mercoledì 26 giugno 2013

Von Balthasar, teologo della fede, a 25 anni dalla morte

Venticinque anni fa, il 26 giugno 1988, alla vigilia della sua creazione cardinalizia, moriva il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar che nel 1984 era stato insignito del Premio internazionale Paolo VI. Così l’Osservatore Romano lo ricorda:
Germanista, filosofo, teologo, musicista, amante di Mozart, fin dalla sua fanciullezza nella natia Lucerna, Hans Urs von Balthasar palesò queste sue inclinazioni, maturate in un ambiente cristiano dalla viva fede. Coronò la sua gioventù entrando nel 1929, a ventiquattro anni, nella Compagnia di Gesù. La sua ascendenza teologica così passò per i grandi nomi ed esempi di vita di Erich Przywara, Jean Daniélou, Henri-Marie de Lubac.
Rigorosamente formatosi alla scuola della patristica, lentamente la sua fama lo fece annoverare fra i grandi teologi mitteleuropei. La sua originale sintesi teologica, per piccoli passi e con difficoltà, si fece strada con le prime pubblicazioni fin dal 1925, ma gli causò anche grandi ombre di sospetto. Tanto da essere stato uno dei grandi assenti del concilio Vaticano II, insignito però nel 1984 del Premio Paolo VI.
Ebbe lo sguardo lungo, ma insieme fisso su quel microcosmo che è la persona umana e la sua intelligenza, lamentando la realtà in cui viveva. «Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale».
Proprio prendendo la mosse da una falsa ragionevolezza, von Balthasar non esita ad affermare «oggi non c’è più una persona ragionevole che preghi; l’era della contemplazione è passata, ora c’è l’azione: l’uomo non assume soltanto l’amministrazione del suo mondo, ma anche di se stesso, e fa di sé ciò che vuole».
In questa postura origina la deriva che non sa più riconoscere nella storia e nell’esistenza storica di ciascuno un dato irrevocabile: il patto. Cioè il «duplice impegno di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio», che non è frutto di iniziativa umana, ma che «poggia sulla iniziativa unilaterale di Dio formulata nel suo appello e nella sua promessa ad Abram». Patto sempre connesso al centro della sua riflessione con il vero mistero «quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito».
La ricerca del teologo svizzero fu innervata da un interrogativo che suscitò risposte precise e mai dismesse, «chi è il cristiano?», e che si può sintetizzare in poche parole: «Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili; il suo dono — ciò che è stato dato a lui stesso — affonda nelle cose invisibili di Dio».
Nel 1947 von Balthasar uscì dalla Compagnia di Gesù per poter seguire l’Istituto San Giovanni e l’omonima casa editrice fondata con Adrienne von Speyr di cui fu padre spirituale.
Nel 1952 dette alle stampe Abbattere i bastioni, in cui sosteneva che la Chiesa doveva sgretolare le mura che la rinchiudevano e aprirsi al mondo contemporaneo. Fu un atto rivoluzionario che incontrò notevoli difficoltà da parte della mentalità degli uomini di Chiesa. Ma questa colluvie, giunta fino al punto di interdirgli l’insegnamento nelle Facoltà cattoliche — come non ricordare anche il suo maestro de Lubac che passò, con onore, per la stessa strettoia e amò ancora di più il mistero della Chiesa? — fu una sorta di sigillo perché promanava da una sua riflessione, teologica e resa vita esistenziale. «Se la Chiesa è l’albero cresciuto dal piccolo granello di senapa della croce, quest’albero è destinato a produrre a sua volta granelli di senapa, e quindi frutti che ripetono la forma della croce, perché proprio alla croce devono la loro esistenza. Producendo frutti, la Chiesa ritorna alla propria origine».
Ancora una volta von Balthasar ribadisce le sue intuizioni. Se «la bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto», il luogo rivelativo è il Crocifisso, il dramma del Dio-Uomo che si offre, nella storia, perché chi a Lui si rivolge possa riconoscervi la forza per passare, testimoniando la fede, attraverso il proprio martirio.
Viene così confermata l’irriducibile alterità dell’identità del cristiano rispetto al mondo, cui peraltro deve aprirsi e con cui deve collaborare, sempre avendo davanti a sé il regno di Dio che non è di questo mondo. La vita si consuma in una lotta in cui non mancano sofferenza e notte ma in cui brillano, come luce, speranza e gioia.
Bellezza donata nella Rivelazione che diventa una calamita che attira e incendia la fede, riconoscendo la gratuità, segno preciso dell’agire di Dio verso l’umanità: senza conoscere la Bellezza non è possibile conoscere la verità e il bene.
Il Lògos è amore, gloria e splendore, che von Balthasar ritrova nella Scrittura, sempre letta nell’ottica della figura di Cristo e il drammatico evento della Croce, della kènosis che prelude un evento ancora più grande e definitivo: solo il Risorto rivela l’amore salvifico totale.
La morte della persona umana e dell’Uomo-Dio su cui tanto rifletté, pervase la sua ricerca teologica che continuava a dimostrare come la persona non fosse Dio. «Così noi moriamo arrivando a Dio, giacché Dio è vita eterna. Come l’avremmo toccato altrimenti che con la morte?».
Solo in questo varco, ineluttabile e silente nella nostra coscienza, ma che bisogna portare a voce piena, la persona umana si riconosce e riconosce Dio. «La morte nella nostra vita è il pegno che noi attingiamo l’oltrevita. La morte è la riverenza della nostra vita, la cerimonia dell’inchino davanti al trono del Creatore».
Non è lo sguardo ingenuo che non trasale o non si impenna dinanzi alla sconfitta della vita. È lo sguardo che buca il tempo «poiché la più profonda essenza degli esseri è fatta di lode, di servizio e di riverenza, che essi devono al loro Creatore, una goccia di morte si trova commista in ogni momento dell’essere. Ma poiché tempo e amore sono così intrecciati, essi amano anche il loro morire, e la loro esistenza non rifiuta il tramonto. E anche se la piccola singola vita si angustia, e l’oscura volontà dell’ego si erge contro la morte, l’esistenza stessa, la corrente profonda del mare che la fa salire e scendere riconosce la sua padrona e si piega volentieri». Non come lo schiavo costretto all’inflessibile volere di un padrone dominatore ma come servo che abbia sperimentato un amore più grande: «Giacché un presentimento, in essa, sa: esiste autunno unicamente perché si prepara una primavera, e volentieri accetta di inaridire in questo mondo ciò che porta la promessa di fiorire in Dio».
Il 26 giugno 1988 il grande teologo si accommiatò dalla storia degli uomini, dalla storia del pensiero filosofico, dalla Bellezza che aveva percepito in solitudine silente, solo due giorni prima di essere insignito della dignità cardinalizia che avrebbe sigillato la sua sofferta vicenda con il riconoscimento della Chiesa.
Fu un ultimo atto di kènosis, accettata e amata. «Così muore in Dio e in Dio risorge la creatura. Andiamo entusiasti dentro la luce, ne siamo attirati ed ebbri!».


(Fonte: Cristiana Dobner, Osservatore romano, 26 giugno 2013)
 

I “matrimoni” fra gay sono una tappa della “IV rivoluzione”

Durante le lotte giovanili del 1968 a cui partecipai con “eroico furore” all’università e nelle piazze di Milano, alcuni amici mi passarono un libretto intitolato “Rivoluzione e Controrivoluzione” il cui autore - Plinio Corrêa De Oliveira, pensatore brasiliano - aveva studiato filosofia, storia e politica alla luce del Magistero della Chiesa e delle opere di molti autori cattolici specie dei secoli XIX e XX. Lo lessi e lo meditai portandomelo nello zaino e nella tasca della giacca a vento militare, mentre osservavo, confrontavo e verificavo quanto di “vecchio” e di “nuovo” accadeva sotto i miei occhi in quel periodo convulso e “accelerato” della nostra storia. Così mi convinsi che lo “schema” proposto in quelle pagine era rispondente alla realtà e appresi che la “Rivoluzione” consisteva, in ultima analisi, nel rifiuto del Decalogo e, particolarmente in epoca moderna, nel “processo” di scristianizzazione e allontanamento dalla Chiesa, cominciato da Lutero nel 1517; proseguito, poi, nel 1789 dalla rivoluzione in Francia; quindi da quella sovietica del 1917; e, infine, dalla rivoluzione del “Sessantotto”, detta “culturale” o “dei costumi” che, dopo le “tre” precedenti, può chiamarsi, a buon diritto, “IV Rivoluzione”.
Quest’ultima, per usare parole di San Paolo, poi riprese da Sant’Agostino, si situa “in interiore homine”, cioè nel cuore e nell’anima dell’uomo e ne permea pensieri e azioni: così - in estrema sintesi - se la 1ª era stata solo “religiosa” contro la Chiesa di Roma; la 2ª fu “religiosa” e “politica” con la persecuzione e l’uccisione di molti preti e suore, distruzione di artistiche abbazie, la soppressione dei corpi intermedi nella società e, da ultimo, l’assassinio rituale del Re nel 1793; la 3ª, “religiosa”, “politica” ed “economica” con l’abolizione della proprietà privata, la riduzione a numeri delle persone e la cancellazione completa della Religione, da Marx detta - appunto - “oppio dei popoli”; la 4ª, che emblematicamente si fa iniziare dal 1968 (ma si preparava da decenni e ancora oggi è in atto), conserva, aggiornati e riveduti, i tratti e le “conquiste” delle “tre” che l’hanno preceduta, in nome della “libertà assoluta” e del “relativismo” spinge al massimo grado le pulsioni e le tendenze disordinate, sempre esistite nella natura umana, e pretende, infine, - qui sta la novità enorme! - che lo Stato apponga ad esse il timbro della legalità elevandole a “leggi” codificate. Tutto ciò ha per fine la “ri-creazione” di un “uomo e un mondo nuovi” mediante la distruzione della Famiglia, da secoli difesa e pilastro portante dei singoli e delle società: nel “68”, infatti - oltre che di marxismo-leninismo, già bocciato dalla Storia - si parlò di cose che in Italia si sentivano allora per la “prima” volta: “divorzio”, “aborto”, aborto “post-natale”, “femminismo”, “liberazione della donna”, “rivoluzione sessuale”, “amore di gruppo”, “liberazione dei figli dalla famiglia e dalla scuola”, “fuga dalla famiglia”, “liberalizzazione delle droghe” e, perfino, “diritto dei fanciulli ad avere rapporti sessuali con adulti”…, e si invocarono “leggi” che li coonestassero e li legalizzassero.
Nel precedente “schema” delle “quattro” Rivoluzioni, il termine più ricorrente - come ognuno vede - è l’aggettivo “religioso” proprio perché esse sono legate da uno stesso filo rosso: la lotta alla Chiesa Cattolica e a ciò che resta della Cristianità.
Oggi, nel lungo lavorio demolitorio della Famiglia, la tappa attuale della “IV Rivoluzione” consiste nella introduzione del “matrimonio” fra persone dello stesso sesso e conseguente diritto di queste alla adozione di bambini (due papà e due mamme, cancellazione degli stessi nomi di “padre” e di “mamma”: una vera e propria rivoluzione antropologica mai vista prima, con conseguenze drammatiche!): in tal modo ciò che per millenni è stato ritenuto aberrante perché innaturale, vogliono farlo diventare naturale e, quindi, legittimo con qualsiasi mezzo; infatti a questo scopo vengono propalate a man salva, specie da televisioni e giornali, tante menzogne supportate da una gigantesca propaganda in cui i “padroni del mondo”, palesemente o da dietro le quinte, profondono montagne di dollari alla faccia della povertà, della fame, della sete, delle malattie e dei problemi veri e reali che affliggono l’umanità intera. Non conosciamo le tappe future; ma possiamo intuire che altre ve ne saranno non essendosi ancora toccato il fondo dell’imbuto: la “Rivoluzione”, infatti, è un “processo continuo” che non può fermarsi, pena la sua stessa fine!
Domanda: ma, in ultimo, cosa ci guadagna la Rivoluzione nel demolire il Diritto Naturale che, ormai, soltanto la Chiesa Cattolica difende?
La risposta/spiegazione non può che essere “religiosa”: coloro che dall’alto organizzano e propagandano il disordine morale nel mondo, non hanno alcun guadagno “materiale” o in moneta sonante (è l’unica volta che quei “padroni” monetieri della grande finanza mondiale non abbiano un tornaconto di soldi!) Il loro guadagno è solo e soltanto “spirituale” e “metafisico”; esso non consiste nella “liberazione” delle persone omosessuali che attualmente subirebbero discriminazione dalla società etc. etc. (tale “liberazione” è una delle tante favole raccontate per gli ingenui: a lorsignori non è mai importato nulla del “dolore”, vero o presunto, delle persone!), ma il loro “guadagno” sta nella soddisfazione superba, diabolica, prometeica e superumana di contrastare il Disegno di Dio; succede, però, che non potendo aggredire Dio, puro spirito che non vedono e non toccano, si rifanno sull’uomo che è Sua creatura e immagine: in passato, a tal proposito, si parlava di “misterium iniquitatis”; ora, però, il vocabolo “iniquitas”, troppo duro (e in latino poi!), non si usa più, ma la parola “mistero” resta tutta intera e chiede di essere comunque spiegata. Mi rendo conto che l’argomento diventa “difficile” anche per molti buoni fratelli cristiani che frequentano chiese e oratori non più abituati a simili discorsi; sicuramente fa sorridere gli intellettuali boriosi (professori, filosofi, gazzettieri di giornali, giullari, teatranti, cantastorie e sparaparole e applauditori a comando…) che dicono magari di essere atei, ma in realtà sono solo neopagani; ridono, infatti, i politici come Zapatero e Hollande (nonostante Parigi venga invasa a ondate da milioni di dimostranti contro le sue decisioni!); ridono i caudatari politicanti nostrani, ministri di governo, presidenti di qualcosa, sparsi trasversalmente nei vari partiti pure cosiddetti di “destra” e che scalpitano già pronti all’“azione” anche in Italia, piccoli esecutori di ordini calati dall’alto. Io, invece, immagino che i loro “superiori” stiano assisi nei sinedri di logge massoniche e non ridano affatto; costoro, anzi, credono in Dio (anche il Diavolo ci crede, e come!) ma Lo odiano insieme al Suo Disegno, al Suo Vangelo, alla Religione, alla Chiesa Cattolica e, in definitiva, all’uomo stesso.

Chi di noi va a messa ogni Domenica (ma anche chi non ci va) e che, frastornato da tante chiacchiere, non sa spiegarsi il perché di molte cose che sembrano “accadergli” intorno come fulmini improvvisi e, soprattutto, sbalordisce per quell’odio, questi, oltre alle parole di Gesù (“Sarete odiati da tutti per causa mia” Lc 21, 17 o “ Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” Gv 15, 18), dovrebbe sapere che la “Rivoluzione” è un processo di secoli di cui il “matrimonio” gay è soltanto l’ultimo (per ora!) segmento e che, per capirci qualcosa di più, dovrebbe ripassare anche il capitolo della Storia dell’Umanità che qualcuno chiama “Prologo in Cielo”: quello dove si parla di “Angeli ribelli”, di Michele, di Lucifero, di “inimicizia con la Donna”, di “peccato originale”… In caso contrario, senza la interpretazione/spiegazione di quell’“antefatto” misterioso e lo studio/conoscenza di quel processo secolare, volendo leggere e magari, per carità verso se stesso e il prossimo, reagire al “Male”, rischia di dare inutili calci al vento!
Ad ogni buon conto, io, ultimo “quidam de populo” (leggi: “signor nessuno”), sono felice di trovarmi su questo argomento, per dir così, “metafisico”, in ottima e autorevole compagnia: Papa Francesco, infatti, quando era cardinale a Buenos Aires, a proposito di legalizzazione dei “matrimoni” gay che la brava presidentessa argentina, signora Kirchner, stava attuando, così ha risposto a delle suore che gli chiedevano lumi: “Questa non è semplicemente una lotta politica, ma un tentativo distruttivo del disegno di Dio. Questa è una “mossa” del padre della menzogna che cerca di confondere e ingannare i figli di Dio”.
A questo punto perché aggiungere altre mie povere parole ad un discorso già chiarissimo?


(Fonte: Carmelo Bonvegna, Miradouro.it, 30 maggio 2013)
 

giovedì 20 giugno 2013

Ad essere discriminata è la famiglia naturale

Per far sentire la voce delle famiglie sul tema dei diritti delle persone omosessuali a seguito degli interventi tutti orientati in un’unica direzione di Stefania Prestigiacomo (9 giugno), di Barbara Pollastrini (10 giugno) e di Ivan Scalfarotto (11 giugno) e ospitati dal “Corriere della sera”, il Forum delle Associazioni Familiari ha inviato una lettera, a firma del presidente Francesco Belletti, al direttore Ferruccio De Bortoli. La lettera (che pubblichiamo qui sotto) è stata respinta.
«Gli interventi pubblicati dal Corriere erano tutti orientati a caldeggiare l’urgente riparazione di un ipotetico torto, subìto dalle persone omosessuali per i cosiddetti diritti civili negati.
In base a tali illuminati interventi, l’Italia, in quanto cattolica, impedirebbe l’avanzare della civiltà dominante del nord Europa, che ha concesso la gioia del matrimonio alle coppie omosessuali. Quasi che il nostro Paese sia una landa incivile e arretrata perché gli omosessuali non possono sposarsi. Anche la citazione del card. Martini appare strumentalizzata, per convertire alla più moderna fede omosessualista quella “parte reazionaria del popolo cattolico” che non l’ha ancora abbracciata.
Ma sono davvero negati, questi diritti? E quali? Il diritto ad amarsi? Il diritto a convivere? Il diritto a non avere i propri redditi assommati nel computo delle imposte? Il diritto a nessun obbligo giuridico di mantenimento verso alcuno? Sarebbe invece più serio evidenziare che oggi le coppie omosessuali hanno molti meno obblighi rispetto alle coppie sposate: possono avere due prime case senza problemi fiscali, sono trattate con inusuale riguardo da fisco, pubbliche amministrazioni, aziende, mass media, istituzioni. Anche la richiesta di estensione di strumenti come la reversibilità delle pensioni o la quota di “legittima”, in termini di eredità, sono connessi, nelle proposte in discussione oggi, come nuovi diritti, totalmente scollegati da quei doveri di reciprocità, di stabilità, di fedeltà, di assistenza e cura, che la famiglia invece esige. Il progetto di legge Galan per le “unioni omoaffettive”, per esempio, chiede tutto ciò, ma consente di sciogliere tale unione dopo soli tre mesi di separazione. Bell’impegno, per chi poi pretende reversibilità permanente della pensione!
Stupisce che questi “paladini” dei cosiddetti diritti civili siano gli stessi che rimangono drammaticamente e costantemente silenziosi di fronte all’urgenza di dare finalmente una mano alle famiglie che ogni giorno costruiscono l’Italia, curano i propri figli, li preparano ad essere cittadini di domani, assistono i propri anziani e disabili, garantiscono la coesione sociale, subiscono sistematicamente un fisco che penalizza i carichi familiari, mentre sono abbandonate nei loro bisogni, senza nulla in cambio che una quotidiana diffamazione, perché la famiglia pare solo il luogo della violenza.
È invece evidente a tutti che l’Italia ha retto alla crisi soprattutto grazie alle famiglie, che hanno saputo gestire di generazione in generazione i propri risparmi a beneficio dei figli e dei nipoti, sostenere i propri giovani disoccupati, accudire i propri figli disabili e genitori anziani. Altro che Italia arretrata, reazionaria, etc., Proprio sulla centralità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna si fonda questa meravigliosa rete di solidarietà che tiene insieme il Paese.
Come opportunamente ricordava Francesco D’Agostino (Avvenire, 8 giugno) “il matrimonio non esiste per garantire la sensibilità dei coniugi, ma per consentire la costruzione di comunità familiari, alle quali la società (per mezzo dello Stato) affida i progetti intergenerazionali di convivenza”. Custodire i diritti individuali delle persone si può e si deve, con gli strumenti giuridici necessari. Attaccare la famiglia eterosessuale e genitoriale per questo è invece pessima scelta, che i movimenti di persone omosessuali per primi dovrebbero riconoscere come perdente. E anche il prezioso tema della lotta all’omofobia e a ogni discriminazione non deve essere brandito come un’arma per gli interessi di pochi, ma diventare terreno di confronto e di condivisione per il bene di tutti».
 

(Fonte: Uccr, da www.forumfamiglie.org, 19 giugno 2013)
 

Enzo Bianchi continua a imperversare

Il 20 aprile 2013 tutti i riflettori sono puntati su Montecitorio e sull’imminente e inedita rielezione del Presidente della Repubblica in carica. Pochi sanno che lo stesso giorno, a Bari, si svolge il festival di un’altra Repubblica, quella di Scalfari e della sua nutrita schiera di intellettuali laicisti. Tra i partecipanti figura anche Enzo Bianchi, il noto priore di Bose, araldo del dialogo tanto generoso quanto arrendevole col “mondo”.
A lui e al filosofo anti-cattolico Umberto Galimberti è affidata la riflessione sul tema Il nostro bisogno di verità. Un bisogno saziato con indigesti bocconi nichilisti da Galimberti (il che rientra nel copione) e con non meno ostiche e verbose dissertazioni di Bianchi. Si parla di morte e di senso della vita, delle «grandi domande», che la modernità illuminista vuole rigorosamente mantenere tali, senza risposte certe.
Il priore sta al gioco, sacrificando in nome del dialogo le basi stesse del cristianesimo e fa sapere al pubblico che c’è una «evoluzione del mondo della fede» e che oggi la «teologia classica» ha delle risposte interessanti alle domande esistenziali. La prima: «La fede non sta nel piano della conoscenza, la fede sta sul piano delle convinzioni» perché «il cristiano non ha certezze» e «chi crede, non è che sa. Non è che conosce. Chi crede è convinto, ha una convinzione dentro di sé»; inutile negare la forte carica relativista di un simile messaggio, un modo contorto e pasticciato di distinguere tra “scienza e fede” che finisce col fare torto alla tradizione cristiana, la quale ha sempre insegnato che «l’assenso della fede non è affatto un cieco moto dello spirito» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 156).
Seconda: la Chiesa «in un primo tempo» ha insistito sul peccato originale come spiegazione del male, ma, ci informa l’aggiornatissimo monaco, «oggi la Chiesa non è più su queste posizioni. La Chiesa non legge più il peccato originale nella preistoria degli uomini, questo davvero ormai è una sciocchezza. Più nessuno osa dire questo». Si osa invece dire che «il peccato sta nelle fibre di ogni uomo che viene al mondo. Se volete quella incapacità a operare sempre bene. Il male a un certo punto entra in noi. Quando noi abbiamo incominciato a essere cattivi? Chi è che lo può dire? a un certo punto abbiamo notato che il nostro operare era il male. E su questo la Chiesa non dà risposte». Invece sì: basta rispolverare il Catechismo del 1992 per apprendere che la dottrina di San Paolo sul peccato di Adamo trasmesso a ogni uomo è come «“il rovescio” della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa, che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo» (CCC, n. 389).
E gli scoop proseguono: la caduta degli angeli buoni «non fa parte del Credo, della teologia della Chiesa» (cfr. invece CCC, n. 391); la fede in Dio «dipende da Dio, se lui ci dà questo dono o no» (tradotto: se sei ateo, tranquillo, vuol dire che la fede non fa per te); «è più importante la coscienza che ogni autorità teologica, dogmatica ed ecclesiale».
Ci domandiamo cosa debba ancora accadere perché le autorità della Chiesa si decidano a lanciare almeno un richiamo formale al troppo disinvolto priore di Bose, il quale, paradossalmente, riesce perfino a “rubare lavoro” al Sant’Uffizio. Il 12 maggio 2012 a Caravaggio si era scagliato contro «certi movimenti» troppo affezionati alla parola «destino» e così ha concluso: «Mi domando perché nessuno li corregge». Testuale.
 

(Fonte: Amerigo Augustani, Corrispondenza romana, 19 giugno 2013)
 

sabato 15 giugno 2013

Che cosa ci insegna l'enciclica a quattro mani

I portavoce vaticani avevano cercato di smussare la realtà, avevano parlato di un documento di cui Benedetto XVI aveva abbozzato qualche parte e che Francesco avrebbe ripreso e completato; dicevano di una traccia del Papa emerito che il Papa regnante avrebbe sviluppato di persona.
Invece, sarà proprio una «enciclica a quattro mani»: così, testuale, lo schietto annuncio di Bergoglio in un'occasione ufficiale, il discorso alla Segreteria Generale del Sinodo dei vescovi. Dunque, ecco un'altra «prima volta» del pontefice argentino: un documento dottrinale di primaria importanza, addirittura sulla fede— dunque, sulla base stessa della Chiesa — voluto, pensato e in gran parte scritto da un Papa e firmato da un altro. Un altro che ha annunciato nella stessa occasione che non mancherà di dire subito ai destinatari della lettera circolare alla cristianità (tale il significato di enciclica) di «avere ricevuto da Benedetto XVI un grande lavoro e di averlo condiviso, trovandolo un testo forte».
Certo, ogni Papa nei documenti a sua firma ha sempre citato i suoi predecessori: ma in nota, come fonti, non certo come coautori. Anzi, viene subito da pensare — con un po' di ironia amara — che nel caso della rinuncia di Celestino V al pontificato, il suo successore Bonifacio VIII lo fece incarcerare in un luogo nascosto per paura di uno scisma e poi braccare quando fuggì.
Ma cerchiamo di capire come si sia giunti a questa situazione inedita. Preoccupazione primaria di Joseph Ratzinger — come studioso, poi come cardinale e infine come Papa — è stata sempre quella di tornare ai fondamenti, di ritrovare le basi del cristianesimo, di riproporre un'apologetica adatta all'uomo contemporaneo.
Per questo, aveva progettato una trilogia sulle virtù maggiori, quelle dette «teologali»: così, ecco un'enciclica sulla carità e una sulla speranza. Restava quella sulla fede, che contava di pubblicare entro l'autunno di questo 2013, al termine cioè dell'anno che aveva voluto dedicare proprio alla riscoperta delle ragioni per credere nel Vangelo. Il lavoro era già avanzato, quando ha dovuto constatare che l'avanzare dell'età non gli permetteva più di portare sulle spalle il fardello del pontificato.
Forse — libero dagli impegni di vescovo di Roma — le forze gli sarebbero bastate per concludere il testo e pubblicarlo, «declassandolo» da enciclica pontificia a opera di semplice studioso, come già ha fatto con i tre volumi dedicati alla storicità di Gesù. Volumi che non hanno valore magisteriale ma che sono aperti al dibattito degli esperti. È probabile che si sia consultato al proposito con Francesco ed è altrettanto probabile che sia stato lui ad assumersi ben volentieri il compito di utilizzare il lavoro già compiuto, portandolo a termine e firmandolo con il suo nome.
In qualche ambiente ecclesiale c'è sconcerto: l'idea di un documento papale di questa importanza e su un tema tanto decisivo redatto insieme lascia perplessi molti. A noi invece, per quanto vale, la cosa piace, la novità ci sembra preziosa perché potrebbe aiutare a ritrovare una prospettiva che anche molti credenti sembrano aver dimenticato. Quella prospettiva di fede, cioè, secondo la quale ciò che importa non è il Papa in quanto persona, dunque con un nome, una storia, una cultura, una nazionalità, un carattere. Ciò che importa è il papato, l'istituzione voluta dal Cristo stesso con un compito: quello di condurre il gregge, da buoni pastori, nelle tempeste della storia, senza deviare dal giusto percorso.
Il Papa (ovviamente sempre per gli occhi del credente) esiste perché sia maestro di fede e di morale, ma non dicendo cose sue, bensì aiutando a comprendere la volontà divina, annunciando la vita eterna che attende ciascuno al termine del cammino terreno, vigilando perché non si cada nel precipizio dell'errore.
E per questo gli è assicurata l'assistenza dello Spirito Santo che lo preservi dallo smarrire egli stesso la strada. Nel suo insegnamento, il pontefice romano non è «un autore», di cui apprezzare le qualità: anzi tradirebbe il suo ruolo se dicesse cose affascinanti e originali ma fuori dalla linea indicata da Scrittura e Tradizione. A lui non è concesso il «secondo me», che è invece proprio dell'eresia.
Semplificando all'estremo, potremmo dire che «un Papa vale l'altro» in quanto alla fine non conta la sua personalità ma la sua docilità e fedeltà come strumento dell'annuncio evangelico. L'aneddotica sui pontefici, sulla loro vita quotidiana, può essere interessante, ma non è influente sulla loro missione. Ciò che importa davvero, lo dicevamo, è il papato come istituzione perenne sino alla Parusia, sino alla fine della storia e al ritorno del Cristo; istituzione, che per il cattolico non è un peso da sopportare ma un dono di cui essere grato. Ci sia o no, il pontefice del momento, «simpatico» a viste umane, amiamo o no il suo carattere e il suo stile, Joseph Ratzinger e Jorge Bergoglio hanno, come ogni uomo, grandi diversità tra loro ma non possono divergere (e il Cielo veglia proprio perché questo non avvenga) allorché parlano del Cristo e del suo insegnamento da maestri di fede e di morale. In quanto strumenti - «semplice e obbediente operaio nella vigna del Signore », disse di sé Benedetto XVI nel suo primo discorso — sono in qualche modo intercambiabili. Possono approfondire il significato del Vangelo, aiutare a comprenderlo meglio per il loro tempo, ma sempre nel solco di Scrittura e Tradizione: non è loro lecito essere «creativi». Non sono «scrittori» ma guide, guidate a loro volta da un Altro.
Proprio per questo non ci dispiace affatto, anzi ci sembra preziosa l'occasione offerta ora da una di quelle che Hegel chiamerebbe «le astuzie della storia»: proprio per un documento che riannuncia la fede, cioè la base di tutto, un Pontefice emerito e uno regnante mostrano che gli uomini sono diversi ma che la prospettiva di chi è chiamato a condurre la Catholica è eguale, la direzione è la stessa. Ed eguali sono, in fondo, anche le parole per riproporre la scommessa sulla verità del cristianesimo. Dunque, nessuno scandalo per le «quattro mani».



(Fonte: Vittorio Messori, Corriere della sera, 15 giugno 2013)
 

venerdì 14 giugno 2013

Vicenza: Festival biblico con scandalo

Vorrei segnalare un fatto sconcertante avvenuto sabato 8 giugno nella Basilica Palladiana di Vicenza, in occasione del Festival Biblico, organizzato tra gli altri dalla Società San Paolo, da Famiglia Cristiana e dal Pontificio Consiglio per la Cultura. Dura diversi giorni e quest’anno, tra gli ospiti in calendario abbiamo visto monsignor Vincenzo Paglia, Edoardo Bennato, Lucetta Scaraffia, Alessandro D’Avenia, Philippe Daverio, Natalino Balasso e Michela Marzano.
Proprio quest’ultima è la protagonista del fatto che vorrei raccontare. Già la scelta di farle tenere una “lezione” senza alcun contraddittorio lasciava perplessi. Soprattutto per la sua attività di filosofa, con docenza presso l’Université Paris-Descartes.
Infatti, più che in un discorso filosofico assimilabile al cattolicesimo o almeno in dialogo, nei libri della Marzano ci si può imbattere in un abortismo forsennato, quasi mistico. In quello che forse è il suo libro più noto, Sii bella e stai zitta - volume assai polemico contro quella che definisce la «regressione delle donne italiane» - si trovano dichiarazioni piuttosto esplicite, del tipo: «Nel caso dell'aborto, ogni donna sa che il problema non riguarda solo il suo corpo, ma anche una “relazione impossibile” con un figlio che, per motivi spesso diversi, non si vuole o non si è in grado di avere. Lo difendo soprattutto perché la legalizzazione dell'aborto è l'unica possibilità che esiste, in uno stato civile, per garantire il rispetto delle donne. Non solo perché la vita di una donna – che esiste, vive, soffre, agisce – è infinitamente più preziosa di quella di un essere che non è ancora nato; ma anche perché sono convinta che non basta vivere perché la propria vita abbia un senso».

Ovvia quindi l’entusiastica accettazione della pillola abortiva RU486 («da quando, in Francia si utilizza la RU486, le complicazioni post-aborto sono diminuite»), così come l’ormai consumato ma sempreverde affondo sugli aborti clandestini: «Coloro che vogliono criminalizzare l'aborto non solo cercano di imporre agli altri la loro concezione del mondo e della morale, ma sono anche “indifferenti” di fronte alle tragiche conseguenze che potrebbe avere, per molte donne, il fatto di tornare a praticare l'aborto clandestino». Infine, il libro della Marzano apre ad un nuovo tipo di abortismo, un abortismo che osiamo definire “mistico”: «Senza un preliminare riconoscimento dell'altro, la maternità non esiste. La procreazione è un atto relazionale, un processo lungo e complesso che implica l'esistenza di un dialogo, seppur silenzioso, tra il futuro bambino e la madre all'interno del corpo materno. Se il riconoscimento non avviene, questo dialogo silenzioso non comincia, ed è difficile pensare che un dialogo mai nato possa instaurarsi in seguito. Ciò che, invece, è certo è che non si può imporre a una donna di portare avanti una gravidanza con la scusa che “avrebbe dovuto pensarci prima”».
Chi si chiede cosa ci faccia al Festival Biblico una persona con simili idee, chiamata ad esprimersi senza contraddittorio, potrebbe avere qualche ragione.
Il tema scelto per l’incontro con la Marzano è la fiducia. Nella sua la Marzano riesce a dire cose memorabili come «la fiducia non può essere assimilata alla fede, anche se hanno la stessa radice etimologica». Poi, trattando del tradimento della fiducia, dice qualcosa che ferisce un po’ di più: «L’uomo tradisce perché è un essere finito; se promettessi ad una persona di non tradirla mai, mentirei». La cosa dovrebbe urtare la sensibilità di qualcuno dei presenti, che magari ha mandato avanti decenni di matrimonio senza adultèri, ma tra il pubblico regna il silenzio. Anche i religiosi presenti, tra cui gli organizzatori, non hanno nulla da ridire, anche se magari hanno fatto e rinnovato la Professione di fede.
Arrivati al momento delle domande, un incauto spettatore chiede di rendere conto delle posizioni abortiste della relatrice. Va ricordato peraltro che il banchetto di «Uno di Noi» che raccoglie le firme per i diritti dell’embrione è all’ingresso, pochi metri più in là. Succede il finimondo. Larga parte del pubblico - probabilmente non bene informata sulle posizioni della Chiesa rispetto all’aborto - rumoreggia, insulta, inveisce; interviene il servizio d’ordine, che minaccia di portare fuori il malcapitato. La Marzano se la ride, poi grida al microfono: «E lei come si permette di giudicare la mia fede?». Applausi. Una risposta alla domanda, o una replica dell’interlocutore, non sono previste.
Quindi, una signora chiede alla onorevole professoressa lumi in merito a concetti espressi durante la conferenza, concetti molto inclini, dice la signora,  al «relativismo». La Marzano risponde senza toccare nessuno dei punti posti nella domanda, sfornando però un breve cantico dell’irrazionalità totale dell’uomo.
Un’altra elegante signora, evidentemente colpita dal fatto che al Festival biblico le stanno presentando una filosofa in totale antitesi con la Dottrina della Chiesa, torna a chiederle rispetto all’aborto: urli dal pubblico, insulti alla bella signora, la Marzano torna a ghignare.
«Per fortuna quando leggo il Vangelo, io ci trovo tanto amore». Giù applausi, ed insulti del pubblico alla signora della domanda. Nessuna risposta concreta è prevista.

Al termine dell’incontro, andiamo incontro a don Ampelio Crema, Superiore Provinciale d’Italia della Società San Paolo, organizzatore del Festival Biblico. Rivendica pienamente la scelta di aver portato la Marzano, nonostante le sue posizioni in netto contrasto con l’insegnamento della Chiesa. Un omino del servizio d’ordine - che ci tiene ad urlare a squarciagola il suo essere «insegnante di religione» - alza un po’ il tono contro i tre delle domande scomode, accusati di essere dei «fanatici provocatori». Inutile dire che l’unica provocazione dei tre sventurati è stata quella di porre, ordinatamente e con rispetto, alcune semplici domande, a cui una risposta che non fosse irrisione ed insulto proprio non è arrivata.
Se si fosse trattato di un convegno dei Radicali o del PD (il partito della Marzano), e cioè di luoghi dove anche legittimamente si può sostenere l’abortismo, si sarebbe potuto parlare di atti di disturbo. Ma ad un Festival organizzato da cattolici, questo no: con ogni evidenza, è un po’ troppo attendersi che la lectio magistralis di un evento dei paolini sia riservata ad una persona che quantomeno sia a difesa della vita (come insegna la Bibbia, i Papi, l'umano buonsenso). Al festival vicentino vediamo così sorgere all’orizzonte cose inedite: dopo il «relativismo biblico», abbiamo la sorpresa dell’«abortismo biblico».
 

(Fonte: Diego Molinari, La nuova bussola quotidiana, 10 giugno 2013)
 

Bergoglio, il "papa nero" vestito di bianco

Ci mancava un guru della McKinsey per disegnare quella riforma della curia che tutti si aspettano da papa Francesco. Ed eccolo che è arrivato.
Si chiama Thomas von Mitschke-Collande, è tedesco ed è stato direttore della filiale di Monaco di Baviera della società di consulenza manageriale più famosa e misteriosa del mondo.
In cose di Chiesa, sa il fatto suo. L'anno scorso ha pubblicato un libro col titolo poco tranquillizzante: "Vuole la Chiesa eliminare se stessa? Fatti e analisi di un consulente aziendale". La diocesi di Berlino si è rivolta a lui per rimettere in sesto i suoi bilanci e la conferenza episcopale di Germania gli ha chiesto un piano per risparmiare in costi e personale.
L'idea di metterlo all'opera anche per la riforma della curia romana è venuta a Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, uno degli otto cardinali chiamati da papa Jorge Mario Bergoglio a fargli da consigliere.
Latore della proposta all'interessato, che l'ha accolta con entusiasmo, è stato padre Hans Langerdörfer, il potente segretario della conferenza episcopale tedesca, gesuita.
Anche Bergoglio è gesuita e da come agisce si è ormai capito che intende applicare al papato i metodi di governo tipici della Compagnia di Gesù, dove al preposito generale, il cosiddetto "papa nero", competono poteri praticamente assoluti.
La sua reticenza nell'attribuirsi il nome di papa e la sua preferenza per qualificarsi come vescovo di Roma hanno fatto esultare i paladini della democratizzazione della Chiesa.
Ma il loro è un abbaglio. Quando Francesco, il 13 aprile, ha nominato otto cardinali "per consigliarlo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della curia romana", li ha scelti di testa sua.
Se avesse seguito i suggerimenti del preconclave, il "consiglio della corona" l'avrebbe trovato già bell'e pronto. Gli sarebbe bastato chiamare attorno a sé i dodici cardinali, tre per continente, eletti al termine di ogni sinodo e quindi anche dell'ultimo, nell'ottobre del 2012. Eletti con voto segreto e rappresentativi dell'élite dell'episcopato mondiale, con dentro quasi tutti i nomi di peso dell'ultimo conclave: i cardinali Timothy Dolan di New York, Odilo Scherer di San Paolo del Brasile, Christoph Schönborn di Vienna, Peter Erdö di Budapest, Luis Antonio Gokim Tagle di Manila.
E invece no. I suoi otto consiglieri papa Francesco li ha voluti scelti da lui soltanto, non scelti da altri. Chiamati a rispondere solo a lui, non anche a un consesso elettivo.
Ne ha voluti uno per ogni area geografica: Reinhard Marx per l'Europa, Sean Patrick O’Malley per l'America settentrionale, Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga per l'America centrale, Francisco Javier Errázuriz Ossa per l'America meridionale, Laurent Monsengwo Pasinya per l'Africa, Oswald Gracias per l'Asia, George Pell per l'Oceania, più uno di Roma, non della curia strettamente intesa ma dello Stato della Città del Vaticano, il suo governatore, il cardinale Giuseppe Bertello.
Quasi tutti i prescelti ricoprono o hanno ricoperto cariche direttive in organismi ecclesiastici continentali.
Ma questo è proprio ciò che accade nella Compagnia di Gesù. Bergoglio ne è stato superiore provinciale e ne ha assimilato lo stile. Al vertice della Compagnia gli assistenti che attorniano il generale, da lui nominati, rappresentano le rispettive zone geografiche. Le decisioni non vengono prese collegialmente. Solo il generale decide, con poteri diretti e immediati. Gli assistenti non devono accordarsi tra loro e con lui, consigliano il generale ad uno ad uno, nella massima libertà.
Un effetto di questo sistema sulla riforma della curia romana annunciata da papa Francesco è che non è stata insediata nessuna commissione di esperti con il compito di elaborare un progetto unitario e compiuto.
Gli otto cardinali stanno separatamente chiedendo l'apporto di persone di loro fiducia, dai profili più disparati. Oltre all'uomo McKinsey reclutato dal cardinale Marx ne sono stati interpellati almeno una dozzina, di vari paesi.
Altri si sono fatti avanti di loro iniziativa, come ad esempio il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi, ideatore di un progetto di riforma con al centro un "moderator curiae" che si occupi del funzionamento della macchina.
Ai primi di ottobre gli otto si ritroveranno attorno al papa. Gli consegneranno un fascio di proposte. Ma a decidere sarà lui. Da solo.
 

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 13 giugno 2013)
 

mercoledì 5 giugno 2013

Pontificati “virtuali”: ossia come i media manipolano la realtà

Nei giorni scorsi una signora esprimeva il suo sconcerto per l’atteggiamento assunto dai media nei confronti del neo-eletto Papa Francesco: «Tutti a sperticarsi in elogi al nuovo “Vescovo di Roma”. Ma dove erano in questi otto anni? Papa Benedetto è stato crocifisso dal primo all’ultimo giorno, salvo quando ha dato le dimissioni, allora si sono fatti sentire! Il perché di tanto entusiasmo dipende forse dal fatto che il nuovo Papa indossa la croce di ferro, le scarpe nere, i pantaloni neri?».
La signora in definitiva si chiedeva il motivo di tale diverso atteggiamento tenuto dai media nei confronti di Papa Benedetto e di Papa Francesco.
Ho continuato a riflettere sulla domanda della signora: come si spiega infatti che quei media, che per otto anni hanno continuato ad attaccare Ratzinger per qualsiasi motivo, oggi per qualsiasi motivo continuino a elogiare Bergoglio? Beh, che esista una disparità di trattamento, è sotto gli occhi di tutti: per esempio sul fatto di parlare in pubblico solo in italiano. Quando Benedetto XVI andò in Polonia (2006) fu aspramente criticato da un vaticanista perché aveva deciso di tenere discorsi ed omelie in italiano. Scrisse: “Ci si aspettava che prendesse lezioni di polacco”. Così dopo il primo Messaggio Urbi et Orbi (Natale 2005) ci fu chi ironizzò perché Papa Benedetto aveva salutato i fedeli solo in 33 lingue, circa la metà del suo predecessore Giovanni Paolo II. Quando, negli anni successivi, Benedetto arrivò a battere tutti i record precedenti, nessuno si sognò mai di farlo notare e di fargli i complimenti! Invece nessun vaticanista, di nessun giornale, ha avuto da ridire sul fatto che Papa Francesco abbia fatto gli auguri per Pasqua soltanto in italiano. Ci sarà sicuramente qualcuno che darà una lettura teologica della novità, sostenendo che Papa Bergoglio si sente soprattutto Vescovo di Roma e pertanto usa la lingua che si parla a Roma (qualcuno dovrà poi spiegarmi perché, se proprio si cercava soltanto un Vescovo per Roma, si è andati a cercarlo alla “fine del mondo”, scomodando tanti Cardinali provenienti da ogni dove, quando si poteva fare tutto in casa, con i tanti bravi preti a disposizione della diocesi di Roma).
Sono piccolezze, lo so: ma avete notato come mai, per i media, ogni gesto di Papa Francesco diventi un evento? Se abbraccia un bambino o un disabile, sembra che sia la prima volta che un Papa si comporta in questo modo, quando invece gli ultimi Pontefici ci hanno ampiamente abituato a gesti simili, senza peraltro che nessuno lo sottolineasse. Qualsiasi cosa dice, anche la più banale, diventa un oracolo. L’altro giorno mi è capitato di sentire, non ricordo se alla radio o in TV: «Parole forti quelle di Papa Bergoglio: “Dobbiamo aiutarci gli uni gli altri”!». Non mi si fraintenda: non sto criticando Papa Francesco e non sto paragonando i suoi discorsi con quelli di Papa Benedetto. Ognuno si esprime a suo modo; c’è bisogno della lectio magistralis, e c’è bisogno della semplice riflessione a braccio; ogni tipo di intervento ha il suo valore, a seconda delle circostanze. Quel che mi dà noia sono le amplificazioni “gratuite” dei media, i loro “leccaggi”.
Ho l’impressione che si stia creando oggi un pontificato virtuale, in contrapposizione a un pontificato virtuale precedente, di segno opposto.
Mi capita spesso di chiedermi in questi giorni: ma che fine hanno fatto tutti i gravissimi problemi che affliggevano la Chiesa durante il pontificato di Benedetto XVI, e che qualcuno pensa siano stati in qualche modo all’origine della sua rinuncia? Sono mesi che nessuno parla più di pedofilia nella Chiesa; nessuno parla più di Vatileaks e dei veleni della Curia Romana; nessuno parla più dello IOR. Tutto risolto? È bastato eleggere il nuovo Papa per risolvere automaticamente tutti i problemi? Due son le cose: o era tutta una montatura mediatica allora, o è tutta una montatura mediatica adesso. Non è possibile che problemi che stavano facendo vacillare la Chiesa di punto in bianco scompaiano nel nulla. Si noti bene che, a parte alcune piccole avvisaglie, finora non è stata fatta nessuna riforma; eppure tutto fila liscio come l’olio. Sembrerebbe che il problema fosse uno solo: Joseph Ratzinger.
Sinceramente faccio fatica a comprendere il motivo di tanta avversione. Certamente anche lui ha commesso degli errori (c’è qualcuno che ne è esente?). Personalmente ritengo che il suo maggior limite sia stata l’incapacità di scegliersi validi e fedeli collaboratori: Papa Ratzinger, che pure conosceva i meccanismi di Curia, si è praticamente circondato di “carrieristi” che, al momento opportuno, gli hanno voltato le spalle. Pertanto non è stato messo in condizione di realizzare le riforme che si era proposte: innanzi tutto la riforma della Curia Romana; poi la “riforma della riforma” in campo liturgico; infine la riconciliazione con i lefebvriani. D’altra parte, come avrebbe potuto realizzare tali riforme senza l’aiuto dei suoi collaboratori?
In ogni caso queste, o altre possibili critiche, non giustificano l’avversione dei media nei confronti di Ratzinger. Ci deve essere qualche altro motivo che ci sfugge. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che il suo “peccato originale” fossero le origini tedesche. Non saprei: la Germania è stato forse il Paese dove lo si è maggiormente osteggiato. Forse la sua colpa principale è stata l’essere “tradizionalista”? Eppure è innegabile il fatto che Ratzinger sia sempre rimasto fondamentalmente un “liberale”. Sinceramente si fa fatica a individuare il motivo reale per cui per otto anni (senza contare gli anni precedenti) i media si siano esercitati nel tiro al piattello contro Papa Benedetto.
Sono comunque convinto che lo stesso atteggiamento che i media hanno tenuto nei confronti di Ratzinger, da un momento all’altro lo possono assumere anche nei confronti di Bergoglio.
Fossi nei panni di Papa Francesco, non dormirei sonni tranquilli: non bisogna infatti mai fidarsi degli adulatori; di punto in bianco potrebbero rivoltarsi contro. Tant'è che, abbastanza in sordina, gli sono già stati lanciati alcuni “avvertimenti” mafiosi: prima le accuse di aver sostenuto la dittatura militare, poi quelle di aver aderito alla “Guardia di Ferro”. Che poi Introvigne o chi per lui dimostri l’inconsistenza di tali accuse, non serve a niente: nel momento in cui il New York Times decide di sferrare l’attacco, non c’è santo che tenga; può essere anche tutto falso, ma il semplice fatto che le stesse accuse rimbalzino da un giornale all’altro, le trasforma in “verità”. A quel punto anche la testimonianza dei Premi Nobel diventa superflua; ciò che conta è quanto dicono i media: una verità virtuale, insomma, come virtuale è il mondo in cui viviamo.
 

(Ma.La. da: Giovanni Scalese, Querculanus.blogspot.it, aprile 2013)
 

La Chiesa non è “rimasta indietro di 200 anni”!

«Che cos'è il pane consacrato? Corpo di Cristo. E che cosa diventano coloro che si comunicano? Corpo di Cristo. Non molti corpi: un Corpo solo, quello di Cristo». (San Giovanni Crisostomo).
Oggi, domenica 2 giugno, giorno in cui, dalle 17 alle 18, in tutte le cattedrali del mondo ci si è inginocchiati per l’Adorazione eucaristica, ho capito una cosa. Ho capito che non è affatto vero che «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni» come ha detto il cardinale Martini (pace all’anima sua) ed hanno riportato in molti. La Chiesa non è né avanti né indietro: segue proprio tutta un’altra strada. Segue un metodo che è il metodo di Cristo: l’esatto contrario rispetto al metodo del mondo. Molteplicità che si fa unità e non frammentazione. Forza centripeta e non forza centrifuga. E sguardo all’essenza, per ricordare che l’origine e il fine di tutto è lì: in quel Verbo che si è fatto Carne, e Pane per noi.
Lo dico ai cristiani, ché almeno loro non si facciano incantare dai novelli pifferai (anche quegli pseudo teologi così tanto in voga. Gli unici, per capirci, che hanno accesso alle trasmissioni tivù e alla “Repubblica delle idee”).
Ciò che è accaduto oggi nel mondo tra le cinque e le sei (lo sguardo distolto dal resto, inginocchiati all’unisono in adorazione del Corpo di Cristo) ci riporti a ciò che conta davvero. A «fare questo» – e vivere la vita – «in memoria di Lui». Sia che mangiamo, sia che beviamo, sia che facciamo qualunque altra cosa, il nostro sguardo sia lì. Lì, il nostro cuore.
Questo, ho pensato. Che tutti insieme e alla stessa ora, in ogni parte del mondo, davanti al Corpo di Cristo, avevamo di fronte la verità di noi, la più profonda: ciascuno è a immagine e a somiglianza Sua. Tutti. Maschi, femmine, giovani, adulti, sani, malati… Tutti. Ogni figlio dell’uomo da quando viene concepito al momento della sua morte naturale. Per noi: per tutti e per ciascuno, Cristo ha accettato la morte di croce e ci ha redenti. Si è fatto come noi per farci come Lui.
Basti questo, a darci il coraggio e la forza di rispedire al mittente “femminicidio” e “omofobia”: parole nuove che frammentano e riducono l’uomo, facendoci credere che una vita valga più di un’altra, o più di un’altra debba avere dei diritti. Basti questo a farci prendere le difese della dignità della vita, sempre; ad educare le nuove generazioni affinché amino e rispettino la vita, sempre. Basti questo a non farci cadere nel tranello della “buona morte” o della “morte degna”, scelta o data per (finta) pietà.
Quell’Ostia che è Vita offerta, accompagni le nostre piccole e grandi fatiche quotidiane, così che gioia e sofferenza non siano sterili. Ci educhi all’amore gratuito, che come il Suo Amore si dà, e non chiede in cambio nulla.
 

(Fonte: Luisella Saro, Cultura Cattolica, 2 giugno 2013)