giovedì 11 giugno 2009

Paolo VI e quel fumo di Satana che entrò nelle fessure del Vaticano

29 giugno 1972. Omelia nella festa dei santi Pietro e Paolo: «Ho la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida della Chiesa… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… Crediamo in qualche cosa di preternaturale (il Diavolo) venuto nel mondo proprio a turbare, per soffocare, i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno di gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé».15 novembre 1972. Udienza generale: «Uno dei bisogni maggiori della Chiesa è la difesa da quel male che chiamiamo Demonio. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa… Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente… È il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero e con proditoria astuzia agisce ancora: è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana».3 febbraio 1977. Udienza generale: «Non è meraviglia se la Scrittura acerbamente ci ammonisce che “tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno”».Siamo agli sgoccioli del pontificato di Paolo VI. Papa Giovanni Battista Montini ripete, quasi ossessivamente, un solo concetto: la Chiesa è sotto l’attacco di Satana, il tentatore, un essere oscuro realmente esistente. Parole, quelle di Montini, ricordate in uno degli ultimi capitoli d’una biografia in uscita per Mondadori (Le Scie) e firmata dal vaticanista del Giornale Andrea Tornielli: Paolo VI. L’audacia di un papa (pp.728, euro 28). Una biografia basata su documenti inediti scovati in archivi ancora non esplorati. Una biografia che in uno dei suoi punti più avvincenti, proprio di Satana tratta. O meglio, del perché il successore del popolarissimo Giovanni XXIII e insieme predecessore del grande Giovanni Paolo II, Paolo VI appunto - «Paolo mesto», «Papa amletico», come lo ribattezzarono - si trovò a parlare più volte del Diavolo, avvertendone la presenza nel marasma post conciliare.
Perché questo continuo riferirsi a Satana?
Tutto iniziò il 21 maggio 1972. Un episodio grave: un geologo australiano di origini ungheresi, instabile di mente, Laszlo Toth, dopo aver eluso la sorveglianza si arrampica sulla Pietà di Michelangelo e la sfigura con quindici colpi. La Pietà subisce danni seri ma non irreparabili. Montini, tuttavia, è sconvolto. Percepisce l’attentato come un segno, un presagio. Fu da quel mese di maggio che cominciò a parlare della presenza di Satana nella Chiesa.Ne parlò anche in colloqui privati. Utili per capire come, al di là dell’episodio della Pietà, quando parlava del demonio Montini pensasse a fatti precisi, a circostanze concrete che la sua Chiesa stava attraversando nel difficilissimo periodo dell’immediato post Concilio.Anzitutto la crisi dei preti: in molti abbandonavano l’abito: «Satana agisce - disse al vescovo Bernardo Citterio -. Non è possibile arrivare a tanta malvagità senza l’influsso di una forza prenaturale che insidia l’uomo e lo rovina».Quindi il problema degli abusi liturgici: «Parlando di Satana - rivelò il cardinale Virgilio Noè - Montini pensava a tutti quei preti che della santa messa facevano paglia in nome della creatività»: persone «possedute da vanagloria e dalla superbia del Maligno».Fu alla fine del 1975 che Paolo VI prese una decisione clamorosa. Rimosse - senza promuoverlo - uno dei protagonisti della riforma liturgica del post Concilio: l’arcivescovo Annibale Bugnini, spostato dalla curia romana direttamente in Iran, come pro nunzio. Allontanato senza preavviso. Bugnini si convinse che venne spostato a motivo di una vera e propria congiura imbastita su documenti che riportavano una sua presunta appartenenza massonica. Era un momento particolare per la curia romana: lotte sotterranee, combattute a suon di dossier, si sprecavano. Ma, a conti fatti, Bugnini non comprese il vero motivo dell’allontanamento: non tanto il contenuto del dossier, quanto, come disse l’allora segretario di Stato Jean-Marie Villot, il fatto «che nella riforma liturgica alcune cose vennero nascoste al Papa».
Erano anni difficili. Il Satana di Montini sembrava davvero presente un po’ ovunque: preti in aperto contrasto con la Chiesa e il Papa. Una riforma liturgica che lo stesso Paolo VI non riuscì a gestire come probabilmente avrebbe voluto. Il referendum abrogativo della legge sul divorzio che lacerò il mondo cattolico: Montini si accorse d’incanto della massiccia secolarizzazione in atto. La rottura con l’arcivescovo tradizionalista Marcel Lefebvre. La sospensione a divinis dell’abate di San Paolo fuori le Mura, Giovanni Franzoni. Le accuse al Papa d’aver avuto una relazione con l’attore teatrale Paolo Carlini mosse dallo scrittore omosessuale francese Roger Peyrefitte. E poi le voci intorno alle possibili dimissioni proprio del Pontefice. Lo stesso Paolo VI, nel 1976, «meditò seriamente di dimettersi», scrive Tornielli. Non lo fece. E chissà se se ne penti quando, poco dopo, nel 1978, a pochi mesi dalla morte, dovette attraversare uno dei casi più devastanti nella storia della Repubblica italiana: il rapimento e la morte di Aldo Moro: «Tra i brigatisti coinvolti nel rapimento - spiega Tornielli - c’era il figlio di un dipendente del Vaticano dal Papa ben conosciuto, del quale aveva celebrato il matrimonio».Come se non bastasse, un altro pesante macigno sul cuore. In Italia si sta per arrivare all’approvazione della legge sull’aborto. Montini è particolarmente colpito dalle voci di dissenso sull’argomento che si sollevano all’interno della Chiesa: articoli in favore di un ammorbidimento della dottrina cattolica antiabortista vengono pubblicati dalla rivista dei gesuiti francesi Études, mentre in Italia è il gruppo di padre Ernesto Balducci ad affermare che non si può imporre alla donna di generare contro la sua volontà.
Dopo l’introduzione del divorzio in Italia, una scossa che aveva dimostrato come il paese fosse cambiato, la messa in discussione del valore inviolabile della vita nascente amareggia profondamente il Pontefice, le cui condizioni di salute si vanno visibilmente deteriorando.
Per Montini è l’inizio della fine. Apparentemente sembra la vittoria del Demonio, di quel Demonio il cui fumo era già precedentemente entrato nel tempio di Dio, attraverso una qualche fessura.

(Fonte: il Riformista, 7 giugno 2009)

Linea dura sulla castità dei sacerdoti

Aveva fatto scalpore un’intervista che il prefetto del Clero, il cardinale Claudio Hummes, aveva rilasciato qualche giorno fa all’agenzia Catholic news service. Il porporato brasiliano aveva letto le nuove norme volute dal Papa per i preti che violano l’obbligo della castità come una volontà di apertura della Chiesa in merito: per volere di Benedetto XVI sarebbe stato più facile, per i preti che convivono con una donna e che hanno i figli, rinunciare all’abito sacerdotale.L’intervista ha allarmato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, che ieri è corso ai ripari chiedendo al numero due del Clero, l’arcivescovo Mauro Piacenza, un’intervista per la Radio Vaticana. La versione di Piacenza è stata opposta a quella del suo superiore: le punizioni per i preti che violano l’obbligo di castità sono più severe: «Si deve purtroppo rilevare - ha detto - che talvolta si possono verificare situazioni di grave indisciplina da parte del clero». A queste la Chiesa risponde con la riduzione allo stato laicale che diviene, con le nuove norme, «una punizione» vera e propria, «con relativa dispensa da tutti gli obblighi decorrenti dall’ordinazione».Piacenza ha dato una stoccata anche a coloro che ritengono che il celibato sacerdotale non sia un obbligo. Era stato lo stesso Hummes, appena eletto prefetto del Clero nel 2006, a ricordare un’ovvietà, cioè che il «celibato sacerdotale non è un dogma ma solo una norma disciplinare». E, insieme, a dire che, visto il calo di vocazioni sacerdotali, la stessa norma sarebbe stata rivista. Ecco in proposito quanto ha detto monsignor Piacenza: il celibato sacerdotale ha una «motivazione teologica» che risiede nel legame di convenienza che il celibato ha con l’ordinazione che configura il sacerdote a Gesù Cristo. Perciò la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e negli anni successivi la ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato per i preti.

(Fonte: il Riformista, 6 giugno 2009)

Com’è difficile governare la curia della Santa Sede. E fuori pressano le lobby

I due accorati appelli di ieri, del cardinale Angelo Bagnasco in chiusura dell’assemblea della Cei e di Benedetto XVI parlando con il nuovo ambasciatore del Sudafrica George Johannes, hanno una matrice comune. Entrambi, infatti, rispondono a polemiche scatenatesi contro la Chiesa per il contenuto del messaggio che porta.Il Papa è tornato sul caso «preservativi» sollevatosi dopo le sue parole pronunciate partendo per l’Africa per ribadire che la sua convinzione, a dispetto delle reazioni delle cancellerie di mezza Europa, è sempre la medesima: l’aids si combatte con «fedeltà dentro al matrimonio e astinenza all’esterno».Bagnasco ha ricordato, probabilmente riferendosi anche al «caso preservativi», come contro il Magistero della Chiesa e contro il Papa vi siano «lobby economiche-finanziarie» che agiscono a livello internazionale: la Chiesa è osteggiata.Di per sé è vero: gli ultimi mesi di questo pontificato sono stati costellati di polemiche probabilmente mosse ad arte da non si sa bene chi. Il caso lefebvriani, i rapporti con gli ebrei intorno alla possibile beatificazione di Pio XII e alle dichiarazione sulla Shoah del vescovo negazionista Richard Williamson, la polemica sui preservativi, le critiche per quello che il Papa ha detto o avrebbe dovuto dire una volta atterrato in Israele e Giordania, sono tutte ferite le cui cicatrici ancora faticano a rimarginarsi. Soprattutto la questione della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani è un qualcosa sì di superato ma che ancora brucia.Infatti, quattro mesi dopo le furenti polemiche - la cosa scoppiò a fine gennaio -, gli effetti di quanto accaduto hanno reso coloro che governano la curia romana più accorti ma nulla, occorre dirlo, è avvenuto a livello di gestione del potere. Ovvero, nessuna di quelle nomine che una crisi mediatica e governativa di quelle dimensioni avrebbe potuto portare è stata messa in campo. In parte lo si capisce: i tempi della Chiesa non sono quelli del mondo. La Chiesa assimila e mette in campo progetti nuovi con tempi lunghi.Anzitutto poco o nulla è avvenuto a livello di comunicazione. Non è cambiato il pur bravo e competente portavoce vaticano padre Federico Lombardi. L’affaire Williamson evidenziò colpe non sue ma, insieme, mise in luce come difficilmente un direttore della sala stampa della Santa Sede potesse continuare ad avere assieme anche gli incarichi di direttore del Centro Televisivo Vaticano, della Radio Vaticana e di assistente del preposito generale dei gesuiti.E cambiamenti non sono di fatto pervenuti a livello di governo. Anzi sembra quasi che la Santa Sede s’impegni a lasciare i propri uomini dove stanno anche quando le scadenze per la pensione sono belle che superate. Sono solo esempi ma da tempo si parla, senza che mai accada nulla, della promozione del capo dell’ufficio del personale della segreteria di Stato, monsignor Carlo Maria Viganò, in una qualche nunziatura: ma difficilmente lo stesso Viganò sembra disposto a lasciare la curia romana. Si parla della promozione di monsignor Paolo Sardi - collabora alla stesura dei testi del Papa - verso il posto, vacante dalla morte di Pio Laghi, di patrono dell’ordine di Malta. Il segretario dei vescovi Francesco Monterisi sono mesi che dovrebbe prendere il posto dell’arciprete di San Paolo Fuori le Mura il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo. Al suo posto rimane monsignor Agostino Marchetto, segretario dei Migranti e Itineranti, nonostante svariate diocesi italiane siano pronte a riceverlo con tutti gli onori del caso. E, ancora, il cardinale Renato Raffaele Martino: presidente di Iustitia et Pax pare si sia individuato nell’attuale segretario dell’Evangelizzazione dei Popoli, l’africano Robert Sarah, un degno sostituto. Eppure, prima del cambio, si è deciso che debba uscire l’enciclica sociale di Benedetto XVI - Martino vi ha collaborato - il cui testo è finalmente terminato e sta passando attraverso il lento e difficile parto delle traduzioni.Il problema sembra comunque essere a monte. Occorre tornare indietro negli anni, al pontificato di Paolo VI. Fu lui, sostituto nella segreteria di Stato ai tempi di Pio XII, a modificare quella che allora era un’aristocrazia democratica (tutti i prefetti e i segretari delle Congregazioni vaticane vedevano più volte il Papa e la segretaria dello stesso Papa, suor Pasqualina, contribuiva nell’incentivare i rapporti tra Pacelli e i vari monsignori) in una monarchia di fatto. Da Paolo VI in poi, infatti, è la segreteria di Stato a gestire ogni richiesta dal basso vuole essere esposta al Papa. È la segreteria di Stato a decidere, dunque, quali questioni siano degne d’essere comunicate al Pontefice e quali no. È la segreteria di Stato a bloccare riforme della curia e cambiamenti in posti di potere importanti. Una centralizzazione di potere che blocca l’effettivo esercizio del potere a discapito, in fondo, dello stesso Pontefice.

(Fonte: il Riformista, 30 maggio 2009)

giovedì 4 giugno 2009

Senso del rispetto e crescente maleducazione

Prima ancora del comportamento virtuoso, cioè secondo uno stile conforme alla propria dignità, viene il rispetto. Parola proveniente dal latino “respectus”, significa riguardo, considerazione. Il rispetto è la capacità di stare davanti all’altro e alle cose, stimandole degne di attenzione e di considerazione. È il primo valore dell’educazione, perché una persona educata è una persona che sa stare correttamente davanti all’altro, cioè appunto con rispetto.Oggi nella nostra società il rispetto è in declino: non si rispettano le persone – neppure gli anziani –, l’ambiente, le cose pubbliche, ecc. Peggio quando la mancanza di rispetto tocca gli amici, la famiglia, la religione, le culture, le tradizioni, le regole della convivenza. L’uomo di oggi sembra soffrire di rispettite virale acuta, resistente ai tentativi terapeutici. Eppure una volta il rispetto aveva strutturato una sapienza che nei proverbi poteva suonare così: al maggiore devesi rispetto; chi da tutti è rispettato, è degno di rispetto; chi non rispetta donne, preti, vecchi e fanciulli è un furfante; chi non rispetta sé, non rispetta nemmeno gli altri; chi rispetta, è rispettato; chi rispetto vuol, rispetto porti; ciascuno rispettar deve se stesso; fra amici rispetto e civiltà esigono reciprocità; il miglior ornamento dei fanciulli è il rispetto verso i genitori; il rispetto è il legame dell'amicizia.
Il rispetto si può definire tenendo presente due aspetti: il livello personale, cioè il rispetto di sé stesso,nel senso che una persona ha del valore nel modo che si occupa di sé e degli altri. A livello collettivo, il rispetto é la base della stima dell'altro. Il rispetto é convalidare il fatto che gli esseri umani si arricchiscono reciprocamente, pur accettando le differenze di ciascuno. La coesione umana e la sinergia con gli altri permettono di avanzare insieme. Il rispetto è un valore, un impegno individuale e collettivo, che é promosso dall'esempio. Non si decreta con la moralizzazione, né dando lezioni. Ognuno deve mostrare il cammino, assumendo atteggiamenti e comportamenti rispettosi. Tutto quello che si fa quotidianamente, di bene o di male, non è senza effetto sugli altri. Nulla é banale. Il rispetto deve essere praticato verso l’essere umano, in modo prioritario, ma anche verso l'ambiente, gli animali, i beni pubblici e privati, le leggi, ecc. Il rispetto è semplice e praticabile ovunque: in strada, al lavoro, a scuola, su un terreno sportivo, nella natura. È applicabile in tutte le situazioni della vita.Diceva Richard Bach che il legame che unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del rispetto e della gioia per le reciproche vite. Come anche Blaise Pascal, in riferimento all’amore: il primo effetto dell'amore è di ispirare un gran rispetto: si ha una sorte di venerazione per ciò che si ama. È giustissimo: non si vede nulla nel mondo di così grande come ciò che si ama. E il card. Schönborn: solo il rispetto, rivelandoci il “sacro”, quanto cioè non può essere per nessun motivo oltraggiato, ci preserverà dal profanare il presente, incuranti del futuro.
La carenza di rispetto si manifesta in particolare nella crescente maleducazione, nell’inciviltà, nell’arroganza, nel menefreghismo, nella mancanza di educazione sociale sempre più visibile. I dibattiti televisivi sono sempre più volgari, col pessimo esempio di politici e di personalità che hanno un ruolo nella società e nelle istituzioni. Insulti, parolacce, risse, litigi, prevaricazioni, mancanza di ascolto, comportamenti stradali selvaggi, la maleducazione pare diventata una qualità. In realtà, la maleducazione è stupida e volgare perché incapace di logica e di buon senso. Ha notato Beppe Severgnini che in Italia c'è un livello di maleducazione diffusa che è disarmante. La gente non convive pacificamente secondo elementari regole di buon senso ma è una giungla in cui ci si comporta come se fosse necessario aggredire per non soccombere. Dall'uomo della strada che salta la fila e che ritiene di avere sempre un motivo per essere "speciale" e quindi diverso dagli altri. I commessi dei negozi che tra uno sguardo seccato, una sbuffata e qualcosa di incomprensibile digrignato tra i denti servono clienti che li trattano senza rispetto e risulta impossibile capire chi abbia generato questa spirale impazzita di inciviltà da un lato e mancanza di professionalità dall'altro.
Assistiamo a un vero imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali. Chi è maleducato non ha mai compreso il punto di vista altrui, non è abituato a riflettere. Il maleducato non sa riflettere, vive secondo un istinto che lo fa credere sempre legittimato nel comportarsi in quel modo perché secondo lui è giusto, perché non gli interessa niente degli altri. Ma la vera rivoluzione parte dal rispondere con gentilezza a chi è maleducato invece di adeguarsi a questo modo selvaggio di rapportarsi, dal non pensare che chi è diligentemente in fila sia in realtà un povero stupido davanti al quale è normale passare senza alcun rispetto. Infatti, la maleducazione è la frontiera della nuova inciviltà e significa perdita di valori portanti. E’ una degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Di fronte a molti ragazzini che sembrano non avere nessuna idea di che cosa significhi la parola rispetto, con comportamenti antisociali, egoisti, individualisti all’estremo, si ha la sensazione che manchi la famiglia con il suo compito educativo. In realtà molte colpe sono da imputare ad alcuni nuovi modelli di famiglia che chiudendosi sempre più a riccio non lasciano più spazio al dialogo con gli altri e quindi alla possibilità del confronto con il prossimo. Una famiglia che non si confronta come potrebbe rispettare e insegnare il rispetto?

(Fonte: Bollettino Salesiano, maggio 2009)

Il canone Aspesi

Quando il gioco si fa duro, le dure scendono in campo. E dura è Natalia Aspesi, la decana delle giornaliste sinceramente democratiche, depositaria di una rubrica «Cuori spezzati» che settimanalmente firma sulla Repubblica, animosa alfiera di memorabili battaglie civili, colei che si batté come leonessa per il diritto delle carampane d’indossare il body panterato (nel quale Aspesi ovviamente s’infila) e questo perché, aspesianamente parlando, mai viene meno nella femmina il piacere di piacere e di piacersi. Di far colpo su quel porco del maschio scutrettolandogli intorno a carne nuda, le grazie celate dalla mutanda velinaro-kitsch. A lei dunque i repubblicones hanno dato l’incarico di montanellizzare Veronica Lario, di ergerla, per fulminanti meriti antiberlusconiani, a guida ideale dei crociati impegnati a liberare il Paese dal Male Assoluto: il Cavaliere suo marito. Al pari di Montanelli prima dello «strappo», fino a ieri Veronica Lario risultava, agli occhi delle sinceramente democratiche Aspesi in genere, monnezza. Una nullità, sciatta quando non ridicola nel vestire, strabordante di ciccia, turgida di botulino, insulsa e colpevole d’essersi ammogliata con quel poco di buono, con quel nemico delle libertà, con quel calpestatore dei diritti umani d’un Berlusconi. Un «vissuto», come direbbe Aspesi, o anche un «percorso», come ridirebbe Aspesi, tosto riscattato dall’enciclica laica «Ciarpame senza pudore» che proietta quella che fu la pupa del gangster a patrona dell’antiberlusconismo, a irreprensibile maestra di pensiero e di vita.
«C’è un possente muro per difendere il capo, per avallare le sue menzogne». Ed è un intero esercito di avvocati «con i loro visi aguzzi, gelidi e spietati», puntualizza la Carolina Invernizio di Repubblica, è «una folla di miracolati carichi di spille d’oro» a costituire quel muro. «E chiunque osi sottrarsi a questa nebbia nefasta, a questa palude eversiva, viene irriso, sporcato, attaccato, annientato» (affermazione sorprendente, detta da un quotidiano che passa il suo tempo a irridere, sporcare e attaccare cercando, senza riuscirci, di annientare il Capo del governo). Protetto dal muro, Berlusconi cosa fa? «Non nega ai dipendenti del giornale di proprietà di suo fratello (noi: i dipendenti siamo noi del Giornale) di pubblicare la foto di sua moglie, della madre dei suoi tre figli, accompagnata dalla sua guardia del corpo» irridendo, sporcando, attaccando e annientando così Veronica Lario. La quale, incalza Aspesi che la sa lunga, «cammina a distanza di almeno due metri dal signor Orlandi, il che pare anche troppo per un bodyguard il cui dovere è stare vicino all’oggetto della sua sorveglianza». Se ne conclude che l’affermare - come ha fatto «un’altra dipendente del capo per intemperanti benemerenze politiche» - che «quel cupo signore intento al suo lavoro è l’amante della signora» è una vile menzogna. Nebbia nefasta. Palude eversiva.Tessendo l’apologia della signora Veronica, la pitonessa del politicamente corretto e della sincerità democratica afferma dunque che già di per sé è atto infame pubblicare la fotografia di una donna ritratta accanto a un uomo («cupo», nel nostro caso). E che è infamissimo, irrisorio, imbrattante, aggressivo e annientante sottintendere che l’uomo cupo sia l’amante della signora. Perché se quando il paparazzo scatta la foto l’uomo si trova a due metri dalla donna, è impossibile, è escluso nel modo più assoluto che fra i due vi sia «qualcosa di erotico». Benissimo. Ma allora perché Repubblica ha pubblicato la foto di una donna (Noemi) ritratta accanto a un uomo (Papi)? E perché, pur standosene Noemi a due metri, centimetro più, centimetro meno, da Papi da un mesetto a questa parte i repubblicones insinuano che fra i due qualcosa c’è? Se il Canone Aspesi vale per Veronica deve valere anche per Silvio, non si scappa. A meno di non ammettere che Aspesi e tutti i repubblicones d’Italia, isole comprese, sono, deontologicamente parlando, dei furfanti (furfante, sostantivo maschile e femminile: persona disonesta).

(Fonte: Paolo Granzotto, Il Giornale, 3 giugno 2009)

Santo subito? Non c'è fretta

«Con due ampi articoli-reportage il quotidiano La Stampa di Torino ieri e oggi ha dato spazio alla corrispondenza intercorsa tra la psichiatra polacca Wanda Poltawska (nella foto) e Karol Wojtyla. Sarebbero queste lettere a “frenare” la beatificazione di Giovanni Paolo II. Oggi, intervistato da La Stampa, il cardinale Stanislao Dziwisz, segretario particolare di Papa Wojtyla, ha criticato duramente la Poltawska per aver pubblicato parte di quelle lettere in un libro uscito in Polonia alcuni mesi fa (per i tipi della casa editrice dei Paolini, prossimamente tradotto in Italia), sostenendo che la corrispondenza privata non dovrebbe essere resa pubblica. Il lettore all’oscuro di alcuni antefatti, può trarre l’idea che a creare problema siano i rapporti epistolari tra la donna, madre di famiglia, e il Papa. Rapporti non confacenti a un ecclesiastico. La realtà è, invece, ben diversa. Non c’è nulla in quelle lettere - sia le pubblicate come le non pubblicate - che crei problema in merito ai rapporti tra Wojtyla e la Poltawska. Ci sono però alcune lettere che creano problemi a chi stava attorno al Papa, perché la Poltawska, che da psichiatra aveva seguito i casi di sacerdoti con problemi legati alla sfera della sessualità, scriveva a Giovanni Paolo II invitandolo a non farli vescovi. Mentre c’era chi, insistendo e ripresentandone i nomi più volte, riusciva a far passare questi candidati. C’è in atto uno scontro tra il cardinale Dziwisz e Wanda Poltawska proprio su questo. E’ però fuori luogo parlare di rallentamenti: ora tutti, ma proprio tutti, sembrano voler concludere le cose velocemente e arrivare alla beatificazione». Fin qui Andrea Tornielli nel suo Blog del 1 giugno.
Ho letto il dossier de La Stampa su tale corrispondenza.
Che Giovanni Paolo II avesse un'amica, non mi fa alcun problema; che con lei abbia intrattenuto una corrispondenza, mi sembra più che naturale (per esperienza diretta so che il linguaggio dei santi può talvolta assumere certi toni ed essere frainteso). Se devo essere sincero, non mi interessa affatto il contenuto delle lettere che i due amici si scambiavano.
In questo, sono d'accordo col Card. Dziwisz, secondo il quale le cose personali avrebbero dovuto rimanere personali, e la Poltawska non avrebbe dovuto pubblicare quel carteggio, soprattutto perché, come afferma Tornielli, contiene riferimenti a terzi.
Quello che invece mi meraviglia è che la totalità di quel carteggio non fosse ancora giunto nelle mani del postulatore e non sia stata considerata nel processo diocesano. C'è da chiedersi con quale serietà sia stato condotto quel processo. Le norme che regolano i processi di beatificazione e canonizzazione sono chiare. Nel caso di Papa Wojtyla era già stata fatta un'eccezione di non poco conto: l'introduzione immediata della causa, quando le norme, emanate dallo stesso Pontefice, fissano a cinque anni il termine minimo per quell'atto (e oggi tocchiamo con mano l'opportunità di quella norma). Si pensava di poter soprassedere anche alla norma di presentazione di tutti gli scritti del Servo di Dio? E la questione temo che non riguardi solo le lettere della Poltawska: a quanto mi risulta da fonte solitamente bene informata, lo stesso Card. Dziwisz non ha consegnato l'intero archivio personale di Giovanni Paolo II.
"Santo subito!" Dirò sinceramente che quel grido non mi ha mai trovato consenziente, non perché metta in dubbio la santità di Papa Wojtyla, ma semplicemente perché non vedo la necessità di tanta fretta. Abbiamo atteso cent'anni per la beatificazione di Pio IX; è da cinquant'anni che aspettiamo quella di Pio XII; perché Giovanni Paolo II dovrebbe diventare santo subito? Che fretta c'è? Se è santo, la sua santità prima o poi verrà riconosciuta; di che cosa si ha paura? Si tratta di cose estremamente serie; non a caso la Chiesa ha voluto che si facessero dei "processi". Un processo, per essere rigoroso, richiede i suoi tempi. Pensate che cosa sarebbe avvenuto ora, se il Papa avesse dispensato dallo svolgimento dei processi (avrebbe potuto farlo)!
Non so, e non mi interessa, se ci sono altre dietrologie in questa vicenda (come qualcuno vuole insinuare); dico solo che è doveroso (e penso che lo stesso Wojtyla lo vorrebbe) che tutto sia fatto secondo le regole, per evitare che si possa sollevare in futuro qualunque tipo di sospetto.

(Fonte: Padre Giovanni Scalese, Blog “Senza peli sulla lingua”, 3 giugno 2009)

Leggendo Martini e Verzé: i cattolici progressisti esigono un Vaticano III

L’obiettivo di fondo è un concilio mediatico per buttare a mare un Vaticano II che comincia a perdere qualche colpo perché con Benedetto XVI il mito modernista scricchiola
"Siamo tutti sulla stessa barca”, 96 paginette a 14 euro e 50 per conto dell’Editrice San Raffaele piene della solita roba: la morale sessuale della chiesa da buttare, i divorziati risposati da ammettere alla Comunione, il celibato dei sacerdoti da mandare a ramengo, l’ottusità dell’etica cattolica da scrollarsi di dosso, e poi la sinodalità, l’apertura al mondo, il popolo di Dio che elegge direttamente i vescovi come se fossero dei borgomastri. Tutto spruzzato di snobistico orrore per “le fiumane di gente” che “quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate”.
Se non ci avesse dato almeno il brivido di firmare questa operina a quattro mani con il suo antico avversario don Luigi Verzé, verrebbe da chiedersi come mai il cardinale Carlo Maria Martini si sia dato la pena di tornare così di fretta in libreria con la solita litania progressivo-modernista.
Perché, dal punto di vista editoriale, la notizia, neanche tanto fresca, è giusto questa: dopo gli anni di guerra tra la curia milanese e l’Ospedale San Raffaele, il cardinale che coltiva il dubbio e il prete che insegue l’immortalità hanno firmato la pace.
Ma, in questi termini, il quesito sarebbe ozioso. Il fremito clerical-chic del dialogo con don Verzé è giusto una carezza consegnata dal cardinale ai suoi seguaci, un discorso della Luna per chi avrebbe voluto vederlo Papa al posto di Benedetto XVI. Per gli altri, grati che lo Spirito Santo in conclave abbia disposto diversamente, il messaggio è un altro: nel merito e nel metodo.
Per quanto riguarda il merito, è presto detto. Il cardinale, con uno sparring partner come don Verzé, ha buon gioco a mostrare con studiata ritrosia il suo disegno di una nuova chiesa. A un don Verzé sicuro che quando Cristo tornerà sulla terra troverà ancora la fede perché ci sarà ancora il San Raffaele (il suo ospedale, non l’Arcangelo), risponde evocando le zone grigie dell’etica su cui ama tanto avventurarsi senza portare un solo contributo per discernere il bianco dal nero. A un don Verzé che parla di morale cristiana incongruente col mondo confida con rammarico che, in effetti, “oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele”. A un don Verzé ossessionato da una chiesa che non rincorre abbastanza velocemente la scienza consegna i suoi “non so”, “non voglio giudicare” vuoti di dottrina e di speranza.
Il cardinale sta un’ottava sotto il prete manager, ma tra le righe il colpo d’ala c’è. Solo che il cardinale lo cela in una questione di metodo: per rimettere un po’ d’ordine in questa barca, caro il mio don Verzé, “non basta un semplice sacerdote o un vescovo. Bisogna che tutta la chiesa si metta a riflettere su questi casi”.
Per farla corta, urge un Concilio Vaticano III. Chi altri, se non il cardinale antagonista, potrebbe evocarlo senza cadere nel ridicolo? Anzi, potendo vantare di averlo addirittura sognato fin dal Sinodo per l’Europa del 1999. Ma per arrivarci, non basta enunciare una nuova dottrina, serve un metodo per farla passare nell’opinione pubblica. E il metodo consta nella ripetuta pubblicazione di opere e operine, di cui quella con don Luigi Verzé è soltanto l’ultimo esemplare. Nella strategia martiniana, opere e operine progressivo-moderniste sono altrettanti schemi preparatori sul genere di quelli, che fino al Vaticano II compreso, redigeva la Curia romana e su cui i Padri conciliari erano tenuti a discutere. Il fatto che ora vengano diffusi a mezzo stampa invece che consegnati ai vescovi tramite corriere dipende dalla natura che avrà il Vaticano III, quella di Concilio mediatico. Verrà celebrato sui giornali, in tv, sul Web ed è ovvio che gli schemi preparatori si trovino in quei luoghi piuttosto che nelle curie polverose.
Dopo l’elezione di Benedetto XVI, un concilio mediatico è l’unica carta rimasta in mano ai progressisti. Nei conclavi del 1978, i dossettiani di Bologna avevano fatto circolare tra i cardinali un promemoria intitolato “Per un rinnovamento del servizio papale nella chiesa alla fine del XX secolo”. Sette capitoli che esordivano definendo la chiesa del dopo Paolo VI “sempre più inadeguata alle esigenze della vita degli uomini”. Per poi proseguire con la necessità che “l’Evangelo sia proclamato nella su distinzione dall’ethos”, l’istituzione di un “organo collegiale che si situa al livello della guida suprema della chiesa cattolica”, “il sinodo dei vescovi con una capacità legislativa vera e propria”, i vescovi eletti in loco “tra spontaneità e comunione ecclesiale”, fino alla visione notarile del papato. Da allora, nessun Pontefice ha dato corso allo smantellamento della chiesa cattolica, ma non per questo i progressisti hanno cessato di pensarci. Nel corso degli anni hanno dato voce a un magistero alternativo che ha preso mediaticamente le sembianze dell’arcivescovo di Milano. Non a caso, il dossettiano Alberto Melloni parla apertamente di “chiesa di Martini”.
L’operazione è riuscita più che discretamente poiché ciò che a orecchi mediamente cattolici appare come un’eresia, nella maggior parte della pubblica opinione ecclesiale appare del tutto normale.
E allora, si sono detti i fedeli della “chiesa di Martini”, perché non arrivare fino in fondo convocando un Vaticano III mediatico? A rigore, lo si potrebbe considerare come già in corso visto che gli “schemi preparatori” controfirmati da Martini sono già oggetto di ossequioso dibattito nelle aule di catechismo, nei corsi per fidanzati, nelle omelie, sulle cattedre degli insegnanti di religione, nei seminari e vanno come il pane quando uno non sa che regalo fare al parroco o alla vecchia zia che è tanto di chiesa.
Ma c’è di più. Un Vaticano III mediatico permetterebbe di buttare a mare un Vaticano II che comincia a perdere qualche colpo. Gli atti più clamorosi del pontificato di Benedetto XVI, dal discorso alla Curia romana del 2005 al Motu proprio sulla Messa in rito romano antico fino alla revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, non lasciano dubbi. E i progressisti, pur continuando a ritenerlo valido nei punti che hanno permesso di mettere in mora la chiesa preconciliare, oggi sentono che il cosiddetto spirito-del-concilio funziona meno. Il mito scricchiola, meglio munirsi di uno nuovo fiammante, un Vaticano III che permetta di operare una revisione nella concezione dell’etica e dei sacramenti da cui uscirebbe una religione nuova con una nuova morale, un nuovo sacerdozio. Un’alternativa, forse provocatoria, ci sarebbe: portiamo a compimento il Vaticano I, che attende di essere concluso dal 1870.

(Fonte: Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Foglio, 28 maggio 2009)

Problemi di linguaggio

Il blog Disputationes Theologicae ha riferito nei giorni scorsi su un convegno organizzato dalla Revue Thomiste e dall'Institute Catholique de Toulouse, dal titolo "Vaticano II: rottura o continuità? Le ermeneutiche presenti". A quanto pare, deve essersi trattato di un convegno molto interessante. Interessanti anche le riflessioni dei curatori del blog.
Mi ha colpito soprattutto un aspetto sollevato nel corso del convegno, quello del linguaggio. Si è fatto esplicito riferimento a un punto molto controverso del Concilio: "Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella (subsistit in) Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui" (Lumen gentium, n. 8). Fino al Vaticano II si era semplicemente identificata la vera Chiesa con la Chiesa cattolica; si poteva dire: la vera Chiesa è la Chiesa cattolica. Il Concilio dice: la vera Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica. Perché questo cambiamento?Forse bisogna tener conto delle finalità del Vaticano II: tale Concilio ha intenzionalmente escluso per sé un carattere dogmatico; esso si è presentato come un concilio "pastorale". Non c'è bisogno di definire la dottrina — aveva affermato Giovanni XXIII all'apertura del Concilio — dal momento che essa è già chiara; scopo del Concilio è quello di trovare nuove forme per comunicare tale dottrina al mondo moderno. Come si vede, si trattava di trovare un nuovo linguaggio, piú comprensibile per l'uomo di oggi. È per questo che il Vaticano II ha abbandonato (anche se non completamente) il tradizionale linguaggio scolastico per adottare un linguaggio piú biblico, patristico e, in qualche caso, debitore della filosofia moderna.
Il proposito del Concilio è encomiabile. Il problema è: il Vaticano II ha raggiunto gli obiettivi che si prefissava? Come rilevavamo recentemente, i risultati sono stati spesso diversi, se non opposti a quelli che ci si era proposti ("eterogenesi dei fini"). Torniamo all'esempio del subsistit in: l'adozione di tale formula non solo non ha in alcun modo favorito il riconoscimento della Chiesa cattolica come vera Chiesa da parte di non-cattolici e non-cristiani, ma essa ha addirittura indebolito fra gli stessi cattolici la coscienza che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa. Anziché chiarire, essa ha creato maggior confusione. Ne sono prova non solo le innumerevoli discussioni teologiche (piú che legittime), ma addirittura i molteplici interventi magisteriali, che hanno cercato — per la verità, con poco successo — di precisare il significato di quell'espressione. Viene da chiedersi: era proprio necessario fare quel cambiamento?
Con questo non voglio dire: era meglio lasciare tutto com'era, e ora l'unica soluzione possibile è riconoscere l'errore e annullare il Concilio (come qualche tradizionalista radicale potrebbe sperare). La soluzione proposta da Disputationes Theologicae (a quanto pare ispirata dalle conclusioni del convegno) è la seguente: «L’assenza di una terminologia chiara in tanta parte del testo conciliare rinvia dunque a riflettere sull’opportunità di un’opera di revisione, di spiegazione, di interpretazione autentica. – Un dichiarato ritorno alla precisione della terminologia scolastica, cosí come l’impiego della teologia tomista, non soltanto faciliterebbe la comprensione universale dei testi, ponendo ostacoli insormontabili alle ermeneutiche non ortodosse, ma aprirebbe anche la strada ad una vera intelligenza della dottrina cattolica per i nostri contemporanei. Un tale rinnovamento tomista della teologia conciliare è ciò che invocano in definitiva gli organizzatori del Convegno e siamo convinti dell’opportunità di quest’appello. Tuttavia questo lavoro presuppone, a nostro avviso, per essere realmente proficuo, la convinzione dell’opportunità di mettere mano non solo all’interpretazione, ma anche alla lettera del testo conciliare».
Non vorrei entrare, per il momento, su quest'ultima questione (se non sia opportuno rivedere i testi stessi del Vaticano II); ma soffermarmi esclusivamente sul linguaggio da adottare nell'interpretazione del Concilio. I curatori di Disputationes Theologicae dicono: torniamo al linguaggio scolastico e alla teologica tomista. Essendo stato formato alla scuola domenicana, la cosa non dovrebbe che farmi piacere; ma, avendo poi proseguito la mia formazione alla scuola rosminiana, devo riconoscere obiettivamente che un ritorno puro e semplice alla scolastica oggi non è piú proponibile. Perché?
Perché questo è esattamente ciò che la Chiesa faceva prima del Concilio, e abbiamo visto che non era sufficiente. Per quale altro motivo si è sentito bisogno di un Concilio? Perché ci si era accorti che la Chiesa non era stata capace, nell'Ottocento e nel Novecento, di rispondere alle sfide della modernità; c'era bisogno di adottare un nuovo atteggiamento. Ci aveva provato, agli inizi del Novecento, il modernismo, ma sappiamo con quali risultati. Nella seconda meta del secolo, il Vaticano II ha fatto un nuovo tentativo, certamente migliore del primo, ma ancora non del tutto soddisfacente. Probabilmente il limite principale del Concilio è stato l'inevitabilità del compromesso. Personalmente, non sono contrario in linea di principio ai compromessi: secondo me, essi sono alla base della convivenza pacifica fra persone che hanno interessi diversi. Ma quando si tratta di definire la dottrina, il compromesso non è certo la migliore soluzione, perché inevitabilmente esso porta a espressioni ambigue, che vengono accettate dalle parti appunto perché passibili di interpretazioni diverse. È esattamente ciò che è avvenuto al Concilio: per mettere tutti d'accordo si sono preparati dei testi che possono essere interpretati in maniera opposta. Per questo è giusto fare ricorso a un linguaggio rigoroso, che non permetta il conflitto delle interpretazioni.
Il linguaggio scolastico? Esso è stato elaborato per rispondere alle esigenze del Medioevo. L'errore della Chiesa moderna (leggi: Leone XIII) è stato quello di volerlo riproporre tale e quale per i nostri giorni. Ma tale tentativo è fallito. E la dimostrazione di tale fallimento sono appunto il modernismo prima e il Vaticano II poi. L'errore, commesso dalla Chiesa nell'Ottocento (errore che stiamo pagando ancora oggi) è stato quello di non voler riconoscere che Dio aveva donato alla Chiesa chi le forniva gli strumenti per affrontare il confronto con la modernità: il Beato Antonio Rosmini, interprete nel suo tempo della filosofia perenne. Ma allora si preferí condannarlo e si pensò che fosse sufficiente ricreare in laboratorio una filosofia d'altri tempi, il neo-tomismo (che molto poco aveva a che fare con il tomismo vero, presente nella filosofia rosminiana). I risultati di quell'operazione di "archeologismo filosofico" li abbiamo sotto gli occhi. Per cui mi sembra ingenuo pensare che si possa riproporre il linguaggio scolastico come soluzione ai problemi ermeneutici del Vaticano II. Solo quando, dopo aver riconosciuto la santità del Rosmini, la Chiesa avrà riconosciuto anche il suo contributo filosofico-teologico, forse avremo gli strumenti per risolvere i problemi che attanagliano la Chiesa d'oggi.

(Fonte: Blog "Senza peli sulla lingua", 1 giugno 2009)