Nelle sue Lettere filosofiche del 1734 l’illuminista razionalista Voltaire annotava, parlando del «socinianesimo» (un movimento di umanisti soprattutto italiani del 1500 che in nome del ritorno alle fonti bibliche negavano la Trinità): «Vedete dunque quali rivoluzioni avvengano nelle opinioni come negli imperi. Dopo tre secoli di trionfo e dodici di oblio il partito di Ario rinasce dalle ceneri; ma ha sbagliato, ricomparendo in un tempo in cui il mondo è sazio di dispute e di sètte». Una sensazione analoga la si prova nel leggere "Gesù - L'invenzione del Dio cristiano" di Paolo Flores d'Arcais, lavoro tutto concentrato nello sforzo di negare la divinità del Figlio di Dio, per riaffermare la sua umanità storica, ebraica, profetica. Interessa davvero una questione simile? Come mai un non credente si preoccupa di queste cose?
Solo due aspetti nuovi giustificano una simile operazione e permettono di andare al di là dell’ironico giudizio di Voltaire: l’intento polemico contro il Gesù di Ratzinger e l’accenno (stupefacente) all’islam (e quindi al confronto tra religioni) quale custode della vera natura di Gesù, contro le falsificazioni dei cristiani. Vale la pena soffermarsi su questi due elementi, cercando però di ampliare lo sguardo su cose serie.1. La polemica contro Ratzinger/Benedetto XVI si basa sull’idea che il Gesù di cui parla il Papa nei suoi libri è «solo» un Gesù della fede e non della storia. Le tesi storiografiche accreditate oggi parlerebbero d’altro, quando parlano del Gesù storico, e comunque in un altro modo. Questa idea (dominante nella nostra cultura) della fede come immaginazione che trasfigura o sfigura la realtà dei fatti è proprio dura a morire. Rispetto ad un simile pregiudizio proporrei di considerare la fede come un «giudizio su una serie di avvenimenti, propiziato da un incontro che cambia la vita». In quanto giudizio su avvenimenti, la fede è interessata a raccogliere i risultati di ogni indagine seria su tali fatti e a confrontarsi con gli storici che li studiano. Ma il credente sa che il suo giudizio cerca di tenere conto di tutti i fatti, senza semplificazioni più o meno ideologiche. Sa, però, allo stesso tempo che altri approcci a questi fatti sono spesso parziali o semplificanti, proprio perché guidati da altri interessi o pregiudizi.
Chi, per esempio, esclude per principio che possano esistere miracoli, fornirà un certo tipo di lettura dei fatti narrati dai Vangeli che non coincide con il giudizio di fede del credente, che ha sperimentato la potenza del Dio della vita nel Risorto. Se però l’interlocutore razionalista sostiene che il credente, nel suo giudizio di fede, «dice bugie» o «mente sapendo di mentire» rispetto alla «verità storica» dei fatti, commette una scorrettezza veramente ideologica, che non merita alcuna condiscendenza. Sarebbe meglio dire che il credente legge i fatti a partire da un’altra base, da un incontro differente con la realtà, tenendo insieme altri fattori e quindi in un’altra prospettiva sulla realtà delle cose. In tal senso, si dovrebbe recuperare l’intenzione di Ratzinger, segnalata all’inizio del suo primo libro su Gesù, di dare la percezione che il Gesù dei Vangeli è ancora una figura sensata e plausibile, coerente e convincente, in grado di fondare una relazione viva con la sua personalità storica reale.
1.1 Va sottolineato che questo funzionamento della fede aiuta a capire l’episodio del «Vade retro, Satana!», spesso citato a sproposito e mal compreso da Flores. A Cesarea di Filippo (Mc 8,27-33; Mt 16,13-23) Gesù chiede ai discepoli, dopo un periodo di vita con loro, di dare un giudizio su ciò che sta accadendo: cosa avete visto? Cosa succede? Dicono i Vangeli sinottici che è proprio Pietro a dare la risposta esatta: avvengono i segni dei tempi messianici, perché il Messia/Cristo è tra noi. Se anche Gesù non si fosse mai designato «Cristo/Messia» è innegabile che i suoi gesti e la sua autorità furono messianiche e proprio tali gesti chiedevano un giudizio credente su ciò che stava accadendo (è interessante che la stessa dinamica si trova nella risposta di Gesù agli emissari del Battista che gli chiedono se è lui «Colui che deve venire»; Gesù risponde invitando a guardare i segni messianici, ovvero i ciechi che vedono, i malati sanati… e a trarne una conclusione, senza proclamarsi esplicitamente e direttamente «Messia»: Mt 11,2-10).
A questo punto, però, Gesù rimprovera Pietro di essere come un «Satana», ma non perché ha detto che è il Messia, come vuole far credere Flores, bensì perché Pietro reagisce agli accenni alla morte di Gesù (o al suo destino tragico) pretendendo di insegnare a Gesù come si fa a fare il Cristo/Messia, cioè appunto evitando la via della croce. La disputa non è sull’essere «Cristo», bensì sul modo di realizzare la missione messianica. Questo è un elemento costitutivo del giudizio di fede: Gesù sa cosa significhi essere «Cristo» e come si faccia a realizzare le promesse messianiche. Lo sa e lo realizza a suo modo, senza troppe rivendicazioni e auto-dichiarazioni. Ma chi ha occhi per vedere e coglie il senso messianico di ciò che vede, deve poi mettersi umilmente alla sequela di Gesù fino alla fine, senza pretendere di insegnare a Gesù come si fa a fare il Cristo. il «Vade retro» può esser inteso come un «torna in fila coi discepoli e seguimi, anziché pretendere di insegnarmi il cammino».
1.2 In questa prospettiva della fede intesa come «giudizio su avvenimenti», che ne coglie il senso tenendone insieme il maggior numero nella prospettiva giusta, senza semplificazioni, si comprende la maliziosa strategia di chi vuole squalificare la posizione dell’altro parlando di «bugie». Merita un cenno la duplice accusa.
(a) La questione dei «sacrifici». È ridicolo affermare che Gesù abbia o non abbia voluto sostituire i sacrifici del Tempio. Soprattutto è assurdo ritenere che questa affermazione sia un «falso storico», consapevolmente perseguito da Ratzinger. Flores dimentica (volutamente!) tutta la predicazione di Gesù sulla fine del Tempio e i suoi accenni al vero funzionamento dei sacrifici: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13). Questo detto polemico di Gesù, che cita la predicazione profetica e quindi una linea chiara dell’esperienza religiosa ebraica, è coerente col suo stile di vita e in tensione col contesto ebraico e anche con certo cristiano primitivo. Dunque ha una buona dose di autenticità storica. In quanto appartiene alla predicazione di Gesù rivela una tensione che verrà ripresa da Paolo, quando scrive: «Vi esorto dunque fratelli… ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Fa eco a questa intuizione la lettera agli Ebrei, che mette in bocca al Gesù che va verso la croce le parole del Salmo: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato…» (Eb 10,5s). Paolo non ha scritto la lettera ai Romani dopo la distruzione del Tempio. Ma ciò significa che c’è già nel primo cristianesimo una tensione riguardo al senso religioso dei sacrifici, che trova in Gesù il suo principio di trasformazione. Dunque Ratzinger dà un giudizio di fede sul senso cristiano dei sacrifici alla luce dell’offerta di sé fatta da Gesù, che tiene conto meglio di tutti i dati che emergono dalla letteratura cristiana delle origini. Non dice «bugie».
(b) Lo stesso vale per la questione del tempo «dopo Gesù» e della fine imminente (la “seconda bugia» sul tempo intermedio). Chi è abituato a frequentare la letteratura di un secolo sul senso del ritardo della Parusia, sull’escatologia conseguente/imminente/realizzata, sulla differenza tra apocalittica ed escatologia, trova sconcertanti le semplificazioni di Flores. Basti un cenno. Gesù da un lato chiede di invocare «Venga il tuo Regno» (Lc 11,2) e dall’altro afferma: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui o Eccolo là! Perché il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21). Anche qui dunque, ci sono dati complessi da tenere insieme in modo sensato a partire da un giudizio (di fede) coerente: Gesù sente l’imminenza del venire del Dio del Regno, che si va realizzando nei suoi gesti e nel suo destino. Eppure avvisa i discepoli che il rapporto tra questa «imminenza» e la «fine» non è così semplice, come emerge dal discorso apocalittico di Gesù: «Guardatevi di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: Sono io! E: Il tempo è prossimo!; non seguiteli… Devono accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine» (Lc 21-7-10). Certo, si potrebbe sostenere che si tratta di riflessioni della comunità post-pasquale a partire dal ritardo della fine, ma rimane la complessità dei dati da tenere insieme nel giudizio di fede, senza semplificazioni ideologiche. La lettura di tali dati non ha la forma di una «bugia» più o meno consapevole, ma quella di un giudizio argomentato secondo una certa tradizione o in dialogo critico con essa.
Sempre nell’ambito del nesso tra venuta del Regno e destino di Gesù, sarebbe interessante studiare il vero significato del titolo «Figlio dell’uomo» (FdU). È impressionante in Flores la selezione di argomentazioni (e degli autori di riferimento), che giungono a semplificazioni inaccettabili. Che questo titolo sia riconducibile alla designazione (aramaica) di «un uomo» o «io», non è così facilmente sostenibile. Il giudaismo intertestamentario espresso nell’apocalittica di Enoch come in altri testi notevoli implica una comprensione teologica e messianica della figura del Figlio dell’uomo. Ma se anche si rifiutasse questa trasposizione a Gesù, occorrerebbe almeno rilevare la presenza di tre tipi di detti sul FdU, che riflettono dimensioni inscritte nell’annuncio del Regno e quindi rimandano a fasi o dimensioni del ministero pre-pasquale di Gesù: i detti sul Figlio dell’uomo presente e umile («non ha dove posare il capo») eppure autorevole («è Signore del sabato»; «viene a salvare chi è perduto»); i detti sul FdU futuro o escatologico («viene a giudicare», «chi lo rinnega sarà rinnegato») e i detti sul FdU sofferente (profezie sulla Passione).
Il titolo, dunque ha un valore strategico sulla bocca di Gesù, poiché lascia intuire che esiste un nesso stretto tra il destino di Gesù e il realizzarsi del Regno, tra la sua persona e la missione che realizza. Questo nesso viene precisamente indicato col titolo (misterioso) di «Figlio dell’uomo». Tale titolo non può quindi essere sottovalutato come un’applicazione post-pasquale a Gesù. Peraltro, dopo Pasqua, il titolo sparisce dal kerigma (annuncio) originario, che seleziona i titoli Cristo, Signore e Figlio per dire la dignità di Gesù Risorto. Avendo precisato l’equivocità della strategia argomentativa di Flores (idea di fede) e la slealtà nell’utilizzo dell’idea di «bugia» (si tratta di un giudizio su dati complessi, che ne coglie il senso unitario e coerente), possiamo con due semplici slogan tentare una valutazione delle argomentazioni centrali del libro.
2. «Nulla di nuovo sotto il sole». In verità il libro si basa su una letteratura secondaria e propone variazioni su re-interpretazioni di seconda mano della figura di Gesù. Non offre in sostanza nuove fonti, una nuova documentazione o nuove chiavi di accesso per comprenderne la figura storica. Insomma: offre un’ulteriore variazione interpretativa, senza preoccuparsi di documentarne la pertinenza e plausibilità. In questa operazione discutibile, due criteri emergono con chiarezza, ma si tratta ancora di cose note e un po’ stantie.
2.1 La vecchia idea che la risurrezione sia frutto secondario di una specie di elaborazione del lutto che re-interpreta la vicenda di Gesù terminata tragicamente. Tale rilettura implicherebbe un processo di trasformazione della figura di Gesù, che porterà alla sua divinizzazione. Ci interessa l’alternativa implicita: la fede nel risorto è il risultato di una riflessione secondaria, non esperienza di un incontro col vivente. È curiosa l’idea che l’unica esperienza del risorto pensabile sia quella carismatico-visionaria di Paolo. I discepoli di Gesù avrebbero riconosciuto il Risorto nelle loro visioni, nelle manifestazioni estatiche dello Spirito e in fenomeni simili. Ma in questo modo si dimentica che Paolo viene dopo la nascita del cristianesimo, basata sulla risurrezione di Gesù. Quindi la questione è se l’esperienza estatico/visionaria del Risorto fatta da Paolo sia coerente o meno, sia adeguata o meno all’incontro col Risorto di cui parlano gli apostoli e le donne. Se le lettere di Paolo sono più antiche dei Vangeli, ciò non significa che l’esperienza di Paolo preceda le altre esperienze del Risorto e le spieghi. Anche qui si deve mantenere una sana tensione nelle testimonianze originarie, che non vincolano l’incontro col Risorto a una sola forma di esperienza. Ma la questione decisiva, per il giudizio di fede, è se il Risorto sia presente solo nelle visioni estatiche dei carismatici, ovvero sia presente al modo di una cosa reale accaduta a Gesù e non solo ai discepoli (illuminazione, visione…). In tal senso, direbbe Ratzinger, la risurrezione è un avvenimento storico e quindi reale, qualcosa che è accaduto a Gesù e non solo alla coscienza o consapevolezza dei discepoli.
2.2 Secondo Flores d’Arcais, il processo di trasformazione che si realizza «nei cristianesimi» delle origini, funzionerebbe di fatto come una complicazione e mitizzazione della realtà di Gesù, che arriva a farne un Dio. Si tratterebbe dunque di un processo di metamorfosi che tradisce le origini. Ma anche questo tipo di lettura trascura molti elementi presenti nelle fonti: l’idea paolina che in Gesù abita corporalmente la pienezza della divinità; l’intuizione di Giovanni dell’unità del Figlio col Padre e l’accusa da parte dei giudei di «farsi come Dio» (Gv 5 e Gv 8); il grido di Tommaso di fronte al Risorto: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20). Intendiamo dire: il cammino verso la confessione della divinità di Gesù è inscritto nelle stesse origini, non è proprio un’invenzione successiva. Ma il vero problema è quello di capire cosa significhi il riconoscimento di questa divinità di Gesù. Non si tratta di un Dio travestito da uomo, né di un mito dell’uomo che diventa Dio… Da quale esperienza della presenza di Dio e della mediazione dell’incontro con Lui deriva la pretesa di riconoscere nella vicenda di Gesù il comunicarsi di Dio stesso all’uomo e la riuscita risposta dell’uomo a Dio?
La domanda è difficile, evidentemente. Chiede di comprendere la logica dell’alleanza, il filo rosso che collega tutta la storia del popolo di Israele legandolo a Dio e viceversa. Qui si scopre, con una certa vertigine, che la fede è un giudizio su una storia di millenni, la storia della relazione di Dio con l’uomo nella storia di Israele, che cerca la mediazione definitiva e insuperabile in un incontro nel quale Dio si dona all’uomo in modo nuovo e l’uomo si consegna a Dio in un affidamento totale. Questo incontro, e lo scambio che ne deriva, è esperienza di una vita più forte della morte («Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere»: At 2,24). È una risurrezione.
Ci si dovrebbe allora chiedere non tanto «cosa la fede ha inventato in questo processo di trasformazione» ma piuttosto quale discernimento ha operato la fede nelle varie traduzioni culturali o religiose (gnosticismo) delle intuizioni iniziali, all’interno di una vera e propria lotta tra i «vari cristianesimi». La domanda sembra sofisticata, ma non lo è poi tanto. Si pensi all’equivoco su Ario. Dal libro di Flores sembra che Ario abbia voluto tutelare il Gesù uomo della storia (quello dei moderni storiografi), contro le deformazioni dogmatiche della Chiesa, che risponderebbe coi «concili imperiali». In verità il presbitero Ario non era interessato tanto a Gesù, quanto alla divinità o meno del Verbo che si è fatto carne in Gesù (quel Verbo che era fin dall’origine presso il Padre e si manifestò per la nostra salvezza nel figlio di Maria). La sua idea era che tale Verbo non può essere un altro Dio accanto all’unico Dio, e quindi potrebbe essere pensato come la prima e la più bella delle creature o al modo di una divinità inferiore, subordinata a Dio Padre e Creatore. Infatti, come potrebbe il Dio eterno stare a contatto con una carne mutevole, o come il Dio assoluto potrebbe comunicare la sua divinità a un altro essere co-eterno? Letta così, la posizione di Ario non è più tanto vicina alle recenti istanze umanistiche su Gesù. Ma è più corretta e rispettosa dei dibattiti cristiani del IV secolo.
3. «Tanto rumore per nulla». Lo slogan di Flores d’Arcais, che dovrebbe dare a pensare, risuona qua e là nel testo: «Gesù fu un pio ebreo e non un cristiano». Non è mai precisato però cosa significhi questo «essere ebreo» di Gesù. Detto altrimenti: manca tutta la dimensione religiosa dell’esperienza ebraica di Gesù: l’alleanza, le promesse, la Torah… Si dice solo che Gesù, come i primi cristiani, era un ebreo praticante e devoto che pregava e andava al tempio. Ma qual è il contenuto «ebraico» dell’annuncio del Regno di Dio, della pretesa di guarire i lebbrosi e sconfiggere Satana e, perché no, della risurrezione e della fine imminente attesa? Qui viene ripetuto il difetto delle recenti ricerche storiche su Gesù: si sottolinea la vera ebraicità di Gesù, ma quasi solo nelle dimensioni «laiche o laiciste», senza scrutare le dimensioni religiose e «sacrali» e la trasformazione che Gesù vi ha introdotto.
Perché Gesù Risorto non è già più un ebreo ma è un cristiano? Il Risorto non è compimento delle promesse e mediatore definitivo dell’alleanza che Dio iniziò con Abramo e attraverso Mosè realizzò nella storia di Israele? Questo tipo di domande esigerebbero un po’ più di serietà nell’analisi dell’idea di «risurrezione». Non è vero che la risurrezione fu pensata solo come risveglio da morte o cose simili. La risurrezione è da subito annunciata come «esaltazione alla destra di Dio Padre, glorificazione, vittoria, introduzione nella Gloria di Dio, effusione dello Spirito» (At 2 o 13; Rm 1; 1Cor 15), accanto certo all’idea del risveglio, del ritorno alla vita, dell’ingresso in una condizione trasfigurata (Gv 20; Mt 28).
Dunque nel destino di Gesù i discepoli vedono il compimento delle promesse di Dio a Israele. Da qui la crisi di crescita delle comunità cristiane: se la risurrezione è compimento delle attese di Israele, posso uscire dalla pedagogia di queste attese per comprendere la portata della risurrezione di Gesù (Gal 4)? Nelle tensioni tra Paolo e Pietro/Giacomo è in gioco precisamente questa sfida salvifica, non il permanere o meno nell’ebraismo. La risposta di Paolo è che la fede (e non l’osservanza della Torah) permette di appropriarsi della forza di risurrezione che rende creature nuove. Ma questa intuizione di Paolo, gli Atti la attribuiscono a Pietro, che nel centurione Cornelio vede l’azione dello Spirito Santo al di là dell’appartenenza al popolo eletto.
L’esito del libro di Flores, però, è veramente sconcertante: l’islam, erede del giudeo-cristianesimo (anche quest’idea che siano state le comunità ellenistiche a divinizzare Gesù è davvero dura a morire, nonostante i saggi splendidi di L.W. Hurtado sul culto al Kyrios nel cristianesimo delle origini), custodisce la vera identità di Gesù, quella creduta da Pietro, Paolo e Giacomo. Non importa che per l’islam sia stato proprio Paolo a tradire l’insegnamento di Gesù, per cui la sua fede è già da sospettare. Di fatto, in questo modo non ci si salva dalla Babele delle interpretazioni.
Ma questo esito è un monito: se si cerca Gesù al di là della Chiesa, perché si sospetta che la forma storica della fede attuale non sia all’altezza di ciò che fu Gesù, si fa un’operazione interessante di ricerca di una verità più grande. Ma se si cerca a ogni costo un Gesù contro la Chiesa, si fa un’operazione ideologica e di cattivo gusto, che parte dal sospetto che i discepoli di Gesù siano stati tutti stupidi o tutti maliziosi nel mistificare ciò che poteva fondare la loro vita fino alla morte. Questo tipo di sospetto non è rispettoso dell’altro ed è inutile per qualsiasi sana ricerca della verità. Non è insomma un buon inizio di dialogo.
(Fonte: don Alberto Cozzi, Tempi.it, 25 luglio 2011)
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