Avrete
notato che i pastori della Chiesa cattolica parlano sempre meno del peccato. La
parola stessa è diventata quasi impronunciabile e si preferisce usare il
termine “fragilità”. Mi
sembra che dietro questa sostituzione ci sia un progetto: sostituire l’uomo a
Dio, fare dell’uomo il dio di se stesso. Nel
momento in cui mettiamo da parte Dio, perdiamo automaticamente il senso del
peccato. Ora, che questa operazione sia portata avanti dal mondo è
comprensibile. Ma che sia portata avanti dalla Chiesa è aberrante. L’uomo
senza Dio, e senza peccato, vive nel soggettivismo e nel relativismo. Lo può
fare, perché è libero. Ma la Chiesa ha il dovere di dire che tutto ciò non è
cattolico. Invece molti uomini di Chiesa, da parecchi anni, si sono avviati proprio
sulla strada di soggettivismo e relativismo. E per fare ciò hanno dovuto
eliminare quell’ingombro insormontabile che è il peccato. L’uso
della parola “fragilità” al posto della parola “peccato” denota la mancanza
della relazione con Dio. Sono fragile a causa dei miei limiti intrinseci, a
causa eventualmente di qualche esperienza sbagliata, ma me la vedo da me. Tutto
si risolve nella sfera del proprio io. Non ho bisogno di alcun Dio con il quale
confrontarmi. Di alcun Dio al quale chiedere perdono. Oppure me la vedo con un
mio Dio che comunque, essendo fatto a mia immagine e somiglianza, certamente mi
comprende, mi giustifica e mi perdona. Ovviamente
il peccato può essere favorito dalle nostre eventuali e svariate fragilità, ma
eliminare il peccato e mettere al suo posto la fragilità è devastante dal punto
di vista cattolico, perché porta all’eliminazione della stessa grazia. Se non
c’è il peccato, non c’è bisogno della grazia. Il Catechismo della Chiesa
cattolica (n. 1848) ricorda le parole assai significative di san Paolo:
“Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). La
grazia per compiere la sua opera deve svelare il peccato, ma se noi aboliamo
l’idea di peccato rendiamo la grazia inutile, superflua. C’è una
preghiera bellissima, e molto cattolica, che la Chiesa ci chiede di recitare
quando ci confessiamo. È l’Atto di dolore: “Mio Dio, mi pento e mi dolgo
con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi
castighi, e molto più perché ho offeso Te, infinitamente buono e degno di
essere amato sopra ogni cosa. Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti
mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, Misericordia,
perdonami”. Ebbene,
c’è un sedicente “teologo” cattolico (virgolette obbligatorie) il quale,
davanti alle telecamere della tv dei vescovi italiani, ha definito l’Atto di
dolore una “tremenda preghiera”, “una preghiera che non ha nulla di
cristiano perché Dio non si può offendere e poi Dio non castiga, perché Gesù è
venuto a rivelarci un altro tipo di Dio, di Padre”. Capite
qual è la situazione? Questa è la “teologia cattolica” che va per la maggiore e
viene divulgata dai mass media ufficialmente cattolici! Io
sintetizzerei così: parla di “peccato” chi vede la fede come relazione vincolante
dell’uomo con Dio; preferisce invece il termine “fragilità” chi si concentra
sull’uomo e ignora Dio o lo lascia sullo sfondo e considera la sua legge un
vago punto di riferimento al quale ci si può attenere o anche non attenere,
perché tutto dipende, appunto, dall’uomo e dal suo sentimento. Questo
secondo modo di concepire il rapporto con Dio e la sua legge mi sembra evidente
in Amoris laetitia. Rispetto alla questione della comunione ai
divorziati risposati, Amoris laetitia più che sul contenuto della legge
divina insiste sulle attenuanti umane. Ora, noi sappiamo bene che nella
valutazione morale le attenuanti, anche per la dottrina cattolica, vanno tenute
in considerazione. Ma i fattori attenuanti non possono diventare la chiave
interpretativa per risolvere il problema dell’ammissione ai sacramenti, In
questo modo il sacramento è offerto al ribasso, come vaga consolazione, come se
si ritenesse che la creatura è costitutivamente incapace di una risposta di
fede seria e impegnativa. Non a
caso il titolo del famigerato capitolo ottavo di Amoris laetitia è Accompagnare,
discernere e integrare la fragilità. E il documento a un certo punto,
proprio perché puntato sulle attenuanti, arriva a sostenere che Dio stesso può
permettere all’uomo di vivere in stato di peccato. Un’affermazione che ha
condotto il filosofo Josef Seifert a paragonare l’esortazione apostolica a una
bomba atomica posta sotto la dottrina e la morale cattolica. Noi
sappiamo che Dio è paziente, non permissivo. Dio sa aspettare, ma non scambia
il bene con il male. Dio sa che siamo peccatori, ma proprio per questo ci
prende per mano per condurci fuori dal peccato, non per giustificare la
situazione di peccato! Gli
esponenti della Chiesa che puntano sulle attenuanti e preferiscono parlare di “fragilità”
glissando sul peccato dimostrano inoltre di avere una bassa considerazione
della creatura umana. Comportandosi come quegli insegnanti che, pensando di non
poter cavar fuori più di tanto dagli alunni, non li spingono a dare il meglio e
giustificano tutti i loro errori e le loro mancanze, questi presunti uomini di
fede dimostrano di non credere alla santità come obiettivo di ogni battezzato. Noto
inoltre che puntare sull’idea di fragilità accentua moltissimo la visione
emotiva dell’esperienza di fede, a danno della visione razionale. Credo
che, al fondo, dietro l’abolizione del peccato ci sia la mancanza di fede. La
sostituzione dell’idea di peccato con quella di fragilità viene operata non
solo in ossequio a un certo politically correct e nel tentativo di non
apparire troppo aggressivi. La ragione profonda è che non si crede in Dio. Chi
esautora l’idea di peccato dimostra di non credere in Dio in un duplice senso:
non crede nell’ordine divino e nella cogenza della legge divina, ma non crede
neppure nell’aiuto che Dio certamente offre di fronte alla caduta nel peccato. Abbiamo
detto come ci sia una preoccupante eclisse del peccato. Ma occorre aggiungere
che non basta parlare di peccato in modo generico. Il grande assente, nella
predicazione attuale, è in particolare il peccato originale, come si è visto
durante il sinodo sull’Amazzonia, con un papa, Francesco, che pare credere non
al Catechismo della Chiesa cattolica, ma al pensiero di Rousseau, secondo il
quale l’uomo nasce innocente e si corrompe vivendo nella società. L’idea
di peccato, quale rottura del legame e del patto con Dio, porta con sé l’idea
di penitenza, ma anche “penitenza” è parola che è stata espunta dal vocabolario
cattolico. Nel momento in cui la questione del peccato è sostituita da quella
della fragilità, la quale, come abbiamo sottolineato, si gioca tutta
all’interno dell’individuo, senza che ci sia bisogno di prendere in
considerazione il rapporto con l’ordine divino, anche il concetto di penitenza
diviene inutile e anzi è bene evitare di farvi ricorso. Eppure sappiamo che non
può esserci esperienza autenticamente cristiana senza penitenza. Non perché il
cristianesimo sia la religione degli autolesionisti, di coloro che amano
soffrire, ma perché essere cristiani presuppone la conversione del cuore, e la
conversione implica la penitenza, perché è necessario un distacco dalle cose
del mondo per legarsi invece alle cose di lassù. Vorrei
anche sottolineare che mentre la fragilità è una condizione rispetto alla quale
la persona deve riconciliarsi con se stessa (da cui espressioni come
“recuperare il proprio equilibrio”, “ritrovare se stessi”), il peccato porta
con sé l’idea che la riconciliazione, nel senso più profondo, è un dono di Dio. Quando
un’idea perde potenza, diceva Chesterton, c’è subito un’altra idea pronta a
sostituirla e a diventare fin troppo potente. Con la fragilità che sta
oscurando il peccato lo vediamo molto bene. Lungi da essere sinonimi, i due
vocaboli sono espressioni di due visioni completamente diverse e, direi, non componibili.
E, come spesso succede con le questioni di fede, occorre scegliere da che parte
stare.
«Oggi e
solo oggi, quando le nubi sembrano allontanarsi (…) annunciamo l’uscita del
libro Dal profondo del nostro cuore di Robert Sarah con Joseph
Ratzinger/Benedetto XVI per giovedì 30 gennaio 2020, ringraziando gli autori e
tutti gli amici che ci sono stati vicini in questa delicata impresa». Con
queste parole David Cantagalli, l’editore italiano di Benedetto XVI e del cardinale
Robert Sarah, in un comunicato ufficiale mette la parola fine (o quasi) alla
squallida vicenda che ha circondato l’annuncio dell’uscita del libro a difesa
del celibato, firmato a quattro mani dal cardinale Sarah e dal Papa emerito.
Dunque nessun ritiro della firma, come il segretario di Benedetto, monsignor
Georg Ganswein, aveva dichiarato alle agenzie di stampa dopo che erano uscite
indiscrezioni sul fatto che Benedetto XVI era all’oscuro del progetto del
libro. Da lì si era scatenato un vero e proprio linciaggio mediatico del
cardinale Sarah ma anche la solita campagna contro il Papa emerito. Il
libro in italiano uscirà come previsto il 30 gennaio, con un leggero cambiamento
formale nella copertina, concordato con l’editrice francese Fayard (e che varrà
per tutte le edizioni internazionali), da cui tutti i contratti di traduzione
dipendono: la firma degli autori non sarà più Robert Sarah-Benedetto XVI, ma
“Robert Sarah con Joseph Ratzinger/Benedetto XVI”. L’aggiunta del nome al
secolo – Joseph Ratzinger – vuole in qualche modo togliere ai nemici dichiarati
di Benedetto XVI il pretestuoso argomento di un testo scritto da “anti-papa”,
ma chiunque legga il contenuto di questo libro deve onestamente ammettere che
lo spirito con cui è scritto è quello di un contributo alla Verità, non di una
schermaglia ideologica o di potere. E l’aggiunta della preposizione “con” nella
firma meglio chiarisce ciò che è spiegato nella nota dell’editore che
accompagna l’edizione. Cioè il libro si compone di un saggio di Benedetto XVI,
un altro del cardinale Sarah (entrambi sono già stati spiegati dalla Nuova
Bussola Quotidiana, qui
e qui),
quindi un’introduzione e una conclusione scritte fisicamente da Sarah ma «lette
e condivise» da Benedetto XVI. Esattamente ciò che era già stato spiegato fin
dall’inizio, ma che è stato ignorato per dare vita a «incessanti, nauseabonde e
menzognere polemiche», come le ha definite alcuni giorni fa il cardinale Sarah. Le
polemiche sono state particolarmente virulente dai soliti settori del mondo
cattolico, dai “guardiani della Rivoluzione” e dagli “intellettuali”
catto-progressisti, che non si sono certo risparmiati negli insulti durissimi
contro il cardinale Sarah e nella richiesta di mettere la museruola al Papa
emerito. Si è arrivati a vette di menzogna forse mai raggiunte prima,
particolarmente gravi quando si consideri che perfino il quotidiano dei vescovi
italiani, Avvenire, ha messo in bocca a Benedetto XVI (15 gennaio)
affermazioni che non ha mai fatto né che si potevano desumere dalle comunque
infelici parole di Ganswein: “Benedetto: sul celibato non firmo il libro di
Sarah - «Mai autorizzata l’apposizione, né condivise premessa e conclusioni»”. A
riprova del comune sentire del cardinale Sarah con il papa emerito, nel comunicato Cantagalli
sottolinea che: «Si tratta di un volume dall’alto valore teologico, biblico,
spirituale ed umano, garantito dallo spessore degli autori e dalla loro volontà
di mettere a disposizione di tutti il frutto delle loro rispettive riflessioni,
manifestando il loro amore per la Chiesa, per Sua Santità Papa Francesco e per
tutta l’umanità». Dunque:
il libro esce anche in italiano, la verità è ristabilita. Si potrebbe dire tutto è bene
quel che finisce bene. Però non è proprio così. Anzitutto perché i veleni di
queste settimane non si cancellano e il fango gettato soprattutto sul cardinale
Sarah lascerà il segno. E si può stare certi che nessuno chiederà scusa – anzi,
eviteranno anche di dare la notizia con rilievo – per quel che è accaduto. In
secondo luogo, la vicenda – come abbiamo già detto – è sembrata ubbidire a una
regia che aveva tutto l’interesse a creare un polverone sul nulla per poter
oscurare il contenuto del libro, certamente molto sgradito a chi sta cercando
di rivoltare la dottrina della Chiesa attaccando il celibato sacerdotale.
Obiettivo, purtroppo, che è in qualche modo riuscito. In
terzo luogo, resta un mistero. Dopo
giorni di feroci polemiche, venerdì 17 il cardinale Sarah si è recato alle 18 a
Mater Ecclesiae, residenza di papa Benedetto XVI. È stato un incontro
chiarificatore di cui ha dato notizia lo stesso Sarah con alcuni tweet: «A
causa delle incessanti, nauseabonde e false controversie che non si sono mai
fermate dall’inizio della settimana, riguardanti il libro Dal profondo
dei nostri cuori, ho incontrato il papa emerito Benedetto XVI questa sera»,
ha scritto il cardinale guineano, che poi prosegue: «Con il papa emerito
Benedetto XVI abbiamo potuto constatare come non ci siano fraintendimenti tra
di noi. Sono uscito da questo bell’incontro molto felice, pieno di pace e di
coraggio». Seguono poi i ringraziamenti all’editore francese per il lavoro
svolto. L’incontro
e il clima concorde che lo ha caratterizzato non sono stati smentiti da nessuno, ma l’annuncio via
tweet del cardinale Sarah sembrava preannunciare qualcosa che attestasse una
volta per tutte questa unità di intenti. In effetti sappiamo che da
quell’incontro era uscito un comunicato congiunto, firmato da Benedetto XVI e
dal cardinale Sarah, teso a confermare la doppia paternità del libro e mettere
fine al linciaggio mediatico dei due. Per evitare ulteriori frizioni si era
stabilito di consegnare questo comunicato alla Segreteria di Stato per la
pubblicazione, che sarebbe dovuta accadere non più tardi di lunedì 20. Del
comunicato però si sono perse le tracce: censurato dalla Segreteria di Stato?
Rimasto nella borsa di mons. Ganswein o di qualche altro funzionario? Non è
dato sapere. Però rimane la sgradevole impressione che si voglia fare di tutto
per impedire che emerga con chiarezza la totale sintonia di Benedetto XVI e del
cardinale Sarah in materia di sacerdozio, celibato e non solo.
Si sono incontrati.
Si sono scritti. Proprio mentre “il mondo rimbombava del frastuono creato da
uno strano sinodo dei media che prendeva il posto del sinodo reale”, quello
dell’Amazzonia. E hanno
deciso di rompere il silenzio: “Era nostro sacro dovere ricordare la verità del
sacerdozio cattolico. In questi tempi difficili ciascuno deve avere paura che
un giorno Dio gli rivolga questo acerbo rimprovero: ‘Maledetto sei tu, che non
hai detto nulla’”. Invettiva, quest’ultima, ripresa da santa Caterina da Siena,
grande fustigatrice di papi. Il papa
emerito Benedetto XVI e il cardinale guineano Robet Sarah hanno consegnato alle
stampe questo loro libro poco prima di Natale, ed eccolo uscire in Francia a
metà gennaio, per i tipi di Fayard con il titolo: “Dal profondo dei nostri
cuori”, prima ancora, quindi, che papa Francesco abbia dettato le conclusioni
di quel sinodo amazzonico che in realtà, più che su fiumi e foreste, è stata
una furiosa discussione sul futuro del sacerdozio cattolico, se celibe o no, e
se aperto in futuro alle donne. Sarà un
problema serio, infatti, per Francesco, aprire un varco al sacerdozio sposato e
al diaconato femminile, dopo che il suo predecessore e un cardinale di profonda
dottrina e di fulgente santità di vita come Sarah hanno preso posizione così
netta e potentemente argomentata a sostegno del celibato sacerdotale,
rivolgendosi al papa regnante con queste parole quasi ultimative, per la penna
dell’uno ma con il pieno consenso dell’altro: “C’è un
legame ontologico-sacramentale tra il sacerdozio e il celibato. Ogni
ridimensionamento di questo legame costituirebbe una rimessa in causa del
magistero del concilio e dei papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Supplico umilmente papa Francesco di proteggerci definitivamente da una tale eventualità,
ponendo il suo veto contro ogni indebolimento della legge del celibato
sacerdotale, anche se limitato all’una o all’altra regione”. Il
libro, di 180 pagine, dopo una prefazione del curatore Nicolas Diat, si
articola in quattro capitoli. Il
primo, dal titolo “Di che cosa avete paura?”, è una introduzione firmata
congiuntamente dai due autori, datata settembre 2019. Il
secondo è di Joseph Ratzinger, è di taglio biblico e teologico e ha per titolo:
“Il sacerdozio cattolico”. Porta la data del 17 settembre, prima che il sinodo
abbia avuto inizio. Il terzo
è del cardinale Sarah ed è intitolato. “Amare sino alla fine. Sguardo
ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale”. Ha la data del 25
novembre, un mese dopo la fine del sinodo, a cui l’autore ha partecipato
assiduamente. Il
quarto è la conclusione congiunta dei due autori, col titolo: “All’ombra della
croce” e con la data del 3 dicembre. Nel
capitolo da lui firmato, Ratzinger intende principalmente mettere in luce
“l’unità profonda tra i due Testamenti, attraverso il passaggio dal Tempio di
pietra al Tempio che è il corpo del Cristo”. E
applica questa ermeneutica a tre testi biblici, dai quali trae la nozione
cristiana di sacerdozio celibatario. Il primo
è un passaggio del salmo 16: “Il Signore è la mia parte di eredità e il mio
calice…”. Il terzo
sono queste parole di Gesù nel vangelo di Giovanni 17,17: “Santificali nella
verità, la tua parola è verità”. Mentre
il secondo sono due passaggi del Deuteronomio (10,8 e 18,5-8) incorporati nella
preghiera eucaristica II: “Ti rendiamo grazie di averci ammessi alla tua
presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Per
illustrare il senso di queste parole, Ratzinger cita quasi integralmente
l’omelia da lui pronunciata in San Pietro la mattina del 20 marzo 2008, giovedì
santo, nella messa del sacro crisma con cui si ordinano i sacerdoti. Omelia
riprodotta qui di seguito, come assaggio alla lettura dell’intero libro e delle
sue pagine più direttamente dedicate alla questione del celibato.
“Non
inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse” di Joseph Ratzinger/Benedetto
XVI Il
Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa
abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il
Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II
secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con
cui, nel libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del
sacerdozio veterotestamentario: "astare coram te et tibi
ministrare". Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del
ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”. Nel
Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente,
secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra
Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori
necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era
“stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in
definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un
ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra,
della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto
verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se
questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la
consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera,
allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè
l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va
oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce
l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato
durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei
compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius perstemus in
custodia” – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del
monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in
piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che
qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come
espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della
parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in
guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo
per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del
tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti
al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli
uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il
Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della
sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto
ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli
Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di
Gesù” (5, 41). Passiamo
ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico
Testamento: “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una
persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge
poi il servire. Nel
testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente
rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge.
Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un
incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività
dovevano essere svolte. Con
l’assunzione della parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico
del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del
culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione
dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli
uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine
per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve
inserirsi. Così la
parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto
la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con
partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la
sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con
essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che
celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’”ars celebrandi”, l’arte del
celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare
una cosa sola con l’arte del vivere rettamente. Se la
Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la
preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e
sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi.
Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo
essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la
vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” –
il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore
nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida. Fanno
parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al
suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua
vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità.
Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi
continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si
spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non
percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia
presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà
straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua,
riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel
fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza,
ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo
sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42).
Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva
contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo
consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non
quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere
totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che
solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza
limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così
ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la
nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con
loro. Questa
libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che
costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio.
Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora
più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua
Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come
vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella
comunione del suo Corpo. La
nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la
Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha
predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove
non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò
che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle
nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore
di Dio. “Stare
davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo
ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che
come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la
visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo
di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della
lavanda dei piedi. Con il
gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà
del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende
capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa
dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua
elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla
fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo. “Stare
davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di
servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo
rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio
dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di
poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi.
Manda me, Signore” (Is 6, 8). Amen.
Pinerolo.
Sconcerto tra i fedeli in Cattedrale per la Messa dell'Epifania, ribattezzata
ormai "Festa dei popoli". Il vescovo Olivero non proclama il Credo.
Al suo posto un momento di silenzio. E alla Nuova BQ difende la scelta: “Rispetto
il Messale tutto l'anno, ma c'erano anche Ortodossi, Valdesi e non
credenti...”. Le
peripezie ecumeniche del vescovo che addomestica la Messa alle circostanze
del momento e mette il bavaglio alla Professione di fede. Ma di fronte a questo
si ha il dovere di gridare: “Non le è consentito”.
Il Credo
a Messa è diventato sempre più un optional per molti preti. C’è chi non
lo proclamae
chi lo altera secondo le proprie
voglie. Questa volta però a non pronunciare la professione di fede è un
vescovo in persona e il fatto acquista una valenza decisamente più grave.
Infatti, il prete che non proclama il Credo può essere rimproverato dal
proprio vescovo, ma che cosa succederà se a non dirlo è il vescovo stesso, che
della liturgia nella sua diocesi è supremo garante e il moderatore? La
domanda resta senza risposta se si considera quanto accaduto a Pinerolo, diocesi prealpina piemontese,
dove il vescovo Derio Olivero ha completamente omesso la proclamazione del Credo
nel corso della Messa dell’Epifania di lunedì 6 gennaio. Nella
Cattedrale di Pinerolo,
per la “Messa dei popoli”, nel tardo pomeriggio si sono dati appuntamento oltre
che i fedeli anche alcuni rappresentanti di altre confessioni religiose e le
consuete autorità civiche. Il tutto nel segno di un ecumenismo
mediaticamente forzato, di cui Olivero è consapevole fautore. Terminata
l’omelia, il
vescovo ha annunciato che il Credo non sarebbe stato proclamato. «Dato
che ci sono anche non credenti
– ha detto Olivero – ognuno lo dice in silenzio. Chi crede può dirlo e chi non
crede o ha altre fedi, dirà in silenzio le ragioni del suo credo». A questa
comunicazione sono seguiti alcuni minuti di imbarazzo, poi la Messa è ripresa
come niente fosse. La
cosa è stata confermata alla Nuova BQ da alcuni fedeli increduli, uno dei quali ha anche
registrato l’annuncio del vescovo. Ma
anche la diocesi ha confermato l’episodio cercando di giustificare la decisione:
«Per interiorizzarlo meglio», hanno cercato di spiegare in Curia. Successivamente
è arrivata anche la versione del vescovo in persona, che, attraverso il portavoce ha
spiegato alla Nuova BQ la legittimità dell’omissione del Credo,
il quale invece, in quanto parte fissa della Messa festiva non si omette mai
quando è prescritto da Messale. E soprattutto non si pronuncia mai in silenzio
o in privato dato che la professione di fede, lo dice la parola stessa, è
quanto di più pubblico possiamo manifestare come cristiani perché è il
condensato delle verità della fede cattolica. Insomma, non c’è vescovo che
tenga: il Credo non si può omettere a piacimento. Men che meno
pronunciarlo in silenzio dato che proprio le parole professione e proclamazione
portano in radice proprio la natura di atto pubblico. Il
pastore piemontese ha sostanzialmente spiegato che «questo - a mio avviso - non
costituisce nessuna violazione di niente», ma ha poi specificato di dire messa
in Cattedrale tutte le domeniche dell’anno e di non commettere mai abusi
liturgici: «Rispetto il Messale 56 domeniche all’anno e rispetto la
liturgia sempre, ma in occasione di questa Messa c’erano in chiesa altre confessioni
e ho pensato che i cattolici potessero dire in silenzio il Credo e chi invece,
come i Valdesi e gli Ortodossi, potessero proclamare qualcosa in cui credere.
Il tutto in silenzio, ma ribadisco la mia assoluta fedeltà al Messale». Le
parole del vescovo Olivero,
considerato uno dei vescovi più “in carriera” di quelli ordinati in Italia da
Papa Francesco e che pare essere in corsa – si dice – addirittura per la
cattedra di Torino, risultano anche agli orecchi di fedeli della domenica,
quanto meno ardite. Forse strumentalizzare la Messa come un "giochino"
rientra nei requisiti per fare carriera? Vista una certa propensione a
far parlare di sè, può darsi. Anzitutto,
con il suo gesto Olivero fa
rinunciare i fedeli alla propria identità, per un malinteso e quindi erroneo
spirito di ecumenismo. E lo fa nel momento di massima identità ecclesiale e
cristiana: la Messa. In
secondo luogo, soggettivizza la fede
che diventa così né più né meno che un fatto personale e privato, da non
proclamare in pubblico e quindi, in sostanza, un qualcosa di cui vergognarsi o
da tenere nascosto. In
terzo luogo, rinunciare a proclamare il Credo è proprio il contrario di quello che si dovrebbe
fare per annunciare Cristo ai non cristiani o ai non cattolici. Il
punto non è rispettare la liturgia 56 domeniche all’anno tranne il giorno
dell’Epifania, come maldestramente cerca di dire, con un certo narcisismo il
vescovo “in carriera”, ma semmai è rispettarla sempre perché la liturgia
Cattolica non è disponibile alle circostanze del momento, alle mode, alla
politica e ai sentimenti. E nemmeno ai presenti. Infine,
il Vescovo ha perso il senso della differenza tra la Santa Messa ed ogni altra umana
manifestazione pubblica. Si tratta di una posizione preoccupante per la salus
animarum dei fedeli i quali hanno diritto che il loro vescovo dia loro
dottrina sana e certa. Fedeli che, in questi casi, rimangono sempre come
“pietrificati” dagli show e dagli abusi di preti e vescovi e coltivano enorme
tristezza. Di fronte a questi veri e propri attentati all’unità della fede,
giova sempre ricordare che ogni fedele, ha il diritto di reagire a queste
inaccettabili provocazioni e anche il dovere di alzarsi e gridare al proprio
pastore: «Questo non le è consentito». Risultano
in questo senso quanto mai illuminanti le parole pronunciate da don
Salvo Priola,
proprio nel commentare un episodio simile: «Dovete avere il coraggio, quando
sentite un prete dire cose contrarie alla fede cattolica, di alzarvi e dire
anche durante la Messa: “Questo non le è consentito”. E' tempo di
alzarsi in piedi, quanto sentite cose contrarie al nostro Credo, anche se
le dice un vescovo. Alzatevi, e dite: “Eccellenza non le è
consentito”. Perché c'è un Vangelo, perché c'è un Catechismo e non si può
mettere sotto piedi. Siamo tutti sotto il Vangelo, dal Papa a scendere non
è consentito a nessuno alterare la fede che abbiamo ricevuto in dono. A
nessuno». E nemmeno - aggiungiamo - silenziarla.
Sta
facendo il giro del web l’omelia pronunciata dal vescovo di Trieste, monsignor
Giampaolo Crepaldi, ieri durante la celebrazione della messa dell’Epifania.
Crepaldi ha duramente attaccato gli «intellettuali liberal» e chi ha dipinto
Gesù come «gay, pedofilo o sardina». «Questa
esemplare professione di fede dei Magi in Gesù Signore, Re e Salvatore
universale, durante le feste natalizie – ha affermato Crepaldi, in passato
esponente non di secondo piano della curia di Benedetto XVI – è stata oggetto
di un attacco senza precedenti che è andato dispiegandosi in varie forme: dalla
volgare e blasfema identificazione della sua persona con l’essere gay, pedofilo
e “sardina”, fino a più sofisticate interpretazioni dei testi scritturistici
che lo hanno privato della natura divina». «Queste
ultime – ha proseguito il vescovo – sono state proposte, in genere, da
intellettuali liberal che, convinti di essere i depositari di non si sa quale
arcana verità, pretendono di esercitare autorevolmente la missione di liquidare
la regula fidei su Cristo alla quale ci riferiamo noi cristiani con la recita
del Credo, naturalmente in nome del progresso umano di cui solo loro possiedono
le chiavi di accesso». «Sempre
loro e sempre quelli – ha continuato – ogni anno a spararla più grossa,
spacciando patacche cristologiche in nome del progresso. Noi cristiani, invece,
continueremo ad essere fedeli a quella regula fidei su Cristo che una luminosa
e santa tradizione ecclesiale custodisce e tramanda, imitando i Magi che
adorarono il Dio vivente in quel Bambino, povero, umile, che giaceva in una
mangiatoia e meritava tutta la loro adorazione, la loro fede e la loro
preghiera, convinti che la vera signoria – quella che libera, promuove e salva
– stava proprio lì e solo lì, in quell’umile Bambino, il Verbo fatto carne».
Nel mirino di Crepaldi potrebbero esserci diverse voci intellettuali che si
sono espresse a sostegno del movimento delle sardine, tra cui Dacia Maraini, ma
anche il manifesto choc al Macro, il Museo d’arte moderna di via Nizza a Roma,
apparso a metà dicembre, raffigurante un Gesù eccitato davanti a un bambino e
la scritta «Ecce homo». Il manifesto è stato poi rimosso. Altri manifesti
simili erano comparsi a Roma nel 2017.