lunedì 20 aprile 2015

La matita per Charlie Hebdo. La gomma per i cristiani affogati

Per Charlie Hebdo s'è mosso il mondo intero: quasi quattro milioni di persone, nel giorno del grande lutto, hanno sfilato a Parigi contro il terrorismo e la sua folle pedagogia. Dodici furono i morti, assurti in un attimo alla dimensione eroica di liberi pensatori. Tempo qualche giorno, a bandiere ammainate, comparve qualche crepa nella decifrazione di quella strage. L'offesa fu così grande e ardita che, però, tutto passò in secondo piano. Dodici a Parigi, dodici nei fondali del Mediterraneo: la loro razza era ghanese e nigeriana, il loro Credo era cristiano.
La redazione di Charlie Hebdo disegnava vignette, a questi dodici la vignetta l'hanno disegnata quelli di “Repubblica”. Ritrae uno squalo che, intento a divorare qualcuno, chiede: «Questo era cristiano?». Con la risposta dell'altro squalo: «Boh! Io di religione non ci capisco niente. Hanno tutti lo stesso sapore». Perchè, dunque, i dodici della redazione di Charlie Hebdo meritano una beatificazione laica mentre i dodici cristiani meritano la derisione pubblica? Forse che anche Cristo, oggi, se tornasse non lo metterebbero più in Croce: quelli erano i tempi delle grandi passioni. Oggi, quasi certamente, lo esporrebbero al ridicolo: è il tempo dell'intelligenza e della laicità a tutti i costi.
Dentro quei corpi gettati in mare, invece, giace la semente di una storia millenaria: quella di uomini e donne che non si sono mai ripresi da una sorte di stupore – quasi un'Annunciazione – che li ha portati ad essere uomini e donne diversi, capaci di affrontare le fauci dei leoni nelle arene e degli squali nel mare pur di non tacere la Grazia che li ha sedotti. Oggi da più parti s'invoca un ritorno alla Chiesa delle origini, al cristianesimo della prima chiesa nascente, al sapore di ciò che era nel sogno di Cristo. Eppure, a conti fatti, ciò che era all'inizio è ciò che è sotto gli occhi di tutti pure oggi: non più catacombe ma barconi, non più ghigliottinai ma scafisti, non più persecuzione ma ironia. Non più «date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» ma tutto e il suo contrario: è il politicamente corretto di Caifa, sacerdote citato nei Vangeli della Passione e ridicolizzato dalla storia successiva. Tutto come all'inizio, insomma, quando Dio venne ucciso in nome di Dio. Loro gettati in acqua, altri salvatisi grazie ad una catena umana. Qualcuno scrisse che l'uomo per l'uomo sarà come un lupo: molti gli dettero credito, la storia lo rese forte di molte sue pagine.

Poi venne un Uomo al quale non bastava la logica dell'intelligenza: tentò l'illogico dell'amore perdente. E corresse la frase: l'uomo per l'uomo potrà essere come un Dio. Uomini-lupo che gettano in mare uomini oranti; uomini-dei che, abbracciati, formano una catena umana di salvataggio e di speranza.
Di loro non rimarrà traccia: forse una leggera bava tra i denti degli squali che la prossima vignetta ci racconterà. Di loro, invece, è rimasta la traccia più baldanzosa: alla sicurezza della schiavitù rispondere con il rischio della libertà. Mezzi nudi in mare, mezzo nudo l'Uomo della Croce. Entrambi, però, rivestiti dell'unico vestito che faccia la differenza nel tempo: se non ci è dato scegliere se morire o meno, ci è rimasta la possibilità di scegliere come morire. Da vittime o da testimoni. “In odium fidei” recita la locuzione latina che la Chiesa cattolica utilizza nelle cause di beatificazione di un cristiano la cui morte avviene “in odio alla fede”, che muoia per questioni di fede.
Che cosa, dunque, impedisce di aprire loro una causa di beatificazione? I santi-patroni dei mari in burrasca: di quelli naturali, di quelli simbolici, di quelli disperati. Della gente disperata di cui nessuno vuole accorgersi. Eppure sono la Chiesa delle origini, quella che tanti vorrebbero. Come si dice: “Botte piena e moglie ubriaca”? Necessito di un più salutare: «Ora pro nobis». Per non affogare nel peccato dell'ignoranza.

(Fonte: don Marco Pozza, Il Mattino di Padova, 19 Aprile 2015)
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