Dando torto così al ricorso del governo Monti, teso invece ad escludere intese con l’Uaar, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Ergo: la questione torna al Tar, che dovrà pronunciarsi sull’argomento. Quale la portata rivoluzionaria di tale verdetto? Innanzi tutto, rappresenta un pericoloso precedente, che interviene chirurgicamente sull’immaginario collettivo, introducendo in modo forzato ed indiscriminato un “pluralismo confessionale e culturale”, ch’è di fatto sincretismo di massa, più simile ad un mercato religioso che all’effettiva tutela delle minoranze.
Qui non si stanno proteggendo diritti calpestati, si sta banalizzando la sfera spirituale, degradandola riduttivisticamente al ruolo di semplice “centro commerciale” della fede, dove ognuno possa comprare quel che gli pare. A prescindere dal ruolo storico, dalle basi teologiche, filosofiche, culturali ed artistiche che ogni credo in quanto tale possa avere o non avere nella storia di un popolo, di un Continente, di ogni anima. Che, ad esempio, l’Europa delle Cattedrali ‒ con buona pace di illuministi e illuminati ‒ abbia le proprie radici in secoli di Cristianesimo non importa più nulla, anzi conta tanto quanto gli ultimi arrivati, quand’anche ininfluenti sul tessuto sociale e culturale contemporaneo.
Non solo: questa sentenza introduce una pericolosa destrutturalizzazione del sacro, intervenendo in una sfera, quella religiosa, che non dovrebbe essere codificata per legge, appartenendo all’ambito delle coscienze e ad una Tradizione, nel caso della Chiesa Cattolica, ultrabimillenaria. Qualcuno deve pur spiegare a confessioni dotate di una precisa liturgia, storicamente fondata, di una chiara gerarchia, territorialmente diffusa, di un diritto ecclesiastico, specificamente normato, come esse possano essere equiparate ad associazioni prive di una precisa configurazione, di una connotazione chiara e di una ritualità precisa, spesso anche di un’autorità riconosciuta.
Chi celebrerà i matrimoni tra atei? Che sacerdoti saranno abilitati a presiederli? Secondo quale cerimonia? Appare questo il grimaldello, con cui scalzare ed annientare anche ogni differenza di fatto tra il concetto di “religione” e quello di “setta”, finora scientificamente distinte e definite, anche per trarne conseguenze importanti sul piano del diritto: non a caso la Chiesa Cattolica fonda i propri rapporti con lo Stato Italiano sulla scorta di un preciso Concordato. Di cui l’Uaar chiede l’abolizione, contraddicendosi: da una parte spara a zero sul Concordato, dall’altro esulta per una sentenza della Cassazione, che di fatto introduce per tutti ‒ anche per loro – la necessità di un riconoscimento istituzionale da parte dello Stato.
V’è poi un non indifferente risvolto anche di carattere economico con la prospettiva, alla luce di un simile pronunciamento, di poter, anzi dover estendere la distribuzione dell’8 per mille a chiunque, indiscriminatamente, prescindendo da qualsiasi credenziale, qualifica o attributo.
Non risulta che l’Uaar sia mai stato discriminato in alcun modo, penalizzato, sanzionato, emarginato per le proprie idee, inibito nella libertà d’espressione: dunque, salutare la sentenza della Cassazione quale riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini, «indipendentemente dalle loro opinioni in materia religiosa», risulta un insulto a quei credenti, che ogni giorno nel mondo pagano la propria fede con la vita o con l’emarginazione sociale, un insulto alla Chiesa, quella vera, delle catacombe.
Anche fatti come questo confermano la verità delle parole di Gilbert Keith Chesterton, secondo cui «chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto». Ma probabilmente nemmeno Chesterton avrebbe mai immaginato che anche questo “tutto” potesse un giorno nell’Italia, che ospita il cuore della Cristianità, vedersi attribuire le stesse credenziali, gli stessi diritti normativi e la stessa patente di affidabilità della Fede Cattolica.
(Fonte:
Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 3 luglio 2013)
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