venerdì 30 marzo 2012

Se un cardinale dissente dalla Chiesa

Il cardinale Carlo Maria Martini si dichiara a favore del riconoscimento dei “matrimoni” tra omosessuali da parte dello Stato. Così hanno scritto nei giorni scorsi molti giornali italiani, dando alla notizia grande rilievo.
Di fronte a questo genere di faccende, il mondo cattolico "ufficiale" abbozza una serie di reazioni che in ordine logico e temporale si possono riassumere così: primo, chissà che cosa avrà detto esattamente il cardinale, e che cosa gli hanno fatto dire i giornali; secondo, il card. Martini è un uomo profetico, quindi le sue parole vanno inserite nel contesto e non estrapolate in modo strumentale; terzo, visto che la materia scotta, meglio far finta che non sia successo niente; quarto, se anche il card. Martini avesse detto davvero quello che ha detto, bisogna far finta di niente perché non si può criticare un cardinale, per evitare scandalo e divisioni nella Chiesa; quinto, se qualcuno fra i cattolici critica Martini, peste lo colga, perché così facendo rompe la consegna del silenzio e disturba la quiete della buona gente cattolica.
Purtroppo, si tratta di un protocollo terapeutico francamente fallimentare: una sequenza di manovre che farà immancabilmente morire il paziente, cioè il cattolico normale. Perché il cattolico normale si merita ben altro, di fronte al fenomeno, ormai diventato rituale, di uomini di Chiesa che si alzano la mattina, ne dicono una grossa confidando nella “immunità clericale”, e chi si è visto si è visto. Purtroppo, il caso dell’arcivescovo emerito di Milano è, in tal senso, esemplare. Che cosa ha scritto, esattamente, il card. Martini? Il testo è tratto dal libro Credere e conoscere, in uscita per Einaudi, scritto in dialogo con l’ex senatore del Pd Ignazio Marino. Il card. Martini ogni tanto ama questa forma letteraria: qualche tempo fa, per esempio, aveva scritto un libro analogo con don Luigi Verzè (il patròn del San Raffaele), dal significativo titolo, Siamo tutti nella stessa barca. Ma torniamo alla cronaca di questi giorni. Ecco qua il brano incriminato: «Io ritengo che la famiglia vada difesa perché è veramente quella che sostiene la società in maniera stabile e permanente e per il ruolo fondamentale che esercita nell'educazione dei figli. Però non è male che, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli». Il campionato mondiale di arrampicata sugli specchi non finisce mai, e i cattolici pronti a parteciparvi sono sempre numerosissimi. Ma temo che questa volta anche un fuoriclasse del settore debba arrendersi all’evidenza: il card. Martini scrive proprio che lo Stato deve aiutare gli omosessuali a stabilizzare il loro rapporto. Teorizza una pagina inedita del catechismo cattolico, sostenendo che - insomma -, piuttosto che avere rapporti occasionali e superficiali, le persone omosessuali si impegnino in maniera seria e prolungata, grazie anche a un istituto messo a punto dallo Stato. Più chiaro di così.
La Congregazione per la dottrina della fede ha pubblicato non uno, ma due documenti per insegnare il contrario, e per dire che un politico, vieppiù se cattolico, non può sostenere proposte di legge che prevedano il riconoscimento di unioni omosessuali. Ergo: Martini e la Chiesa insegnano cose diametralmente opposte. Può essere anche doloroso scriverlo, ma ammetterlo è facile facile. Questione di logica elementare. Le uova sono rotte e la frittata è fatta. Ed è qui che si inserisce il grave errore operativo del mondo cattolico ufficiale: fatto di silenzi imbarazzati, e di difese penose che arrancano nel tentativo impossibile di rendere omogeneo quanto detto dal cardinale e quanto insegnato dalla Chiesa in tutti questi anni. Ovviamente, non ignoriamo le ragioni della prudenza, il timore degli scandali, la necessità del rispetto dovuto ai principi della Chiesa, cui si aggiunge nel caso di Martini la pietas dovuta a un uomo di veneranda età, per di più colpito dalla malattia. Ma qui c’è un punto che non può sfuggire a nessuno: e cioè che lo scandalo è già accaduto, ed è pubblico. Ed è lo scandalo provocato da una presa di posizione eterodossa a opera di un vescovo cattolico, che quando parla raggiunge attraverso i mass-media milioni di persone.
I fedeli cattolici hanno un diritto che è più forte di ogni altra esigenza, e che riposa nella legge suprema della Chiesa cattolica: la salus animarum, la salvezza delle anime. Se un pastore insegna cose sbagliate in materia non opinabile – e questa, indubbiamente, non lo è - i fedeli hanno il diritto di essere aiutati a riconoscere l’errore, e l’errante deve essere smascherato per il bene di ogni singolo fedele. Di più: solo le persone in mala fede o gli allocchi possono far finta di non vedere che le sortite “aperturiste” - cui il card. Martini non è nuovo - scuotono la Chiesa in tutte le sue pieghe locali, e rendono ancor più fertile il già rigoglioso sottobosco delle piccole e grandi eresie parrocchiali. Adesso i sacerdoti e catechisti, le suore e i teologi che vogliono essere possibilisti sulle unioni fra persone dello stesso sesso hanno la pezza d’appoggio delle parole autorevoli del “biblista Martini”; adesso regaleranno il libro scritto a quattro mani con Marino ai consigli parrocchiali, “perché così almeno si fanno un’idea e raccolgono la provocazione”. E inviteranno anche il medico Marino (“che è cattolico, intendiamoci”) a tenere qualche bella conferenza, insieme a Enzo Bianchi. Che ci sta comunque sempre bene. Ecco: questo è il quadro della situazione. Senza forzature e senza animosità, noi cattolici normali diciamo: Roma, abbiamo un problema. Fate presto, aiutateci.
 
(Fonte: Mario Palmaro, La Bussola quotidiana, 28 marzo 2012)


Il viaggio del Papa. Diritto naturale e libertà religiosa

C'è qualcosa che manca nei commenti della stampa, anche italiana, al viaggio del Papa in Messico e a Cuba. Si dibatte appassionatamente se Benedetto XVI, tra le righe, abbia spezzato una lancia in Messico per il centro-destra del PAN contro il centro-sinistra del PRI in vista delle prossime elezioni, se abbia incontrato o no in segreto a Cuba il presidente venezuelano Hugo Chávez, se il regime cubano tragga più vantaggi dall'incontro del Papa con Fidel Castro o più svantaggi dall'anticamera che il líder máximo ha dovuto fare attendendo il Pontefice e cui, a casa sua, non è certo abituato.
Di ogni viaggio di Benedetto XVI si cercano interpretazioni politiche. Questa volta la cosa è a suo modo comprensibile, se si considera che a diverso titolo il Messico prima - con un feroce regime laicista rimasto al potere per decenni, e i cui eredi sono ancora ben presenti nella vita politica del Paese - e la Cuba comunista poi sono state teatro delle maggiori persecuzioni che la Chiesa Cattolica ha dovuto subire nella sua storia in America Latina. Gli attivisti politici di centro-destra in Messico e i dissidenti anti-castristi - a Cuba e nell'esilio - avrebbero voluto una condanna esplicita della sinistra messicana che non rinnega l'eredità sanguinaria dei governi laicisti del XX secolo e del regime comunista cubano. Ma lo stile di Benedetto XVI - come già quello del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) - non è mai stato questo. Il Papa si pone sempre su un piano diverso, volando più in alto dei problemi contingenti - pur senza ignorarli - e riaffermando i grandi principi che sono già di per sé stessi giudizio e condanna delle ideologie.
Il Pontefice parla spesso di dittatura del relativismo, e proprio questa è stata la caratteristica dei regimi della prima parte del secolo XX in Messico, che hanno imposto a ferro e fuoco un insegnamento e una politica relativista, cercando di soffocare - talora nel sangue, come durante la guerra dei Cristeros degli anni 1926-1929 - la voce della Chiesa. Quanto all'ideologia di Fidel Castro, si tratta di una versione tropicale di quel relativismo aggressivo portato alle estreme conseguenze che è tipico del marxismo, dove chi esprime anche un timido dissenso dalla dittatura del relativismo finisce in galera o in campo di concentramento.
Benedetto XVI, senza entrare in particolari forse poco compatibili con la natura anche diplomatica dei viaggi pontifici, ha condannato senza mezzi termini il relativismo. Di fronte a trecentomila persone a L'Avana il Papa ha ricordato il legame tra verità e libertà. «In effetti, la verità è un anelito dell'essere umano, e cercarla suppone sempre un esercizio di autentica libertà. Molti, tuttavia, preferiscono le scorciatoie e cercano di evitare questo compito. Alcuni, come Ponzio Pilato, ironizzano sulla possibilità di poter conoscere la verità (cfr Gv 18,38), proclamando l'incapacità dell'uomo di raggiungerla o negando che esista una verità per tutti. Questo atteggiamento, come nel caso dello scetticismo e del relativismo, produce un cambiamento nel cuore, rendendo freddi, vacillanti, distanti dagli altri e rinchiusi in se stessi». E senza verità non c'è libertà: «la verità sull'uomo è un presupposto ineludibile per raggiungere la libertà, perché in essa scopriamo i fondamenti di un'etica con la quale tutti possono confrontarsi e che contiene formulazioni chiare e precise sulla vita e la morte, i doveri ed i diritti, il matrimonio, la famiglia e la società, in definitiva, sulla dignità inviolabile dell'essere umano». Sono le regole comuni del gioco chiamato società, che valgono anche per la società internazionale, e senza queste regole - che coincidono con la legge naturale - non ci può essere la pace.
L'idea di una legge naturale che la ragione può conoscere e che vale per tutti è esattamente il contrario del relativismo. E perché sia chiaro che il relativismo che ha di mira, e che fa più danni, è quello - che si è manifestato appunto nel laicismo messicano e nel comunismo cubano - che esclude Dio dalla vita della società e degli Stati, Benedetto XVI ha ribadito in Piazza Maceo a Santiago de Cuba che Dio vuole fare parte della storia degli uomini. Quando le ideologie lo escludono da questa storia, finiscono per costruire un mondo che non solo è ostile a Dio, ma è ostile all'uomo: «quando Dio è estromesso, il mondo si trasforma in un luogo inospitale per l’uomo». Anche per gli Stati, come per i singoli, resta vero che «allontanarsi da Dio ci allontana da noi stessi e ci precipita nel vuoto».
Contro il relativismo la Chiesa - oggi paladina di una ragione in gran parte oscurata e non solo della fede - propone la legge naturale, che fonda i diritti della persona umana, a partire dal diritto alla vita e da quello alla libertà religiosa. In Messico il Papa ha lanciato ben alto il grido dei Cristeros, un grido vietato ed espulso perfino dai libri di scuola, quando ha ricordato commosso «tanti martiri che, al grido “Viva Cristo Re e Maria di Guadalupe”, hanno dato una perenne testimonianza di fedeltà al Vangelo e di dedizione alla Chiesa». E a León ha voluto visitare il monumento a Cristo Re, che fu distrutto nel 1926, bombardato dal governo all'inizio della guerra dei Cristeros, e ricostruito solo nel 1940, che ha definito «luogo emblematico della fede del popolo messicano», tornando sul tema a lui carissimo della regalità di Gesù Cristo, regalità mite e pacifica ma che nello stesso tempo non può non essere anche sociale.
Oltre ai forti richiami a Cuba, anche in Messico il Papa si è presentato come pellegrino della libertà religiosa. La legge naturale, ha detto al suo arrivo in Messico, postula la «incomparabile dignità di ogni persona umana, creata da Dio, e che nessun potere ha il diritto di dimenticare o disprezzare. Questa dignità si manifesta in modo eminente nel diritto fondamentale alla libertà religiosa, nel suo genuino significato e nella sua piena integrità».
La libertà religiosa, come il Pontefice l'ha presentata, non consiste nella sola libertà di culto. La Chiesa, ha ricordato all'aeroporto di Silao, dev'essere libera di testimoniare la fede, la speranza e la carità. Questo implica il diritto dei fedeli cattolici, che è anche politico, di «essere fermento nella società, contribuendo a una convivenza rispettosa e pacifica, basata sulla incomparabile dignità di ogni persona umana, creata da Dio, e che nessun potere ha il diritto di dimenticare o disprezzare». Anche la piaga tipicamente messicana del narcotraffico, che spesso ha attaccato e anche ucciso sacerdoti e vescovi, viola - in modo diverso dalle persecuzioni e discriminazioni governative - la libertà religiosa, cercando d'impedire alla Chiesa di compiere la sua missione.
Il Papa, dunque, non ha rinnegato la diplomazia, che in Messico cerca di sanare antiche ferite e a Cuba prepara una lentissima transizione, ha celebrato i suoi risultati - pure indicandoli sempre come soltanto parziali - e, negli incontri e nei toni, si è talora adattato alle sue esigenze. Ma nello stesso tempo ha attaccato le ideologie proprio dove esse hanno la loro radice, nel relativismo che nega la legge naturale e nel totalitarismo che rifiuta la piena libertà religiosa. E ai vescovi ha ricordato che questi mali si combattono formando laici fedeli alla dottrina sociale della Chiesa e sacerdoti - su cui ogni vescovo, ha detto accennando così anche al delicato tema della pedofilia, deve esercitare un'adeguata vigilanza - che abbiano come bussola il Catechismo della Chiesa Cattolica, che è al centro del prossimo Anno della Fede.

(Fonte: Massimo Introvigne, La bussola quotidiana, 30 marzo 2012)

Ancora sul caso Enzo Bianchi

«Ah, il caso Enzo Bianchi. Grazie monsignor Livi per averne parlato con tanta chiarezza. Questa faccenda del signor Bianchi detto fratel Enzo, è davvero una delle questioni che mostrano come sia ridotta questa povera Chiesa dove ciò che non è cattolico vale quanto, e anche più, della buona e sana dottrina. Con il tragicomico risvolto della censura rivolta con cattiveria, arroganza e, diciamo, poca lucidità contro chi osi denunciare l’assurdità della situazione. […]. A questo proposito, avevamo pensato di scrivere qualcosa sul signor Bianchi, priorissimo della supercomunità di Bose. Poi, nel nostro archivio, abbiamo trovato un articolo scritto per il Foglio qualche tempo fa.
Ma un grazie va anche al dottor Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, per essere stato così sgradevole e, diciamo, poco lucido nel censurare monsignor Livi. Grazie davvero perché, se ancora fosse stata necessaria una prova del disastro, il dottor Tarquinio l’ha messa in bella copia nero su bianco: un’autocertificazione dello stato di coma del mondo cattolico. A questo proposito, avevamo pensato di scrivere qualcosa sul signor Bianchi, priorissimo della suopercomunità di Bose. Poi, nel nostro archivio, abbiamo trovato un articolo scritto per il Foglio qualche tempo fa.
Visto e considerato che fratel Enzo dice e scrive con successo da anni sempre le stesse cose, abbiamo pensato che fosse ancora di attualità e potesse servire a rafforzare l’iniziativa di monsignor Livi che, se fossimo in un mondo cattolico serio, dovrebbe diventare una vera e propria campagna. Magari guidata dai vescovi: almeno qualcuno. Per la cronaca, l’articolo uscì con titolo “Bose dell’altro mondo”». Ed ecco, per completezza d’informazione, l’articolo di cui sopra:
«Prima, la notizia buona: chi avesse già speso 9 euro per acquistare La differenza cristiana di Enzo Bianchi, ora può risparmiarne 10 evitando di mettere nel carrello Per un’etica condivisa, appena dato alle stampe sempre da Bianchi. Complessivamente, 1 euro guadagnato poiché, se La differenza cristiana è zuppa, Per un’etica condivisa è pan bagnato. Anche nel suo ultimo libretto, il Priore di Bose mena il torrone del cristianesimo minimale buttandoci dentro come canditi tutti quei termini che colpiscono nel profondo i cattolici tentati dall’esserlo sempre meno: l’Ultimo, lo Straniero (in maiuscolo), polis, agorà, ananké (in corsivo), parresia (in tondo) e poi profezia.
Tanta profezia, anch’essa in tondo, ma scritta con forza tale da creare un vortice che trascina il lettore in un mondo nuovo, un cristianesimo altro, una spiritualità purissima che manifesteranno il regno di Dio qui e subito, perfettamente. Purché si faccia come insegna fratel Enzo. Anzi, come impone fratel Enzo. Perché la sua scrittura, contrariamente al messaggio minimale che contiene, è tutt’altro che mansueta. Si prenda un suo libro e si contino le frasi che iniziano con un “Sì,”. Quando il ragionamento perde qualche colpo, quando bisogna imprimere nelle testoline dei lettori il concetto giusto, fratel Enzo, come un vecchio marpione dell’omiletica che incespica sul pulpito o un navigato caporedattore di giornale popolare che non riesce a venirne fuori con un titolo, ci infila il suo bravo “Sì,”. Dopo il “Sì” ci vuole sempre la virgola, che irrobustisce la pagina.
Provare per credere. La differenza cristiana, pagina 77, settima riga: “Sì, l’annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo”. Togliete quel “Sì,” e avrete ridotto a un decimo la forza del messaggio, che, detto per inciso, suona tanto come un insulto ai milioni di martiri.
Il Priore di Bose è tutto qui, nel suo dire il quasi nulla con molta forza, nel suo attaccare il dogma mostrandolo intatto ma vuoto. Un “vivere doppio”, come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa tessendone l’elogio. Un “vivere doppio che è piuttosto un vivere-tra. Tra il mondo e ciò che non è del mondo. Tra adesione alla polis e distacco”. E come si potrebbe definire, se non un vivere-tra, quello di fratel Enzo? Fa l’editorialista del giornale storico della famiglia Agnelli e combatte il capitalismo, scrive sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana e bersaglia la gerarchia, commenta il Vangelo su Famiglia Cristiana e proclama le verità altrui, fa il monaco solitario ed è sempre in viaggio ai quattro angoli del mondo, profetizza nell’iperuranio della teologia engagé e si occupa della legge sugli immigrati.
Un vivere-tra che segna fin dal principio la comunità fondata a Bose, tra Ivrea e Biella, da Enzo Bianchi, classe 1943, dottore in economia e commercio. Era un simbolico 8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Concilio Vaticano II. Bose divenne punto d’incontro tra persone di entrambi i sessi appartenenti al cattolicesimo, al protestantesimo e al mondo ortodosso. E subito ne scaturì il carisma di punta avanzata dell’ecumenismo, di un vivere-tra teologico che fino a oggi non ha avuto alcun riconoscimento ecclesiastico.
Non esiste istituto del diritto canonico della Chiesa cattolica che contempli un’entità di tal genere. Se al cattolico ordinario questo può apparire strano, a Bose vi diranno che è profetico. Il fatto che la loro comunità non possa essere contemplata dentro la struttura di questa Chiesa significa solo che la struttura di questa Chiesa deve mutare: troppo gerarchica, costantiniana, fondata sul potere, vecchia. Insomma, non è profetica, non è in grado di comprendere e trasmettere il vero messaggio evangelico. Tanto che, nella Regola di Bose si legge: “Nessuna comunità e nessuna persona possono realizzare ed esaurire tutte le esigenze dell’Evangelo. Solo la chiesa universale nella sua completezza storica può esprimere la totalità degli appelli contenuti in esso”.
Dal che parrebbe che “la chiesa universale nella sua completezza storica” non corrisponda alla Chiesa cattolica. Tanto che la Regola si affretta a dire al fratello e alla sorella di guardarsi bene dall’abbandonare la confessione di provenienza per farsi cattolici. Ma tutto ciò viene detto con tale mitezza e tale soavità e suona tanto bene che il cattolico poco accorto finisce per rimpiangere di essere stato battezzato nella Chiesa di Roma. Se non è così, bisogna che a Bose riscrivano la Regola e usino termini comprensibili a tutti.
Però riesce difficile pensare di essersi sbagliati quando, poco più avanti si legge che il Priore, il “compaginatore della koinonía”, è colui che “spezza e interpreta la Parola per la comunità nelle varie congiunture in cui essa si viene a trovare”. Il povero cattolico medio, qui, è costretto a cogliere la contrapposizione tra lo spezzare il Pane Eucaristico e lo spezzare la Parola che spaccò in due la Cristianità ai tempi di Lutero. Ma l’abilità di Bose, della sua Regola e del suo Priore sta nel non arrivare fino in fondo: suggeriscono. E il colpo da maestro di Bianchi sta nell’usare questo linguaggio e nel praticare questi temi come se la vita della Chiesa fosse già mutata. “Ma come” sembra dire ai poveri cattolici medi “siete ancora tanto indietro? Non soffia ancora in voi lo spirito della profezia?”.
Davvero bravo, perché con questo metodo è arrivato ovunque, dalle parrocchie illuminate alla predicazione degli esercizi per gli alti gradi della gerarchia, da trasmissioni radiofoniche come “Ascolta si fa sera” e “Uomini e profeti” ai viaggi di rappresentanza per conto del Vaticano. Eppure, fonti ben informate dicono che alla Congregazione per la dottrina della fede, sul suo conto c’è un dossier riguardante materie come l’ecclesiologia, la sacramentaria e la cristologia. Ma come si fa a mandare avanti una pratica a carico di un personaggio come fratel Enzo? E il dossier rimane lì, anche perché il pensiero di Bianchi non è così minoritario come si potrebbe immaginare.
È la storia di Bose, fin dai suoi esordi, a insegnarlo. Nel 1967, il vescovo del luogo vietò qualsiasi celebrazione pubblica nella comunità a causa della presenza di un non cattolico. Ma, il 29 giugno del 1968, l’arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino, entusiasta di quell’esperienza celebrò lui stesso la Messa vanificando di fatto l’atto del vescovo. Oggi, che tra fratelli e sorelle di varia provenienza sono ottanta, non è chiaro se l’interdetto sia formalmente ancora in vigore, ma questo conta poco, poiché si troverebbe anche oggi un cardinale epigono di Pellegrino, pronto a correre in soccorso a Bose.
In ogni caso, fratel Enzo tira avanti. Predica esercizi ad alto livello, convoca e presiede convegni internazionali, è nume tutelare delle edizioni Qiqajon, scrive per grandi editori, compila voci di enciclopedie, tiene cattedra di teologia biblica e patristica all’Università Vita-Salute San Raffaele [del defunto] don Luigi Verzé. E tutto questo con il solo titolo accademico di dottore in economia e commercio. Un autodidatta. Un magnifico autodidatta, ma pur sempre un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, allievo di se stesso.
Adesso qualcuno vorrà spiegare che lo Spirito soffia dove vuole e che la storia della Chiesa è punteggiata da individui che hanno intuito, profeticamente, strade nuove. Guardate San Francesco. Però, chiunque abbia fatto almeno l’esame di “Storia medievale 1” sa che la grandezza di san Francesco sta nell’essersi rimesso al giudizio della Chiesa di Roma e non nell’averla voluta giudicare. Monsignor Piero Zerbi, maestro dei medievalisti dell’Università Cattolica di Milano insegnava che sta qui la differenza tra Francesco d’Assisi e Pietro Valdo: uno divenuto Santo e l’altro eretico.
Ma fratel Enzo non teme scivoloni e se c’è da menare fendenti su Roma non guarda in faccia a nessuno. “Questo è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà” dice nella Differenza cristiana, citando una frase di Zagrebelsky. E poi rincara: “Io aggiungerei che è un tempo triste per certi cattolici che certo non pensano di possedere la verità, ma pur mettendo la loro fede in Dio e in Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno che la verità eccede sempre i credenti. (…) Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e non minacciato da chi lo avversa o addirittura lo perseguita, bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi”.
E così, senza compromettersi facendo nomi, da Papa Benedetto XVI in giù sono sistemati tutti coloro che complottano per depotenziare la nuova Pentecoste avviata con il Concilio Vaticano II, tutti coloro che si oppongono al soffio dello Spirito. Gli altri, invece, i veri credenti, quelli che, come nei migliori ossimori, “non pensano di possedere la verità”, pur se invitati a un generico immergersi “nella storia, nelle sue opacità, nelle sue contraddizioni”, in realtà sono chiamati a divenire “comunità alternativa”.
Anche qui, Bianchi allude, profetizza, più che marcare nettamente. Ma, presi dal suo ragionare, si può essere indotti a immaginare veramente una nuova Pentecoste annunciata ed evocata da “comunità alternative” in cui “si manifesti pienamente la Venuta del Signore”. Una Nuova Era dello Spirito? Non viene specificato, però, nella Regola di Bose si legge che “Nella vita monastica è lo Spirito a chiamare, pur servendosi di mediazioni umane, e non la chiesa tramite il ministero episcopale, come accade per i ministeri ordinati”. E certo colpisce questo continuo evocare, anche se non fino in fondo, la contrapposizione tra una Chiesa istituzionale, vecchia e una Chiesa spirituale, nuova. Il tutto sottolineato da una sezione del sito web della comunità che si intitola “Pneumatofori”, portatori dello Spirito, in cui si dice: “Sono passati tra noi..” seguono 19 nomi per poi concludere “lasciandoci il loro spirito”.
Nell’attesa, le “comunità alternative” sono chiamate a evitare di porre Cristo al centro del proprio agire sociale. Niente leggi che sappiano di sacrestia: l’Altro, lo Straniero siano la regola, il nascondimento sia il mezzo, l’umanizzazione, e non la salvezza, sia il fine. Dunque, in Per un’etica condivisa, Bianchi spiega che gli ripugna un mondo in cui “le chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei servizi necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile, chiedendo però un riconoscimento del proprio ruolo”.
Per non parlare dei cosiddetti “atei devoti che oggi pontificano”. Ai quali Bianchi manda a dire che “non vi è nessuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario come invece vorrebbe far credere una società in carenza di ideali. Alla larga da “un progetto che vede le chiese correre in aiuto e supporto alla società per fornire, alimentare valori di cui esse hanno bisogno per il loro ordine ed equilibrio”.
In un colpo solo, fratel Enzo fa fuori gli atei devoti e San Tommaso d’Aquino. Il Dottore Angelico, nella Summa spiega l’utilità delle leggi dello Stato e della repressione penale, che servono ad “abituare a evitare il male e a compiere il bene per timore della pena, in modo che poi esso sia compiuto spontaneamente”. Ma è chiaro che, per dei puri destinati a vivere nel nascondimento e nella carità perfetta, la fatica di produrre leggi che conducano gli uomini al bene, invece che benedetta, appare blasfema.
È difficile non far risalire tutto questo a una sottovalutazione dell’Incarnazione di Cristo, da cui scende direttamente l’impegno del cristiano nella vita quotidiana. La Civitas Dei di Sant’Agostino, alla quale appartiene il cristiano, non è un luogo impalpabile e neppure una comunità separata che diventi esempio per la società. L’appartenente alla Civitas Dei ha il dovere di mettere mano anche alla città dell’uomo, e il suo impegno è essenzialmente milizia.
Ma se l’impegno è debole, di solito, la cristologia è debole. Il Priore, quando cita Cristo, si affretta a spiegare che è colui che “ha narrato Dio agli uomini”. Linguaggio opaco che produce la sensazione di trovarsi davanti a una vicenda incompleta. Sensazione alimentata da Bianchi con un libretto per bambini intitolato “Gesù. Il profeta che raccontava Dio agli uomini”. È vero che dentro dice che Gesù è Figlio di Dio. Ma poi spiega ai suoi piccoli lettori: “Gesù (…) era un bambino come noi che viveva con i suoi genitori, Maria e Giuseppe, in un villaggio, una piccola cittadina della Galilea. Quando aveva dodici anni ha sentito una chiamata più forte. (…) Gesù è stato inviato, mandato, è divenuto un testimone, cioè uno che raccontava Dio agli uomini”.
Forse, sta qui la ragione del cristianesimo minimale di Bianchi, che ha un precedente illustre in Giuseppe Dossetti, passato dalla militanza nella Dc alla scelta monastica. Non a caso, il Priore di Bose ha un posto fisso nel Consiglio di amministrazione della dossettiana Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Come quello di Dossetti, il monachesimo di Bianchi è anomalo. Non sceglie la via della solitudine per lodare e adorare Dio, ma per caricarsi di carisma profetico con il fine ultimo di trasformare la Chiesa e renderla più spirituale e democratica attraverso le alchimie della politica. Un ribaltamento di orizzonte che passa dall’influsso della Chiesa sulla società a quello della società sulla Chiesa.
L’unica differenza tra Dossetti e Bianchi sta nel partner. Il monaco bolognese, tra gli artefici della costituzione repubblicana, fece della sua creatura il luogo d’elezione per l’incontro con il Pci di Togliatti. Pensò la carta costituzionale come piattaforma utopica per un progetto che trasformasse la vita politica italiana e, quindi, anche la Chiesa.
Dal che discese una visione ideologica della costituzione in nome della quale Dossetti, prima combattè Craxi e poi lasciò il suo romitaggio per fronteggiare il cavaliere nero Berlusconi. Bianchi, oggi, ha a che fare con gli eredi di un Pci putrefatto, una sorta di partito radicale di massa in cui convive tutto e il contrario di tutto, da Rosy Bindi a Massimo Cacciari, passando per Dario Franceschini: come dire il nulla, l’ideale per le profezie minimali del Priore.
Ma l’obiettivo non è cambiato, nel mirino c’è sempre la Chiesa romana e la sua concezione costantiniana. Il che fa tirare una boccata d’ossigeno a Eugenio Scalfari, che, alla Fiera del libro del 2005 disse: “Se tutti i cattolici fossero come Enzo Bianchi io sarei molto rassicurato”. Come dargli torto?».
 
(Fonte: Corrispondenza Romana, 30 marzo 2012)


Un caso: dura reazione di Avvenire alle critiche su Enzo Bianchi, e relativa risposta dell’autore.

L’articolo di monsignor Antonio Livi che criticava alcuni interventi di Enzo Bianchi [cfr. Falsi profeti! consultabile in questo blog alla data del 17 marzo 2012], ha provocato la durissima reazione del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, che riportiamo qui di seguito. Molte peraltro sono state anche le lettere di solidarietà a monsignor Livi arrivate in questi giorni ad Avvenire. Ma preferiamo dare la parola allo stesso monsignor Livi che risponde al direttore di Avvenire con la lettera aperta che pubblichiamo in calce.

Quelle maligne deformazioni
Gentile direttore, mi scuso per il disturbo ma ho trovato in rete un articolo – tratto da un sito cattolico – che mi ha lasciata interdetta... In esso si critica con molta forza il priore della Comunità monastica di Bose, fratello Enzo Bianchi. E si cita anche Avvenire per la meditazione del religioso sulle «Tentazioni di Cristo» che ha pubblicato il 4 marzo scorso. Per questo glielo segnalo. Trovo strano che il nostro giornale venga accusato di pubblicare cose non in linea con il pensiero della Chiesa. La saluto con tanta stima e gratitudine per i vostri articoli sempre corretti ed equilibrati, oltre che obiettivi (ne facciamo largo uso durante le letture in refettorio)... Il Signore la benedica coi suoi validi collaboratori.
Una suora.
Caro direttore, anzitutto voglio ringraziarla per la quotidiana testimonianza del giornale che lei dirige, coadiuvato da abili collaboratori e da autorevoli voci esterne alla redazione. Debbo confessarle che siete divenuti miei compagni di viaggio, quasi inseparabili; fatico a non sostare sull’abile mescolanza che propone letture sagge della cronaca quotidiana e sane riflessioni che pungolano la fede. Con rammarico constato la malevola superficialità con cui venite trattati spesso da chi dovrebbe promuovere la lettura della "prima pagina" di ogni quotidiano ed evito di ritornare sui recenti attacchi frontali che avete subito. Ma è di questi giorni una nuova campagna, mi permetto di dire diffamatoria, nei confronti di un uomo di Chiesa che spesso trova spazio sulle vostre pagine e che stimo. Parlo di Enzo Bianchi. Fatto ancora più grave le accuse – di eresia!! – provengono da un altro uomo di Chiesa e trovano risonanza in ambienti e testate online che si autodefiniscono punto di riferimento per i cattolici. Mi perdoni l’ignoranza di questa mia considerazione più logica che teologica: ma Benedetto XVI nominerebbe un "eretico" come esperto al Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio? Le diocesi inviterebbero Enzo Bianchi a tenere incontri, riflessioni, esercizi per presbiteri se fosse appunto "eretico" o anche solo non più che ortodosso al magistero cattolico? Enzo Bianchi sarebbe uno degli esperti più ascoltati in liturgia se fosse "eretico"? Insomma, secondo certi signori, tutti – Avvenire compreso – si sarebbero fatti abbindolare, tranne loro. C’è il bisogno di ulteriore malignità nella nostra Chiesa? Le auguro un buon proseguimento del cammino quaresimale. Giovanni Todeschini, Lecco.

Risponde il Direttore di Avvenire: «Ammetto di non essermi reso conto per diversi giorni di che cosa era stato scritto di tragicamente ridicolo su internet contro Enzo Bianchi e – en passant – anche contro Avvenire. Lui accusato – udite udite – di eresia monofisita (cioè di considerare Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, solo un uomo) e questo giornale accusato – ri­udite ri-udite – di tenergli bordone. Ammetto anche, gentile e reverenda sorella e caro signor Todeschini, di essere rimasto quasi senza parole nel leggere le argomentazioni usate da un uomo di Chiesa, il professor Livi, del quale – fin qui – avevo solo sentito parlare [grave carenza: si vede che il Direttore non ha molta familiarità con i testi di teologia e filosofia!]. Ho scoperto un testo feroce, nel quale si procede con metodi degni della peggiore "disinformatsja": estrapolando frasi, selezionando concetti, amputando verità, distillando veleni. Una deformazione doppiamente insultante (per l’autore e per l’intelligenza dei lettori) della bella e intensa meditazione del priore Bianchi sulle tentazioni di Nostro Signore che abbiamo pubblicato il 4 marzo scorso. La mia è la constatazione addolorata e ferita di un giornalista non esattamente alle prime armi e che, dunque, se ne intende un po’ del bene o del male che si può fare impugnando la penna. Ma è anche, e soprattutto, la testimonianza civile di uno che ha denunciato più volte, e a diverso proposito, certe squallide procedure di denigrazione e diffamazione. Mi ha davvero colpito, cari amici lettori, il livore della filippica e mi indigna la disonestà intellettuale dell’operazione tentata nel nome della comune fede cattolica contro Enzo Bianchi e, di rimbalzo, ma non casualmente, contro questo giornale. Si può ovviamente non essere d’accordo con il priore di Bose (o con il sottoscritto o con qualsiasi altro giornalista e collaboratore di Avvenire) su ciò che è opinabile: valutazioni storiche e socio­culturali, opinioni artistiche, scelte lessicali, giudizi politici... Ma mi è stato insegnato, e a questo insegnamento resto serenamente e cristianamente fedele, che non ci si può mai permettere – con maligni artifici e disprezzo della verità delle cose e delle parole – di porre in dubbio la fede altrui e l’altrui indiscutibile adesione alla buona dottrina cattolica su ciò che opinabile non è. Chi si azzarda a farlo, e in questo caso si è azzardato, dovrebbe essere capace di vergognarsene. Questa è la speranza. Marco Tarquinio.

Lettera aperta a Tarquinio (Avvenire)
Sig. Direttore, Il 23 marzo scorso Lei sul Suo giornale mi ingiunge di vergognarmi per quello che avevo scritto su La Bussola Quotidiana a proposito di Enzo Bianchi, accusandomi di aver orchestrato squallide manovre diffamatorie basate sulla menzogna. Siccome alcuni lettori (anche se non tutti) e i cattolici italiani in generale possono aver pensato che queste accuse (che costituiscono – queste sì – denigrazione e diffamazione nei miei confronti) siano fondate, mi vedo costretto a fornire loro pubblicamente alcune spiegazioni.
1. Io non ho scritto contro Enzo Bianchi come persona ma contro la sua “fama di santità”, ossia contro la presentazione che se ne fa come di un vero mistico, di un autorevole interprete della Scrittura, di un venerato maestro di dottrina cristiana, di un eroico combattente per la riforma della Chiesa e per l’ecumenismo. Io vorrei invece richiamare l’attenzione di chi ha responsabilità pastorale sul fatto che i suoi scritti e i suoi discorsi – che certa stampa utilizza come se potessero essere dei validi sussidi per la catechesi - sono inficiati di un’ideologia neognostica, incentrata sul progetto di una religione universale a carattere etico (la Welthethik), secondo la prospettiva del suo autore di riferimento, che è Hans Küng.
2. Per questo preciso motivo ho deprecato lo spazio e il rilievo che il Suo giornale ha dato a una meditazione biblica di Bianchi, pubblicandola in un paginone a colori di “Agorà” della domenica. Io l’ho visto distribuito in alcune chiese di Roma assieme ai foglietti della Messa, e mi è sembrato assurdo che quel commento di Bianchi al Vangelo della prima domenica di Quaresima fosse presentato ai fedeli quasi come un sussidio per la pastorale liturgica. Quale approfondimento della dottrina cristiana e quale edificazione nella fede eucaristica – mi domandavano – possono venire da discorsi che presentano Gesù come un modello (umano) di quella morale umanitaria che ritiene di poter prescindere dalla grazia del Redentore? Il modo è pieno di gente che parla di Gesù in termini che sono più propri dell’umanesimo ateo che del dogma cattolico: non è questo che mi turbava: mi turbava il fatto che ancora una volta fosse presentato come un autorevole maestro della fede, con l’autorevolezza che può conferire il “giornale dei vescovi italiani”, un personaggio che, a mio avviso, la vera fede non contribuisce affatto a diffonderla. Non si tratta di un problema personale o ideologico, ma di un problema esclusivamente pastorale, e io come sacerdote lo considero l’unico problema importante.
3. Lei, Direttore, non ha ragione quando scrive che io avrei potuto criticare Bianchi o altri collaboratori di Avvenire «su ciò che è opinabile: valutazioni storiche e socio-culturali, opinioni artistiche, scelte lessicali, giudizi politici…», mentre invece mi sarei «azzardato» a «porre in dubbio la fede altrui e l’altrui indiscutibile adesione alla buona dottrina cattolica su ciò che è opinabile». Lei non ha ragione perché io critico appunto il modo di commentare il Vangelo in un giornale ufficialmente cattolico, e in questa materia nella Chiesa c’è sempre stata e sempre ci sarà il diritto di critica (la teologia cattolica e lo steso dogma nascono dal confronto critico con i diversi modi di presentare il contenuto della rivelazione divina). Ciò che per un cattolico «opinabile non è» è solo il dogma enunciato dalla Chiesa con il suo magistero solenne. Le interpretazioni del dogma e la sua presentazione catechetica, così come le scelte pastorali, sono invece materia di libera discussione. Non c’è nulla di criminoso e di vergognoso nel fatto di aver voluto manifestare la mia opinione circa l’inopportunità pastorale di presentare alla meditazione dei fedeli dei discorsi, come quelli di Bianchi, così ambigui rispetto al dogma cattolico. Da quando è diventato «indiscutibile» il fatto dell’«adesione alla buona dottrina cattolica» da parte dei collaboratori dell’Avvenire? Basta la parola del Direttore? È un nuovo caso di «Roma locuta, quaestio finita»?
4. Nel fare quei rilievi dottrinali e pastorali, peraltro, io non ho minimamente voluto «porre in dubbio la fede altrui», cioè di Enzo Bianchi. Sembra che Lei, dottor Tarquinio, non abbia presente la fondamentale distinzione tra la fede come atto interiore del soggetto che aderisce con tutto se stesso a Cristo e alla sua dottrina (e di questo atto interiore è consapevole solo il soggetto stesso) e la fede come enunciazione esteriore (professione di fede, proclamazione della fede, catechesi, evangelizzazione, teologia); io so bene di non dover giudicare la sincerità e la fermezza della fede degli altri (della coscienza di ciascuno di noi è giudice solo Dio, il quale «scruta i reni e il cuore» degli uomini), ma so anche che ho il dovere di giudicare la rispondenza di un discorso sul Vangelo alle verità fondamentali contenute nella dottrina della Chiesa: è un dovere che in primis spetta al collegio episcopale, con a capo il Papa, ma spetta, per partecipazione sacramentale, anche a un semplice sacerdote come me, impegnato da sempre nella formazione cristiana dei fedeli con il mio lavoro pastorale e con la docenza nell’«Università del Papa». Certo, il mio giudizio – di approvazione o di critica – è soggetto a errore dal punto di vista dottrinale, e anche dal punto di vista della prassi può risultare meno opportuno o conveniente: ma è pur sempre un atto legittimo, anzi doveroso, quando uno come me ritiene in coscienza che il bene comune della comunità ecclesiale lo richieda.
5. Lei scrive che il mio è «un testo feroce, nel quale si procede con metodi degni della peggiore “disinformatsja”: estrapolando frasi, selezionando concetti, amputando verità, distillando veleni». In realtà, le frasi dello scritto di Bianchi che ho citato sono testuali, e in un breve scritto non potevo certamente riprodurre tutto il testo pubblicato nel paginone di Avvenire (chi non crede alla sintesi che io ho fatto potrà confrontarla con l’originale); sono però frasi emblematiche, che nemmeno il contesto può contribuire a “salvare” (anzi, a me sembra che tutto il discorso che Bianchi fa sul potere e sul denaro ha senso solo presupponendo che Gesù sia solo un modello morale, un uomo esemplare). Nessuno scrittore dei primi secoli, nessun letterato cristiano moderno, nessun teologo intenzionato a rispettare il dogma si è mai sognato di parlare di Gesù come di una «creatura», di un uomo cioè che insegna agli altri uomini come si deve rispettare Dio, che è il Creatore. Bianchi è un biblista: ma dove mai si trova nella Bibbia la definizione di Gesù come «creatura»? Che cosa avranno pensato quei fedeli che hanno letto il testo di Bianchi sull’Avvenire e poi a Messa hanno recitato il Credo, dicendo di Gesù che Egli è «Dio da Dio» e che è «generato, non creato»? Devono pensare che la professione di fede della Chiesa è una formula antiquata e che è meglio credere alle spiegazioni moderne e aggiornate di Bianchi? Questo è il vero problema: un problema che interessa necessariamente chi ha sensibilità pastorale e si sente responsabile dei messaggi dottrinali che vengono proposti da personaggi che (non sempre meritatamente) godono di credito presso i fedeli, soprattutto se sono veicolati dalla stampa che si presenta come la voce (almeno ufficiosa) della Chiesa italiana.

(Fonte: La Bussola quotidiana, 27 marzo 2012)

Non sacra musica, ma rumori d'assalto

L'ultimo baluardo a Roma della grande musica liturgica della Chiesa latina, edificato sulle colonne del canto gregoriano e della polifonia di Giovanni Pierluigi da Palestrina, rischia da un momento all'altro di capitolare.
Questo baluardo è il Pontificio Istituto di Musica Sacra, il conservatorio musicale della Santa Sede, istituito da Pio X un secolo fa per imprimere il giusto indirizzo alla musica sacra nelle chiese di tutto il mondo.
Lo presiede monsignor Valentino Miserachs Grau, 69 anni, catalano, che è anche direttore della Cappella Liberiana, il coro della basilica papale di Santa Maria Maggiore. Lì egli ebbe come predecessore e maestro Domenico Bartolucci, il più insigne compositore e interprete di musica liturgica che la Chiesa romana abbia avuto nell'ultimo secolo, già direttore del coro pontificio della Cappella Sistina da cui fu brutalmente estromesso nel 1996, fatto cardinale da Benedetto XVI nel 2010.
C'è una profonda identità di vedute, in materia di musica liturgica, tra papa Joseph Ratzinger e l'attuale dirigenza del PIMS. Ma come è già accaduto nel 2010 per il cambio di direttore del coro della Cappella Sistina, anche per il rinnovo della presidenza del Pontificio Istituto di Musica Sacra tutto sta per essere deciso – non dal PIMS ma contro di esso – senza un personale coinvolgimento del papa.
I motivi di questa estraniazione di Benedetto XVI – sua volontaria, con il tripudio di molti – da decisioni operative in una materia a lui così congeniale e da lui ritenuta così essenziale alla missione della Chiesa restano tuttora indecifrati.
Sta di fatto che questa estraniazione del papa dà il via libera nella Chiesa, anche ai livelli più alti, a uomini e a indirizzi musicali che sono i più lontani da quello "spirito della liturgia" che anima l'intera sua visione di teologo e di pastore.
Il caso della Cappella Sistina è emblematico. La nomina dell'attuale direttore, monsignor Massimo Palombella, è maturata nel chiuso degli uffici della segreteria di Stato vaticana, sicuramente tra i meno competenti in materia. E non ha affatto risollevato il coro che accompagna le liturgie pontificie dal degrado nel quale era precipitato.
Non basta, infatti, che la scelta degli autori e dei canti sia oggi più in linea con i desideri del papa. Sono altrettanto importanti la qualità delle esecuzioni e la visione che le ispira.
I giudizi sul coro della Cappella Sistina diretto da Palombella sono naturalmente opinabili. Ma quando per esempio Alessandro Taverna, in una recensione critica fa notare che alla fine di un canto a voce libera "i cantori sono calati di ben tre toni", riferisce un fatto, non una opinione.
Ebbene, per la carica di preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra si profila oggi un avvicendamento ancor più foriero di sventura.
Il nome che la segreteria di Stato si appresta a far approvare da Benedetto XVI è quello di don Vincenzo De Gregorio, l'attuale consulente musicale dell'ufficio liturgico della conferenza episcopale italiana.
Chi è De Gregorio? Ma prima ancora, come si è arrivati alla sua quasi-nomina?
Il Pontificio Istituto di Musica Sacra dipende dalla congregazione vaticana per l'educazione cattolica, il cui prefetto, cardinale Zenon Grocholewski, è anche Gran Cancelliere dell'istituto.
L'attuale preside del PIMS, Miserachs Grau, è arrivato nel 2011 al termine del suo mandato. E in quello stesso anno il cardinale Grocholewski, a norma degli statuti, d'intesa con la presidenza del PIMS, ha scelto il successore nella persona dell'abbé Stephane Quessard, riconoscendo in esso l'uomo adatto per assicurare la continuità degli indirizzi dell'istituto, in piena sintonia con la visione di Benedetto XVI.
L'abbé Quessard ricopre importanti cariche nell'arcidiocesi di Bourges, tra cui quella di vicario episcopale e di presidente della commissione liturgica. L'arcivescovo di Bourges, Armand Maillard, oppose quindi un'iniziale resistenza a privarsi di un sacerdote di comprovato valore come l'abbé Quessard. Ma infine accettò – convinto soprattutto dall'amico Jean-Louis Bruguès, arcivescovo segretario della congregazione per l'educazione cattolica – di "offrirlo" a Roma come preside del PIMS alla sola condizione che l'incarico avesse inizio nell'autunno del 2012, non prima.
Per questo il preside uscente, Miserachs Grau, è rimasto in carica, in proroga, fino alla venuta del successore.
All'inizio dello scorso autunno, la congregazione per l'educazione cattolica trasmise dunque alla segreteria di Stato l'indicazione dell'abbé Quessard come nuovo preside del PIMS, per averne la convalida.
Ma passano i mesi e il "nulla osta" non arriva. Anzi, arrivano segnali opposti. In dicembre la congregazione ha notizia di un primo rifiuto opposto dalla segreteria di Stato. Il cardinale Grocholewski ripropone il suo candidato. E di nuovo, a fine febbraio, scatta il rifiuto. Dalla segreteria di Stato fanno sapere di aver trovato loro "un candidato italiano più adatto".
La congregazione informa l'arcidiocesi di Bourges del doppio schiaffo ricevuto da entrambe. E intanto trapela la voce che per la segreteria di Stato il dado è tratto: il nuovo preside del PIMS sarà don Francesco De Gregorio.
Napoletano, organista del Duomo della sua città, già direttore del conservatorio statale San Pietro a Majella, De Gregorio è dal 2010 l'esperto numero uno della CEI per la musica sacra.
Lì ha preso il posto di colui che è stato il suo mentore, don Antonio Parisi, di Bari, per trent'anni factotum dei vescovi italiani in un campo, quello della musica liturgica, nel quale la mediocrità e la confusione continuano a regnare sovrane, come prova il repertorio nazionale di canti sacri messo insieme dallo stesso Parisi, l'ultimo della serie nel 2008.
Assieme a monsignor Marco Frisina – direttore del coro della basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, e fortunato autore di colonne sonore di film – don Parisi è uno dei più seguiti compositori di canti sacri in uso nelle chiese italiane. Con uno stile leggero, da "canzonetta", che ha sempre fatto inorridire non solo un Bartolucci, ma anche, in campo profano, un sommo maestro come Riccardo Muti.
Sia Parisi che Frisina sono legati a filo doppio col direttore della Cappella Sistina, Palombella. A prova di ciò, all'ultimo concistoro, lo scorso febbraio, Palombella ha chiamato a Roma, a fare da coro-guida per i fedeli in San Pietro, un coro creato a Bari da un discepolo di Parisi, don Maurizio Lieggi. Mentre il prossimo 1 aprile, per la messa della domenica delle Palme, come già in altre numerose occasioni, Palombella avrà accanto a sé il coro diretto da monsignor Frisina.
I tre godono di sostegno anche agli alti gradi della curia vaticana. Il capocordata, Palombella, è tra i prediletti del cardinale Tarcisio Bertone, che dopo averlo insediato alla direzione della Cappella Sistina continua ad ascoltarne le indicazioni in materia musicale come fosse un oracolo. E anche il cardinale Gianfranco Ravasi, prefetto del pontificio consiglio della cultura, ha un debole sia per Palombella che per Frisina.
Con De Gregorio alla testa del Pontificio Istituto di Musica Sacra, al terzetto si aggiungerebbe un quarto uomo, per di più in una carica di grande influenza sulle sorti della musica sacra nelle chiese di tutto il mondo.
"Fu una sana apertura, ed era di qualità", ha detto De Gregorio la scorsa estate al quotidiano "la Repubblica" a proposito della "Messa beat", la celebre composizione del 1966 musicata da Marcello Giombini che ha lasciato un'impronta duratura in molti canti entrati in uso nelle parrocchie, con innesti di motivi pop, rock, jazz, spirituals, etno.
Se questo è il verbo del nuovo preside del PIMS, il futuro del conservatorio vaticano è segnato: un futuro d'abbandono, già fatto presagire dalla mancata udienza del papa all'istituto nel centenario della sua fondazione, nel marzo del 2011: un'udienza prima promessa per iscritto dalla segreteria di Stato e poi inopinatamente cancellata.
Il vero enigma è come tutto ciò possa accadere regnante Benedetto XVI, in un campo come la musica liturgica nel quale la sua visione è ogni volta contraddetta dai fatti.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 30 marzo 2012)
 

giovedì 29 marzo 2012

«Porno Rai in fascia protetta: droga, sesso, ammucchiate»

Evviva Carlo Freccero! Evviva Carlo Freccero, direttore di Rai4! Finalmente uno che parla magari colorito ma chiaro. Finalmente uno che dice come la pensa, senza autocensurarsi per farsi vedere quel che non è. Finalmente uno che si toglie la maschera e non recita a copione. Finalmente uno che racconta la verità su quello che oggi è ritenuto il compito principe della tivù (almeno quella da lui diretta, che però – ricordiamolo – è servizio pubblico pagato da tutti i contribuenti e su cui tutti i contribuenti, di conseguenza, possono dire la loro e pretendere anche di essere ascoltati). E bravo Freccero!
Riassunto delle puntate precedenti
Il 14 marzo, a firma di Francesco Borgonovo, esce sul quotidiano Libero un duro articolo di critica alla serie televisiva “Fisica o chimica”, intitolato «Porno Rai in fascia protetta: droga, sesso, ammucchiate». I protagonisti della teen drama, ambientata in un liceo di Madrid, sono studenti quasi tutti minorenni, cui si affiancano alcuni docenti, più altri personaggi di contorno. Fulcro della trasmissione sono scambi di coppie, triangoli (e anche quadrati e trapezi), rapporti più o meno consenzienti etero, omo, pedofili, bi o trisessuali; stupri, ammucchiate, droghe, alcol e, tra un accoppiamento e l’altro, un dramma amoroso e/o familiare e l’altro, qualche volta si parla anche un po’ – poco – di scuola.
A seguito dell’articolo di Borgonovo, Freccero telefona al giornalista del quotidiano milanese, furioso perché il programma, prima trasmesso due volte al giorno, in fascia protetta, è stato spostato alle 22.00. La sua telefonata viene resa pubblica sulla piattaforma audiovideo di Libero.
Il fatto quotidiano e Il Fatto Quotidiano
La telefonata in cui Freccero insulta Borgonovo dicendogli, nell’ordine: stronzo, fascista, asino, culattone, cretino, deficiente, coglione al servizio dei pedofili, diventa un fatto. Oggettivo, inconfutabile, rimbalza in rete e sui giornali. Prontamente interviene Luca Telese, giornalista de Il Fatto Quotidiano e, in linea con il suo giornale che i fatti tendenzialmente non li racconta ma li interpreta, si affretta a “tradurre” la telefonata – eloquentissima di per sé – spiegando che “lo sfogo di Freccero con Libero è il grido di dolore di un artista censurato dall’Italia bacchettona”. Ringraziando Telese per la delucidazione e rispettando il suo personalissimo giudizio sull’Italia, consigliamo però al premuroso giornalista una ripassatina di Freud, certamente non annoverabile tra i “bacchettoni” di cui sopra. Un po’ come dice il vecchio adagio in vino veritas, Freud spiega più volte che quando ci sfoghiamo si allentano i freni inibitori e tendenzialmente diciamo la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Quel che pensiamo davvero, insomma. E che tenevamo dentro. Piaccia o no a Telese, è esattamente quel che ha fatto Freccero.
E Freccero svuotò la faretra
Chi come noi, poveraccio, ha in eredità un cognome comune, quando si arrabbia può togliersi solo sassolini dalle scarpe. Chi nasce fortunato, e cioè intellettuale progressista, laicista, di sinistra, con un cognome importante, può… di più. E infatti, nomen omen, l’ottimo direttore legge l’articolo di Borgonovo e subito sbotta stizzito: “Questi non sanno chi sono io! Freccerò!” Detto fatto, una dopo l’altra, durante la telefonata, scaglia tutte le meglio frecce della sua faretra.
Prima freccia. “Il programma è pedagogico” (nel corso della telefonata l’ha ripetuto, convinto, più volte). È vero, ha ragione. La serie è stata scelta e va in onda proprio a quelle ore, perché il suo compito è esattamente quello lucidamente svelatoci da Freccero. Deve insegnare un nuovo modus vivendi. Più moderno, più zapateriano. Avendone guardata (sbadigliando) qualche puntata, posso garantire che la trama e i suoi ingarbugliamenti poco interessano ad una insegnante e madre di famiglia, per cui il target è esattamente quello per cui è stata pensata: gli adolescenti (grosso modo, basandosi sullo share, un centotrentamila spettatori al mattino e quasi duecentomila il pomeriggio). Cosa vuole insegnare il direttore di Rai4 - l’intellettuale progressista, laicista, di sinistra Freccero - a questo numero considerevole di giovani? È presto detto (e se proprio non avete niente, ma niente di niente da fare potrete constatarlo da voi). Insegna questo (trascrivo Borgonovo, perché da spettatrice condivido in pieno la sintesi che ne fa). “Libertà uguale assenza di regole. Assumere droghe è normale e concesso. Bisogna obbedire al diktat del politicamente corretto gay: il personaggio migliore, quello più onesto, buono e sensibile è l’omosessuale Fer. Mentre gli altri rimestano nel torbido, i gay sono puri e vanno trattati come orsi bianchi. La professoressa che rifiuta di celebrare la settimana di orgoglio omosessuale viene assalita in quanto “fascista”. La sfera sessuale è resa pubblica fino alla nausea. Chiunque esprima idee anche vagamente “conservatrici” è dipinto come un imbecille. Lo studente Quino, cattolico, appare come un cretino patentato fino a che insiste a mantenersi casto. Quando finalmente decide di concedersi alla compagna Alma (vediamo quasi tutto, nella vasca piena di schiuma) allora comincia a sembrare più intelligente. Tutti vanno con tutti, senza posa e senza problemi, le famiglie non esistono, e se sembrano “tradizionali” rivelano presto vergognosi lati oscuri”. Buono a sapersi. Paghiamo il canone perché ai nostri figli, ai nostri studenti la tivù (pedagogica) di Stato insegni questo. Basta dirlo e Freccero ce l’ha detto. Importante essere chiari.
Seconda freccia. Il “genio” Freccero, l’“artista” Freccero: quello che nei salotti buoni pontifica sulla bontà della recente sentenza della Corte di Cassazione sui diritti delle coppie gay, ma si spinge oltre e preme per il sì ai matrimoni gay e anche alle adozioni-perché-no, se deve trovare l’insulto peggiore da scagliare al nemico di turno non fa neanche fatica perché ce l’ha sulla punta della lingua. Culattone. Più che una freccia un boomerang, ma con i gay (o “culattoni”, come preferisce chiamarli lui) se la vedrà Freccero. La cosa non ci riguarda.
Terza freccia (spuntata). Ma come? Trasmetti “Fisica o chimica” per insegnare – l’hai detto tu, direttore – che i rapporti omo, bi, trisex sono moderni, buoni e giusti, e poi per offendere uno, ed umiliarlo, e farlo sentire peggio di un verme lo chiami “culattone”? Coerenza, Freccero, coerenza! Chi sei? Il dottor Jekyll e mister Hyde de noantri?
Quarta (ed ultima) freccia. In un Paese che si definisce democratico e civile, tollerante e dialogante, rispettoso di tutte le idee e le opinioni (e infatti questa serie televisiva è andata in onda e continuerà ad essere trasmessa), l’illuminato e ottimo direttore di Rai4, arrabbiato con Borgonovo, lo accusa di essere al soldo della Chiesa e usa “cardinale” e “pedofilo” come sinonimi. Conseguenze? Tranquilli! Mentre la freccia due, come dicevo, sarà per lui sicuramente un boomerang, in questo caso non gli capiterà nulla. Assolutamente nulla. Perché alla Chiesa, oggi, si può dire e fare ciò che si vuole (e sarà sempre considerato troppo poco). È accaduto qualcosa per lo sfregio all’immagine di Cristo durante lo spettacolo di Romeo Castellucci? Figuriamoci se ci si scomoderà per difendere uno, due, cento cardinali!
Quattro chiacchiere pacate, senza frecciatine
Nel suo parlare a ruota libera, il direttore di Rai4 non ha detto che “Fisica o chimica” è la foto della realtà di oggi. Non l’ha detto perché sa che è una balla. Gli studenti e gli insegnanti non sono (ancora) quelli descritti nella teen drama! La scuola italiana non è (ancora) come il liceo Zurbarán di Madrid!
Domanda. Ha mai aperto, Freccero, i diari scolastici degli adolescenti: quelli che nascono, a settembre, sottili sottili e alla fine dell’anno scolastico sono grossi, e pieni di ricordi, pieni di ritagli di giornali, pieni di… tutto? Li avesse aperti, avrebbe letto l’indicazione di qualche compito da svolgere per casa, e certamente versi di canzoni o di poesie d’amore. Prima di pensare ai palinsesti, ai contratti, alle pubblicità, agli introiti, ha mai chiesto, ai ragazzi, che desideri hanno nel cuore? Cos’è l’amore per loro? Che amore desiderano per la loro vita? Esca, qualche vota, dall’ufficio in Rai ed entri in una classe vera. Chieda, in una quinta superiore, a programmi ultimati, gli autori, le storie, gli amori che i ragazzi han scolpiti nel cuore! Faccia scoccare più su, le frecce della sua faretra, Freccero! Punti alto! Lei e la tivù che dirige. Allora Rai4 potrà dirsi “pedagogica”: quando saprà insegnare cosa significa amare veramente.


(Fonte: Luisella Saro, CulturaCattolica, 18 marzo 2012)


Ancora tv del dolore: fermate la Panicucci

Il caso della serie tv “Fisica o chimica” trasmessa sul digitale terrestre Rai 4 ha suscitato giusto clamore e qualche reazione eccessiva (soprattutto da parte di uno dei diretti interessati), ma purtroppo non rappresenta che la punta dell’iceberg di una degenerazione dell’offerta che segna in maniera evidente la programmazione televisiva.
L’ultimo esempio pessimo è andato in onda domenica 18 marzo a “Domenica Cinque”: Federica Panicucci – non nuova a voyeuristiche incursioni nella cronaca più drammatica – ha dedicato ampio spazio a due vicende di cronaca che in questi ultimi giorni hanno avuto per vittime due bambini molto piccoli.
Dopo essersi intrattenuta in tono molto leggero a all’insegna del gossip con Luisa Corna, Alba Parietti [ci mancava!] e Pippo Franco, la Panicucci ha cambiato tono e atteggiamento, entrando nella parte della conduttrice compunta e commossa, per annunciare a bruciapelo: “Voglio raccontarvi due casi di cronaca drammatici, di cui sono stati vittime due bambini molto piccoli…”.
A finire sotto i riflettori è stata dapprima la vicenda del bambino sardo ucciso dal convivente della madre, che ha preso a martellate la donna e poi si è tolto la vita impiccandosi a un albero nelle vicinanze. In studio era ospite la zia, sorella del padre naturale, che non abita più con la donna. Il servizio di presentazione del caso (una preclara dimostrazione di come non si fa giornalismo) ha dettagliato la vicenda con dovizia di particolari, compresi quelli relativi al modo in cui il bambino sarebbe stato soffocato e alle violenze di cui lui e la madre sarebbero stati fatti oggetto. Linguaggio da romanzo tragico, quello dell’autrice del servizio, con una ricostruzione condita da frasi del tipo: “Il bambino era accoccolato sul divano, i riccioli bruni appena spettinati. E non respirava più…”. Il servizio ha mostrato anche spezzoni di filmati con il piccolo vivo e sentire la sua voce non ha fatto che rendere ancora più forte l’impatto emotivo delle immagini.
Quando si è tornati alla diretta in studio, la zia piangeva mentre la Panicucci esibiva occhi lucidi e volto commosso, pronta a lanciarsi nel saccheggio dei sentimenti altrui che tanto va di moda in quest’epoca di tv spazzatura. E via con domande sottovoce alla donna su come ricordava il suo nipotino morto, sul fratello, sulla madre del piccolo, sul nuovo convivente della donna, sulla desolazione di una famiglia a pezzi. Come usa fare la tv in questi casi esibendo tutto il cinismo di cui il mezzo è capace, i primi piani sulle due interlocutrici si sprecavano e con essi quelli sui volti del pubblico di figuranti abituati; questi ultimi, abituati ad applaudire e lanciarsi in canti e balli, stavolta erano visibilmente a disagio tanto quanto gli spettatori a casa che avevano avuto la (s)ventura di imbattersi in questa robaccia.
Dopo una buona mezz’ora, che ha visto perfino la zia ricostruire nei dettagli il soffocamento del bimbo secondo la sua personale ipotesi, il battito di mani finale ha posto fine allo strazio. Ma finito il break pubblicitario la Panicucci è tornata pronta a rincarare la dose.
Ed ecco servito il secondo caso preannunciato in apertura, quello di un bambino di tre anni del Ferrarese ricoverato in ospedale con varie fratture e vistosi segni di maltrattamenti sul corpo. A ridurlo così sarebbero stati la giovane mamma e il suo nuovo compagno (che non è il padre naturale del bambino e che avrebbe qualche problema di tossicodipendenza).
I due in carcere respingono le accuse, secondo copione, ma “i sospetti – ha spiegato la voce fuori campo – si trasformano in prove, che peseranno per sempre su questo bambino che ora è tornato fra le braccia di suo papà”. L’ospite, stavolta, era Manuela Falcetti (chissà a quale titolo), in collegamento esterno c”erano Maria Rita Parsi e la nonna del bimbo con il suo avvocato, telefonicamente è intervenuto anche il papà del bambino. L’emozione di un padre che riceve l’abbraccio del figlio sofferente è stata ampiamente rintuzzata dalla Panicucci e dalle sue domande “intelligenti” volte a capire come sia stato possibile, secondo lui, che il bimbo abbia subito maltrattamenti tanto atroci. Povero bambino e povero genitore…
Anche in questo caso una storia di povertà culturale prima ancora che materiale, oltre che di rapporti famigliari tesi e fragili, ha fatto da sfondo nero alla brutta sorte subita da un innocente. E anche in questo caso, si è diffusa a macchia d’olio la scia di quel vampirismo (come definirlo altrimenti?) che serve soltanto a strappare commozione e indignazione a buon mercato sulla pelle altrui, finendo per compiere un’ulteriore violazione ai danni di soggetti deboli a cui una cattiva sorte ha già riservato un’esistenza non facile. Nemmeno stavolta la Panicucci ha risparmiato allo spettatore una massiccia dose di particolari nella descrizione di “fratture, ecchimosi, bruciature di sigarette in tutto il corpo”, branditi come armi improprie per suscitare incontenibili ondate emotive e conseguenti picchi di audience.
Già detto e già scritto, ma evidentemente bisogna scandire il concetto: la Panicucci non è fatta per questo genere di servizi e queste speculazioni sul dolore o sulla tragedia non devono trovare posto in televisione. Tanto meno all’interno di un contenitore domenicale del pomeriggio che, in quanto tale, dovrebbe per definizione essere a misura di famiglia. Contenuti e modi simili a quelli disinvoltamente esibiti domenica dalla Panicucci non sono merce rara nel palinsesto. E questo costituisce una ulteriore aggravante.
 
(Fonte: Marco Deriu, La Bussola quotidiana, 20 marzo 2012)

Si stanno soltanto dando i numeri...

Per favore, smettiamola di parlare di “seconda Repubblica”. È una definizione da sempre priva di riscontro istituzionale, mancando un riferimento formale ed oggettivo, che sancisca tale fantomatico passaggio. Ora è evidente come manchi anche di senso politico. Cosa, infatti, avrebbe giustificato o addirittura legittimato questa “svolta”? Tangentopoli? Mani Pulite? Ma quelle son state inchieste, che han semplicemente rimpiazzato una classe politica con un’altra, rivelatasi non migliore, non a colpi di voti nell’urna, bensì col tintinnio delle manette! Affermazione, che ora non è più necessario nemmeno motivare o dimostrare: è in sé evidente, apodittica. Nemmeno si è costretti a sfogliare i quotidiani, per averne riprova.
Bastano le prime pagine. Come quelle di sabato. Dal quotidiano “Libero”: “Da Milano a Palermo, sgominata la sinistra. Inchiesta sulla svendita degli aeroporti lombardi. Avvisi di garanzia per strade fantasma in Toscana. Indagato il presidente dell’Emilia-Romagna. Rutelli alle prese con i soldi di Lusi. Emiliano ammette i regali, ma non si dimette. La sede del Pd siciliano perquisita per i brogli”.
Su “Il Giornale”: “Sinistra nel pallone: ladri, case e parenti. Rutelli accusa il suo ex-tesoriere, il governatore dell’Emilia indagato per i favori al fratello, il sindaco di Bari in affitto da un costruttore che ha appalti con il Comune”. E il “Corriere”, intanto, faceva della geografia, spiegando come la “questione morale” dilaghi ormai “da Milano a Bologna a Bari”.
Qualcuno è in grado di spiegare cosa sia cambiato, se non in peggio? Qui non è più nemmeno questione di destra o sinistra: è il sistema, che è rimasto uguale...
Ora cosa ci inventeremo, una “terza” repubblica, per ripulire il marcio ed illuderci che le cose così possano magicamente andar meglio? Ma oggi che fine hanno fatto i paladini dei valori cattolici, gli incorrotti e incorruttibili, come – tanto per fare un esempio – quel Gianfranco Fini, il “delfino”, tristemente naufragato in derive ideologicamente opposte? Come vagheggiare orizzonti migliori in un Paese, dove certa Giustizia definita “creativa” vorrebbe inventarsi le leggi a colpi di sentenze, anziché compiere il proprio dovere, cioè applicare quelle esistenti ed approvate dal Parlamento? Un Paese, in cui una Corte di Cassazione può anche “dimenticarsi” dell’art. 29 della Costituzione, che riconosce “i diritti” alla famiglia unicamente in quanto “società naturale fondata sul matrimonio”, costituito da uomo e donna -come ribadito soltanto un anno fa dalla Corte Costituzionale-, e di conseguenza punta ad estendere tali diritti anche alle coppie gay, parificandole in dignità, con lo stratagemma di non definirle nozze. Che fine ha fatto la riforma fiscale costruita sul fattore famiglia? Ma come si fa a pensare ancora a queste cose, quando col concetto di “diversità”, che tanto piace al ministro Fornero, si tenta di introdurre l’insegnamento dell’omosessualità nelle scuole? È dunque questa l’Italia che vogliamo? E che Repubblica è, questa, la seconda o già la terza? L’impressione è che si stiano dando soltanto i numeri...

(MaLa, da: Mauro Faverzani, Riscossa cristiana, 19 marzo 2012)


Togliamogli la Rai

La questione della RAI si profila all’orizzonte del governo Monti come un nodo ancor più complicato di quello dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. “Toglieteci tutto ma non la nostra RAI!”, sembra quasi essere il grido di quel che resta della classe politica italiana, diremo parafrasando la pubblicità di un famoso orologio da polso. Tanto numerosa e anche malgrado tutto “trasversale” è la platea dei sostenitori del “servizio pubblico radio-televisivo”: un retaggio del fascismo giunto intatto sino a noi, qualcosa che in nome della libertà andrebbe semplicemente messo sul mercato, seppur con tutte le dovute attenzioni.
Se lo Stato pretendesse di offrire un “servizio pubblico” della carta stampata gestito da una casa editrice unica con sede in Roma finanziata sia con fondi erariali che con abbonamenti imposti per legge a tutti i suoi eventuali lettori, giustamente tutto ciò verrebbe considerato una patente violazione della libertà di stampa. E di certo, se mai fosse esistito, alla caduta del fascismo tale “servizio pubblico” sarebbe stato abrogato in quanto frutto evidente di quella malaugurata dittatura.
Nel caso invece del “servizio pubblico” radiofonico sorto in Italia in quel medesimo periodo accadde una cosa strana ma significativa: i partiti tornati sulla scena con la democrazia se lo tennero ben stretto e, cosa ancor più strana, i giornali e i loro editori non ci trovarono allora nulla da ridire. Mentre infatti, dopo un periodo di commissariamento, la stampa venne rimessa in libertà, la vecchia EIAR, ribattezzata RAI, continuò a conservare il monopolio della radiofonia, più tardi esteso anche alla televisione. A metà degli anni ‘70 del secolo appena trascorso tale monopolio ebbe infine termine ma – fatto ancor più strano e ancor più significativo – il preteso “servizio pubblico radiotelevisivo” perdurò mentre il relativo abbonamento, ormai insostenibile in quanto tale, venne trasformato in una sorprendente imposta erariale la cui riscossione è affidata alla RAI che ne incamera pure l’intero gettito.
Sopravvenuta poi la crisi e quindi la fine della “Prima Repubblica”, mentre i partiti perdevano perciò il controllo della RAI, il governo effettivo dei suoi programmi e dei suoi contenuti veniva assunto da una sua casta interna di alti dirigenti e soprattutto di conduttori delle sue trasmissioni che, salvo qualche (modesta) eccezione, è rigorosamente di “sinistra” nel senso attuale della parola, parola che oggi è sinonimo di progressista-radicale e in ultima analisi di nichilista. Una casta che ormai ha gettato la maschera e che quindi, lasciatosi alle spalle il modello mitico della BBC o della radiotelevisione pubblica tedesca, senza nemmeno più fingere di fare una programmazione e un”informazione equilibrata si dedica toto corde a un”opera di indiscriminata propaganda della propria visione del mondo e delle proprie preferenze politiche.
All’ombra dell’ideologia giustificativa del “servizio pubblico”, che non passa giorno venga qua e là ribadita dai conduttori delle sue trasmissioni, la RAI è infatti divenuta in larghissima misura una tribuna permanente di indottrinamento progressista-nichilista di massa. Quando si parla di questa situazione di solito vengono alla memoria soprattutto programmi televisivi ma il caso di quelli radiofonici è ancora più grave, tanto più tenuto conto che la ricezione dei contenuti delle trasmissioni radio è ben più forte di quella delle trasmissioni televisive. Per farsi un’idea di come stiano le cose basta sentire programmi come ad esempio “Io, Chiara e l’oscuro”, in onda su Rai-Radio 2 tutte le mattine dalle 10, oppure “Baobab, l’albero delle notizie” in onda ogni giorno dal lunedì al venerdì tra le 15,40 e le 17,30.
A parte però colonne portanti del palinsesto radiofonico come queste, l’odierna cultura “ufficiale” della Rai dilaga comunque dappertutto, fin nelle cosiddette rubriche di servizio. Mi è accaduto di ascoltare una trasmissione rivolta ai camionisti che era quasi del tutto dedicata all’esaltazione dell’omosessualità oppure una trasmissione di consigli medici ginecologici in cui l’aborto volontario veniva dato come un evento di routine. Una mattina della scorsa settimana mi è accaduto di ascoltare prima alcuni minuti di “Io, Chiara e l’oscuro” in cui si commentava il caso di una poveretta che avendo alle sue spalle tre convivenze e poi un matrimonio fallito si domandava come mai il suo più grato ricordo sentimentale fosse quello di un ragazzo che nei suoi anni di liceo l’aveva respinta.
Avrebbe potuto essere un ottimo spunto per un salutare esame di coscienza se avesse scelto non la conduttrice di “Io, Chiara e l’oscuro” ma qualche altro confessore. Si rimanda al “podcast” per quanto concerne le risposte che invece le vennero date, il cui leit motiv era che l’amore più profondo e intenso non è quello corrisposto bensì quello che non attuandosi resta perciò nel libero regno dell’immaginazione (e buona notte). Verso mezzogiorno è stato poi il momento di una rubrica di servizio ove si parlava del costo dei funerali, la cui filigrana era una… scelta di campo a favore della cremazione, evidentemente ritenuta di sinistra e contro l’inumazione, evidentemente ritenuta di destra. A un certo punto la conduttrice ha domandato a un impresario di pompe funebri che stava intervistando se gli stranieri che muoiono in Italia abbiano diritto alla sepoltura anche se irregolari. E alla risposta ovviamente affermativa ha commentato, “Ecco una bella notizia” dando così l’impressione di ignorare qualcosa che dovrebbe sapere chiunque, e che è tra l’altro tipicamente legato alla tradizione cristiana del nostro Paese. E noi dobbiamo pagare perché a ignoranti presuntuosi del genere sia offerto in pasto un pubblico di milioni di persone?

(Fonte: Robi Ronza, La bussola quotidiana, 17 marzo 2012)


sabato 17 marzo 2012

Falsi profeti

Enzo Bianchi si presenta come il priore della Comunità di Bose, che i cattolici ritengono essere un nuovo ordine monastico, mentre canonicamente non lo è, perché non rispetta le leggi della Chiesa sulla vita comune religiosa. I cattolici lo ritengono un maestro di spiritualità, un novello san Francesco d’Assisi capace di riproporre ai cristiani di oggi il Vangelo sine glossa, ma nei suoi discorsi la Scrittura non è la Parola di Dio custodita e interpretata dalla Chiesa ma solo un espediente retorico per la sua propaganda a favore di un umanesimo che nominalmente è cristiano ma sostanzialmente è ateo.
Ecco, ad esempio, come Enzo Bianchi commentava il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto: «Gesù non si sottrae ai limiti della propria corporeità e non piega le Scritture all’affermazione di sé; al contrario, egli persevera nella radicale obbedienza a Dio e al proprio essere creatura, custodendo con sobrietà e saldezza la propria umanità» (Avvenire, 4 marzo 2012). Insomma, un’esplicita negazione della divinità di Cristo, i quale è ridotto a simbolo dell’etica sociale politically correct, l’etica dell’uomo che – come scriveva Bianchi poco più sopra – deve «avere il cuore e le mani libere per dire all’altro uomo: “Mai senza di te”» (ibidem).
Grazie al non disinteressato aiuto dei media anticattolici, Enzo Bianchi ha saputo gestire molto bene la propria immagine pubblica: quando si rivolge a quanti si professano cattolici, Enzo Bianchi veste i panni del “profeta” che lotta per l’avvento di un cristianesimo nuovo (un cristianesimo che deve essere moderno, aperto, non gerarchico e non dogmatico, cioè, in sostanza, non cattolico); quando invece si rivolge ai cosiddetti “laici” (ossia a coloro che hanno smesso di professarsi cattolici oppure non lo sono mai stati ma desiderano tanto vedere morire una buona volta il cattolicesimo), Enzo Bianchi si presenta simpaticamente come loro alleato, come una quinta colonna all’interno della Chiesa cattolica (se non piace la metafora di “quinta colonna” posso ricorrere alla metafora, ideata da Dietrich von Hildebrand, di “cavallo di Troia nella Città di Dio”).
Ora, che i media anticattolici (il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, L’Espresso) ospitino volentieri i sermoni del profeta della fine del cattolicesimo (così come ospitano i sermoni di tutti i piccoli e grandi intellettuali, cattolici e non, che auspicano una Chiesa cattolica senza più dogma, senza morale, senza sacramenti, senza autorità pastorale) non desta meraviglia, visto che si tratta di gente che porta acqua al loro mulino; invece, che i media ufficialmente cattolici si prestino (da almeno dieci anni!) a operazioni del genere, fa comprendere fino a qual punto di confusione dottrinale e di insensibilità pastorale si sia arrivati nella Chiesa, almeno in Italia (anche se forse negli altri Paesi di antica tradizione cristiana le cosa stanno pure peggio).
Ho parlato di “insensibilità pastorale”, perché è evidente che organi di informazione che sono istituzionalmente al servizio della pastorale (penso a Famiglia Cristiana, che fu fondata da chi voleva promuove l’apostolato della “buona stampa” e che per decenni è stata diffusa soprattutto nelle chiese; penso ad Avvenire, quotidiano voluto da Paolo VI e gestito dalla Conferenza episcopale) non dovrebbero contribuire alla diffusione di ideologie che sono per l’appunto l’ostacolo massimo che oggi la pastorale si trova davanti. La pastorale infatti è costituita essenzialmente dalla catechesi e dall’evangelizzazione, ossia dall’offerta della verità e della grazia di Cristo a chi già crede e a chi ancora deve arrivare alla fede. Come si fa a portare la verità e la grazia di Cristo agli uomini (quelli di oggi, non diversamente da quelli di ieri) se si nasconde loro che Cristo è il Salvatore, cioè Dio stesso fatto Uomo per redimerci dal peccato e assicurarci la salvezza eterna? Come si fa ad avvicinare gli uomini all’Eucaristia, fonte della vita soprannaturale, se agli uomini di oggi si nasconde il mistero della Presenza reale, se non li si educa allo spirito di adorazione, se si annulla la differenza tra l’umano e il divino, se la “comunione” di cui si parla non è principalmente con Dio ma esclusivamente con gli altri uomini (e “comunione” vuol dire solo solidarietà, accoglienza, “fare comunità”)?
Come si fa a far amare la Chiesa di Cristo, «colonna e fondamento della verità», se viene messo in ombra il carisma dell’infallibilità del magistero ecclesiastico, se viene esaltato lo spirito di disobbedienza e la critica demolitrice della legittima autorità stabilita da Cristo stesso? Insomma, non è certo segno di sensibilità pastorale orientare il criterio dottrinale dei propri lettori (per definizione si suppone che siano cattolici) con i discorsi bonariamente eretici di Enzo Bianchi. Il quale, peraltro, non fa mistero della sua piena condivisione delle proposte riformatrici di Hans Küng, che con il linguaggio tecnico della teologia dogmatica ha enunciato e continua a enunciare le medesime eresie che Bianchi enuncia con il linguaggio retorico della saggistica letteraria. Nessuno si è sorpreso infatti leggendo sulla Stampa di Torino un recente articolo di Enzo Bianchi (13 marzo 2012) nel quale il priore di Bose ribadisce il suo sostegno alle tesi di Hans Küng, prendendo occasione da una nuova edizione italiana del suo Essere cristiani.
Hans Küng, che è il più famoso (meglio si direbbe famigerato) di tutti i falsi teologi che hanno diffuso nella Chiesa cattolica, a partire dalla seconda metà del Novecento, le ideologie secolaristiche che oggi costituiscono quell’ostacolo alla pastorale del quale parlavo. Lo esalta presentandolo come una specie di “dottore della Chiesa” ingiustamente inascoltato, guardandosi bene dal ricordare (ma lo sanno persino molti lettori della Stampa) che il professore svizzero ha sempre negato la verità dei dogmi della Chiesa e il fondamento teologico della morale cattolica, disconoscendo sempre la funzione del magistero ecclesiastico (a partire dal libro intitolato Infallibile?).
Küng non è stato scomunicato né è stato messo a tacere (peraltro, tutti gli editori più importanti dell’Occidente scristianizzato hanno pubblicato e diffuso le sue opere), e non c’è ragione alcuna per la quale egli debba presentarsi ed essere presentato come una vittima della repressione da parte della gerarchia ecclesiastica.
Per disegnargli intorno alla testa l’aureola della santità, Enzo Bianchi parla di Küng come di un protagonista del Vaticano II, facendo finta di ignorare che un concilio ecumenico è un’espressione solenne del magistero ecclesiastico (protagonisti ne sono soltanto i vescovi, e i documenti approvati al termine dei lavori hanno un eminente valore per la dottrina della fede, in quanto convocato, presieduto e convalidato dai Papi) e non un convegno internazionale di teologi (Hans Küng, come “perito”, non ha avuto nel Concilio né voce né voto). Insomma, Enzo Bianchi vorrebbe far credere che Küng, malgrado i suoi meriti teologici, non avrebbe ottenuto dall’autorità ecclesiastica la benevolenza e i riconoscimenti che gli spettavano; addirittura, insinua Bianchi, alla Chiesa conveniva mettere Küng, piuttosto che il suo collega Ratzinger, a capo della Congregazione per la Dottrina della fede.
Sono assurdità che possono andar bene solo per i lettori della Stampa (quotidiano di collaudata tradizione massonica), ai quali non importa nulla della fede cristiana ma sono ben contenti di vedere la Chiesa cattolica in preda a una profonda crisi dottrinale e disciplinare, sperando che tutto ciò affretti la sua definitiva scomparsa dalla scena sociale e politica. Ma Bianchi è ospitato anche dalla stampa cattolica, e in quella sede l’assurdità di cui parlavo dovrebbe essere percepita da qualcuno.
Qualcuno dovrebbe rinfacciare a Bianchi l’ipocrisia di presentare Küng come vittima del potere ecclesiastico, senza dire che il teologo svizzero non ha mai voluto riconoscere la legittimità (cioè l’origine divina) di questo potere, che ad altro non serve se non alla custodia fedele e alla interpretazione infallibile della verità che salva. Bianchi si guarda bene dal riferire tutte le contumelie e gli insulti che Hans Küng è solito scrivere (anche in italiano, sul Corriere della Sera) contro quei papi (soprattutto Paolo VI e Giovanni Paolo II) che non gli hanno dato ragione (e come avrebbero potuto?).

(Fonte: Antonio Livi, La bussola quotidiana, 17 marzo 2012)