giovedì 27 settembre 2012

Il “Cortile dei Gentili” di Ravasi impegna ad Assisi quaranta relatori. Ma per parlare di chi e di che cosa?

Il Cardinale Carlo Maria Martini ha fatto scuola. Fu lui, Vescovo e Cardinale, a ideare la «Cattedra dei non credenti», una formula che si è trasferita nel cosiddetto «Cortile dei gentili», incontri che dal 2011 si svolgono un po’ ovunque per promuovere in tutto il mondo il dialogo tra cristiani e non credenti; un’iniziativa ideata dal Cardinale Gianfranco Ravasi, dal 2007 presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.
Fra alcuni giorni, il 5-6 ottobre, avremo il «“Cortile di Francesco”: Dio, questo sconosciuto”». Cortile di Francesco? Ma san Francesco non ha nulla a che vedere con questa iniziativa laicissima e relativista, all’insegna della religione-non religione. Dio, per san Francesco, non era affatto sconosciuto, visto che per Cristo ha giocato tutta la sua vita e lasciò il mondo per abbracciare la Croce e l’abbracciò così tanto e così forte da meritare le stigmate.
Tanti nomi di successo, tanti volti di potere, quello statale, governativo, economico, culturale, giornalistico... Tante parole, un oceano di parole: nove incontri sparsi nella città del cattolicissimo san Francesco. Qui i riflettori saranno puntati su tutto e di più, tranne che sull’unica Verità rivelata da Gesù Cristo e custodita da Santa Romana Chiesa; qui troveremo il soggettivismo più smodato, quello che tanto spaventava e allarmava il Cardinale Newman, il quale rimase solo, nell’anglicana Inghilterra (molto più anglicana di oggi) a difendere quella Verità che tanto aveva bramato. Qui non troveremo neppure la testimonianza dei martiri, che per la Fede hanno immolato la loro esistenza, che per amore del Crocifisso hanno offerto sull’altare se stessi.
Ben quaranta relatori si succederanno, ma per parlare di chi e di che cosa?
La kermesse [nel cui programma c’è di tutto, persino un laboratorio di scrittura creativa, tranne una Messa, un momento di preghiera comune! Sono state omesse forse per non “annoiare” gli illustri convocati?] si aprirà con Gianfranco Ravasi e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e si chiuderà con Ravasi e il ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti del governo Monti, un governo tecnocratico dalle idee decisamente relativiste, immanentiste, globaliste e, in pratica, a favore della dissoluzione delle radici cristiane.
Ecco gli altri nomi nomi: Eraldo Affinati, Lucia Annunziata, Luigi Berlinguer, Franco Bernabè, Enzo Bianchi, Giancarlo Bosetti, Luigino Bruni, John Borelli, Susanna Camusso, Aldo Cazzullo, Vincenzo Cerami, Lorenzo Chiuchiu', Virman Cusenza, Ferruccio de Bortoli, Domenico De Masi, Massimiliano Fuksas, Umberto Galimberti, Stas' Gawronski, Massimo Giannini, Giulio Giorello, Simon Hampton, Orazio La Rocca, Raffaele Luise, Monica Maggioni, Giuliana Martirani, Armando Matteo, Roberto Olla, Ermanno Olmi, Mario Orfeo, Moni Ovadia, Giuseppe Piemontese, Federico Rampini, Ermete Realacci, Giuseppe Virgilio, Umberto Veronesi, Gustavo Zagrebelsky, Alex Zanotelli.
Ecco i temi trattati: «il grido dei poveri e il grido della terra», la fede, il lavoro, il dialogo interreligioso e interculturale, i giovani e il rapporto tra l’arte e il sacro. [“Dialogo tra credenti e non credenti” dicono: ma chi sarebbero i credenti “veri” in grado di dialogare di fede con i non credenti? Vedo solo nomi roboanti, legati alla più schietta “laicità”… Riesce difficile immaginare un sostanzioso contributo al tentativo, sempre che questo sia lo scopo della kermesse, di rendere Dio un po’ meno sconosciuto a quanti lo cercano sinceramente].
Insomma, ci saranno due protagonisti in scena: il dubbio e l’esperienza. Lui provocherà ancora più squilibrio in una società profondamente schizofrenica. Lei produrrà un caleidoscopio di idee “tarlanti” che si insinueranno nelle menti già più che sufficientemente confuse.
A chi, infine, questo simposio parlerà? La risposta è semplice: alle decine, forse centinaia di giornalisti che accorreranno ad Assisi e che faranno in modo che l’evento «sia stato un enorme successo». Certamente gli applausi arriveranno e saranno dettati dai nomi presenti, non dalle idee esposte. Aleggerà su Assisi una cappa protestante, liberista, atea, che trarrà alimento anche dalle idee socialiste e comuniste che continuano a vivere nel metabolismo di una civiltà malata, che ha deciso, scientemente, di aggravare il suo stato di salute spirituale e civile. Il linguaggio utilizzato sarà di carattere sociologico, demagogico, emotivo.
Dunque questo convegno della città che oggi è costretta ad ospitare eventi anti-cattolici non parlerà assolutamente alle anime assetate di certezze, di sicurezze, di trascendenza, di ancore a cui aggrapparsi, di pilastri a cui sostenersi, a quelle anime che a dispetto di tutto e di tutti accorrono ancora alle roccaforti dello spirito, ovvero ai Santuari o alle urne dei santi, come quella del cappuccino Pio da Pietrelcina, un altro figlio di san Francesco, che, anche lui, ricevette il dono delle stigmate. E non parlerà neppure a quelle anime che disperatamente vanno in cerca di pastori e maestri della Chiesa di Cristo e non di vip e narcisi, che amano se stessi e le passerelle del mondo.
Leggiamo nella prima lettera di san Giovanni:
«Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell'anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore» (1Gv 4,1-6).
Il 4 ottobre sarà la festa di san Francesco e il 7 ottobre Benedetto XVI proclamerà Dottore della Chiesa santa Ildegarda di Bingen: in mezzo a queste nobili date assisteremo a ciò che non vorremmo mai e poi mai si realizzasse. Ma sappiamo che la Passione della Chiesa è in atto, con tutte le sue dolorose conseguenze e la Fede, che per lei sarà dedicato un anno intero di riflessione e di preghiera (a partire dall’11 ottobre), subisce colpi spaventosi. Ci consoli il fatto che né san Francesco, né santa Ildegarda sarebbero stati invitati come relatori e neppure avrebbero partecipato, come spettatori, a questo triste e inquietante spettacolo.
Si obietterà che il Cortile dei Gentili “l’ha voluto il Papa”. Nell’home page dell’apposito sito, viene spiegato fin dalle prime righe: “Il Cortile dei Gentili è un suggerimento di Papa Benedetto XVI, poi sviluppato dal Cardinale Ravasi, con lo scopo di creare uno spazio neutrale d’incontro tra credenti e non credenti”.
Ma il punto è proprio questo: Benedetto XVI alludeva a colloqui miranti alla conoscenza e all’approfondimento della fede. II “Cortile” di Assisi al contrario disputa soltanto su Arte, Cinema, Cronaca, Filosofia, Giustizia, Sociologia, Letteratura (Cfr. il programma degli incontri). Ci manca solo il “red carpet” su cui far sfilare le stelle di quella solita “Kultura” italiana, onnipresenti opinionisti nei vari salotti televisivi.

(Ma.La. da: Cristina Siccardi, Riscossa Cristiana, 27 settembre 2012)
 

Il “Laboratorio Sinodale Laicale”: espressione militante della “Scuola di Bologna”

Si muovono nell’ombra, ma sanno dove andare. Non sono un gruppo qualsiasi. Si firmano “Laboratorio Sinodale Laicale”, ma dietro di loro c’era Giuseppe Alberigo e oggi ci sono i suoi pupilli Alberto Melloni (sì, l’articolista, nella foto, del “Corriere della Sera”) e Giuseppe Ruggieri (lo stesso che ci invita, con un volumetto appena pubblicato da Einaudi, a Ritrovare il Concilio).
In una parola c’è la “scuola di Bologna”, quella che auspica un “Vaticano III” per “riformare la Chiesa” e che ora si serve di uno strumento operativo per penetrare nelle parrocchie e nei circoli cattolici. Un esempio della loro concezione socio-ecclesiastica? Non credono nella famiglia, ma nelle «famiglie», come scrivono nel documento elaborato a Milano presso la Rettoria di San Gottardo, a Palazzo Reale. Dimenticando il vecchio e nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, che, con estrema chiarezza, spiega come famiglia sia solo quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, distinguono le famiglie «normocomposte» dalle altre. Senza escluderne alcuna. Senza fare eccezioni.
C’è da chiedersi, se nel mucchio vi siano da annoverare anche quelle omosessuali. Di certo vi finiscono separati, divorziati, coppie di fatto, nonché le cosiddette “famiglie ricostituite”, in una parola “pasticciate”. L’estemporaneo sodalizio ne chiede il «riconoscimento». Per questo cita i soliti casi estremi, tanto noti, ormai, da non esser nemmeno più strappalacrime. Non ne prende in considerazione la dimensione sacramentale. «Il punto di partenza» si ritiene sia un altro ossia «la coppia, che sceglie di entrare in un rapporto particolare basato sull’amore, su un progetto comune». Una sorta di “contratto”, insomma, che oggi si può fare e domani disfare. Per il Laboratorio, «omologare» la famiglia, assolutizzarla in un «solo modello» sarebbe un’«ingenuità imperdonabile», «sconcertante, povera e impoverente». Ma non si limita a questo: in un altro testo accusa la «gerarchia» di puntare solo sui «valori non negoziabili» e d’esser invece troppo servile nei confronti di una politica «populista».
Da qui, i soliti slogan ovvero la decisione di farsi portavoce della cosiddetta «base» e di sposare il più trito filone pauperistico. Ad ospitare le sue posizioni, oltre alla solita agenzia “Adista”, è il sito “Statusecclesiae.net”, gestito da alcuni dei firmatari della «Supplica» ai Vescovi del 13 febbraio 2007, in cui si chiedeva che accettassero e senza fiatare il progetto di legge sui «diritti delle convivenze», presentato quando in carica c’era il governo Prodi (primo firmatario della Supplica fu Giuseppe Alberigo), nonché i sottoscrittori del Documento dei 63, con cui nell’89 si accusò la Santa Sede di eccessivo autoritarismo, si pose in discussione l’infallibilità del Magistero e s’imputò alla Chiesa d’esser percorsa da «spinte regressive».
Alla bioetica cattolica, definita «infantile», preferiscono un’etica della situazione; si accendono per il mito dell’operaismo, per i “dissidenti” di “Noi siamo Chiesa” e per la teologia della liberazione –condannata ; gioiscono per l’abolizione dei crocifissi nelle aule scolastiche. L’elenco di sconcertanti luoghi comuni potrebbe continuare. Per contestarli tutti, dovremmo trascrivere il Catechismo, i testi del Magistero, della Tradizione e della Sacra Scrittura. Non ne vale la pena: rimandiamo agli originali. Di certo addolora però come queste posizioni possano diffondersi indisturbate: non sono solo critiche, infatti. Sono molto di più. E qualche parroco, come è già capitato, potrebbe utilizzarle nella propria pastorale. Reiterando l’errore. Liberissimi loro di non condividere le posizioni del Magistero. Ma abbiano almeno il coraggio e la decenza di farlo responsabilmente ovvero stando fuori dalla Chiesa.

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 25 settembre 2012)

martedì 25 settembre 2012

Nicki è triste!

Nicki è triste. Trattasi del “Nicki nazionale”, ossia di Vendola. Ce lo ha detto lui, ha tenuto a farcelo sapere. Perché è triste? Perché, da buon cattolico adulto quale è, non è d’accordo con il Papa. Nel discorso all’Internazionale democristiana (sarà un caso?) S.S. Benedetto XVI ha infatti voluto ribadire per la ennesima volta (a Casini e soci, e a tutta la Chiesa e a tutto il mondo) il dovere irrinunciabile – non solo per ogni cristiano, ma anche per ogni uomo che adotta razionalità e senso comune come norma di vita – della difesa senza condizioni né cedimenti del diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale per ogni essere umano e della difesa del matrimonio naturale e sacramentale fra uomo e donna.
In pratica, ha condannato aborto, eutanasia e omosessualismo.
E, così, Nicki è triste: infatti, proprio pochi giorni or sono, in una delle sue celeberrime uscite, aveva pronunziato questa eminente sentenza: “Se potessi fare ciò che voglio, adotterei un bambino da crescere con il mio compagno”. Ma, mal per lui, il Papa non è adulto come lui e non gli consente di essere “cattolico” e di vivere la propria vita contro la Legge di Dio e il diritto naturale. Perché di questo si tratta.
“Se potessi fare come voglio…”. Già queste assurde e patetiche parole – da bambino viziato e capriccioso – condannano Vendola. Evidentemente nessuno gli ha mai insegnato che la vita non si fonda sull’erba voglio, tanto meno quando in gioco vi è l’ordine stesso del creato e i diritti umani. La vita umana non è un gioco, è la cosa più sacra e seria del mondo.
Vendola nella sua attività politica sostiene di voler difendere i diritti dei più deboli… sì, di quelli che non gli danno fastidio, però. Che non lo fanno essere triste. Ma quando questi diritti gli creano un dispiacere perché deve rinunciare a “fare come vuole”, allora finisce la sua difesa dei diritti dei più deboli, e inizia il totalitarismo sovversivo di un egoismo senza fine e senza dignità (e senza onore).
Chi sono i più deboli che Vendola dimentica e calpesta? Non sono gli operai o i disoccupati: sono coloro che realmente costituiscono la “classe sociale” più debole e indifesa al mondo: quella dei bambini che devono nascere (o anche che sono appena nati o piccoli), e che hanno il diritto supremo: 1) ad essere accolti alla vita; 2) ad essere accolti da un padre e una madre, che hanno il dovere supremo di crescerli ed educarli nel rispetto del diritto naturale e divino. Esattamente, peraltro, come è capitato a Vendola, che è nato ed è stato cresciuto da un uomo e una donna.
La tristezza di Vendola è la tristezza di chi, schiavo del proprio disonorevole piacere ed egoismo, vive nella disperazione del sovversivo ribelle all’ordine e al creato, e quindi a Dio.
Vendola può continuare ad essere triste: perché, seppur leggi inique di una società e di una politica iniqua, gli “regalassero” un bambino in adozione (come disgraziatamente già può avvenire e avviene), quel bambino non sarebbe mai suo figlio, sarebbe solo un “sequestrato di Stato”, un essere sommamente sfortunato cui è capitato, probabilmente, il peggiore dei mali possibili.
È dovere di ognuno di noi fare tutto il possibile, e anche di più, per far rimanere Nicki profondamente e irrimediabilmente triste. E per far invece gioire del sorriso dei puri un bambino tra un padre e una madre.

(Fonte: Massimo Viglione, Corrispondenza Romana, 24 settembre 2012)

sabato 22 settembre 2012

La nuova puntata del Danbrownismo accademico: il papiro della “moglie di Gesù”!

Karen L. King, affermata docente ad Harvard, ha svelato appena ieri a Roma l’esito delle sue ricerche su un anonimo papiro che – udite udite – parlerebbe di un Gesù ammogliato. La King è una grande esperta di gnosticismo, ha in passato commentato il vangelo-bufala gnostico di Giuda. Oggi si cimenta in un’impresa fenomenale: ribaltare la visione comune della figura di Gesù, applicando le sue personali convinzioni all’ermeneutica di un brandello di papiro di provenienza sconosciuta.
Ed è da queste convinzioni della King, già autrice di opere discutibili e danbrowniane come “Il Vangelo di Maria Maddalena: Gesù e la prima donna apostolo“, che bisogna partire. Vediamo infatti cosa dice la professoressa King in qualche modo off-the-records, nel reportage esclusivo scritto da Ariel Sabar per lo Smithsonian Magazine:
“Come mai solo la letteratura che afferma che [Gesù] era celibe è sopravvissuta? E tutti i testi che mostrano che aveva una relazione intima con la Maddalena o che era sposato non sono sopravvissuti? E’ una casualità? O è per via del fatto che il celibato è divenuto un ideale per la Cristianità? [...] Il papiro mette in grande questione l’assunzione secondo cui Gesù non era sposato, che egualmente non ha alcuna evidenza.”
E aggiunge:

“Mette in dubbio l’intera affermazione cattolica che il celibato sacerdotale sia basato sul celibato di Gesù. Loro dicono sempre ‘questa è la tradizione, questa è la tradizione’. Ora vediamo che questa tradizione alternativa è stata messa sotto silenzio. Ciò che mostra [questo testo] è che ci sono stati dei primi cristiani per i quali le cose non stavano così, che potevano comprendere invero che l’unione sessuale nel matrimonio poteva essere una imitazione della creatività e della generatività di Dio e poteva essere spiritualmente giusta e appropriata“.
Ecco chiarito il senso della scoperta. Ecco chiarita l’ideologia che muove certo mondo accademico. La King nel suo studio sul papiro si mostra cauta e nega che la sua volontà sia quella di attestare l’esistenza di un legame maritale fra Gesù e la Maddalena, mentre nel reportage organizzato con lo Smithsonian Magazine (perché organizzare un reportage se ci si predica schivi e riservati?) manifesta i suoi veri obiettivi. Ma veniamo al dunque. Il papiro è scritto in dialetto copto-saidico e risale, secondo la datazione della King, al IV secolo d.C. Di che parla? Impossibile chiarirlo, dato il testo mutilo, ma ecco la traduzione datane dalla King, riga per riga (con tanto di congetture):
1 ] “no [a] me. Mia madre mi ha dato la vi[ta…”
2 ] I discepoli dissero a Gesù, “.[
3 ] negare. Maria è degna di
4 ]……” Gesù disse loro, “mia moglie . .[
5 ]… sarà capace di essere mia discepola . . [
6 ] Che i malvagi si corrompano … [
7 ] Per me, io abito con lei per… [
8 ] una immagine [
Va precisato che allo stato attuale il testo è considerato spurio o falso da almeno uno dei tre reviewers nominati dall’Università di Harvard per valutarne l’autenticità. In particolare a colpire è l’uso dell’inchiostro che – guardacaso – è più marcato nei pressi della parola “ta hime” (mia moglie).
E poi c’è da dire che il papiro proviene da un anonimo collezionista che lo avrebbe acquistato nel 1997 da un altro collezionista che lo acquistò negli anni ’60 nella Germania dell’Est. Ce n’è per un bel romanzo…
Ora, il centro del testo è appunto quell’espressione “mia moglie”, in copto saidico “ta hime”. “Shime” e “hime” sono usati in questo dialetto per tradurre sia donna che moglie (guné), ma non è questo il punto. Anzitutto va precisato che questo testo rientra necessariamente nella serie infinita di testi gnostici redatti a cavallo fra il II e il IV secolo dopo Cristo. Nella gnosi infatti il legame fra Gesù e Maria Maddalena giustifica l’unione divina fra il Cristo e la Sofia, emanazioni dirette della divinità che si oppone al Demiurgo, ossia al creatore del mondo come noi lo conosciamo.
E visto che con tutta probabilità questo papiro proviene sempre dallo stesso contesto in cui furono redatti i codici di Nag Hammadi, è interessante notare come la parola “hime” diventi sinonimo della parola “hotre” o “koinonos” che sempre identificano il ruolo della Maddalena quale “convivente” di Gesù nel cosiddetto Vangelo di Filippo. Va però compreso perché – come nota il famoso ricercatore finlandese dei testi di Nag Hammadi, Antti Marjanen – nello pseudo-Vangelo di Filippo la parola “hime” non ricorra mai per definire il rapporto fra Gesù e la Maddalena. Dunque è il Vangelo di Filippo a sbagliarsi su questa relazione o è il papiro anonimo a tradurre malamente (i testi in copto sono traduzioni dal greco) un termine proprio della “teologia” gnostica (come ad esempio il greco syzygos)?
In ogni caso siamo dinanzi ad una palese mistificazione della storia. Far passare il messaggio che la Chiesa Cattolica – a questa restringe il suo campo di accuse la King – avrebbe manipolato la storia della tradizione dei testi evangelici al fine di imprimere la propria ideologia sessista fondata sul maschilismo e il celibato sacerdotale è oltre che antistorico, palesemente infondato. Perché chi si intenda minimamente di storia della tradizione saprà che nell’antichità era l’autorevolezza delle fonti e la loro antichità a decretare l’accoglimento o meno di un testo. Insomma, non c’era internet dove chiunque può pubblicare una propria versione fantasiosa di un fatto storico e raggiungere potenzialmente lo stesso pubblico di una fonte autentica.
Sappiamo d’altra parte che la gnosi non deriva dal Cristianesimo, ma si è appropriata di alcuni aspetti del Cristianesimo e li ha rielaborati a suo uso e consumo. Purtroppo però questa visione “settaria” della Gnosi non è condivisa dalla professoressa King, che nel suo volume What is Gnosticism? (del cui acquisto mi pentii quattro anni fa solo dopo aver letto le prime pagine), invece di indagare la storia e la dottrina gnostica, si profonde in dotte elucubrazioni metodologiche che lasciano passare questa idea di fondo: la Gnosi in quanto dottrina separata dal Cristianesimo e dall’identità propria non esiste. E’ stato piuttosto il Cristianesimo del II e III secolo a mettere ciò che non gli andava a genio nel bidone dei rifiuti chiamato poi Gnosi.
Questo spiega il clamore che la “scoperta” sta suscitando ovunque nel mondo. Decontestualizzando un pezzo di papiro venuto fuori dalla spazzatura dell’antichità si finisce per operare non certo a favore della ricerca e del progresso degli studi storici, ma si dà solo sfogo alle proprie ideologie anticattoliche, a quell’ansia incontenibile di intaccare attraverso un lacerto di storia la solidità di secoli di tradizione, nella convinzione che la Chiesa Cattolica continui ad essere una sorta di onnipotente e malvagia setta intenta a coprire la verità del Gesù storico. E così anche un eminente accademico scade al livello meschino di un Dan Brown.

(Fonte: Francesco Colafemmina, Corrispondenza Romana, 22 settembre 2012)
 

giovedì 20 settembre 2012

Ora la lobby degli omosessuali punta al potere

C'era una volta il gay pride, l'orgoglio gay. Adesso c'è il gay party, il partito gay. C'era una volta la rivendicazione dei diritti. Adesso c'è la rivendicazione del governo. C'era una volta l'aspirazione all'uguaglianza. Adesso c'è l'aspirazione al potere. Non si capisce quello che sta succedendo in Italia se non si esce un po' dagli schemi abituali (destra/sinistra, Pd/Pdl) e si provano a mettere in fila i fatti sotto una luce diversa. E diversa, nella circostanza, sia detto senza alcuna allusione.Nichi Vendola in una intervista a Pubblico, il nuovo giornale di Luca Telese, lancia la bomba della propria voglia di paternità, spaccando volutamente il Pd.
Il medesimo Nichi Vendola, in precedenza, aveva annunciato il matrimonio con il suo fidanzato storico, il giovin canadese Eddy, creando altrettanto scompiglio. Giuliano Pisapia a Milano accelera sulle unioni civili, riempiendo i giornali di Riccardo&Roberto o Paolo&Giuseppe che celebrano para-matrimoni davanti alle istituzioni. Altri sindaci (dal genovese Doria al napoletano De Magistris) sono pronti ad accodarsi. In Sicilia Rosario Crocetta si candida con corredo di ostentazione omosessuale, come se l'essere gay bastasse per salvare la Regione dal crac economico. Rosy Bindi alla festa democratica di Bologna viene assalita a suon di riso e brillantini. Vogliamo andare avanti? Sono tanti piccoli segnali di un percorso scritto: il partito dei gay, evidentemente, ha gettato la maschera.
Basta con i travestimenti e le piume di struzzo, basta con il folclore dei gay pride, basta con la muccassassina e l'allegria del carnevale bisex, basta con gli scherzi e i lazzi: ora si fa sul serio. Ora si punta al potere. La lobby esce allo scoperto. Non si accontenta più di fare una campagna per i diritti: fa una campagna per il governo. Legittima, per l'amor del cielo. Ma devastante per i medesimi partiti, a cominciare proprio dal Pd. Non si riesce a cogliere, infatti, la difficoltà con cui i vertici democratici maneggiano la candidatura Vendola e il fastidio provocato dal suo crescendo di dichiarazioni esplosive, non si riesce a interpretare questo continuo alzare il tiro del governatore pugliese in sintonia con i sindaci della nouvelle vague di sinistra, se non si prende atto del salto di qualità che sta facendo il movimento gay: da rassemblement sostanzialmente libertario e un po' gruppettaro a struttura che punta alla scalata dei vertici delle istituzioni. Dalle paillettes alla livrea, dai carri allegorici alla stanza dei bottoni.
Il percorso era stato preparato con cura. Come ogni ascesa al potere che si rispetti, infatti, era cominciata sul versante culturale. Così, nel corso degli anni, abbiamo assistito a un'escalation di film gay, personaggi gay, fiction gay, amori gay, canzoni gay... Da Nonno Libero ai reality, ormai, non c'è più una storia che non preveda un ruolo importante per un omosessuale, a parte forse la Bella Addormentata e Cappuccetto Rosso. E comunque sul cacciatore nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco. Si è arrivati al paradosso che la presunta diversità è la normalità: una famiglia tradizionale, mamma papà e due figlioli secondo natura, non la si vede nemmeno nella pubblicità della Barilla.Invasi tutti gli spazi comunicativi, dunque, non restava da compiere che l'ultimo passo, e cioè trasformare la supremazia culturale in supremazia politica. Ecco fatto: la lobby si sta muovendo e spara in alto. Il punto, come è evidente, non sono le primarie del Pd o le fughe in avanti di Giuliano da Milano: il punto è la discesa in campo del partito omosessuale che non s'accontenta più della sbandierata parità ma ora vuole la vittoria. Che, dopo una storia passata in minoranza, si candida a guidare la maggioranza. Chi l'avrebbe detto: la colorata sfilata del gay pride punta a finire fra le grisaglie del palazzo. E non per creare scompiglio, ma per dettar legge.
 

(Fonte: Mario Giordano, Il Giornale, 20 settembre 2012)
 

mercoledì 19 settembre 2012

La menzogna della “teoria del gender” e l’incapacità ad educare

Può sembrare una presa di giro, ma ahimè non lo è. Nils Pickert è divenuto famoso sulle cronache dei giornali in quanto ha preso l’abitudine di indossare la gonna per imitare e solidarizzare con il bizzarro comportamento del suo piccolo figlio di 5 anni.
Il padre, definito dai media “premuroso e di sani principi”, non poteva certo obiettare al ragazzino che la gonna la usano le femmine; ma da “attento educatore” all’eguaglianza di genere, ha preferito indossarla insieme al bimbo e passeggiare allegramente per le strade di Berlino. Dopotutto, si giustifica Nils, «non mi sta neppure così male».
Il problema sta nel fatto che oggi se ne trovano molti di genitori così (che, grazie al cielo, non arrivano tutti ad indossare gli abiti dell’altro sesso), che accettano la teoria sulla eguaglianza di genere o cosiddetta “teoria del Gender”, e che la insegnano ai propri figli come corretta educazione per la crescita. Ritenuta corretta perché neutra, relativista, dunque svuotata del concetto di “educazione”. Ma cosa è questa fantomatica “Teoria del Gender”? Cercherò in poche parole semplici di spiegarla.
Tradizionalmente gli individui vengono divisi in uomini e donne sulla base delle loro differenze biologiche, poiché il sesso e il genere costituiscono un tutt’uno. La “Teoria del Gender” propone invece una suddivisione, sul piano teorico-concettuale, tra questi due aspetti dell’identità:
a) il sesso (sex) che costituisce un corredo genetico, un insieme di caratteri biologici, fisici e anatomici, maschili o femminili.

b) il genere (gender) che rappresenta una costruzione culturale, la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status di uomo, donna, gay, lesbo, trans, bisex e altri 17 generi, secondo la “Australian human rights commission”.
Il genere, secondo questa teoria, diventa un prodotto della cultura umana, il frutto di un persistente adeguamento sociale e culturale delle identità, ed è per questo che un uomo può illudersi di “scegliere” di diventare donna e così via. In sostanza, il genere è un carattere appreso o che io scelgo a mio piacimento, non qualcosa di pre-esistente.
Niente di più menzognero. Come già sosteneva Sigmund Freud, che certo non lo si può definire un oltranzista cattolico, l’uomo e la donna sviluppano la propria psicologia interiorizzando il proprio corpo sessuato durante l’infanzia e l’adolescenza. Quando questo non accade, i soggetti non accettano il proprio corpo reale rappresentandone uno che non corrisponde alla loro realtà personale: il corpo immaginato è diverso dal corpo reale e da questo passo si arriva ad identificarsi per ciò che non si è, portando questi soggetti di fronte ad un disorientamento sessuale.
Anche il Dott. Roberto Marchesini, noto psicoterapeuta, in una intervista alla rivista Il Timone, parlando della “teoria del Gender” così spiega: «Innanzitutto si tratta di un atteggiamento di ribellione nei confronti della realtà che non può che aumentare la sofferenza e l’angoscia nell’uomo. Secondariamente, questa teoria porta ad una visione che muta radicalmente la natura dei legami relazionali. La relazione, anche sessuale, non è più il compimento di un progetto della natura umana, ma diventa una questione di scelta, anche ideologica, sradicata dal livello biologico, persino variabile nel tempo. Infine, come è nel destino di ogni ideologia, anche la “teoria del gender” si sta trasformando quasi in una dittatura, che limita la libertà di pensiero e di espressione e discrimina chi non si adegua a questa visione dell’uomo».
Signori, se la natura - a parte i casi facenti riferimento a gravi patologie, quali l’ermafroditismo - è costituita da maschi e femmine, uomini e donne, un motivo dovrà pur esserci. Non è dato a noi scegliere il proprio sesso, bensì di riconoscerlo, di rispettarlo ed identificarci in esso, “C’est la vie”. Quindi vi do un consiglio, se un domani vostra figlia vi chiedesse di farle la barba rispondete così: «No tesoro, la barba se la fa il babbo, semmai quando sarai più grande tu, al suo posto, ti metterai sulle labbra un bel rossetto»; vedrete che la bambina non si scandalizzerà affatto.
 

(Da: Niccolò Corsi, UCCR, 14 settembre, 2012)
 

Un fiasco il film su Eluana: Bellocchio se la prende (ancora) con i cattolici

L’ultimo film del militante radicale ed ex comunista maoista Marco Bellocchio è intitolato “Bella addormentata” ed è ispirato alla triste vicenda di Eluana Englaro. Il regista, come abbiamo già avuto modo di far notare, ha approfittato per incrementare la confusione sulla vicenda, presentando una donna in stato vegetativo con gli occhi sbarrati e attaccata ad una macchina che la tiene in vita, costretta in questo stato da una madre isterica e cattolicissima. Nulla di più falso.
Eluana respirava autonomamente, nessuna macchina la teneva in vita, ed era costantemente circondata dall’amore di medici e suore che l’hanno curata e accudita per quindici anni. E’ stato il padre, Beppino Englaro, ad averla portata nella clinica, e alla fine ha pensato di ringraziare affermando: «me l’hanno violentata per 15 anni!». Un genitore tanto amorevole che, secondo quanto risulta dalle cronache, manco si trovava a Udine il giorno della sua soppressione. Eluana era tanto attaccata a Beppino che i medici di Sondrio hanno verificato che se a stimolarla era la madre, la donna sembrava «rispondere», obbediva cioè «a ordini semplici». Una notte, hanno appuntato, ha perfino pronunciato più volte e in modo inconfondibile la parola «mamma». D’altra parte è ormai dimostrato che gli stati vegetativi «hanno ancora una forma di coscienza di sé stessi, oltre ad una certa coscienza del mondo esterno», come hanno rivelato anche i numerosi “risvegliati” (anche qui).
Tornando al tentativo radicale di Bellocchio di mistificare i fatti, Lucia Bellaspiga, l’ultima giornalista ad aver visitato Eluana, ha spiegato: «nel film sembra che Beppino Englaro abbia messo fine alle sofferenze di Eluana. Peccato che Eluana non soffrisse minimamente e, ripeto, non era attaccata a nessuna macchina. In quei fatidici giorni avevo intervistato il dottor Carlo Alberto Defanti, neurologo di Eluana, favorevole all’eutanasia. Gli chiesi se Eluana soffrisse. Risposta: assolutamente no, non ha nessun tipo di patimento. Anzi, è molto sana, forte e ben curata dalle suore della Misericordia».
Il regista non solo ha mostrato una realtà differente rispetto a Eluana ma anche rispetto al mondo cattolico. Persone descritte come ossessionate, urlanti e oranti, mai pensanti come ha notato il filosofo Adriano Pessina. Un esempio: la militante cattolica e pro-life che si reca a Udine per sbraitare sotto le finestre della giovane donna in coma, viene mandata da Bellocchio in un motel assieme ad un giovane laico conosciuto pochi istanti prima, mentre la si vede nascondere il crocifisso che porta al collo. Questa è la squallida idea che il regista ha voluto far passare rispetto alle persone di fede cattolica, come è stato fatto notare su “Libero”.
Nonostante le ovazioni da parte de “Il Corriere della Sera“, che ha parlato di 16 minuti di applausi alla Mostra del cinema (mentre per “Il Sole24ore“ «sono stati misurati» e per “Il Messaggero” il film «non convince»), nonostante l’incredibile campagna di stampa, nonostante i baci, gli abbracci e gli occhiolini scambiati con Beppino Englaro, il film “Bella addormentata” non è stato manco preso in considerazione dalla giuria del festival e non è andata meglio con il pubblico pagante, avendo incassato in quattro giorni di programmazione soltanto il ricavato da 62.455 biglietti staccati. In molti si sono domandati il motivo allora di una tale enfatizzazione da parte dei media. Il regista ha così sperimentato la frustrazione dei radicali, noti per battaglie ideologiche tanto promosse dalla stampa e a cui poi nessuno si interessa, e si è sfogato annunciando di non voler più correre per il Leone d’Oro. Annuncio che ha suscitato indifferenza, diversamente a quando invece se l’è presa ancora una volta con i credenti, replicando alle critiche: «Perché i cattolici non fanno un loro film su Eluana Englaro?».
Bellocchio non ha ancora capito che ai cattolici non interessa fare un film su Eluana, ma preme soltanto che la verità non venga costantemente mistificata. Su di loro e su Eluana, che con questo film è stata uccisa due volte.
 

(Fonte: Il Guerriero della luce, 15 settembre 2012)
 

giovedì 13 settembre 2012

Dileggiare Cristo e i cristiani non è mai vietato, anzi…

Offendere Maometto non si può: ed è giusto. Anche perché le reazioni islamiche sono immediate e cruente. Offendere invece Cristo, la religione cristiana e i cattolici è sempre appagante e stimolante: tanto, noi offriamo pazientemente l’altra guancia. Il farlo spudoratamente, poi, è diventato ormai “arte”, ben vista dalla critica e supportata dagli osservatori laici. Nessuno ormai alza più un dito. Ci abbiamo fatto il callo. Non è detto che sia un bene, però è così, ci siamo abituati. D'accordo, c’è un po' di scandalo. Qualche reprimenda. Qualche “pensoso” intervento contro gli eccessi dell'arte blasfema e le fantasiose profanazioni dell'iconografia cristiana. Al massimo l'invettiva di qualche prelato. Nell'Occidente evoluto siamo, grazie a Dio, lontanissimi dalle rappresaglie letali di Bengasi a causa di un film per quanto si voglia offensivo del profeta Maometto. Noi siamo tolleranti e democratici: forse troppo.
Per dire, la popstar da alcuni decenni più famosa nel mondo, si chiama Madonna e nei suoi concerti è solita issarsi su una croce - non di legno ma di cristalli Swaroski - con tanto di corona di spine. Tuttavia, se le gerarchie stigmatizzano la performance, come quando fu inscenata a Roma nel 2006, allora scattano le accuse di censura e oscurantismo. Qualche giorno fa la Mostra del Cinema di Venezia ha ospitato in concorso Paradise: Faith, un film nel quale la protagonista, una fanatica cattolica, arriva a masturbarsi con un crocifisso. Proteste? Un avvocato ha sporto denuncia per vilipendio alla procura di Venezia e uno sparuto gruppetto di ultrà cattolici ha manifestato al Lido. In compenso, l'austriaco Ulrich Seidl si è portato a casa il premio per la miglior regia. Ai giornalisti il regista ha detto che il suo film «non è blasfemo, però mi piace scioccare». Ecco il trucco. La maggioranza delle opere sono costruite per «stupire i borghesi». Tranelli perfetti con l'alibi dell'arte contemporanea. I titoli di giornale fanno da volano pubblicitario e, in assenza di una legislazione che delimiti i confini tra arte e pura offesa, non c'è di meglio che suscitare le proteste delle gerarchie e dei cattolici più impulsivi per ottenerne un'indiretta visibilità.
Qualche mese addietro le polemiche s'infiammarono sull'opera teatrale di Romeo Castellucci Sul concetto di volto nel Figlio di Dio. Il “Salvator mundi” di Antonello da Messina incombente sul palcoscenico veniva imbrattato di escrementi dal figlio che accudiva il padre senza riuscire a fermarne il flusso di liquami. Poteva non destare scalpore una siffatta pièce? Gruppi tradizionalisti protestarono davanti ai teatri. Ma autori come Luca Doninelli e Antonio Socci l'hanno avvicinata al teatro di Giovanni Testori. Eppure Castellucci ha parlato di una «fatwa cristiana su di me». Nientemeno.
Tornando al cinema, sempre alla Mostra di Venezia, era il 1988, destò scalpore L'ultima tentazione di Cristo che Martin Scorsese aveva tratto da un romanzo greco. Gesù disertava la sua missione, sposava prima Maria Maddalena poi la sorella di Lazzaro e aveva come alleato Giuda. Tutto finì in un fuoco di paglia. Anche il film che ebbe scarso successo. Dello stesso periodo è Piss Christ, opera del fotografo Andres Serrano che ritraeva un crocifisso di plastica immerso in un bicchiere di vetro contenente l'urina dell'autore.
In anni più recenti sono soprattutto scultori e pittori a esercitarsi nello sberleffo della simbologia cristiana. Accese polemiche suscitò, per esempio, La rana crocifissa (con un boccale di birra e un uovo nelle mani) di Martin Kippenberger quando - estate 2008 - fu esposta dal nuovissimo Museion di Bolzano. Non valsero gli interventi di alcuni vescovi che sottolinearono «l'offesa ai sentimenti religiosi» a far rimuovere l'opera. Anni fa Alfred Hrdlicka, un altro artista austriaco (un'ossessione da quelle parti?), aveva ritratto l'Ultima cena come «un'orgia omosessuale» con scene esplicite. Ma quando nel 2008 L'Ultima cena di Leonardo restaurata da Pier Paolo Pasolini, questo il titolo, fu esposta nella retrospettiva del Museo della Cattedrale di Vienna, le proteste dei visitatori - chi l'avrebbe detto? - sorpresero i curatori della mostra. Ma vah! Poverini, non si erano accorti di nulla!
Nel 2010 altra bufera per La Madonna del terzo Reich del pittore Giuseppe Veneziano esposta a Pietrasanta: anziché un Gesù Bambino, Maria teneva in braccio Hitler. Stupore e incredulità dei curatori anche allora. Nel 2007 rimase invece a scandalizzare la comunità cristiana locale il quadro esposto in un museo di Sidney intitolato Bearded Orientals: Making the Empire Cross e raffigurante Bin Laden. L'immagine dell'ex terrorista si fondeva con quella di Cristo!
E via di questo passo...
 

(Ma.La. da: Maurizio Caverzan, Se offendere i cristiani non è mai peccato, Il Giornale, 13 settembre 2012)
 

mercoledì 12 settembre 2012

Ecco come abbattere i 5 falsi miti sulle Crociate

Le crociate rappresentano uno degli eventi più fraintesi della storia occidentale. La stessa parola “crociata” ancora oggi viene utilizzata con una connotazione negativa, quando ad esempio si intende sottolineare un conflitto i cui moventi siano più ideologici che ideali; lo stereotipo più collaudato, invece, è quello che descrive avidi nobili europei dediti alla efferata conquista dei musulmani pacifici, con ricadute negative che perdurano ancora oggi grazie anche alla diffusione di tale tesi “a senso unico” nei maggiori testi scolastici occidentali.
La storia delle crociate in realtà richiede una sorta di purificazione che è oltretutto doverosa anche alla luce degli ultimi studi che provengono da ambiti accademici molto accreditati. Consapevoli della complessità della tematica, cercheremo di sintetizzare i fatti storici, riprendendo un articolo molto più approfondito, comparso su “Crisis magazine”, circa i luoghi comuni consolidati, penetrati nell’immaginario collettivo. Un articolo simile è stato pubblicato in Ultimissima 17/05/11.
Mito #1: ”le crociate furono guerre di aggressione non provocata”:
E’ una falsità, poiché fin dai suoi inizi, l’Islam è stato un movimento violento e imperialista. A 100 anni dalla morte di Maometto, gli eserciti islamici avevano conquistato terre cristiane in Medio Oriente, Nord Africa e Spagna. La stessa Città Santa di Gerusalemme è stata presa nel 638, gli eserciti musulmani avevano conquistato i due terzi del mondo cristiano e i turchi stavano spingendo verso Costantinopoli, il centro della cristianità bizantina. Nell’XI secolo i cristiani in Terra Santa e i pellegrini che vi si dirigevano vennero a trovarsi in una situazione di costante persecuzione. Dopo la battaglia di Manzikert del 1071, lo stesso imperatore bizantino chiese aiuto ai cristiani in occidente, ma solo con Papa Urbano II venne indetta la prima crociata nel 1095. Dunque le crociate furono missioni di difesa armata, con l’obiettivo di liberare i cristiani d’Oriente e Gerusalemme dal giogo dei musulmani.
Mito # 2: “le crociate miravano al saccheggio e alla sopraffazione”:
Secondo una corrente di studi più antichi, il boom della popolazione europea registratosi nella metà del secolo XI ha reso necessario le crociate per offrire terre e titoli ai figli di nobili che erano tagliati fuori dalle eredità riservate ai primogeniti. Gli studi degli ultimi quarant’anni, invece, hanno evidenziato, sulla base dei documenti esaminati, come la maggior parte dei crociati erano primogeniti. Come ha affermato il prof. Madden, direttore del Saint Louis University’s Center for Medieval and Renaissance Studies, «non è stato colui che non aveva nulla da perdere a partecipare alle crociate, quanto piuttosto colui che ne aveva di più!» (T. Madden, “New Concise History of the Crusades”, Rowan & Littlefield Publishers, Inc., 2005, pag. 12). Ovviamente, come ha ricordato Giovanni Paolo II nel Giubileo del 2000, non sono comunque mancati episodi inutilmente violenti.
Mito #3: “i crociati massacrarono gli abitanti di Gerusalemme”:
Questo mito non tiene conto delle regole di guerra vigenti nell’XI secolo. Lo sterminio degli abitanti che avevano rifiutato di arrendersi prima di un assedio era una pratica comune per qualsiasi esercito, cristiano o musulmano. Gli abitanti erano consapevoli di tutto questo quando hanno scelto di non arrendersi, al contrario sarebbero stati autorizzati a rimanere in città e mantenere i loro possedimenti. Nelle città che si sono arrese, infatti, Crociati hanno permesso ai musulmani di mantenere la loro fede e praticarla apertamente. Nel caso di Gerusalemme, la maggior parte degli abitanti era comunque fuggita alla notizia dell’esercito cristiano in arrivo, chi è rimasto è morto, è stato riscattato o espulso dalla città.
Mito #4: “le crociate ebbero per obiettivo anche lo sterminio degli ebrei”:
Ci si riferisce, all’operato del Conte Emich di Leiningen, ma non solo a lui, il quale da convinto antisemita, imperversò nel 1095 lungo la valle del Reno per dirigersi contro le comunità ebraiche, convincendosi dell’inutilità a marciare per 2500 miglia per liberare i cristiani d’Oriente, quando i “nemici di Cristo”, secondo lui, erano in mezzo ai cristiani. In realtà la sua iniziativa, con l’ausilio di pochi fanatici disposti a tutto, non ebbe mai l’approvazione della Chiesa e anzi molti vescovi cercarono di proteggere gli ebrei locali che si trovavano nelle loro diocesi, come il vescovo di Magonza. Imponenti i discorsi di San Bernardo di Chiaravalle durante la seconda crociata (1147 – 1149) contro l’antisemitismo: «Gli ebrei non devono essere perseguitati, né uccisi, né costretti a fuggire! » (in “Epistolae”). Questi sporadici attacchi non sono dunque da attribuire ai Crociati ma a piccoli gruppi di uomini armati che ha seguito la loro scia.
Mito #5: “le crociate sono la fonte della tensione moderna tra Islam e Occidente”:
Coloro che cercano risposte per spiegare l’11 settembre 2001 citano le crociate come causa scatenante per l’odio islamico e credono che i musulmani stiano cercando di “correggere gli errori” che derivano da esse. In realtà ci si dimentica che le crociate sono state dimenticate dal mondo islamico fino al XX secolo. A tal proposito è interessante notare come la prima storia araba delle crociate sia stata scritta solo nel 1899 e che il risentimento musulmano nei confronti delle crociate, non ultimo i deliranti appelli di Osama Bin Laden alla “jihad contro ebrei e crociati”, affondi piuttosto le sue radici nel nazionalismo, oltre che nella più recente chiusura del mondo islamico ai costumi occidentali. Dal punto di vista islamico, le Crociate furono un insignificante periodo storico, della sola durata di 195 anni (1096-1291), per la semplice ragione che non ebbero mai successo, a parte la Prima Crociata in cui è stata conquistata Gerusalemme ripresa però da Saladino nel 1187. Le perdite di uomini furono in massima parte cristiane, non certo musulmane! Curioso poi l’aneddoto ricordato nel 1899 da Kaiser Wilhelm durante il suo viaggio a Damasco, volendo visitare la tomba del grande Saladino, il vincitore dei Crociati, l’ha trovata in un grande strato di degrado, dimenticata e lasciata decadere. Lo storico Thomas F. Madden ha commentato: «la memoria artificiale delle crociate è stata costruita dalle moderne potenze coloniali e tramandata dai nazionalisti arabi e islamisti» (T. Madden, “New Concise History of the Crusades”, Rowan & Littlefield Publishers, Inc., 2005, pag. 222).
Conclusione:
Le crociate non soltanto erano mosse da alti sentimenti di difesa della libertà dei cristiani d’Oriente, oppressi dagli imperatori islamici, ma ritardarono anche di tre secoli l’invasione dell’Europa, tanto che lo storico René Grousset parla di responsabilità “mondiale” che la Chiesa si è assunta nella loro promozione (R. Grousset, “La storia delle crociate”, Piemme 2003). Verrà il giorno in cui si smetterà di considerare le crociate un peccato capitale della Chiesa Cattolica eseguito criminalmente dall’intero mondo occidentale?
 

(Fonte: Salvatore Di Majo, UCCR, 10 settembre 2012)
 

I sermoni di Stefano Rodotà e l’ossessione per le nozze gay

Macché Paola Concia, macché Franco Grillini: il vero nemico del matrimonio tra uomo e donna, in Italia, si chiama Stefano Rodotà. E’ lui che, ormai da anni, martella puntualmente per le nozze gay con articoli ed interventi vari. Una cosa impressionante. Per l’illustre giurista infatti, il vero problema del Paese non è la disoccupazione, la pressione fiscale record, il divorzio, l’invecchiamento della popolazione o altro, bensì «il disagio esistenziale» delle coppie omosessuali che «non possono ricorrere al matrimonio» (“La Repubblica”, 7/6/2006).
Tutta colpa, secondo lui, dei cattolici e in particolare dei promotori del “Family Day”, che anni fa «hanno proclamato la morte dei disegni di legge sulle unioni di fatto» (“La Repubblica”, 26/6/2007). Scosso da tutto ciò, il Nostro però non si è arreso. Ed ha continuato a ricordarci l’esempio sia dei paesi «che hanno già riconosciuto il matrimonio omosessuale» (“La Repubblica”, 14/7/2006), sia di quelli in cui vi sono «norme» anche «sulle adozioni da parte di gay» (“La Repubblica”, 10/7/2006).
La ragione di tanta insistenza sta nel fatto che per Rodotà con il riconoscimento delle nozze gay «il diritto comincerebbe a riscattarsi, riprendendo almeno la sua forza simbolica, la sua funzione di legittimazione di comportamenti civili» (La Repubblica, 17/6/2011). Come dire: le coppie gay ci sono, dunque vanno riconosciute ipso facto. Il diritto ridotto a notaio dalla prassi: ragionamento sopraffino, complimenti. Si vede che c’è dietro un’intelligenza superiore, universitaria. Anche perché se la logica è quella cosa ci impedirà, domani, di regolamentare positivamente la prostituzione, l’eutanasia, il consumo di eroina? Il diritto esercita «la sua funzione di legittimazione di comportamenti» e siamo a posto. Tutti felici e contenti.
Tornando a noi e Rodotà, il problema è che finché nel Belpaese non saranno legalizzate le nozze gay, ci toccherà sorbirci i pistolotti del professore cosentino. Che anche poco tempo fa ha pensato bene – nel caso qualcuno, dopo cento articoli, avesse ancora dubbi sul suo pensiero – di tornare a spiegarci perché è giusto il «matrimonio tra persone dello stesso sesso» (“La Repubblica”, 19/7/2012). Ora, c’è un limite a tutto, adesso basta: urge approvazione tempestiva del matrimonio gay. Onorevoli, fate presto, svelti. Fatelo per Rodotà e per tutti noi, prigionieri dei suoi sermoni.
 

(Fonte: Giuliano Guzzo, UCCR, 8 settembre 2012)
 

Il vescovo di Pavia è “in comunione di fede” con i musulmani

La notizia non è freschissima perché, a cercare bene, la si sarebbe trovata a pagina 3 del numero del 24 agosto del settimanale “Il Ticino”, organo della diocesi di Pavia. Non sarà freschissima, ma siccome nessuno l’ha portata in luce risulta nuova fiammante e, a voler rendere onore a quel mestieraccio che è il giornalismo, è anche enorme e può venire riassunta così: il vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici, è in comunione di fede con i musulmani. Parola sua.
Perché non si tratta di una malevola interpretazione di un testo redatto in stile ambiguo che si presta a più letture e a più ermeneutiche. No, qui è tutto chiarissimo e precisissimo e di ermeneutica ce ne può essere una sola. Il messaggio che monsignor Giudici ha inviato alla “Guida della Comunità musulmana di Pavia” in occasione della fine del Ramadan finisce proprio così: «grati della Vostra testimonianza, si sentiamo in comunione di fede e di preghiera». Purtroppo, questo gran finale, diciamo così iperecumenico, non si può neanche definire un colpo di scena poiché il testo del messaggio lo lascia presagire fin dall’inizio e durante tutto lo svolgimento.
In poche righe, il pastore che dovrebbe aiutare i fedeli pavesi a conservare la fede cattolica è stato capace di infilare una discreta serie di quelle che, fino a poco tempo fa, si aveva la buona creanza di chiamare eresie. Leggere per credere: «Come Vescovo di questa comunità ecclesiale pavese, voglio esprimere a nome mio e della comunità sentimenti di vicinanza e di presenza alla Comunità musulmana pavese, in occasione della chiusura del mese sacro del Ramadan 2012. Sappiamo che avete celebrato la discesa celeste del Libro sacro del Corano, applicandovi a una lettura più intensa e pia della Parola di Dio e che avete offerto a Dio il sacrificio del vostro digiuno quotidiano. Grati della Vostra testimonianza, ci sentiamo in comunione di preghiera e di fede. Con stima, Giovanni Giudici, Vescovo di Pavia».
Dal messaggio di Giovanni Giudici, Vescovo di Pavia, si evince che il Corano è un Libro sacro disceso dal Cielo. Dunque, se è di origine celeste deve per forza di cose contenere la Parola di Dio, parrebbe, proprio come il Vecchio e il Nuovo Testamento. Qui si ha il pudore di usare il condizionale “parrebbe”, ma le maiuscole profuse da monsignor Giudici inducono a far piazza pulita di ogni prudenza. Da non sottovalutare neppure l’apprezzamento dell’offerta a Dio del sacrificio quotidiano del digiuno da parte della comunità musulmana. Se monsignor Giudici crede ancora nel valore sacrificale della Messa, come dovrebbe fare qualsiasi cattolico, mette i brividi sentirlo usare lo stesso termine che definisce la rinnovazione del Sacrificio del Calvario e le pratiche di una religione che, non essendo vera, può solo essere falsa.
Religione con la quale, se le parole e la sintassi hanno ancora un senso, il Vescovo di Pavia si sente in comunione. Rimane da rilevare che gli stessi sentimenti di vicinanza, di presenza, di stima e di comunione di preghiera e fede provati per i musulmani, monsignor Giudici non li prova per quei cattolici che mesi fa avevano intenzione di presentare a Pavia il libro di Roberto de Mattei sul Concilio Vaticano II. In quell’occasione, il Vescovo fu pronto e inflessibile nell’impedire l’associazione del nome e del marchio della sua diocesi all’iniziativa, forse troppo cattolica, tanto da metterlo in imbarazzo.
Non servono commenti. Solo la considerazione che, fino a qualche decennio fa, affermazioni come quelle del Vescovo di Pavia non sarebbero state permesse neppure a un chierichetto durante la gita parrocchiale.
 

(Fonte: Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro, Corrispondenza Romana, 11 settembre 2012)
 

L’inganno di Flores D’Arcais: «Martini è morto per eutanasia, ora la legge»

La morte dell’ex arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini era un’occasione troppo ghiotta perché laicisti, anticlericali e pro-death non ne approfittassero per portare acqua alla loro ideologia, così come le associazioni di omosessuali hanno fatto per la morte di Lucio Dalla. Facendo finta di essere dispiaciuti della morte dell’insigne biblista, ne hanno strumentalizzato la vicenda per la promozione della legge sull’eutanasia e il suicidio assistito. Il tutto è avvenuto attraverso tre tipologie di tentativi:
PRIMO TENTATIVO: “Martini era attaccato alle macchine”:
Il primo tentativo è stato quello di far credere che il cardinale fosse attaccato a delle macchine che lo tenevano in vita, così da poterlo paragonare a Piergiorgio Welby. Ha scelto di imboccare questa strada Mario Riccio, medico anestesista e rianimatore all’Ospedale di Cremona, che nel dicembre 2006 ha ucciso Welby: «Martini è il Welby della Chiesa», ha affermato. Lo ha seguito subito Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” secondo il quale Martini «ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita». Tentativo infelice, è stato fin troppo facile far notare che Martini non era attaccato a una macchina per continuare a vivere, come hanno spiegato i medici.

SECONDO TENTATIVO: “Martini ha disobbedito alla Chiesa rifiutando l’accanimento terapeutico”
La seconda tattica è stata quella di far credere che la Chiesa obblighi i suoi fedeli a sottostare all’accanimento terapeutico, e il card. Martini sia morto rifiutando tale imposizione. Questa è stata sicuramente la strada più battuta a livello statistico (qui riassunte bene), citiamo per esempio il militante radicale Federico Orlando, condirettore di “Europa”, quotidiano del Partito Democratico, il quale ha scritto: «il valore più alto che mio padre ci ha trasmesso» è stato «la dignità dell’uomo, come il rifiuto delle sante torture da parte del cardinale, che era parso eresia quando a contestarle fu il padre di Eluana Englaro». Da notare le “sante torture” per indurre che siano state “imposte dalla Chiesa”, e il paragone con Eluana Englaro, la quale -è fin troppo facile ricordare- non era in fase terminale, non subiva dunque accanimento terapeutico ed era in stato vegetativo, impossibilitata a comunicare.

Martini, al contrario, ha scelto coscientemente, come possono fare tutti i pazienti vigili, di non sottostare ad alcun accanimento terapeutico, ovvero di non farsi applicare un sondino per la nutrizione artificiale. Una morte dignitosa, dato che la Chiesa ritiene immorale l’accanimento terapeutico tanto quanto l’eutanasia. Infatti il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, ha commentato: «Anch’io come Carlo Maria direi no a quelle terapie: l’accanimento terapeutico è rifiutato dalla Chiesa e da tutti i cattolici. Non solo è sconsigliato ma direi anzi che è proibito, come è proibita l’eutanasia. Così come non si può togliere la vita, allo stesso modo non la si può prolungare artificialmente». Il dottor Giovanni Zaninetta, medico presso la Casa di Cura “Domus Salutis”, ha puntualizzato: «Innanzitutto nel caso del Cardinale, non si è trattato di rifiutare una terapia che in qualche modo poteva tenerlo in vita, ma ha semplicemente accettato il decorso della sua malattia, che in progressivo peggioramento, non poteva essere in alcun modo fermata». «Il caso di Eluana fu ben diverso», ha continuato il medico «perché la sua situazione era stabile e accettare di sospendere le cure significava compiere un’azione che avrebbe portato alla fine della sua vita».
TERZO TENTATIVO (Flores d’Arcais): “La sedazione palliativa equivale all’eutanasia”
Quest’ultima tattica è stata la più cretina, scelta (non a caso) dal solo filosofo laicista Paolo Flores D’arcais. Qui il livello di strumentalizzazione ha raggiunto i massimi livelli: fingendo compassione per Martini, Floro Flores D’arcais ha ripreso la lettera che la nipote dell’ex arcivescovo di Milano, Giulia Martini, ha inviato a “Il Corriere della Sera”, dove racconta gli ultimi istanti di vita. Ha scritto la nipote: «Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato». Una cosa normale, si chiama “sedazione palliativa” (o “farmacologica”), ovvero la somministrazione di un farmaco con lo scopo di far perdere la coscienza a un malato in fase terminale gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari. La procedura esclude la somministrazione di farmaci letali e il risultato è quello di far dormire profondamente il paziente per evitarli sofferenze. Come ha scritto la “Rivista italiana di Cure Palliative”: «non ci sono prove che la sedazione terminale/palliativa accorci la vita», è un continuum delle cure palliative, e con essa «non esiste un’accelerazione della morte nei malati sedati. Anzi, cinque studi hanno evidenziato una maggiore sopravvivenza nei malati sedati». Occorre comunque stare attenti all’utilizzo, come si è scritto su “L’Osservatore Romano”, «la sedazione farmacologica è e deve restare pratica rara in cure palliative, riservata a quei casi che si trovano a pochissimi giorni dal naturale decesso, a volte a poche ore».

Tuttavia Flores D’Arcais ha pensato bene di far credere ai lettori de “Il Fatto” (noti per non essere proprio delle aquile) che la somministrazione della sedazione palliativa sia un privilegio (magari per i soli cardinali!) e poi che si possa identificare come un vero atto di eutanasia. «Carlo Maria Martini», ha scritto, «ha deciso, deciso liberamente e sovranamente, il momento in cui voleva perdere definitivamente conoscenza, non “vivere” più la propria agonia e la propria morte [...]. Carlo Maria Martini ha giustamente goduto della libertà di scegliere il momento in cui dire basta, essere sedato, non dover provare più nulla». Al contrario, ha continuato il filosofo, lo Stato e la Chiesa vorrebbero impedire che il malato si addormenti all’approssimarsi della morte, «per imporre al paziente ore e giorni di vigile sofferenza che vorrebbe rifiutare». Essere sedati/addormentati (come prima di un’operazione chirurgica, per intenderci) sarebbe per Flores D’arcais un «privilegio, mentre avrebbe dovuto godere di un diritto». E poi il tentativo subdolo: «ogni giorno in ogni ospedale italiano ci sono esseri umani, “soggetti deboli”, che rivolgono la stessa richiesta, essere definitivamente sedati, non dover provare più nulla mentre il loro organismo si avvia verso l’ultimo respiro, e che non vengono esauditi». Nella concezione di Paolo Flores D’Arcais, gli ospedali sono dei lager sovietici in cui i pazienti terminali sono costretti a rimanere vigili all’approssimarsi della morte.
Arrivato alla fine del delirio, il filosofo laicista ha quindi invocato «una “legge Martini” che stabilisca in modo inequivocabile il diritto di ogni malato di scegliere il momento in cui ricevere una sedazione definitiva che lo accompagni in perfetta e irreversibile incoscienza alla morte dell’organismo». Flores D’arcais vuole una legge che permetta la sedazione palliativa, già in uso in tutti gli ospedali? Non male come espressione di intelligenza laica…rimane comunque convinto che «la Chiesa gerarchica e i politici che ne sono succubi (quasi tutti, anche a “sinistra”) e gli atei devoti e i falsi liberali che imperversano nei media e il cui nome è Legione, troveranno mille cavilli per dire no». Peccato per lui che hanno già detto “si”, anzi la Chiesa ritiene addirittura le cure palliative «una forma privilegiata della carità disinteressata».
I casi sono due: o Paolo Floro Flores D’Arcais ha davvero confuso la sedazione palliativa con l’eutanasia e quindi è ancora più annebbiato di quanto tutti sospettano; oppure ha tentato il giochino sporco di scambiare appositamente le due pratiche per indurre una sollevazione mediatica/popolare. In ogni caso, ancora una volta, il filosofo laicista ne esce malconcio, una figura quasi peggiore di quella realizzata in una delle sue ultime apparizioni televisive.
 

(Fonte: UCCR, 8 settembre 2012)
 

Bella addormentata: Tanto fracasso per un film deludente

Ci aspettavamo di più dalla “Bella Addormentata” di Marco Bellocchio, speravamo in qualche guizzo geniale, qualche riflessione più profonda nelle storie di vita e di morte che sapevamo essere raccontate, e invece abbiamo assistito a un film scontato e prevedibile, e quindi, tutto sommato abbastanza noioso. La nota ossessione anticattolica di Bellocchio, per la quale i preti e le suore hanno sempre un’aria cupa o, nel migliore dei casi insignificante, e spuntano continuamente da tutte le parti insieme a simboli sacri e a preghiere e canti dai toni vagamente mortiferi, fa da sfondo alle diverse storie che si intrecciano negli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro, ripercorsi in spezzoni di telegiornali e notiziari trasmessi in tv, ai quali assistiamo insieme agli attori. Ma le storie raccontate hanno tutte il sapore del dejà vu, con i loro percorsi banalmente corretti: in un autogrill la ragazza pro life che va a Udine a pregare per Eluana ha un colpo di fulmine per il ragazzo che milita – ovviamente, sennò che gusto c’è – nella parte opposta. Il marito che ama tantissimo sua moglie non può che accontentarla istantaneamente quando lei, malata, con un soffio gli chiede “amore mio aiutami”: in meno di due secondi le spegne l’interruttore della macchina che la tiene in vita. La ragazza in stato vegetativo è una bellissima bambola immobile in modo innaturale, non sbatte neppure le palpebre – ma qualcuno del cast, regista compreso, si è mai preoccupato di vedere com’è una persona in stato vegetativo? – respira rumorosamente attaccata ad una macchina (come poche persone in stato vegetativo) e sua madre, attrice di talento, vive solo per lei, in una sorta di suicidio intellettuale, professionale ed affettivo che appare irragionevole se non patologico: una rappresentazione scontata e ben poco rispettosa di chi nella realtà dedica la vita ad assistere i propri cari in queste situazioni.
I rapporti familiari sono tutti tragici o almeno molto problematici – a partire da “I pugni in tasca”, per Bellocchio la famiglia non è mai stata una risorsa – segnati da drammi umani, e non è un caso se l’unico segno di speranza, l’unica “bella addormentata” che si risvegli è una tossicodipendente senza famiglia che si vuole suicidare, alla quale un medico, senza famiglia pure lui (a casa non mi aspetta nessuno, posso rimanere qui anche una settimana, dice il dottore alla ragazza) presta assistenza in ospedale per impedirle di farla finita. E’ lo stesso medico che scaccia dalla camera il prete entrato a pregare accanto alla donna assopita, al quale restituisce pure l’immaginetta che il sacerdote le aveva appoggiato vicino al viso. Senza famiglia e senza fede, quindi, è l’unico fra i protagonisti che “compie” il miracolo del risveglio alla vita, che pare non riesca neppure a Dio.
Chi dice di credere, secondo Bellocchio, non crede veramente ma prega per fissazioni nevrotiche – come l’attrice – e comunque nei momenti importanti della vita, di fronte al grande dolore o al grande amore, non segue la Chiesa e si comporta come fanno tutti (lo dice sempre pure Marco Pannella): la donna in fin di vita chiede l’eutanasia subito dopo aver ricevuto i sacramenti; la ragazza pro-life abbandona la recita del rosario per raggiungere l’innamorato e ha cura, appena prima di fare l’amore, di girarsi dietro la schiena il crocefisso appeso alla sua catenina, come per buttarsi alle spalle qualcosa di inutile. Tutte trovate francamente grossolane e talvolta anche un po’ ridicole, che appiattiscono i protagonisti su stereotipi che sanno di stantìo. Insomma, la scelta della vita e della morte riguarda la storia e le relazioni delle singole persone ed è solo a loro che spetta decidere, in un mix sentimentale in cui l’amore e la vita e la morte si confondono, come nei migliori filmoni melodrammatici.
La rappresentazione della politica è banalmente in linea con tutto il resto: i politici sono tutti depressi e cinici, Berlusconi è onnipresente, il Pdl è il partito in cui si cura innanzitutto l’immagine, chi vota a favore della legge per salvare Eluana lo fa pressato dal partito, per compiacere Berlusconi ed essere ancora eletto. Non poteva mancare il fervorino pro-Beppino Englaro, recitato da un bravissimo Toni Servillo che, sinceramente, non meritava tutto questo, e rappresenta l’unico politico “buono” cioè quello che per coerenza si dimette, contrario alla legge voluta dal Pdl. Miglior attore non protagonista, Gaetano Quagliariello nella parte di se stesso, riproposto nella famosa scena al Senato in cui dice che “Eluana non è morta, è stata ammazzata”, unica traccia della grande, generosa e nobile battaglia pubblica, politica e culturale, che ha segnato veramente quei giorni drammatici. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo, e nessun guizzo di sceneggiatura, né di regia. La storia di Eluana aspetta ancora di essere raccontata.
 

(Fonte: Assuntina Morresi, Il sussidiario.net, 6 settembre 2012)

 

Grazie Bellocchio, alla fine potevi fare anche peggio!

Domanda: Sono soldi sprecati quei 150 mila euro versati dal Film Commission del Friuli Venezia Giulia per “La Bella addormentata”, film ispirato alla triste vicenda di Eluana Englaro in concorso alla 69esima edizione della Mostra del cinema di Venezia? La risposta è prevedibilmente positiva.
Bellocchio ha affermato e riconosciuto: «Non c’è pregiudizio, nè partito preso, certo il mio non è un film imparziale, in arte credo che l’imparzialità non esista, ma è sincero, e per nulla ideologico. Ho le mie idee, ma il film non ne è il manifesto. Credo che osservando bene si capisca la mia posizione». Secondo “Il Corriere della Sera” il film ha ricevuto una “standing ovation”, per “Il Sole24ore“ invece gli applausi «sono stati misurati». Secondo “Il Messaggero” il film «non convince», “Il Foglio” ha parlato di «film ideologico», mentre secondo l‘ironico inviato di “Libero” il regista riesce a far cambiare idea sull’eutanasia perché la «dolce morte» viene invocata dagli spettatori a causa della noiosa lentezza della pellicola.
Il film è pieno di cliché, come spiega Maurizio Caverzan. Quello che passa è che i cattolici e coloro che sono contrari all’eutanasia sono degli isterici esagitati, «quasi a far intendere che per difendere la vita allo stato terminale bisogna avere una fede patologica». Di «soliti cliché», parla anche Lucia Bellaspiga, l’ultima giornalista ad aver visitato Eluana a Udine prima della sua soppressione. Nel film c’è una giovane in stato vegetativo, una bambola di porcellana, la cui madre egoista e cattivisisima la tiene in vita sgranando istericamente il rosario. Nessuna traccia nel film «di ciò che realmente accade nelle migliaia di case in cui davvero si vive con un figlio in tali condizioni, nessuna traccia della fatica quotidiana e del coraggio, della speranza e della fede, nemmeno della povertà e delle battaglie per la vita», commenta la giornalista. Anche per il direttore del Centro studi per la ricerca sul coma “Gli amici di Luca”, Fulvio De Nigris, «manca la normalità di chi ogni giorno vive accanto a una persona nelle condizioni di Eluana Englaro». E’ un buon film, ha spiegato, ma «a senso unico. Fa sentire le famiglie che vivono con un proprio caro in coma e gravemente disabile, minacciate non nella loro libertà di scelta, ma nel loro diritto alle cure. Rappresentare anche queste famiglie è un diritto di verità, specialmente per un anarco-pacifista come si definisce lo stesso Bellocchio».
Un altra falsità: la giovane nel film è attaccata ad una macchina che la tiene in vita, mentre Eluana respirava autonomamente. E’ un classico trucco da Radicali, e non a caso Bellocchio, ex militante di Unione Comunisti Italiani, firmatario del manifesto contro il commissario Luigi Calabresi (definito “torturatore”), dal 2006 è militante nel partito radicale. Prossimamente presenterà il film a Udine alla presenza di Beppino Englaro, di cui ha letto il libro ed è amico.
Un’altra figura controversa è quella di Maria, cattolica e attivista “pro life” che parte per Udine e va a pregare sotto le finestre dietro le quali la donna in stato vegetativo sta morendo. Ma mentre prega si innamora di Roberto, attivista laico sul fronte opposto e corre in albergo con lui. Il primo piano insiste sul crocifisso che porta al collo, ma che si butta dietro le spalle mentre si spoglia. Il messaggio è chiaro: “l’incoerenza dei cattolici”, anche perché dopo aver fatto sesso lei cambia idea e si batte per l’eutanasia. Tuttavia, ha fatto notare Caverzan, la giovane cattolica è il «personaggio più risolto e sorridente del film». Anche il filosofo Adirano Pessina ha notato che «Il mondo cattolico viene presentato in forma monolitica, come cattolicesimo orante e non pensante» e dall’altra parte manca «anche quel turbamento di coscienza che spesso vedo nei non credenti».
Nel film tutti i cattolici appaiono invasati, mentre in quei giorni del 2009 a Udine dominava una grande sobrietà, preghiera e silenzio. Feroci e irreali, continua la recensione di “Avvenire”, appaiono anche i medici e ancora una volta il messaggio è chiaro: “ecco chi deve decidere sulle vostre vite”. In una scena iniziale c’è una drogata che ruba gli spiccioli dalle offerte in Chiesa e i fedeli la scacciano senza pietà. Alla fine è in ospedale, dove rinuncia al suicidio grazie a un medico capace di amarla, il quale poco prima l’aveva “salvata” anche da un incolpevole prete passato a benedirla e offrirle la sua vicinanza. «Non ho fede, ma rispetto e guardo con interesse e curiosità chi invece ce l’ha», ha detto Bellocchio. Pensiamo allora come avrebbe dipinto i cattivi credenti se non avesse avuto rispetto di loro!
Comunque ringraziamo il radicale Bellocchio per essersi trattenuto, alla fine poteva andare anche molto peggio. Basta solo pensare che in un altro film presentato al Festival di Venezia, “Paradise Faith”, una donna ultra-cattolica fa autoerotismo con un crocifisso…


(Fonte: UCCR, 7 settembre 2012)