giovedì 9 ottobre 2014

L’ignavia non è una virtù

Le riflessioni che propongo in modo sintetico intendono rappresentare una posizione critica nei confronti delle gravissime intolleranze e violenze perpetrate nelle piazze delle maggiori città italiane da parte dei cosiddetti difensori della più variegata libertà sessuale, nei confronti di una minoranza che ritiene di non conformarsi a questi usi e costumi.
Una violenza cieca. Mi diceva una giovane docente universitaria che è stata coinvolta nelle vicende di Bologna: «Non ho mai visto tanto odio attorno a me». Tanto odio. Negli atteggiamenti, nei gesti e soprattutto in quel terribile gridare o vociare che cercava di eliminare il silenzio. Perché l’intolleranza e la violenza anche verbale non aveva di fronte un’alternativa che aveva le stesse caratteristiche, ma una presenza dignitosa e silenziosa che affermava la possibilità che in un paese come il nostro possano coesistere concezioni della vita – e quindi della vita morale e delle attività sessuali – diverse, senza che l’una debba necessariamente escludere l’altra.
Episodi di facinorosi, atteggiamenti di squadristi che accusano di essere fascisti gli altri nei confronti dei quali esercitano una violenza. Ho un’età sufficientemente matura per ricordare che questa dell’intolleranza e della violenza nei confronti di chi non la pensa come noi, è un filo rosso di vergogna che accompagna il nostro paese da decenni e che come una specie di metastasi ha investito e continua a investire il nostro mondo giovanile.
La verità è questa: una minoranza di estrazione di teoria e di pratica omosessuale – probabilmente per reagire a lunghi periodi di discriminazione subiti nel corso degli ultimi secoli – ritiene adesso di essere l’unica posizione che ha diritto di cittadinanza nel nostro mondo. E chiunque – per i motivi più personali – non si sente di accettare questo modo di concepire la vita morale e sessuale, è considerato il nemico da abbattere, da eliminare in tutti i modi per affermare non la libertà, ma la libertà della propria posizione.
È evidente che le cose sono andate in un modo tale che ormai i margini di libertà culturale, espressiva, di coscienza, di religione, di cultura, sono ridottissimi.
Domina su tutto quel pensiero unico dominante di cui tante volte ha parlato papa Francesco. Tutto ciò che non accetta di riconoscere questo pensiero unico dominante viene considerato come una realtà che deve essere discriminata fino alla sua eliminazione.
Questo è accaduto sotto gli occhi di tanti, di tanti cittadini; questo ha bloccato la vita delle nostre città seminandole di episodi intollerabili, inconcepibili. Dove la libertà della persona, dei gruppi, è stata bestialmente eliminata. In alcuni luoghi non si è stati frenati in questi episodi di violenza neanche dalla presenza di bambini piccoli in braccio alle loro madri o nei loro passeggini.
Questo filo rosso della vergogna, in cui una minoranza che detiene ormai la maggioranza e i mezzi della comunicazione sociale e degli strumenti di pressione sulla vita psicologica e culturale del nostro paese, si appresta a diventare una vera e propria struttura di potere.
La democrazia finisce. Quando la società non è più un ambito dove la varietà delle posizioni – culturali, religiose, filosofiche, psicologiche, morali – possano adeguatamente convivere in un clima di rispetto reciproco, di confronto, di possibilità di integrazione reciproca, la democrazia finisce. Il cuore della democrazia – diceva il mio maestro don Luigi Giussani – è il dialogo, la capacità di dialogo. Ma la capacità di dialogo può esserci dove esiste un rispetto reciproco delle varie posizioni senza la volontà egemonica da parte di nessuno.
Se questa è la situazione dobbiamo lealmente interrogarci sul movimento di pensiero, sul movimento culturale che arriva a celebrare i suoi nefasti nella sostanziale eliminazione della libertà di tutte le persone, quindi del popolo.
La grande lezione che i cristiani hanno dato attraverso il Magistero – e soprattutto il grande magistero della Dottrina sociale della Chiesa – ma soprattutto attraverso la loro testimonianza di vita negli ambienti, è esattamente quella di avere una cura appassionata e totale della propria libertà e quindi della libertà di tutti.
Perché la libertà – ci ha insegnato san Giovanni Paolo II – è un bene unico e indistruttibile. Se viene ridotta o alterata in una sua parte viene ridotta e alterata per tutta la vita della società. La Chiesa ha lavorato intensamente per difendere la propria libertà di vita e di espressione e di cultura nei confronti delle varie forme di totalitarismo che negli ultimi due secoli si sono succedute in maniera ossessiva ed esasperante. Lavorando per la propria libertà e pagando per la propria libertà. Vale la pena ricordare a questi nostri facinorosi interlocutori – ma si potrebbe molto meglio dire a questi nostri facinorosi giustizieri – che le icone del cristianesimo del XX secolo, per l’intuizione geniale e profetica di san Giovanni Paolo II, sono stati due grandi cristiani che sono morti per la testimonianza della loro fede nei campi di concentramento hitleriani: padre Massimiliano Kolbe e suor Benedetta Teresa della Croce.
La strada è lavorare e difendere la propria libertà e, lavorando difendendo la propria libertà, amare che ogni persona che vive accanto a noi possa usare della stessa libertà quale che siano le sue opzioni, le sue estrazioni, le sue etnie e i suoi progetti.
Tutto questo sembra impossibile. Ma sembra impossibile – e questo è l’aspetto più amaro delle mie riflessioni – perché è come se la società nel suo complesso, e anche tanti cristiani, «mentre succedono queste cose guardassero da un’altra parte», per citare un’immagine tagliente ed efficace di papa Francesco. Guardassero da un’altra parte per non vedere o per non accettare la gravissima provocazione alla loro coscienza che questi avvenimenti portano necessariamente con sé.
La storia della Chiesa, in Italia e non solo in Italia, è la storia di gente che ha amato la propria libertà e la libertà degli altri più di se stessi. Lavorando per la propria libertà la Chiesa ha lavorato sempre per tutti.
Ma perché, perché molti cristiani oggi, in un mondo cattolico che sembra destinato a scomparire, guardano da un’altra parte? Che cosa guardano? Se guardassero veramente Cristo si sentirebbero mobilitati a vivere per lui e a comunicare questa vita nuova a tutti gli uomini che li circondano. Il cristianesimo, per una sorta di sentimentalismo misticheggiante, sta rischiando di essere presentato all’interno della Chiesa, e quindi di fronte al mondo, come una forma di spiritualismo soggettivistico, privato, che non va oltre le porte o gli spazi della propria coscienza individuale o dei propri rapporti parentali. Un cristianesimo senza una tensione ad essere una presenza, la presenza del popolo cristiano dentro il mondo caratterizzato da una precisa cultura: quella che nasce dalla fede, animata da un ethos nuovo che solo la Chiesa eredita dal mistero di Cristo. Una presenza che si pone, pone una novità nella sua vita e la pone alla libertà degli uomini che la circondano. Sta insinuandosi dentro tanto, troppo, mondo cattolico l’idea che la verità della fede vada bene per noi, ma non deve essere proclamata troppo esplicitamente perché altrimenti si finirebbe per imporre agli altri la propria posizione.
I cristiani non sono contro nessuno. Il grande Jacques Maritain diceva del Signore Gesù Cristo e della sua missione nel mondo «Pour se poser il s’oppose». È perché si è posto nella sua originalità, che essendo stato contestato ha dovuto poi necessariamente opporsi a coloro che si opponevano alla sua presenza. Siamo in un momento in cui essere esplicitamente cristiani nel mondo, accettando il grande invito comandamento di Cristo – «Siate miei testimoni fino agli estremi confini del mondo» – è sentito come un’esagerazione, come qualcosa che non compete al cristiano come tale. Anzi, come un’azione o come una serie di azioni che possono rappresentare una offesa alla libertà di coscienza degli altri. L’opposizione fra verità e carità è una posizione assolutamente ideologica. Ma questa ideologia è galoppante in troppo mondo cattolico.
La storia della presenza della Chiesa nella nostra società, e segnatamente nel nostro paese, è la storia di una presenza di popolo che nei grandi momenti di crisi epocale non ha esitato un attimo, in forza della propria fede, a opporsi a qualsiasi forma di totalitarismo. Che ne sarà nel giudizio di Dio e della storia, di una presenza cattolica che tende ad avere come ideale una silenziosa scomparsa che lascia la società in mano del potere e, molto radicalmente, del potere demoniaco?
Dovrebbe essere chiaro a tutti, soprattutto a quelli che si dicono cristiani, che l’ignavia non è una virtù e che il silenzio non è il modo con cui il Signore Gesù Cristo ha vissuto la sua presenza e la sua missione fino alla sua Passione, Morte e Resurrezione. Abbiamo lì, in Cristo, e nella vita concreta reale della Chiesa il punto di riferimento ideale e pratico cui conformare la nostra azione. Se non vorremo comparire poi davanti al tribunale della storia, che in fondo è l’aspetto del tribunale di Dio, come coloro che di fronte alla perdita di libertà, della libertà del nostro paese, hanno guardato da un’altra parte.

(Mons. Luigi Negri, Cultura cattolica.it, 8 ottobre 2014)
http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=36219&pagina=1&fo=

 

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