sabato 31 dicembre 2016

Strafalcioni religiosi su Corriere e Repubblica. Quando la cultura laica è bocciata in religione

In occasione del Natale Eugenio Scalfari ci ha proposto su “Repubblica” una riflessione sui “quattro Vangeli sinottici”. Sarebbe stata anche interessante: peccato però che i Vangeli sinottici, cioè che scorrono paralleli raccontando ampiamente gli stessi avvenimenti, siano tre – Marco, Matteo e Luca – mentre il Vangelo di Giovanni, organizzato diversamente, non è un sinottico.
Se “Repubblica” piange, il “Corriere della Sera” non ride. Rispondendo a un lettore che chiedeva lumi su che cosa s’intende per “religioni del libro”, Sergio Romano ha scritto che il “tratto comune delle tre grandi religioni monoteiste è l’esistenza, per ciascuna di esse, di un libro che contiene le verità rivelate e i precetti del Signore”. Fin qui tutto quasi bene. L’espressione “religioni del libro” è un po’ vecchiotta, e criticata perché rischia di mettere in secondo piano la differenza del cristianesimo – dove Gesù non ha scritto nulla e il suo insegnamento è stato trascritto solo dopo la sua morte – rispetto all’ebraismo e soprattutto all’islam, che è nato intorno a un libro, il Corano, già durante la vita del suo profeta Muhammad. C’è anche chi sostiene – e il dibattito è di attualità in tempi di contestazioni al Santo Padre – che a rigore il protestantesimo, fondato sul principio della “sola Scriptura”, è una religione del libro, ma non il cattolicesimo che, pur dando grande importanza alla Bibbia, né dà altrettanta alla Tradizione e al Magistero vivente del Papa.
Ma queste sono, per così dire, sottigliezze. Molto peggio è quello che, nella risposta di Romano, viene dopo. Quali sono le sacre scritture del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam? Romano risponde così: “Per gli ebrei è la Bibbia, con particolare riferimento all’Antico Testamento; per i cristiani è il Nuovo Testamento (ma molti protestanti leggono anche l’Antico Testamento); per i musulmani è il Corano. Esistono anche altri libri fra cui la Torah per gli ebrei, gli Atti degli apostoli per i cristiani, gli Hadith (detti autentici del Profeta) per i musulmani”. Quando ho letto questa parte della risposta, sulle prime ho pensato a uno scherzo. Nessuno studente di un corso elementare di storia delle religioni passerebbe un esame sostenendo queste cose, ma forse – nonostante il declino della scuola italiana di cui tanto si parla – neppure uno studente liceale cui alla maturità fosse chiesto qualche riferimento religioso in relazione alla storia o alla filosofia.
Per gli Ebrei la risposta di Romano è perfino offensiva. Gli Ebrei non leggono “la Bibbia con particolare riferimento all’Antico Testamento”. Per loro la Bibbia consiste esclusivamente in quello che i cristiani chiamano Antico Testamento, espressione cristiana che presuppone l’esistenza di un Testamento Nuovo, il quale per gli Ebrei evidentemente non fa parte della Sacra Scrittura. Molto equivoco è anche scrivere che per gli Ebrei “esistono anche altri libri fra cui la Torah”. È vero che la parola “Torah” ha diversi significati. Nel più comune indica i cinque libri della Bibbia che i cristiani chiamano Pentateuco, che non sono “altri libri” rispetto alla Bibbia ma parte di essa. Alcuni usano “Torah” come sinonimo di “Bibbia” (ebraica): anche in questo caso non è un altro libro, è lo stesso. Forse Romano voleva fare riferimento all’uso di Torah per indicare la Tradizione orale dell’ebraismo: che però in questo caso non è un libro, anche se è confluita in libri, fra cui il Talmud. O forse Romano ha semplicemente confuso “Torah” con “Talmud”.
Non se la passano troppo meglio i musulmani, per cui certamente le varie raccolte di detti del Profeta (Hadith), opera di uomini per quanto saggi e autorevoli, non stanno certamente sullo stesso piano del Corano, che è uscito direttamente e perfettamente dalle mani di Dio.
Ma chi sta peggio di tutti, nella risposta di Romano, sono i cristiani. La Sacra Scrittura dei cristiani – cattolici, ortodossi e protestanti – non è il Nuovo Testamento. È la Bibbia, di cui l’Antico Testamento fa parte integrante. La toppa poi secondo “molti protestanti leggono anche l’Antico Testamento” è peggiore del buco. Implica non solo che ci siano protestanti, magari “pochi”, che non leggono l’Antico Testamento, il che fa torto al grande amore dei protestanti per la Bibbia – tutta la Bibbia – ma sembra anche escludere che i cattolici e gli ortodossi considerino parte della Sacra Scrittura, o addirittura “leggano” il Vecchio Testamento. Naturalmente non è così e se Romano fosse andato qualche volta a una Messa cattolica avrebbe sentito proclamare brani dell’Antico Testamento nella prima lettura e ascoltato l’assemblea pregare con il salmo responsoriale. Anche i salmi fanno parte dell’Antico Testamento e non del Nuovo.
È vero poi che i cristiani considerano parte della Scrittura gli Atti degli apostoli. Ma non come un “altro libro” rispetto al Nuovo Testamento, dal momento che gli Atti ne sono parte, così come le lettere di Paolo, le lettere cattoliche di Pietro, Giacomo, Giovanni e Giuda, e l’Apocalisse.
Si potrebbero derubricare le uscite di Scalfari e di Romano a incidenti di percorso. Certamente tolgono poco alla loro fama e carriera di illustri giornalisti. Ma costituiscono una spia del modo con cui una certa cultura laica italiana guarda al cristianesimo e alla religione in genere. Soprattutto grazie a Papa Francesco la Chiesa intriga, incuriosisce, riscuote anche una certa simpatia. E a causa del conflitto in Medio Oriente e della presenza di un terrorismo ultra-fondamentalista che nasce in seno al mondo islamico (pur rappresentandone una fazione molto minoritaria) anche l’ebraismo e l’islam beneficiano di maggiore attenzione. Ma questa attenzione resta molto superficiale. Anche firme celebri di grandi giornali sembrano avere informazioni di terza mano sulla religione, quando basterebbe una rapida lettura di Wikipedia – che pure ha tutti i suoi limiti – per evitare svarioni. L’analfabetismo religioso che oggi è oggetto di seri studi sociologici in Italia non è diffuso solo fra le persone con un’educazione limitata. Contagia anche le élite.
È importante? Il mondo, certo, ha problemi maggiori. Tuttavia non si può veramente comprendere quello che non si conosce. La stragrande maggioranza delle persone del mondo professa una religione. Gli atei e gli agnostici, per quanto rumorosi, rimangono una minoranza, diffusa soprattutto in Occidente: come rivelano molte ricerche, al di là dei sondaggi di regime, in Cina la grande maggioranza della popolazione crede in una vita dopo la morte e in un influsso di potenze divine sulla vita quaggiù. Anche molti dei grandi conflitti politici e delle guerre, pur non essendo a rigore “guerre di religione”, hanno componenti religiose. L’arte, perfino quella moderna, non può neppure cominciare a essere capita senza la spiritualità e la religione. I grandi giornali danno l’esempio e creano opinione. Tra i propositi per l’anno nuovo, forse qualcuno dovrebbe includere quello di studiare un po’ di più le religioni.

(Fonte: Massimo Introvigne, Il mattino di Napoli, 31 dicembre 2016)



mercoledì 21 dicembre 2016

Quell'amore sbocciato tra Avvenire e la Fedeli

In altre circostanze e magari con altri protagonisti si direbbe subito «E' nato un amore». Certo è che il cinguettio, ieri 20 dicembre, sulle colonne di Avvenire tra il ministro della (d)Istruzione Valeria Fedeli e il direttore del quotidiano della CEI, Marco Tarquinio, ha toccato livelli imbarazzanti. 
Come sapete la nomina della Fedeli all'Istruzione, mentre ha provocato molte proteste da parte delle associazioni che hanno partecipato ai Family Day, ha trovato benevolenza da Avvenire e dal Forum delle Famiglie, due entità la cui linea è decisa direttamente dal segretario della CEI monsignor Nunzio Galantino. E alle lettere di protesta dei lettori di Avvenire, il direttore ha risposto invitando a non avere pregiudizi - mica come quei cattolici che costruiscono muri - e a giudicare per le cose che farà.
A tanta grazia non si può restare indifferenti, soprattutto quando da tutte le altre postazioni ti sparano addosso senza pietà (soprattutto per le bugie sui titoli di studio) e anzi c'è chi sta raccogliendo centomila firme per indurti ad andartene dal governo.
Ecco allora che la Fedeli manda una lettera a Tarquinio ringraziandolo anzitutto per l'apertura di credito nei suoi confronti (non ci crede ancora tanto è assurdo) e poi ecco che spiega il suo pensiero e il suo programma da ministro: lei con presunte teorie del gender non c'entra nulla, figurarsi; non è neanche sicura che esista una teoria gender e se anche esistesse a lei non interessa - così come a tutto il governo -, lei vuole solo realizzare la parità tra uomini e donne. E poi basta parlare di gender «in questa accezione minacciosa», parliamo piuttosto di «ugualianza tra uomini e donne», superiamo quegli stereotipi sui ruoli di genere che non hanno nulla di naturale. Pare che il vero problema sia che a causa di tali stereotipi alle ragazze che vogliono andare all'università siano precluse le facoltà scientifiche.
Un qualsiasi giornalista, mediamente informato sul curriculum parlamentare della Fedeli, le avrebbe detto che va bene il rispetto e l'apertura di credito, ma cerchi almeno di non esagerare con le balle. Che lei sia una oltranzista del gender è evidente nella sua attività e che l'uguaglianza tra uomini e donne sia una bella copertura per far passare l'abolizione delle differenze fra sessi e la valorizzazione dell'omosessualità è tutto facilmente rintracciabile nel disegno di legge che porta il suo nome e sui cui contenuti ci siamo soffermati anche al momento della sua nomina.
Invece che fa il buon Tarquinio? Ringrazia e si stende a tappetino davanti al ministro: bacchetta addirittura i suoi lettori che avevano osato porsi interrogativi sulla nomina della Fedeli, a cui certe posizioni sul gender «sono state attribuite» (sic); anche Tarquinio sostiene però che gli stereotipi di genere vanno superati, anche se cerca di dargli un significato diverso. Poi parte il pistolotto sull'importanza di costruire insieme la società pur nella differenza tra culture e religioni; poi l'immancabile richiamo alla Costituzione che, peraltro, ambedue avrebbero volentieri cambiato. E qui Tarquinio osa addirittura ricordare al ministro che l'aveva dimenticato, l'articolo 30 della Costituzione, sul diritto-dovere educativo dei genitori». Ma quasi si vergogna del tanto osare e rientra subito in modalità tappetino assicurando massima attenzione al lavoro del ministro, sulle cui buone intenzioni non dubita assolutamente. 
Non basta l'ostilità di monsignor Galantino - e quindi di Avvenire - ai Family Day, per spiegare questo atteggiamento che fa a pugni con la realtà e il buon senso. Nei confronti della Fedeli noi non abbiamo pregiudizi né ci teniamo particolarmente allo scontro frontale, prendiamo semplicemente atto di cosa ha fatto finora in Parlamento e di quanto lei stessa ha più volte dichiarato; e quindi dobbiamo rilevare il significato politico di questa nomina e lanciare un allarme per le conseguenze che avrà, anche sulle scuole paritarie.
Come ho messo in evidenza nel primo video realizzato (BQNews) per commentare il principale fatto della settimana, questo atteggiamento di Avvenire è però perfettamente coerente con tanti piccoli e grandi passi compiuti in questi anni che vanno tutti nella medesima direzione. La triste verità è che chi sta guidando di fatto la CEI ha già sostanzialmente accolto la teoria gender: certamente in modo soft, dividendo il gender buono dal gender cattivo (come fosse il colesterolo), con tanti distinguo, arricchendolo di buoni sentimenti; tutto quel che si vuole, ma pur sempre a favore del gender. Così come monsignor Galantino e Tarquinio si sono più volte espressi a favore del riconoscimento delle unioni omosessuali: certo, non trattate come famiglia, e con dei limiti all'adozione, ma pur sempre a favore delle unioni civili che lo stesso Tarquinio vede - lo ha scritto lui - come un incremento di solidarietà nella società.
Piaccia o non piaccia questa è la realtà della Chiesa italiana con cui fare i conti oggi.

(Fonte: Riccardo Cascioli, La Nuova Bussola quotidiana, 21 dicembre 2016)


I giustificazionisti cattolici che non difendono il Natale

Non mi suscitano particolare rabbia i terroristi islamici: fanno il loro sporco mestiere, che è precisamente quello di realizzare il Corano e in particolare la Sùra del Bottino e la Sùra della Conversione, i capitoli in cui si esortano i maomettani devoti a uccidere gli infedeli «dovunque li troviate» (non si parla di camion solo perché nel settimo secolo i camion non erano ancora stati inventati e bisognava accontentarsi della tradizionale spada dei predoni arabi).
Costoro sono il nemico e contro il nemico la rabbia non serve: servono freddezza e determinazione. 
Mi suscitano particolare rabbia i giustificazionisti cattolici, quelli che i terroristi sono colpevoli ma non del tutto perché in fondo li abbiamo provocati noi. Penso a Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ossia del giornale dei vescovi, non del bollettino dell'ultima parrocchia, che trova un cervellotico nesso tra strage di Berlino e strage di Aleppo e dà la colpa del sangue versato a «cinici giochi di potere»: dunque agli Usa? Alla Nato? All'Unione Europea? All'Occidente tutto? Pur di non dire che la colpa è dell'islam, il quotidiano clericale si esercita nell'arrampicata sugli specchi. Il campione della redazione è l'inviato Giorgio Ferrari che, molto retoricamente, si domanda se i morti del mercato di Natale non siano dovuti alla «stretta impressa sull'immigrazione, giro di vite ad uso dell'elettorato». 
Insomma, la colpa è dei populisti, forse di Salvini. Avvenire è edito dalla Cei, la Conferenza episcopale italiana, e segretario generale della Cei è monsignor Galantino che però per la sua arrampicata giustificazionista sceglie le pagine del Corriere: «La volgarità e l'aggressività del linguaggio alimentano un clima che incattivisce le persone». Chi ha orecchie per intendere intenda: il musulmano killer ha lanciato il camion contro le bancarelle dopo aver letto un tweet di Marine Le Pen o di Magdi Allam. Ma il vescovo continua, chi lo ferma più: oltre che con i maledetti populisti ce l'ha con gli sporchi capitalisti che si arricchiscono grazie alle guerre, con gli speculatori, con i mercanti d'armi. Perfetta illustrazione dell'intervista sarebbe stata una di quelle opere espressioniste tedesche, tipo George Grosz oppure Otto Dix, in cui si vedono ricchi borghesi mandare al fronte poveri soldati per continuare a bere champagne in mezzo a donnine discinte. 
Non c'è niente da fare, l'immaginario del clero pauperista è fermo al primo Novecento. Difficile ragionare con chi incolpa i produttori di armi quando la strage è stata compiuta per mezzo di un camion, dettaglio che ricordo a bassa voce altrimenti Galantino comincia a prendersela coi produttori di veicoli industriali. 
Ancora non risultano dichiarazioni di don Sante Braggiè, il cappellano del cimitero di Cremona che nelle settimane scorse si era rifiutato di allestire il presepe perché irrispettoso verso i non cristiani, ma la sua logica parla per lui: nei mercati natalizi berlinesi di presepi ce ne sono diversi e allora lo stragista va capito, si è sentito sfidato, anzi bisogna ringraziarlo per non aver lanciato il suo tir in San Gregorio Armeno, la via del presepe napoletano, pullulante di botteghe offensive. In un tempo ormai remoto i giudici concedevano attenuanti agli stupratori: la ragazza civettava, passeggiava in minigonna... Adesso gli uomini di Chiesa concedono attenuanti agli stupratori del Natale: gli europei provocano...
  
(Fonte: Camillo Langone, Il Giornale, 21 dicembre 2016)


mercoledì 14 dicembre 2016

25 dicembre, giorno esatto della nascita di Cristo

Nell’imminenza del Natale di Gesù, si moltiplicano, da parte del laicismo e dell’agnosticismo giornalistico, televisivo, salottiero e “stradaiolo”, le discussioni imperniate sulla rappresentazione di questo misterioso evento come di un pasticcio mitico, creato ad arte dalla Chiesa in sostituzione di altri miti precedenti.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo.
Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si tenga conto di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti,  chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti  argomenti  biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone  i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C.  In essa – come attesta  I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi:  24/30 marzo e  24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni  piuttosto autorevoli  e  di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei.  Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale  elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori  e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene  non  credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattato MAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò,  sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono  avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo  fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre.  Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima  difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo  importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus”  nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la  festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale  proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma  soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe  come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù –  come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.

(Tratto da: Luciano Pranzetti, Alcune cose sul Natale, Riscossa Cristiana, 13 dicembre 2016)


giovedì 1 dicembre 2016

L'intollerabile aggressione ai "quattro cardinali". Ecco chi sono i nuovi Inquisitori

Li hanno dipinti come “vecchi rincoglioniti”, quattro cardinali isolati e fuori dal mondo, rimasuglio di una Chiesa ormai superata che vede solo la rigidità della dottrina e non capisce la Misericordia che entra nelle pieghe della vita. Insomma, uno scarto della Chiesa, un’appendice marginale neanche degna di un “sì” o un “no” alle loro domande.
Eppure devono averne una gran paura se da giorni stiamo assistendo a un crescendo di insulti e accuse pesanti, ormai un vero e proprio linciaggio mediatico, contro i quattro cardinali – Raymond Burke, Walter Brandmuller, Carlo Caffarra e Joachim Meisner – rei di aver resi pubblici cinque “Dubia” già presentati a papa Francesco riguardo all'esortazone apostolica Amoris Laetitia. Addirittura siamo arrivati a richieste di dimissioni dal collegio cardinalizio o, in alternativa, suggerimenti al Papa di togliere loro la berretta cardinalizia.
I protagonisti sono i più vari: vescovi che hanno da regolare conti personaliex filosofi che rinnegano il principio di non contraddizionecardinali amici di papa Francesco che malgrado l’età non hanno abbandonato i sogni rivoluzionari, intellettuali e giornalisti che si considerano “guardiani della rivoluzione”, e l’immancabile padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e vera eminenza grigia di questo pontificato, tanto da essere conosciuto a Roma come il vice-Papa. Quest’ultimo poi, come un adolescente qualsiasi, si è reso protagonista di bravate sui social che lasciano esterrefatti: dapprima con un tweet ha apostrofato il cardinale Burke paragonandolo al “verme idiota” del Signore degli anelli (tweet poi cancellato); quindi si è messo a rilanciare tweet offensivi nei confronti dei quattro cardinali partiti dall’account “Habla Francisco” (Parla Francesco), che si è scoperto ieri riportare all’indirizzo e-mail di padre Spadaro alla Civiltà cattolica. E poi l’immancabile Alberto Melloni, punto di riferimento della Scuola di Bologna che lavora per una riforma della Chiesa fondata sullo “spirito” del Concilio Vaticano II.
È un vero e proprio nuovo tribunale dell’Inquisizione che, colpendo i quattro, intende intimidire chiunque abbia l’intenzione di esprimere anche semplici domande, figurarsi chi volesse esternare delle perplessità.
È un atteggiamento inquietante, una difesa del Papa quanto meno sospetta da parte di chi ha apertamente contestato i predecessori di papa Francesco. E solo per aver posto delle semplici domande di chiarimento a proposito dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia che, come chiunque può constatare, ha dato origine a interpretazioni opposte e sicuramente non conciliabili. Al proposito bisogna ricordare che i “Dubia” sono uno strumento molto utilizzato nel rapporto tra vescovi e Congregazione per la Dottrina della Fede (e attraverso questa con il Papa). La novità in questo caso è semplicemente nell’aver resi pubblici questi Dubia, ma dopo ben due mesi di vana attesa di una risposta, che i quattro cardinali hanno legittimamente interpretato come un invito a proseguire la discussione.
Eppure per Melloni si tratta di «un atto sottilmente eversivo, parte di un gioco potenzialmente devastante, con ignoti mandanti, condotto sul filo di una storia medievale». Atto eversivo, spiegherà Melloni in un’altra intervista, perché fare domande significa mettere il Papa sotto accusa, un metodo da inquisizione. Cose da non credere: chiedere chiarimenti è diventata un’attività eversiva, da Inquisizione. E gli «ignoti mandanti» poi: accuse vaghe, scenari fantasiosi ma che devono dare l’impressione di una cospirazione da fronteggiare con decisione. E infatti ecco il passaggio successivo: «Chi porta attacchi come questo (…) è qualcuno che punta a dividere la Chiesa», dice. E quindi ecco le conseguenze auspicate: «…nel diritto canonico è un crimine, punibile».
Addirittura criminali, dunque, perché vogliono dividere la Chiesa. Poco importa se la realtà è esattamente opposta: la spinta a rivolgere delle domande al Papa nasce proprio dalla constatazione della divisione nella Chiesa che si è palesata con le opposte interpretazioni di Amoris Laetitia.
C’è proprio puzza di maoismo nella Chiesa, rumore di Guardie Rosse e di avanguardie rivoluzionarie; ci mancano solo i campi di rieducazione. Anzi no, pare che già ci siano anche quelli, almeno stando al solito Melloni. Infatti, ci spiega il perché papa Francesco non abbia usato nei confronti di monsignor Lucio Vallejo Balda – nelle carceri vaticane per lo scandalo Vatileaks – quella clemenza che ha invece invocato per i carcerati nei vari paesi del mondo: «A fine Giubileo si capisce il perché: papa Francesco non vedeva in quel processo una procedura penale, ma un gesto pedagogico verso gli avversari» che ora «rischiano molto». Insomma, colpirne uno per educarne cento. 
Si tratta di una lettura davvero inquietante, a maggior ragione se si pensa che quanti oggi si scatenano a difesa del Papa per delle semplici domande di chiarimento che dovrebbero essere normali, fino a ieri contestavano apertamente i predecessori di papa Francesco. Anzi, vedono oggi in papa Francesco la possibilità di cancellare quanto sulla famiglia hanno insegnato Paolo VI e Giovanni Paolo II. L’enciclica Humanae Vitae(Paolo VI) e l’esortazione apostolica Familiaris Consortio (Giovanni Paolo II) sono state nel mirino di vari episcopati europei (Austria, Germania, Svizzera, Belgio) anche nel recente doppio Sinodo sulla famiglia.
E chi di costoro si è scandalizzato quando il cardinale Carlo Maria Martini ha scritto chiaro e tondo (Conversazioni notturne a Gerusalemme) che l’Humanae Vitae ha prodotto «un grave danno» col divieto della contraccezione cosicché «molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone»? E ha auspicato un nuovo documento pontificio che la superi, soprattutto dopo che Giovanni Paolo II seguì «la via di una rigorosa applicazione» della Humanae Vitae? Certamente nessuno, perché ciò che conta non è l’oggettività del Magistero (il cui riferimento è la Rivelazione di Dio), ma il progetto ideologico di queste avanguardie sedicenti interpreti della volontà popolare.
E allora c’è un’intima coerenza nel fatto che i papisti di oggi siano i ribelli di ieri. Sì, ribelli. Perché da Paolo VI in poi, questi vescovi e intellettuali, questi maestri di obbedienza al Papa, hanno dichiarato guerra al Magistero in quanto non recepiva lo spirito del Vaticano II; hanno firmato manifesti, documenti e appelli in cui contestavano apertamente il Papa regnante, fosse Paolo VI, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI. Ricordiamo almeno il pesante documento del noto moralista tedesco Bernard Haring nel 1988 contro Giovanni Paolo II che tanto sostegno ricevette in tutta Europa, subito seguito dalla Dichiarazione di Colonia, nel 1989, dello stesso tenore, firmata da numerosi e influenti teologi tedeschi, austriaci, olandesi e svizzeri. E in Italia subito accolta con favore, tra gli altri, da quel Giovanni Gennari  che oggi fa il quotidiano custode dell’ortodossia dalle colonne di Avvenire.
Ma nello stesso anno in Italia arriva anche il Documento dei 63 teologi, una Lettera ai cristianipubblicata sulle colonne de Il Regno, in cui si contesta apertamente il magistero di Giovanni Paolo II. E nell’elenco dei firmatari ci troviamo nomi noti che hanno imperversato in seminari e atenei pontifici negli ultimi decenni, realizzando un vero e proprio magistero parallelo di cui oggi vediamo gli amari frutti. Facevano le vittime, ma tutti hanno fatto brillanti carriere, qualcuno è anche diventato vescovo come quel monsignor Franco Giulio Brambilla, attualmente vescovo di Novara e in corsa per succedere al cardinale Angelo Scola a Milano. Ma guarda caso, tra le firme troviamo l’immancabile Alberto Melloni, con i suoi colleghi della Scuola di Bologna (Giuseppe Alberigo in testa), il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, Dario Antiseri, Attilio Agnoletto. 
Sono gli stessi che hanno continuato ad attaccare pubblicamente Benedetto XVI, anche con palesi prese in giro, riguardo alla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II che Melloni, Bianchi e co. hanno sempre visto come svolta radicale e irreversibile «nella comprensione della fede ecclesiale», contro l’ermeneutica della riforma nella continuità spiegata da papa Ratzinger. E come non ricordare le vesti stracciate per la scomunica tolta ai lefevriani mentre ora neanche un sospiro si è levato di fronte alle aperture unilaterali di papa Francesco.
Sono questi i personaggi che oggi pretendono di giudicare cardinali, vescovi e laici preoccupati della grave confusione che si è creata nella Chiesa. Una banda di ipocriti e sepolcri imbiancati, che perseguono da decenni una loro agenda ecclesiale, che usano il Papa per affermare un loro progetto di Chiesa, e che oggi si permettono l’arroganza di chi pensa di essere al comando di una vincente e gioiosa macchina da guerra. Sono questi i veri fondamentalisti, sostenuti da una stampa compiacente che non vede l’ora di cancellare definitivamente ogni traccia di identità cattolica. Che però, purtroppo per loro, non soccomberà. 

(Fonte: Riccardo Cascioli, La Nuova Bussola Quotidiana, 1 dicembre 2016)