è sposata con Brad Pitt ha deciso di comune accordo con il marito che il loro matrimonio doveva essere celebrato in un paese che non osteggiasse le unioni tra persone dello stesso sesso. Se questo non bastasse a partire dal 2009 si è schierata apertamente a favore del lesbismo annunciando di non curarsi delle scelte della figlia Shilo. In un servizio uscito quell’anno su Vanity Fair, Angelina mostrava la figlia vestita come un maschietto (in maniera provocatoria) e diceva di lasciarla giocare con le macchinine ed altri giocattoli maschili perché sarebbero quelli che la piccola preferisce. Che si trattasse di un intervista provocatoria per esprimere il proprio appoggio agli omosessuali non vi è dubbio, c’è chi sostiene che si tratti di un esperimento voluto per obbligare la bambina ad essere lesbica per volontà della loggia satanista».

(Fonte: Michele Ippolito, La Fede quotidiana, 28 febbraio 2017)



Due parole su dj Fabo

La vicenda della morte di Dj Fabo, che non è riuscito a trovare la forza di continuare a vivere, genera in chiunque sentimenti di compassione e di tristezza. Sentimenti di compiacimento o di vittoria appaiono assolutamente fuori luogo.
Dinanzi alla sua dolorosa vicenda, che  comunque chiede rispetto, tanti si preoccupano di trasformare subito la sua scelta in una questione di diritti politici. Per me la sua vita pone, invece, primariamente la questione se l’esistenza di tutti, che necessariamente prima o poi incontra il dolore irreparabile, abbia un senso.
La questione dei diritti non è quella decisiva, anche se è quella che è sulla bocca di tutti. Vale la pena dire solo una breve parola su di essa per giungere poi alla questione che interessa tutti (anche se viene esorcizzata proprio parlandone solo politicamente): cosa fare del dolore quando bussa e busserà alla porta del nostro corpo?  
1/ La questione politica
A livello politico è un non senso un preteso diritto al suicidio (questa prospettiva più ampia permette di capire meglio cosa si intenda poi per eutanasia). Si può parlare, semmai di una non punibilità, analogamente a quanto avviene, ad esempio, per l’aborto. Per la 194 l’aborto non è un diritto, perché lo Stato promuove la vita: piuttosto, riconoscendo l’estrema difficoltà di alcune gravidanze, mentre si impegna a fornire ogni mezzo perché sia salvato il bambino, non si accanisce con chi non riesce ad accettare la creatura, sana o malata che sia.
Solo una concezione distorta del diritto può portare a reclamare un diritto al suicidio: perché parlare di diritti implica parlare di cose buone e giuste, come il diritto al lavoro, allo studio, alla libertà e così via.
Parlare di diritto al suicidio vuol dire utilizzare il linguaggio dell’individualismo.
Se io mi suicidassi, non mi avvarrei di un diritto: al contrario verrei meno a qualcosa, creando problemi ai miei fratelli, ai miei amici, alle persone che hanno bisogno del mio lavoro, della mia disponibilità, della mia vicinanza, della mia testimonianza che vale la pena vivere. Se invece un depresso si suicidasse, questo, pur non essendo un diritto, sarebbe un dato che si dovrebbe tristemente talvolta accettare, senza infierire oltre.
Chi è vissuto a fianco di un suicida e conosce le conseguenze di tale gesto nella vita dei familiari, segnandoli per sempre, si accorge subito che il gesto di morire prima del tempo ferisce chi resta, non essendo solo qualcosa di individualistico.
Il suicidio porta dolore nei cuori e toglie l’apporto di una persona alla società intera. Lo Stato può accettare il fatto che un depresso non riesca più a vivere, ma senza chiamare questa scelta “diritto”. Compito della comunità sarà, invece, sempre quello di fare di tutto perché la persona non giunga a quel passo irreparabile: è un dovere trasmettere nell’educazione passione per la vita, in qualsiasi condizione, e non proclamare nelle scuole che è la stessa cosa continuare a vivere o uccidersi. L’estrema difficoltà di singoli casi estremi non può portare a riconoscere surrettiziamente un diritto della persona a morire quando lo ritenesse giusto. È opportuno, invece, chiedere che lo Stato spinga sempre ad avere comprensione e rispetto, evitando al contempo procedimenti punitivi. Chi sa noi stessi se saremmo capaci.
2/ La questione della vita
Ma la vera questione, come si diceva, non è quella politica, bensì quella della vita stessa. Tale questione emerge in particolare nel caso di un giovane come Fabiano Antoniani. Broker, assicuratore, amante del motocross, dei viaggi, della musica, della sua fidanzata, dj noto e appezzato. Per prendere il cellulare che gli era caduto dalle mani perde il controllo della vettura e, nell’incidente, si ritrova cieco e tetraplegico, cioè immobilizzato, a 36 anni.
Credo sia questo che colpisce i ragazzi e tutti noi. La vita giovane non è detto che duri, anzi è certo che non durerà, perché prima o poi, quando meno ce lo aspettiamo, per una futile distrazione legata all’iPhone, ci potremmo ritrovare in condizioni diverse da quelle della nostra giovinezza spensierata. Che fare allora?
Cosa dice l’incidente e la malattia di dj Fabo a chi stasera va in discoteca? A chi ama la musica, le donne, il motocross, i viaggi? Cosa è la vita? Cosa bisogna farne prima che il corpo non risponda più e cosa bisogna farne una volta che non risponderà più?
Questa domanda che tutti sentiamo nella pancia è ben addomesticata dalla discussione politica. Tutti sembrano limitarsi a dire: sul senso della vita sbrigatela tu, a noi interessa solo dirti che se trovi un senso alla vita puoi vivere, altrimenti suicidati, perché noi, adulti, giornalisti, politici, ci preoccupiamo solo di fornirti uno spazio di libertà, ma se tu deciderai di vivere e morire a noi non interessa niente.
Ovviamente vorrei parlare a lungo, con te lettore, di come si possa affrontare il male che bussa alla porta, perché io voglio, invece, che tu decida di vivere e che non sia equivalente l’una o l’altra scelta, quasi fosse ognuna solo una possibilità identica all’altra. Se vuoi potremo incontrarci e parlarne.
Ho desiderio, però, di evocare tre figure, perché dobbiamo attingere alla ricchezza di chi ha già riflettuto su queste cose, vedendo la propria generazione gioire, ammalarsi e invecchiare, affrontando nella propria carne la gioia come il dolore.
Innanzitutto Qoèlet. Questo antico autore ebreo afferma che tutto è vanità e un inseguire il vento, che la giovinezza e i capelli neri sono un soffio, che ciò che è stato fatto si rifarà e che non c’è mai niente di nuovo sotto il sole, che buoni e cattivi tutti siamo obbligati a morire. Ma, mentre mostra che dell’uomo non c’è molto da fidarsi, anche se bisogna a suo dire godere dei piaceri passeggeri della vita, ecco che si volge a una via d’uscita: se l’uomo è troppo debole per farvi affidamento, il Signore invece è verità e lui giudicherà ogni azione. Qoèlet esce dallo scetticismo e dal relativismo che rende in fondo indifferente ogni scelta nella vita dicendo di credere in Dio. Strano scettico Qoèlet! Uno scettico che diffida dell’uomo, pur amandolo, mentre si fida di Dio.
Poi Giobbe. Giobbe passa, come dj Fabo, dal successo alla malattia grave, incapace di godere più di alcuna cosa. Vengono a visitarlo degli amici che prima stanno in silenzio, ma poi iniziano a fargli la morale, quasi a pretendere  che egli debba essere felice della sua infermità. Quanti stupidi moralisti tocca sentir parlare dinanzi ad una disgrazia come quella di un incidente che ti rende cieco e paraplegico. Ma Giobbe non si arrende e se la prende con Dio, da lui vuole una risposta, perché sa che quella degli uomini non sarà mai sufficiente. Il dolore, in fondo, non ha alcun senso se l’uomo è solo e Dio non esiste. E con il dolore non ha alcun senso la vita. Dio finalmente risponde: Che ne sai Giobbe della vita? Eri presente quando ho fatto il mondo? Tu pretendi di giudicare me, tu che non sai badare a te stesso? Anche Giobbe è uno strano scettico: alla fine l’aver ascoltato Dio sembra bastargli, anche se egli in fondo non ha spiegato nulla, quasi intuendo una promessa in quel suo dire. Forse aveva ragione il poeta: “In sua voluntade è nostra pace”.
Infine Gesù. Egli rifiuta la droga sulla croce sulla quale è inchiodato senza via di scampo. Non vuole alterazioni di stati di coscienza, né accelerazioni della fine. Prega: “Dio mio, perché mi hai abbandonato”. Ma al contempo perché Dio perdoni i suoi persecutori, affidando i suoi ultimi attimi, il suo stesso spirito, a Dio, il Padre. In realtà, egli aveva già dato la sua vita e la sua sofferenza nell’ultima cena: non il dolore gli strappa la vita, ma egli stesso l’aveva donata.
Diversi certo Qoèlet, Giobbe e Cristo, ma certo non infervorati dalla questione dei diritti al suicidio. Piuttosto dalla domanda su Dio e sulla vita. Diversi anche perché nell’ultimo dei tre il dolore non trova senso nella sofferenza che provoca, bensì perché diviene espressioni di un senso e di un amore appresi altrove e più in alto, ma anche più in profondità.
Offrire il dolore, come si offre ogni gioia, come si offre tutta la vita, dicevano i nostri anziani, che qualcosa avevano capito. Non farla finita, ma a chi offrirla.
Se quell’offerta non è vera, sei fregato, dj. Se quell’offerta è vera, dj, puoi invece diventare libero. Per questo non solo parliamo su di te, ma parliamo di te a chi ascolta

(Fonte: Andrea Lonardo, Gli Scritti, 27 febbraio 2017)



domenica 19 febbraio 2017

Caro Papa Francesco, lei si sbaglia: il terrorismo islamico esiste, eccome!

Non è la prima volta che Papa Francesco scende in campo per assolvere l'islam dalla responsabilità del terrorismo di chi sgozza, decapita, massacra e si fa esplodere urlando «Allah è il più grande».
L'ha fatto all'indomani della strage dei vignettisti di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015 a Parigi, arrivando a giustificare l'atrocità dell'Isis per avere rappresentato in modo irriverente Maometto. L'ha fatto all'indomani del barbaro sgozzamento il 26 luglio 2016 in una chiesa a Saint-Étienne-du-Rouvray, in Normandia, dell'anziano sacerdote cattolico Jacques Hamel da parte di due giovani terroristi islamici francesi. Cinque giorni dopo, domenica 31 luglio, quasi fosse la Chiesa a doversi discolpare e quasi fosse la cristianità a dovere tendere la mano all'islam, fu consentito agli imam di entrare nelle chiese in Italia e in Francia, di salire sugli altari affiancati dal sacerdote e di recitare i versetti del Corano in arabo. Fu la prima volta in assoluto che accadde in 1.400 anni di storia dell'islam. La Chiesa per 1.400 anni ha sempre condannato l'islam, ha sempre condannato il Corano, ha sempre condannato Maometto. Non c'era mai stata una così formale e plateale legittimazione dell'islam come religione.
L'affermazione di Papa Francesco fatta ieri all'università Roma Tre, «non esiste il terrorismo cristiano, non esiste il terrorismo ebraico e non esiste il terrorismo islamico», è un passo ulteriore nell'accreditare il relativismo religioso. Mettere sullo stesso piano ebraismo, cristianesimo e islam, assolvendoli indistintamente e acriticamente perché sarebbero le «tre grandi religioni monoteiste, rivelate, abramitiche», sostenendo che tutte e tre adorerebbero lo stesso Dio «clemente e misericordioso», ci impone la conclusione che l'islam è una religione legittima a prescindere dai suoi contenuti e dai comportamenti violenti dei suoi adepti.
Papa Francesco sbaglia nel sovrapporre in modo automatico la dimensione della persona con la dimensione della religione. Il cristianesimo si fonda sull'amore del prossimo, il cristiano è tenuto ad amare cristianamente il musulmano a prescindere dalla sua fede, ma non a legittimare la sua religione anche se i suoi contenuti sono del tutto incompatibili con la fede cristiana, perché l'islam condanna l'ebraismo e il cristianesimo di miscredenza e legittima l'uccisione dei miscredenti.
Sarebbe sufficiente che Papa Francesco ascoltasse più attentamente i sacerdoti e i vescovi cristiani e cattolici d'Oriente, che conoscono bene l'arabo e il Corano, che hanno subito la discriminazione e patito la persecuzione islamica per il semplice fatto di essere cristiani.
Papa Francesco sbaglia facendo propria la tesi che ha prevalso in seno ai vertici della Chiesa, secondo cui il nemico da combattere è la secolarizzazione della società e la diffusione dell'ateismo, specie tra i giovani. In questo contesto si è giunti alla conclusione che l'islam sarebbe un alleato perché mantiene comunque in piedi l'idea di Dio. Si tratta di un tragico errore perché non è lo stesso Dio. Non c'è nulla che accomuna il Dio Padre della cristianità con l'Allah islamico che nei versetti 12-17 della Sura 8 del Corano tuona «getterò il terrore nel cuore dei miscredenti. Colpiteli tra capo e collo (...) Non siete certo voi che li avete uccisi, è Allah che li ha uccisi».
Papa Francesco sbaglia promuovendo un immigrazionismo che sta auto-invadendo l'Europa di milioni di giovanotti islamici. Come può immaginare che la rigenerazione della vita e la rivitalizzazione della spiritualità in questa Europa decadente possa realizzarsi con la sostituzione della nostra popolazione con una umanità meticcia e con l'avvento dell'islam? Il continuo riferimento storico sulle contaminazioni etniche che hanno connotato la storia dell'Europa è sbagliato, sia perché si è trattato di popolazioni cristiane o che hanno aderito al cristianesimo, sia soprattutto perché l'Europa e la Chiesa hanno potuto salvaguardare la propria identità e la propria civiltà solo perché hanno combattuto e sconfitto gli eserciti invasori islamici a Poiters (732), con la Reconquista (1492), a Lepanto (1571), a Vienna (1683).
Papa Francesco si ricordi che tutto il Mediterraneo era cristiano fino al Settimo secolo. E che in meno di 200 anni dopo la morte di Maometto nel 632 le popolazioni cristiane al 98% che popolavano la sponda orientale e meridionale del Mediterraneo furono violentemente sottomesse all'islam. Per averlo evocato nella sua Lectio Magistralis a Ratisbona il 12 settembre 2006 Benedetto XVI fu messo in croce fino a quando fu costretto a rassegnare le dimissioni.
Papa Francesco probabilmente sa già tutto ciò e pertanto non possiamo continuare a dire che sbaglia. Dobbiamo avere l'onestà intellettuale e il coraggio umano di dire che Papa Francesco sta consapevolmente ottemperando a una strategia finalizzata alla legittimazione dell'islam come religione costi quel che costi, anche se culminerà nel suicidio della Chiesa.

(Fonte: Magdi Cristiano Allam, Il Giornale, 18 febbraio 2017)



sabato 18 febbraio 2017

Il Papa all’Università “Roma Tre”: due commenti

1) DUE PAPI, DUE UNIVERSITA', DUE CLIMI DIVERSI. Con una sensazione
La visita di papa Francesco all’Università Roma Tre, in un clima di festa e di grande affetto verso il pontefice, mi ha fatto tornare alla memoria un episodio ben diverso.
Come qualcuno ricorderà, nel gennaio 2008 papa Benedetto XVI venne invitato a tenere un discorso all’Università La Sapienza di Roma. La visita, prevista per il giorno 17, fu però annullata due giorni prima. Era stato il rettore di allora, Renato Guarini, a invitare il papa per l’inaugurazione dell’anno accademico, naturalmente dopo aver interpellato il senato accademico, che si disse felice di ricevere il vescovo di Roma, come era già successo con Paolo VI nel 1964 e con Giovanni Paolo II a Roma Tre nel 2002.
Alcuni docenti però manifestarono la loro opposizione, prima con un intervento, pubblicato dal «Manifesto», del professor Marcello Cini, poi con una lettera firmata da una settantina di professori della facoltà di Fisica (per la precisione, sessantasette docenti, su un totale di 4500) e sottoscritta in seguito da altri settecento docenti italiani e stranieri di vari atenei.
Il caso deflagrò quando, il 10 gennaio, la lettera fu rilanciata dal quotidiano «La Repubblica». Fu così che, in un clima di polemiche, Benedetto XVI comunicò a malincuore la sua decisione di rinunciare alla visita, per non alimentare un fuoco che minacciava di avere serie conseguenze.  Alla vigilia dell’evento ci furono infatti manifestazioni studentesche contrarie all’invito, culminate con l’occupazione della sede del senato accademico e del rettorato.
Chi scrive visse quei giorni da cronista, intervistando i giovani e i professori contrari all’arrivo del papa, a incominciare da Cini (poi scomparso nel 2012 a ottantanove anni), che andai a trovare nella sua casa. Mi fu così possibile toccare con mano la miscela di pregiudizio, furore ideologico e, spiace dirlo, ignoranza che portò alla contestazione e all’annullamento della visita.
Per sbarrare l’ingresso a Ratzinger venne fatta, fra l’altro, una lettura distorta della lectio tenuta da Benedetto XVI nel 2006 all’Università di Ratisbona su «Fede, ragione e università»  (il famoso discorso nel quale il papa affrontò anche il problema del rapporto della religione islamica con la violenza) e si manipolò un discorso tenuto alla Sapienza dal cardinale Ratzinger nel 1990.
La vicenda, rievocata ora in un libro («Sapienza e libertà. Come e perché papa Ratzinger non parlò all’Università di Roma», scritto dal giornalista Pier Luigi De Lauro ed edito da Donzelli), fu molto triste da ogni punto di vista. Di fatto al vescovo di Roma fu impedito di parlare nell’università più grande e più importante della sua diocesi, un ateneo fondato, fra l’altro, proprio da un pontefice: Bonifacio VIII. Anche se il rettore, e gliene va dato atto, volle poi che il discorso del papa fosse letto nel corso della cerimonia, si trattò di un’occasione persa, una sconfitta per tutti.
In quella brutta storia ebbero un ruolo decisivo i mass media. Furono loro in gran parte a fomentare gli studenti e amplificare il caso. Il primo ad ammetterlo è Gianluca Senatore, allora rappresentante degli studenti. La chiusura di Cini e degli altri suoi colleghi, spiega oggi Senatore, non nacque in realtà dalla preoccupazione di difendere la laicità dell’istituzione universitaria, ma dalla paura di fare i conti con un papa teologo che metteva seriamente in crisi la pretesa di dominio delle scienze naturali ed empiriche sulla conoscenza.
Lo stesso Senatore rivela che all’epoca non aveva letto nulla di Ratzinger, ma in seguito cercò di approfondirne la conoscenza, scoprendo insospettabili punti di contatto tra le preoccupazioni del papa e quelle dello stesso professor Cini, per esempio a proposito delle terribili derive assunte dalla scienza e della tecnica nel corso dell’ultimo mezzo secolo.
Purtroppo, dice Senatore, vinse l’intolleranza, ma quella storia almeno un effetto positivo lo ebbe: lo studente di allora, incominciando a leggere Ratzinger, arrivò alla conclusione, confermata oggi, che il papa tedesco ha rappresentato uno dei momenti più alti della tradizione culturale della Chiesa cattolica.
Ma che cosa avrebbe detto Ratzinger se avesse avuto la possibilità di parlare? Raramente si ricorda che il papa aveva preparato un testo tanto umile nella forma quanto di alto livello nei contenuti, un contributo che almeno per sommi capi merita di essere ricordato, sia per dimostrare quanto fossero infondati i timori dei contestatori sia per ricordare la finezza di quel pontefice.
Il discorso si apriva così: «È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della Sapienza – Università di Roma in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere».
La Chiesa, sottolineava il papa, ha sempre guardato «con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni».
Poi Ratzinger, riaffermando l’assoluta autonomia dell’università e chiedendosi che cosa possa dire un papa rivolgendosi a un ateneo statale che opera nella sua diocesi, allargava il discorso ponendosi due questioni di fondo: «Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: qual è la natura e la missione dell’università?».
Alla prima domanda Benedetto XVI rispondeva che certamente il papa «non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà». Al di là del suo ministero pastorale, è comunque suo compito, precisava,  «mantenere desta la sensibilità per la verità» e «invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio». E qui Benedetto XVI non temeva di rivendicare il «patrimonio di sapienza» di cui la comunità dei credenti è depositaria in quanto  custode  di «un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche che risulta importante per l’intera umanità».
Insomma, spiegava Benedetto XVI concedendosi una punta di provocazione, «la sapienza delle grandi tradizioni religiose è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee».
Quanto alla seconda domanda, la risposta preparata dal papa suonava così: «Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. […]. L’uomo vuole conoscere, vuole verità. […] Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri?».
Come si può ben vedere, da parte di Benedetto XVI nessuna invasione di campo, nessuna supponenza. Al contrario, il contributo profondo di un uomo, un docente, un teologo, sincero nel proporre il proprio punto di vista (con la questione della verità in primo piano), schietto nel chiedere di meditare sul fatto che verità significa di più che sapere e trasparente nell’interrogarsi su alcune grandi questioni che, dopo tutto, riguardano tutti, credenti e non credenti, e toccano da vicino soprattutto chi opera in un santuario del sapere quale è un’università.
Ma a quell’uomo, a quel docente, a quel teologo, a quel papa, con un atto di inaudita prevaricazione giacobina, fu sbarrata la strada.
Ora, il fatto che un altro papa, Francesco, sia stato invitato da un altro ateneo romano, l’Università Roma Tre, e non solo abbia potuto intervenire ma sia stato accolto con grande simpatia ed entusiasmo,  non può che far piacere a tutte le persone che amano il confronto libero delle idee.
Resta però un certo retrogusto amaro se si pensa che Francesco, rispondendo alle domande di alcuni studenti, non ha toccato nemmeno uno dei grandi temi riguardanti la verità e il rapporto tra ragione e fede. Francesco in effetti, più che da papa, più che da vescovo, più che da religioso, ha scelto di parlare da sociologo e da economista. Ha affrontato le questioni legate alla disoccupazione giovanile, alle migrazioni, alla globalizzazione. Ha chiesto, anche con accenti accorati, di cercare l’unità salvaguardando le differenze e non l’uniformità. Questioni importanti, sia chiaro. Ma colpisce il fatto che mai una volta ha nominato Dio o la fede.
È pur vero che nel testo scritto e poi non letto, perché il papa ha preferito rispondere ai giovani improvvisando, c’è un passaggio molto bello, nel quale Bergoglio con umiltà ma anche con efficacia dice così: «Mi professo cristiano e la trascendenza alla quale mi apro e guardo ha un nome: Gesù. Sono convinto che il suo Vangelo è una forza di vero rinnovamento personale e sociale. Parlando così non vi propongo illusioni o teorie filosofiche o ideologiche, neppure voglio fare proselitismo. Vi parlo di una Persona che mi è venuta incontro, quando avevo più o meno la vostra età, mi ha aperto orizzonti e mi ha cambiato la vita». Altrettanto vero è che il discorso scritto, sebbene non pronunciato, resta agli atti. Tuttavia, nel confronto diretto con gli studenti, e di conseguenza in tutte le cronache della giornata, i riferimenti alla trascendenza e alla fede in Gesù sono spariti.
Sarebbe folle pensare che il papa si sia autocensurato. Sicuramente, scegliendo di mettere da parte il discorso preparato a tavolino, ha semplicemente voluto farsi più vicino ai giovani e dimostrare meglio, con maggiore intensità emotiva, la sua partecipazione ai loro problemi, alle loro preoccupazioni. D’altra parte sono convinto che docenti e studenti di Roma Tre lo avrebbero applaudito anche nel caso in cui Francesco avesse fatto riferimento all’esperienza religiosa.
Tuttavia, osservando gli elogi e la simpatia riservati a Francesco e ripensando al divieto posto a Benedetto XVI nel 2008, è difficile sottrarsi all’impressione che l’uomo di fede, perfino quando è il papa in persona, sia oggi più apprezzato nel dibattito pubblico quando non affronta la questione di Dio e della verità. Quando, cioè, non è troppo papa e non troppo cattolico.

(Fonte: Aldo Maria Valli, Blog, 17 febbraio 2017)

Resta un certo retrogusto amaro se si pensa che Francesco, rispondendo alle domande di alcuni studenti, non ha toccato nemmeno uno dei grandi temi riguardanti la verità e il rapporto tra ragione e fede. Francesco in effetti, più che da papa, più che da vescovo, più che da religioso, ha scelto di parlare da sociologo e da economista. Ha affrontato le questioni legate alla disoccupazione giovanile, alle migrazioni, alla globalizzazione. Ha chiesto, anche con accenti accorati, di cercare l’unità salvaguardando le differenze e non l’uniformità. Questioni importanti, sia chiaro. Ma colpisce il fatto che mai una volta ha nominato Dio o la fede. 
Qui Valli offre una “generosa” spiegazione sul perché Bergoglio abbia lasciato da parte il discorso scritto, nel quale erano almeno accennati i temi di Cristo, trascendenza e fede.
  

2) DISCORSO LAICO: disoccupazione, “linguaggio violento” della politica, migrazioni...
Poi vogliono farci credere che non sia cambiato niente!
Ci sarà un motivo nell'abissale differenza e contrasto tra un rifiuto aspro e inappellabile opposto a Benedetto XVI ad un'accoglienza calorosa, tra cori e applausi. Scrive la nostra Luisa.
Tante cose sono cambiate, è cambiato il papa. Vi ricordate quando Benedetto XVI dovette rinunciare a parlare alla Sapienza? C'è da ricordare anche il perché: il rifiuto vergognoso della sua lectio magistralis di Ratisbona!!!
Ebbene il suo successore è accolto con entusiasmo nella stessa università romana, un papa che non parla da papa ma come un uomo politico, un leader politico per di più perfettamente in linea con l`ideologia suicidaria del multiculturalismo, del rispetto delle differenze per non discriminare le minoranze, i migranti ecc., il suo abituale e molto costruito "linguaggio semplice che parla al cuore", i soliti facili psicologismi da manuale, tante generalizzazioni e banalità sul dialogo ecc., il rifiuto di dire che se, come dice, siamo in guerra, chi ci sta facendo al guerra vuole imporre la sharia e non certo dialogare, e mi sia permesso di dire tanta ignoranza o ideologia sulla storia dell`Europa, sulla situazione della Svezia che non è affatto quella rosea da lui descritta, Svezia che conosce una crisi molto grave legata all`immigrazione di massa, oltre che alla secolarizzazione. [vedi].

(Fonte: Chiesa e Postconcilio, 17 febbraio 2017)

“Mentre i socialisti in Francia mettono fuorilegge i Siti Pro Life e il Parlamento Europeo approva un Provvedimento (sempre della Sinistra) con cui ci chiede di finanziare le fabbriche di aborti a cui Trump ha tolto i finanziamenti, Bergoglio oggi è' andato all'università senza sfiorare nemmeno lontanamente questi avvenimenti, senza parlare mai di Gesù Cristo e di Dio, ma facendo un comizio politico di Sinistra (peraltro molto banale e da bar)” (Antonio Socci).



giovedì 9 febbraio 2017

Antonio Socci: Stop alla “guerra civile” cattolica

Non mi interessa sapere, detto francamente, perché Socci abbia scritto quel post in cui dice in buona sostanza di voler deporre le armi della polemica antibergogliana e, soprattutto, ciò che nessuno mi sembra abbia notato, torna a chiamare papa colui di cui ha messo chiaramente in dubbio il fatto che sia papa (e continua a chiamare papa anche Ratizinger, dando così per scontato che vi siano due papi nella Chiesa).
Non mi interessa perché, se Socci è forse colui che più lucidamente di ogni altro è stato capace di intuire tutto quanto non andava e non va, dall'altro è colui che più ciecamente di ogni altro si ostina a far finta che tutto questo che non va non abbia alcun collegamento con il passato, quasi si trattasse di un meteorite piovuto dal cielo.
Insomma, lucidissimamente intuitivo e psicologicamente fragilissimo, per la paura di fare i conti veri con se stesso e il proprio passato e presente. E' come un nuovo PItagora che intuisce un teorema, ma poi è come un bambino di prima elementare che rifiuta di studiare le tabelline.
Per questo, che l'abbia fatto perché costretto sotto pressione o per scrupolo di coscienza e altro, francamente, non mi interessa. In fin dei conti, sono affari suoi.
Mi interessa invece un altro aspetto. Ed è il fatto che parli apertamente di guerra civile tra cattolici.
Perdonate la mia sfrontatezza, ma qualcuno forse ricorderà che io l'ho scritto più volte negli anni passati, usando proprio questo termine. E, negare oggi questa lapalissiana evidenza, è veramente da bugiardi senza ritegno.
Siamo in guerra civile, amici. Una guerra grazie a Dio fatta con le tastiere e le parole, a volte violente. Ma sempre guerra è.
Basta guardare facebook o leggere articoli su internet di ogni giorno per rendersene conto.
Ma se siamo in guerra civile... una ragione ci dovrà pur essere. Non si può immaginare che una parte del mondo cattolico è impazzita completamente tutta insieme oppure che l'altra sia composta solo da bugiardi patentati.
Qualcosa non quadra. Questo, veramente, è innegabile. Qualcosa... ci spinge alla guerra, alla divisione. Ed è inutile e ridicolo incolpare il demonio, il divisore. Egli agisce, è vero, ma agisce in funzione delle possibilità concrete che gli si offrono. Ovvero, approfitta della realtà, può anche forgiare demiurgicamente la realtà, ma non crea la realtà. Questa, esiste per frutto delle azioni e scelte degli uomini.
Qualcosa è cambiato e sta cambiando nella Chiesa odierna. E non da oggi. Negare questa semplicissima verità, è negare l'evidenza delle cose, ed è un grave peccato, come insegna il catechismo.
Solo per rimanere agli ultimi tre giorni, si parla di sacerdozio femminile, vespri in S. Pietro con gli anglicani eretici, messa ecumenica con chi non crede alla Transustanziazione. E qualcuno pure bestemmia Maria Santissima. Ovvero, si distrugge completamente la nostra fede. Dinanzi a questo, si entra in guerra civile inevitabilmente, tra chi accetta tutto - per le più svariate ragioni, a partire da un sentimentalismo idolatrico - e chi invece ragiona ancora con la ragione e al servizio della verità teologica cattolica. E' inevitabile. E Socci non può farci nulla.
Più lucidamente di lui, lo hanno capito coloro che si sono schierati con il cambiamento, anche tra i laici. Basti pensare a vaticanisti noti, fino ad arrivare a pietosi esempi di ossessione da rinnnegato, di intellettuale decaduto che passa il proprio tempo a minacciare e offendere volgarmente, tipico di chi comprende la propria fine e l'esito drammatico del proprio tradimento.
Basti pensare a personaggi equivoci che vengono fuori all'improvviso con le idee più futurisriche possibili, chiara evidenza del loro cedimento alle lusinghe del mondo.
Altri cercano ancora di salvare capra e cavoli, alcuni in buona fede, altri per interesse, altri per mancanza di capacità di giudizio.
Ho appena letto un ottimo post di Costanza Miriano sul punto del sacerdozio femminile, in cui dice giustamente che le donne cattoliche non sentono questa necessità. Splendida verità. Il problema però che sfugge alla Miriano - e non mi interessa ovviamente se le sfugge in toto e se semplicemente evita di approfondire il tema - è che a chi ha iniziato l'opera sottile per arrivare a questa meta non gliene frega assolutamente nulla di quello che volgiono o non vogliono le donne cattoliche. Loro lo fanno per distruggere la Chiesa e la fede. Questo è il punto su cui cade l'asino, in questa tematica come in altre.
L'ecumenismo, i riti pluriconfessionali, il dialogo, il sacerdozio femminile, ecc., sono passi successivi della distruzione dei sette sacramenti, a partire ovviamente dal fodnamentale per arrivare al sacerdozio stesso. Esattamente come la progressiva furbesca dissoluzione delle verità morali e familiari, come possiamo ben costatare oggi.
Il nostro problema, ormai, oggi, non è come si tenterà di distruggere la Chiesa, la fede, i sacramenti, la morale, la famiglia, la retta sessualità. Questo è dinanzi ai nostri occhi.
Il vero problema, oggi, è che siamo in guerra civile. E' che siamo in scisma operativo. Non dico in Germania o all'estero, dove lo scisma è operativo da decenni. Dico in Italia. Siamo in scisma.
E tutti coloro - e provo per loro una profonda pena, anche per persone stimabilissime che vedo qui ogni giorno giocare come funamboli con la verità solo per tentare di rimandare i conti con la realtà o per irresistibile femmineo sentimentalismo - che tentano disperatamente di mantenere le gambe sui due dirupi, sono destinati a cadere prima o poi. Perché i due dirupi non sono una mia invenzione, né un'invenzione di quelli che invece chiaramente si sono schierati con il cambiamento.
I due dirupi ci sono a basta. E si allargano ogni giorno di più.
Basti pensare, un esempio tra mille, alla Conferenza Episcopale tedesca, vera signora della Chiesa odierna, che ci dice che il matrimonio tra persone omosessuali ha la sua sacralità rituale. O basti pensare al disprezzo che lo stesso clero del cambiamento dimostra ogni giorno verso chi rimane fedele alla verità di sempre. O basti vedere come costoro interpretano l'Amoris Laetitiae, ovvero ne danno il senso profondo senza remore, mentre altri continuano a far finta di non capire e non sentire...
Fino a quando continuerete amici miei a far finta che tutto questo non incida nella Chiesa odierna? E cosa farete se putacaso i dubia dovessero procedere?
Su una cosa ha ragione Socci. Siamo in guerra civile.
Una ragione ci sarà e non è perché ci sono i pazzi fanatici. Quelli che voi chiamate pazzi fanatici sono coloro che soffrono profondamente nell'anima per amore della Chiesa e della Verità.
E, ricordate, prima di accusare e offendere... Dio vede i cuori di ognuno. E Dio non cambia.

(Fonte: Massimo Viglione, Pagina FB, 9 febbraio 2017)



mercoledì 8 febbraio 2017

I Gesuiti di "Civiltà Cattolica": Porte aperte alle donne sacerdote

Il 2 agosto del 2016 papa Francesco ha istituito una commissione per studiare la storia del diaconato femminile, ai fini di un suo eventuale ripristino. E alcuni hanno visto in questo un primo passo verso il sacerdozio delle donne, nonostante lo stesso Francesco sembri averlo escluso tassativamente, rispondendo così a una domanda sull'aereo di ritorno dal suo viaggio in Svezia, lo scorso 1 novembre (nella foto il suo abbraccio con l'arcivescovo luterano svedese Antje Jackelen):
"Sull’ordinazione di donne nella Chiesa cattolica, l'ultima parola chiara è stata data da San Giovanni Paolo II, e questa rimane".
A leggere però l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", la questione delle donne sacerdote appare tutt'altro che chiusa. Anzi, apertissima.
"La Civiltà Cattolica" non è una rivista qualsiasi. Per statuto ogni sua riga è stampata con il previo controllo della Santa Sede. Ma in più c'è lo strettissimo rapporto confidenziale che intercorre tra Jorge Mario Bergoglio e il direttore della rivista, il gesuita Antonio Spadaro.
Il quale a sua volta ha il suo collaboratore più fidato nel vicedirettore Giancarlo Pani, anche lui gesuita come tutti gli scrittori della rivista.
Ebbene, nell'articolo a sua firma che apre l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica" padre Pani fa tranquillamente a pezzi proprio "l'ultima parola chiara" – cioè il no tondo tondo – che Giovanni Paolo II ha pronunciato contro il sacerdozio delle donne.
Per vedere come, non resta che rileggere questo passaggio dell'articolo, propriamente dedicato alla questione delle donne diacono, ma che da lì prende spunto per auspicare anche delle donne sacerdote.

NON SI PUÒ SOLO RICORRERE AL PASSATO
di Giancarlo Pani S.I.
[…] Nella Pentecoste del 1994 papa Giovanni Paolo II ha riassunto, nella Lettera apostolica "Ordinatio sacerdotalis", il punto di arrivo di una serie di precedenti interventi magisteriali (tra cui l’"Inter insigniores"), concludendo che Gesù ha scelto solo uomini per il ministero sacerdotale. Quindi «la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale. Questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa».
Il pronunciamento era una parola chiara per quanti ritenevano di poter discutere il rifiuto dell’ordinazione sacerdotale alle donne. Tuttavia, […] qualche tempo dopo, in seguito ai problemi suscitati non tanto dalla dottrina quanto dalla forza con cui essa era presentata, veniva posto alla Congregazione per la Dottrina della Fede un quesito: l’"ordinatio sacerdotalis" può «considerarsi appartenente al deposito della fede?». La risposta è stata «affermativa», e la dottrina è stata qualificata "infallibiliter proposita", cioè che «si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli».
Le difficoltà di recezione della risposta ha creato «tensioni» nei rapporti tra Magistero e Teologia per i problemi connessi. Essi sono pertinenti alla teologia fondamentale circa l’infallibilità. È la prima volta nella storia che la Congregazione si appella esplicitamente alla Costituzione "Lumen gentium", n. 25, dove si proclama l’infallibilità di una dottrina perché insegnata come da ritenersi in modo definitivo dai vescovi dispersi nel mondo ma in comunione fra loro e con il successore di Pietro.
Inoltre, la questione tocca la teologia dei sacramenti, perché riguarda il soggetto del sacramento dell’Ordine, che tradizionalmente è appunto l’uomo, ma non tiene conto degli sviluppi che nel XXI secolo hanno avuto la presenza e il ruolo della donna nella famiglia e nella società. Si tratta di dignità, di responsabilità e di partecipazione ecclesiale.
Il fatto storico dell’esclusione della donna dal sacerdozio per l’"impedimentum sexus" è innegabile. Tuttavia già nel 1948, e quindi molto prima delle contestazioni degli anni Sessanta, p. Congar faceva presente che «l’assenza di un fatto non è criterio decisivo per concludere sempre prudentemente che la Chiesa non può farlo e non lo farà mai».
Inoltre, aggiunge un altro teologo, «il “consensus fidelium” di tanti secoli è stato chiamato in causa nel XX secolo soprattutto a motivo dei profondi cambiamenti socio-culturali che hanno interessato la donna. Non avrebbe senso sostenere che la Chiesa deve cambiare solo perché i tempi sono cambiati, ma resta vero che una dottrina proposta dalla Chiesa chiede di essere compresa dall’intelligenza credente. La disputa sulle donne prete potrebbe essere messa in parallelo con altri momenti della storia della Chiesa; in ogni caso oggi nella questione del sacerdozio femminile sono chiare le "auctoritates", cioè le posizioni ufficiali del Magistero, ma tanti cattolici fanno fatica a comprendere le "rationes" di scelte che, più che espressione di autorità, paiono significare autoritarismo. Oggi c’è un disagio tra chi non riesce a comprendere come l’esclusione della donna dal ministero della Chiesa possa coesistere con l’affermazione e la valorizzazione della sua pari dignità». […]

A giudizio de "La Civiltà Cattolica", quindi, non solo vanno messe in dubbio l'infallibilità e la definitività del "no" di Giovanni Paolo II alle donna sacerdote, ma più di questo "no" valgono "gli sviluppi che nel XXI secolo hanno avuto la presenza e il ruolo della donna nella famiglia e nella società".
Questi sviluppi – prosegue il ragionamento della rivista – rendono ormai incomprensibili le "rationes" di divieti "che, più che espressione di autorità, paiono significare autoritarismo".
In altre parole, il fatto che la Chiesa cattolica non abbia mai avuto donne sacerdote non impedisce che ne abbia in futuro:
"Non si può sempre ricorrere al passato, quasi che solo nel passato vi siano indicazioni dello Spirito. Anche oggi il Signore guida la Chiesa e suggerisce di assumere con coraggio prospettive nuove".
E Francesco per primo "non si limita a ciò che già si conosce, ma vuole addentrarsi in un campo complesso e attuale, perché sia lo Spirito a guidare la Chiesa", conclude "La Civiltà Cattolica", evidentemente con l'imprimatur del papa.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 7 febbraio 2017)



venerdì 3 febbraio 2017

Che problemi ha l'Avvenire con Donald Trump?

“I gesti di Trump, un incubo che torna. Infame è il marchio.” (Marco Tarquinio, Avvenire, sabato 28 gennaio 2017).

C’è davvero qualcosa che non torna se, di fronte al terrorismo islamico che giura guerra (e la fa) all’America e all’Europa, un presidente che cerca di regolare l’accesso alle frontiere viene additato come xenofobo dal direttore del giornale dei vescovi in un editoriale di martedì. C’è certamente qualcosa che non quadra se chi chiude temporaneamente le entrate ad alcuni paesi dove le ambasciate Usa (come ha spiegato sulla NBQ Stefano Magni) non hanno la possibilità di controllare le identità dei richiedenti asilo, mentre la nostra gente viene uccisa a suon di Kamikaze, viene praticamente additato da Marco Tarquinio come un senza cuore. Peggio, come un mostro paragonabile al capo dei Jihadisti al Bagdadi che ha posto sulle case dei cristiani la “N” di Nazareno per dare il via a una carneficina. Soprattutto c’è qualcosa di sospetto, dato che il direttore di Avvenire non può non sapere che Trump ha promesso di proteggere i cristiani, concedendo loro asili speciali e chiamandone parecchi nella sua squadra di governo. Ancor più difficile credere che sia all'oscuro del fatto che nel 2013 Obama restrinse gli accessi a questi paesi, non per tre, come ha chiesto Trump, ma per ben sei mesi.
D’accordo la critiche sull’opportunità o meno di certe politiche. Come, ad esempio, quella del patriarca iracheno Louis Sako, che ha sconsigliato la corsia preferenziale per i cristiani preoccupato di ulteriori ritorsioni sulla comunità locale (colpa di Trump che li vuole accogliere o delle polemiche incendiate dalla stampa?), ma il livello di livore sulle pagine di quelli che demonizzano i muri in nome del dialogo appare davvero ingiustificabile. Soprattutto se si pensa, anche se si preferisce tacerlo, che la guerra all'Occidente è stata dichiarata ed è solo all'inizio. Dentro un quadro simile si comprende dunque il successivo imbarazzo di fronte a un "al Bagdadi come Trump", che il giorno successivo all’editoriale di Tarquinio ha chiesto la nomina alla Corte Suprema di Neil Gorsuch, uno strenuo difensore della legge naturale:“Un giudice conservatore per la Corte suprema”, ha titolato Avvenire sottolineando le critiche anticlericali e femministe sul fatto che Gorsuch sarebbe “contro i lavoratori” e “ostile ai diritti delle donne”, piuttosto che ricordare la sua difesa della libertà religiosa in diverse cause, tra cui quella delle Little Sister of the Poor. L’ordine di suore che assistono la popolazione americana più bisognosa e che Obama voleva bloccare nella loro attività solo perché contrarie all’aborto e alla contraccezione. Ad aggravare lo smarrimento è lo spazio esiguo dato alla notizia dei provvedimenti del presidente contrari all’aborto e quella dell’invio storico, per la prima volta da quando l’aborto è legale in Usa, del suo vice Mike Pence alla Marcia per la Vita di Washigton, per dire “a nome del Presidente degli Stati Uniti (…) Siate certi, ma certi, che insieme a voi, noi non ci stancheremo, non avremo pace finché non avremo ripristinato una cultura della vita in America”.
A questo punto, però, è inevitabile chiedersi cosa rappresenta di così pericoloso Trump, per suscitare in chi ama parlare di “ponti” un astio tanto irrazionale da falsificare la realtà? L’editoriale di Tarquinio descrive, usando i termini irenisti e semplicisti dell’ideologia globale, del sogno di una “casa comune” che vieta di ergere “muri” , accusando Trump di disinteresse per i “poveri” . Ora, a parte il fatto che il direttore di Avvenire non può non sapere che la classe media americana è scomparsa sotto la presidenza del liberal Obama, e non può nemmeno non porsi qualche domanda davanti all’odio che nutrono per le ricette del neo eletto presidente le multinazionali e i "big" della Silicon Valley (che si arricchiscono con fatturati miliardari dando lavoro a un numero esiguo di persone, come spiega Baldini sulla Verità di ieri), in questo modo la voce dei vescovi viene ridotta a politica. Un quotidiano espressione dell’episcopato dovrebbe infatti preoccuparsi più che altro di evangelizzare, leggendo i fatti alla luce della fede in Gesù Cristo e del suo Magistero, che ha il compito di difendere l’uomo da un potere che odia i princìpi della vita e della famiglia. Quelli che la Chiesa ha sempre riconosciuto come gli unici non negoziabili nel valutare la politica, perché strettamente legati alla difesa della fede e perché unico antidoto al potere mondano.
Assumere invece il linguaggio della globalizzazione, dell’ideologia multiculturale, significa servire queste due filosofie diaboliche che mirano a livellare tutte le identità a una, quella dell’Occidente laico che vuole appiattire l’uomo ai suoi istinti per farne uno schiavo. E sì che la dottrina sociale della Chiesa mette in guardia dal pacifismo e dall’egualitarismo ricordando che non c’è uguaglianza senza riconoscimento di situazioni differenti, che non esiste dialogo senza identità forti, che non c’è prosperità senza valorizzazione della propria economia. Che non si ottiene stabilità senza difesa dei confini, anche quando non piacesse alla Germania che fa da bandiera alla globalizzazione per soggiogare gli altri paesi europei, come ha denunciato martedì il consigliere economico di Trump, Peter Navarro. Ma si sa che svelare certe cose spaventa quanti strizzano l’occhio a chi è espressione di quel potere e a chi, come Gentiloni, ha twittato contro Trump: “Società aperta, identità plurale, nessuna discriminazione”. Proprio secondo l’utopia descritta che ha ben poco a che fare con il realismo cristiano di una pace sofferta e che si ottiene anche combattendo. 
Solo un cristianesimo che perde l’orizzonte verticale e che mira ad espandersi attraverso la tattica fatta di silenzi sulla verità, nell’illusione di allargare la sua cerchia di consensi, può arrivare all'odio di sé e di chiunque gli ricordi la sua vera identità. Eppure questa pare la mentalità che va per la maggioranza fra i vertici della Chiesa che, mentre accusano quanti difendono i princìpi non negoziabili di tentazione egemonica (peccato che non ci sia nulla di più socialmente invalidante oggi), dimenticano la fede nell’Aldilà per un piatto di lenticchie servito da chi usa l’umanitarismo per distruggere i popoli. Siamo dunque al paradosso di una fetta di cristiani pro Trump che, combattendo per un posto lassù, si sente più rappresentata da un presidente che promette di arginare l’ideologia dei nemici della fede (si può ancora usare questa parola e chiedere di essere difesi senza accuse di integrismo tipico delle personalità deboli?), che dai loro pastori "accoglienti". E attualmente più indaffarati a fare politica e schierarsi contro un presidente americano che, ridando speranza alla Chiesa militante messa all'angolo, mette in crisi il loro piano mondano di assicurarsi un posto quaggiù.

(Fonte: Benedetta Frigerio, La Nuova BQ, 2 febbraio 2017)



Viaggio nella “Catholica” del disorientamento pastorale

Al di là che si sia d’accordo o meno con le modalità di papa Francesco o piuttosto con quella di chi gli pone degli interrogativi, il saggio “Disorientamento Pastorale” di Danilo Quinto (edizioni Leonardo da Vinci, 265 pagine, 20 euro) aiuta a giudicare quanto sta avvenendo all’interno della Chiesa cattolica a partire dalle verità millenarie della fede e del Magistero. 
Spesso infatti i fedeli sono spaesati dalla confusione e non ne sanno uscire per ignoranza. Ad esempio: chi sa quando il papa è infallibile o meno? Chi sa quando la dottrina permette di interpellarle il Santo Padre pubblicamente su determinati temi? Chi sa davvero cosa significa l’obbedienza al pontefice? 
Purtroppo la maggioranza dei fedeli non è più in grado di rispondere a questi interrogativi, anche a causa di una voluta ambiguità di comunicazione della fede, che non è certo cominciata con l’azione pastorale di Francesco ma che fu già assunta da un certo linguaggio adottato dal Concilio Vaticano II.
Ora siamo solo alla radicalizzazione del problema dunque. Questa la tesi del teologo Antonio Livi nell’introduzione al volume di Quinto, che parlando dell’attuale pontefice spiega: “Si tratta del grande mutamento del paradigma pastorale per cui già il Concilio ecumenico Vaticano II (…) ha deciso di privilegiare il linguaggio parenetico su quello dogmatico, il tono conciliante su quello polemico (…) il risultato è stato che in alcuni documenti del Concilio (…) il nuovo linguaggio del Magistero è risultato oggettivamente ambiguo, provocando quella ridda di opposte interpretazioni che tanto hanno diviso la Chiesa”. E sebbene alcuni teologi del Concilio non ne “riconoscono l’autorità propriamente magisteriale”, continua Livi, la deriva anti dogmatica odierna ha assunto comunque proporzioni enormi, tanto da portare a un “ disorientamento pastorale”. Anche perché “dopo la pratica legittimizzazione dell’”ermeneutica della rottura” da parte di papa Francesco con il suo programma di riforme “pastorali” (che contraddicono sostanzialmente i dogmi del Concilio di Trento e gli insegnamenti irreformabili del magistero ordinario anche recente, come quello di Giovanni Paolo II) ciò che obiettivamente è in crisi è l’autorevolezza stessa del magistero ecclesiastico”.
Quinto analizza quindi il Concilio Vaticano II, ricostruendone la traiettoria, sottolineandone le ispirazioni e i danni recati da certe formulazioni visibili oggi con chiarezza. Insieme prende in esame molti passaggi problematici del pontificato attuale circa la dottrina e la fede cattolica, come ad esempio le affermazioni di Francesco su Lutero, la sua prassi nei confronti dei protestanti, le sue esternazioni sull’Islam, sul matrimonio e sul significato di misericordia e di accoglienza. Vengono vagliati anche certi discorsi papali di fatto più vicini al linguaggio umanitarista, piuttosto che a quello legato alla salvezza delle anime. Mentre molte affermazioni del papa di carattere colloquiale (interviste, battute, telefonate), dunque soggette a critiche come spiega sempre Livi, vengono esaminate dal saggio di Quinto alla luce del Vangelo e dei commenti dottrinali di altri teologi.
Quella di Quinto dunque è una battaglia che si può giudicare opportuna o meno, ma non si può affermare che non contribuisca a rimettere al centro le grandi verità immutabili della Chiesa che ogni fedele dovrebbe conoscere. E questo non può che essere un servizio, data l'impossibilità ad uscire dalla confusione per prendere una posizione certa sulla fede senza conoscere le verità immutabili custodite del magistero della Chiesa.
A questo punto ricordiamo le parole di una grande santa (usate da Quinto per mettere in guardia dell’irenismo che piace a chi mira all’instaurazione di un ordine mondiale basato sull’appiattimento delle differenze) per rispondere chi accusa quanti affermano il vero davanti alla confusione di essere dei divisori: “E’ vero che la guerra stessa è crudele (…) ma più crudele è l’intenzione di chi la usa per combattere la santa Fede, portando la guerra dove regna la pace di Cristo, e dove si è costretti a muovere guerra per riportarla. Quelli che fanno le giuste guerre hanno la pace come scopo: essi non sono contrari che alla pace cattiva (…) la pace mondana che non è affatto quella che il Signore volle e venne a portare sulla terra” (S. Caterina da Siena).

(Fonte: Benedetta Frigerio, La nuova BQ, 30 gennaio 2017)



Femminicidio: quante menzogne in una sola parola

Si sa che rimedi sbagliati vengono da diagnosi sbagliate che possono solo peggiorare i mali. E si capiscono i danni che ne possono conseguire se uno degli esempi più lampanti di questo errore è l’analisi sulle violenze e gli omicidi di coppia sbattuti continuamente sui giornali che li incasellano semplicisticamente con il termine “femmincidio”. Sebbene si tratti di tutto meno che di questo. 
Cominciamo chiarendo che la parola “femmincidio” è stata inventata dalla femminista e comunista messicana Maria Marcela Lagarde, che descrisse i delitti di mafia avvenuti agli inizi degli anni Novanta a Ciudad Jarez, dove furono uccise diverse donne, a suo parere solo per il fatto di essere femmine. A parte il fatto che il narcotraffico cittadino aveva mietuto vittime per l’80 per cento di sesso maschile e che le stesse femmine erano fra i sicari (“Noi donne lo facciamo per il denaro. Mi misi a uccidere a tempo pieno”, confessò Maria del Pilar Narro Lopez al Corriere della Sera nel 2011), è evidente l’errore grossolano con cui si definisce "femmincidio" qualsiasi omicidio di una donna. E’ infatti illogico ritenere che se ad essere uccisa è una femmina significa che il movente dell’omicidio sia per forza il suo sesso di nascita.
Alla luce di questa considerazione bisogna poi guardare ai dati reali e complessivi degli omicidi in Italia. Perché, come ha ricordato lo scorso giugno anche la femminista Paola Tavella, “su molti giornali, blog e comunicati si scrive in questi giorni che dall'inizio del 2016 i femminicidi sarebbero 58. Invece sono 36”. Mentre i dati del Viminale “fanno addirittura pensare che nei primi cinque mesi del 2016 il fenomeno sia sceso del 20 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015”. Ma anche in questi casi è imprudente sostenere che in questi delitti l’uomo uccide la donna perché odia la femmina in quanto tale. 
Il problema, infatti, è più complesso e risiede più facilmente, come ha spiegato nel suo libro "Il maschio fragile" lo psichiatra criminologo Alessandro Meluzzi, “nella coppia”. In una violenza e un possessivismo patologico con cui si pretende dall’altro la soddisfazione di tutte le proprie aspirazioni. Non c’entra nulla dunque la natura dell’uomo orco sempre più descritta nell’immaginario come incompatibile con quella della fragile fanciulla. Infatti, a pensare che il femminismo, che ora si batte contro il “femmincidio”, non ha fatto altro che fomentare l’idea della donna oggetto nel momento in cui ha slegato l’atto unitivo da quello procreativo all’interno del matrimonio, è ancor più sconcertante vedere quanto male faccia alla famiglia alimentare l’idea che il sesso maschile, propenso al dominio, abbia qualcosa di bacato in sé per cui deve essere arginato nel suo ruolo di comando.
Non a caso Meluzzi spiega come il “maschio fragile” che uccide la sua donna ha spesso alle spalle un background familiare in cui il legame con la madre è preponderante e patologico a discapito di quello paterno la cui figura è posta in secondo piano. Il problema reale consiste quindi in un ribaltamento dei ruoli e perciò in un’incapacità dell’uomo e della donna di vivere un’alleanza. Il che inasprisce e infragilisce i rapporti fra coniugi, rendendo di conseguenza deboli anche i figli. Perciò l’errore più grave nel cercare di fermare questa spirale di violenza è proprio quello di vittimizzare la donna, come conferma anche Meluzzi. I figli, infatti, imparano ad avere il senso del limite e ad accettare il “no” e le frustrazioni solo nel momento in cui il padre pone dei limiti, a cui la madre è la prima a non doversi “ribellare”, come spesso invece fa in nome dell’emancipazione.
A descrivere perfettamente i danni di questa ribellione, poi alla base della rivoluzione sessuale, fu l’enciclica "Casti Connubii" di Pio XI, il quale mise in guardia dalla falsa “emancipazione sociale, economica, fisiologica; fisiologica in quanto vogliono che la donna, a seconda della sua libera volontà, sia o debba essere sciolta dai pesi coniugali (…)", perché questa è invece corruzione dell’indole muliebre e della dignità materna”. E quindi è “perversione di tutta la famiglia”. 
Di più, perché il pontefice profetizzò che “questa falsa libertà e innaturale eguaglianza con l’uomo” sarebbero tornate “a danno della stessa donna; giacché se la donna scende dalla sede veramente regale, a cui, tra le domestiche pareti, fu dal Vangelo innalzata (...) ridiventerà, come nel paganesimo, un mero strumento dell’uomo”. La stessa Edith Stein, poi santa Benedetta dalla Croce, che in “La donna” descrive la sublimità della creatura femminile, spiega che la femmina, sensibile alla procreazione e all’amore più che l’uomo, è maggiormente tentata nel “cadere in una semplice vita istintiva. E quando ciò avviene essa diventa seduttrice che spinge al male, mentre la sua missione specifica sarebbe la lotta contro il male”. In questa lotta, continua Stein, l’unico rimedio è la devozione a Cristo nella preghiera e nell’Eucarestia che le dona l’amore a cui tanto aspira rendendola docile e amorevole a sua volta, così “poi deve onorare, con libera e amorosa soggezione, l’uomo immagine di Cristo”.
Anche perché la sottomissione, che chiama la donna a servire e ad essere collaboratrice di Dio servendo e sostenendo il marito nella guida della famiglia, realizza pienamente la natura femminile, come spiega bene san Francesco di Sales nell’”Introduzione alla vita devota: “In tutta la Sacra Scrittura si raccomanda insistentemente questa sottomissione (…) non solo perché vi chiede di accettarla con amore, ma perché raccomanda ai vostri mariti di fare la loro parte, con grande amore, tenerezza e dolcezza: Mariti, dice S. Pietro, abbiate un comportamento discreto con le vostre mogli, perché sono fragili come vasi di cristallo; e portate loro onore”. In poche righe si capisce che solo una donna disposta a seguire il marito valorizzandone il ruolo può ottenere una guida amorevole e salda in cui rifugiarsi. Al contrario l'alleanza si spezza con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti. 

(Fonte: Benedetta Frigerio, La Nuova BQ, 18 gennaio 2017)