lunedì 14 settembre 2015

Matrimonio, Concubinato, Verginità

La complessa e grave questione del rapporto uomo-donna emerge oggi tra i temi morali ed antropologici di maggior interesse ed ovviamen-te ci coinvolge tutti, credenti e non credenti. Il tema è di enorme complessità ed ha numerosi agganci e presupposti nella religione, nella spiri-tualità, nella psicologia, nella sociologia, nella politica, nel diritto, nell’economia e nella storia.
In questa situazione in evoluzione, che suggerisce e denota un mutamento del costume, stanno emergendo alcuni valori, ma si stanno anche rafforzando e stanno aumentando il loro influsso false concezioni della sessualità, che mettono a repentaglio, sotto la parvenza del progresso e della libertà, non solo il buon ordine della società, ma le stesse sorgenti della vita umana, atteso il fatto che esse dipendono dal corretto uso della sessualità.
Voglio qui limitarmi a un breve raffronto tra i tre aspetti del rapporto uomo-donna indicati dal titolo, al fine di approfondire la realtà misteriosa di questo rapporto, che è fondato sull’originaria volontà di Dio, quando ha creato la coppia umana stabilendone per sempre le ca-ratteristiche essenziali, le leggi e le finalità.
Ma a questo piano originario è succeduto quello di Gesù Cristo, sempre in nome del Padre; Cristo ha restaurato il piano del Padre compromesso dal peccato originale, ed ha innalzato la coppia umana alla dignità di figli di Dio, in vista della risurrezione escatologica.
Cominciamo dal Genesi. «Non è bene che l’uomo sia solo: facciamogli un aiuto simile a lui». «Maschio e femmina li creò». «L’uomo si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne». «Crescete e moltiplicatevi». «Non divida l’uomo ciò che Dio ha unito».
Innanzitutto i sessi sono due e solo due, ben definiti da caratteristiche psicofisiche, che, nella loro collaborazione reciproca, rendono possibile la riproduzione della specie e si completano a vicenda anche ai fini della pienezza e completezza dell’essere umano aperto alla socialità.
È esclusa quindi, come contraria alla natura umana e alla volontà divina, una concezione e una pratica della sessualità come genere (gender) indeterminato, suscettibile di più differenze specifiche, dipendenti dall’intervento tecnico e della libera scelta dell’uomo.
In secondo luogo, non si dice: «Non è bene che gli uomini siano soli, tranne alcuni, che potranno vivere meglio da soli e quindi al di fuori dell’unione uomo-donna». Il progetto genesiaco dell’uomo non conosce il voto di verginità, ossia la vita religiosa, che comparirà solo con l’esempio e l’insegnamento di Cristo sull’uomo e la donna.
La socialità umana, a differenza della socialità angelica, dove il sesso non esiste, non può essere scissa dal rapporto uomo-donna. La coppia umana, appartenente al regno animale (nefesh), benché animata da un’anima spirituale (rùach), è ben distinta dagli angeli (elohìm), che sono puri spiriti. Ed a maggior ragione da Dio stesso, sommo Spirito.
In terzo luogo, non si dice neppure che il rapporto uomo-donna debba essere esclusivamente finalizzato alla procreazione, ma, nel capitolo 2, si prospetta come fine della dualità maschio-femmina il compito di superare la solitudine o l’isolamento, per realizzare la socialità e l’amore. Vediamo di chiarire queste cose.
In questo quadro l’idea della verginità è totalmente assente, anzi sembra formalmente escluso. Infatti Lutero si appoggiava sul Genesi per sostenere che la pratica della verginità è contraria alla natura umana così come Dio l’ha creata e sarebbe originata da un influsso del platonismo nella Chiesa. Vediamo cosa può esserci di vero in queste idee di Lutero e dove invece egli sbaglia. Cominciamo quindi col chiederci da dove trae origine la pratica della verginità.

Origine dell’ideale della verginità
Ai tempi di Lutero non si avevano in Europa le conoscenze che abbiamo oggi sulla spiritualità dell’estremo Oriente e sugli influssi da esso esercitati in passato sull’Occidente. Tuttavia Lutero intuì indubbiamente una parte di verità in questa questione, parlando con disprezzo del cristianesimo “platonizzante”, anche se poi questa polemica divenne un pretesto per arrendersi davanti alle difficoltà che incontrava nell’esercizio della castità. Da qui, al fine di giustificarsi, la sua negazione in toto della vita religiosa[1], ignorando le sue basi evangeliche, lui, che si considerava contro Roma il riscopritore della verità del Vangelo.
Diciamo allora che l’ideale dell’astinenza sessuale come via di perfezione ed ascesa all’Assoluto era già perseguito da molti secoli in India, ma ispirato da un’antropologia di tipo panteistico spregiatore del corpo, e quindi mediante un ascetismo, che, sulla base di una concezione sovraccarica dello spirito umano, e nel contempo di un’idea della materia come principio del male, mirava ad un autopotenziamento ascetico e magico dell’io spirituale[2] ed alla sua liberazione dal corpo, in nome dell’appartenenza e del ritorno dello spirito umano (atman) allo Spirito assoluto (Brahman)[3], dopo la caduta dello Spirito e dallo Spirito nella schiavitù della materia.
Lo Spirito appare all’uomo come materia e resta ingannato e spaventato: si tratta di scoprire che la materia è pura apparenza e illusione e che la vera ed unica realtà è lo Spirito. Come recita un proverbio indiano: “ciò che sembra un serpente, in realtà è una corda”.
Questa concezione grandiosa e apparentemente sublime poteva suscitare interesse tra i cristiani per tre motivi: primo, l’ammissione di un Assoluto spirituale, eterno, infinito ed onnipotente, origine e fine di tutte le cose; secondo, l’uomo, spirito nel mondo, dotato di volontà ed assetato di Assoluto e di liberazione; terzo, la convinzione che l’uomo è una scintilla divina staccatasi in passato dal Fuoco eterno e caduta in questo mondo di tenebre, miserie e sofferenze, e quindi l’esigenza di liberazione, di recuperare il proprio Io assoluto e di tornare nella propria condizione originaria, lasciando il corpo e il mondo del male. L’uomo o l’“anima” sembrava potersi paragonare al Figlio di Dio, che esce dal Padre, entra nel mondo, si trattiene in esso e lo lascia per tornare al Padre[4].
Esistevano però due gravi impedimenti a che questa visione potesse essere assunta integralmente. Primo, la concezione di Dio non come un Tu trascendente creatore del mondo dal nulla, ma come Uno-Tutto, Io assoluto, universale e cosmico, del quale l’io umano e il mondo sono la manifestazione o apparenza empirica contingente.
Classiche sono al riguardo le immagini della goccia sprizzata dall’onda dell’oceano, la quale ricade confondendosi con l’acqua dell’oceano o della scintilla gettata dal fuoco e che ritorna nel fuoco, oppure l’immagine dell’Intero che si frantuma e si ricompone. Tale sarebbe il rapporto dell’anima con Dio.
Secondo, l’uscita o la caduta da Dio o di Dio stesso, ma tutto in fondo avviene in Dio. Dio comunque entra nel mondo (avatàr) sotto apparenze mondane (maya), mondo opposto allo spirito, ossia lo Spirito cade nel mondo del male, dal quale l’asceta (yoghi), puro spirito, intende liberarsi, il che vuol dire liberarsi, mediante le successive reincarnazioni, dal mondo della materia, che è appunto il mondo del male.
È evidente come verrà vista la realtà della differenza sessuale: non come componente essenziale in sé buona della natura creata da Dio, destinata a risorgere dopo la morte, ma come elemento contingente ed accidentale, destinato a estinguersi con la morte.
E sarà altresì evidente che cosa diventa in questa visuale l’unione o comunione fra uomo o donna, comporti o non comporti l’unione sessuale: niente affatto un’unione finalizzata alla procreazione, intesa come benedizione divina, ma considerata con disprezzo come moltiplicazione dei corpi e quindi del male e degli infelici, anche se tale moltiplicazione viene tollerata dal saggio ai fini della riproduzione della specie e quindi della possibilità data agli individui ― puri spiriti ― di raggiungere l’ Assoluto.
Ma in questa visuale la saggezza sta nell’estinguere, come direbbe Schopenhauer, grande ammiratore della sapienza indiana, con la “noluntas” questa “volontà di vivere”, per prender coscienza di essere l’ Assoluto. Superare la “rappresentazione” per diventare la “Volontà”.
Qualcosa di questa visione dualista probabilmente penetrò in Grecia già con Pitagora e Parmenide, fu mitigata da Platone e Plotino, e influenzò l’ascetismo monastico con Origene. La ritroviamo nella tradizione monastica dissidente orientale, come per esempio al Monte Athos, l’accesso al quale è proibito non solo alle donne, ma anche agli animali di sesso femminile.
Tale visione comparve in tutta la sua forza con i catari del secolo XIII in Francia[5], provenienti o discendenti dai bogòmili dell’Ungheria, a loro volta eredi del manicheismo persiano, figlio del dualismo gnostico indiano.
Nel campo del sesso, la morale catara oscilla fra il rigorismo di un’astinenza sessuale disumana, al lassismo bestiale di ogni aberrazione sessuale, in quanto per i catari non esistono leggi morali naturali, dettate da Dio, che disciplinino il rapporto uomo-donna, dato che secondo loro tale rapporto riguarda quel piano coartante, contingente e passeggero della corporeità, nel quale si è costretti a vivere nella vita terrena, le cui modalità concrete sono soggette alla libera decisione dei singoli, che nella libertà dello spirito cercano l’unione con Dio.
Anche qui il principio-guida è quello della purezza (katharòs, puro) dello spirito libero dall’esperienza sensibile: un qualcosa che ricorda stranamente l’ideale kantiano della ragion pura, essa pure sul piano pratico ligia a un dovere assoluto superiore e indifferente al piano delle tendenze e delle inclinazioni sensibili, dove pure sembra che la ragion pratica si astenga per principio dall’ordinare o legiferare o assegnar finalità naturali o razionali al rapporto uomo-donna.
Contrariamente all’etica evangelica, che pone l’origine del male nel peccato e quindi nello spirito (vedi la tematica del “cuore”), il dualismo puntava accentuatamente sulla prospettiva di liberarsi dal “corpo di morte” affinché l’anima, libera dal corpo, potesse volare in paradiso. Da qui la pratica della cremazione.
Ancora con San Francesco, il cui meraviglioso legame con Santa Chiara del resto è noto a tutti, il corpo è “frate asino”. Non pare qui di rintracciare il corpo “tempio dello Spirito Santo”, del quale parla San Paolo. Ancora con Santa Caterina, dovere della donna è di essere “virile”, mentre il “piacere femminile” è il sinonimo della lussuria. E gli esempi nella storia della spiritualità cristiana si potrebbero moltiplicare fino ai nostri giorni.

Per una giusta visione della sessualità
È chiaro che in questa impostazione c’è la giusta esigenza di mortificare le cattive tendenze sensibili e di dominare le passioni carnali. Ma restava che, almeno in una certa formazione corrente, soprattutto dei giovani e delle religiose, la preoccupazione per la castità assumeva un tono esagerato. Tanto che, come sappiamo, “purezza” è diventata sinonimo di castità, come se la purezza non debba essere una qualità di ogni virtù in quanto tale.
Dovrebbe essere evidente che ogni virtù deve essere pura. La castità era la “bella virtù”, come se le altre non fossero belle e non ce ne fossero di più belle. La “purezza di cuore”, alla quale ci esorta Gesù, ancora era la castità, mentre in realtà il “cuore” per il Vangelo non è la radice solo della castità, ma di tutte le virtù; così succedeva che virtù in se stesse più importanti, come l’umiltà, la giustizia, la mitezza, la prudenza, il coraggio, la misericordia, la sapienza, la carità rischiavano di apparire in sott’ordine. Ancor oggi in confessionale si sentono degli anziani accusarsi di “cattivi pensieri”, intendendo con ciò mancanze alla castità.
Ma il problema sotteso a queste idee era che l’esercizio dell’atto sessuale comportasse una contaminazione, una corruzione, una macchia. Da qui l’idea che l’integrità, la bellezza, la perfezione, l’ immacolatezza è la verginità, senza tener conto del fatto che le facoltà che Dio ci dà, sono fatte per essere esercitate – “si unirà alla sua donna” – e che quindi da un punto di vista naturale, una facoltà inutilizzata non può essere più perfetta della medesima nel suo esercizio.
Osserviamo che corruzione sarà semmai un cattivo uso o esercizio o funzionamento della facoltà, ma non può essere la sua semplice e normale attuazione secondo la sua naturale finalità. O, per esprimerci con Aristotele, l’atto è superiore e più perfetto della potenza. Non ha senso ipotizzare che una potenza inattuata sia cosa migliore della medesima regolarmente attuata. Per usare il linguaggio evangelico, i talenti ricevuti da Dio vanno fatti fruttare, se non vogliamo subire il castigo minacciato dal Vangelo.
Anche il piacere procurato dall’atto sessuale non è spregevole in se stesso, ma solo se quest’atto è o contro natura[6] o compiuto fuori dall’ordine morale. Il piacere normalmente è un bene conseguente alla soddisfazione di un bisogno o all’attuazione di una tendenza naturale.
L’animale si sente attratto dal piacere, come del resto accade anche a noi. L’animale sano, cercando il piacere, compie istintivamente l’atto vitale naturale ad esso collegato. Noi invece, in linea di principio, benché possediamo anche noi l’istinto, però lo possiamo dominare, per cui, per esempio, avvertiti dalla ragione o dalla coscienza che l’atto non è lecito, possiamo, in linea di principio, resistere alla tentazione, ossia alla spinta irragionevole dell’istinto, in quanto dotati di libero arbitrio.
Così in noi non accade sempre che l’attrattiva sensibile ci conduca al vero bene, perché purtroppo il peccato originale ha creato in noi una ricerca del piacere, indipendentemente dal fatto che l’oggetto o il fine collegato sia moralmente buono. A noi possono piacere anche tendenze morbose o moralmente cattive. Per questo, per sapere cosa è bene e cosa è male, non basta sempre in noi l’impulso della passione, ma occorre ragionare.
Così si spiega l’esistenza del peccato sessuale: l’atto o l’oggetto appare un bene, perché è piacevole al senso. Per questo, non è sempre di immediata intuizione il perché un certo atto sessuale sia male, in quanto siamo portati a credere che ciò che piace è sempre bene.
Si tratta allora di scoprire la preminenza del bene onesto, bene intellegibile, bene della ragion pratica – quello che Kant chiamava “dovere” – sul bene dilettevole, legato alla tendenza sensibile. È questo, in fin dei conti, il bene che ci deve interessare e guidare come esseri ragionevoli o, come diceva San Tommaso, agere secundum rationem.
Così la ragion pratica può sapere che in realtà quel piacere che ci attrae non è un vero bene, ossia un bene onesto, perché quel piacere non ci stimola, nell’ipotesi, a mettere in pratica la legge morale. Da qui l’obbligo di seguire la retta ragione, mancando al quale, l’azione diventa peccaminosa.
Dalla Bibbia, comunque, il piacere sensibile è paragonato al piacere spirituale, addirittura alla stessa gioia divina, di Dio puro Spirito, che evidentemente non ha sesso. È importante, per questo, avere un concetto analogico del piacere, collegando quello sensibile a quello spirituale. Questo è il modo di evitare sia il rigorismo che il lassismo, sia Origene che Pannella.
Infatti Dio è il creatore di ogni forma e grado del piacere. Sta all’uomo saper godere di un piacere onesto, fisico o spirituale che sia. Chi obbedisce a Dio, che conosce la via della nostra felicità, in barba a Nietzsche e a Freud, sa godere la vita dell’al di qua e quella dell’al di là. Gli altri vivono male quaggiù e alla fine vanno all’inferno.
Così il profeta Isaia osa rappresentare l’amore di Dio per Israele ad un amore dello sposo per la sposa, e trattandosi di sposo e sposa, non si può evidentemente non pensare al piacere sessuale: “Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (62, 5). Non ovviamente che Dio goda sessualmente; ma Egli, tuttavia, come creatore del sesso, contiene virtualmente ed eminentemente (virtualiter et eminenter) anche il piacere sessuale nella Sua infinita Essenza, così come la causa contiene in sé l’effetto.
Dio ha creato tanto il piacere fisico quanto quello spirituale, i quali, nella sua volontà originaria, dovrebbero essere congiunti. Il che non toglie che possano esistere scelte di vita, come la verginità, nelle quali, al fine di una maggiore libertà ed esperienza dello Spirito, il soggetto rinuncia al piacere sessuale, soprattutto in considerazione del fatto che nella vita presente la carne si oppone allo spirito: “Se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo”. Si potrebbe però anche dire: “Se non ti scandalizza, puoi tenerlo”.

Influsso del dualismo nel cristianesimo
Il lettore ha ben capito che la maniera dualista, citata sopra, di esaltare la verginità, non era quella giusta. Eppure è in certa misura presente, almeno nel modo di esprimersi, anche nei Padri e nei Dottori della Chiesa, soprattutto in mariologia e nell’apologia della vita religiosa.
È stata l’introduzione dell’etica di Aristotele nel pensiero cristiano nel XIII secolo, operata, come è noto, da San Tommaso d’Aquino, a porre le basi per una sana etica sessuale, veramente conforme alla Scrittura. Bisogna dire al riguardo che Lutero, accusando Aristotele di essere nemico della Scrittura, non ha capito nulla.
Certo, Aristotele non è un teorizzatore della verginità, che del resto Lutero odiava, e tuttavia l’etica di Aristotele, che congiunge la coscienza della legge naturale con quella della debolezza della natura umana, costituisce la vera premessa per il giusto concetto di verginità.
La Chiesa, dal canto suo, già dai primi secoli, definì come verità di fede la superiorità della verginità sul matrimonio, che era stata negata da Gioviniano, che pertanto San Tommaso, per questo motivo, considera eretico[7]. Purtroppo questa eresia è risorta negli anni del post-concilio, sotto pretesto che il Concilio sottolinea l’uguaglianza di tutti i battezzati davanti a Dio. Eppure, il medesimo Concilio in più luoghi ribadisce questa verità[8].
Questa superiorità è data dal fatto che, mentre il matrimonio, per quanto possa essere una vocazione alla santità, ha una finalità, quale la procreazione, limitata ai confini della vita terrena, la verginità, pensiamo al rapporto tra persone consacrate di diverso sesso[9], costituisce sin da adesso un segno ed un esempio della futura umanità della risurrezione, allorché l’amore degli sposi continuerà, anche se avrà condotto a termine la sua funzione procreativa.
Dobbiamo dire pertanto che la verginità consacrata è superiore al matrimonio, ma non nel senso falso, già visto, che solo alla verginità corrisponda lo stato di integrità e purezza della natura; altrimenti, per logica conseguenza, saremo costretti a dire che l’atto sessuale è impurità e corruzione, ma nel senso che essa costituisce una più alta manifestazione della vita secondo lo Spirito.
Probabilmente la concezione dualista fu nota a San Paolo, come sembra risultare da alcune espressioni da lui usate, che hanno un vago sapore di questo genere, come la lotta tra lo “spirito” e la “carne”, la “liberazione dal corpo” (Rm 7,24), il “far morire le opere del corpo” (Rm 8,13), il desiderio di essere “sciolto dal corpo” (Fil 1,23), il passaggio dall’“uomo animale” all’“uomo spirituale”. Le “opere della carne” sono una serie di vizi (Gal 5,19).
Indubbiamente l’ideale della verginità compare col Nuovo Testamento. Il Battista è vergine. Vergine è Giovanni Apostolo, l’intimo di Gesù. Vergine è la Madre del Signore. Vergine è Gesù stesso. Non c’è dubbio che Gesù è il fondatore della vita consacrata cristiana. Gesù propone l’ideale di “alcuni che si fanno eunuchi in vista del regno dei cieli”.
Tuttavia nell’etica evangelica, per quanto austera e spiritualistica, non troviamo i duri accenti contro il corpo e la carne, che sono presenti in San Paolo. Per Gesù, “il Figlio dell’uomo mangia e beve”. Mostra un grande rispetto per la donna, persino per le peccatrici. Egli è premuroso della salute fisica del prossimo, che restaura con numerosi miracoli. Inaugura la sua missione partecipando ad un pranzo di nozze. “Possono gli amici dello sposo digiunare mentre lo sposo è con loro?”. All’Ultima Cena consacra il suo Sangue, seguendo l’uso del banchetto pasquale, al terzo calice. Quindi c’era stata una buona bevuta. Riferendosi all’Eucaristia, Sant’Agostino esclama: “Caro te excaecaverat? Caro te sanat!”.
In Gesù c’è certamente il tema della rinuncia: “se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo”; ma mai mostra disprezzo per il corpo o loda il desiderio di lasciare il corpo. I discepoli devono sì essere al riparo dal male, ma nel mondo. Il male, ossia il peccato, non viene dal di fuori, dal mondo materiale, ma dal cuore, dallo spirito, dalla malizia della volontà. Il mondo è cattivo in quanto è sotto il segno del peccato; ma in se stesso è buono e creato da Dio.

Il matrimonio
Per il Vangelo, come per la Genesi, il corpo, maschile e femminile, non è affatto cattivo, tanto è vero che deve risorgere. Questo tema, del resto, come è noto, è presente anche in San Paolo; il che ci fa capire, nonostante alcune sue punte pessimiste ed antifemministe, la perfetta aderenza dell’Apostolo alla dottrina di Cristo e che i suoi attacchi contro il corpo o la carne nulla hanno a che vedere con il dualismo indiano e significano semplicemente il rifiuto del corpo, non in quanto tale, ma in quanto schiavo del peccato. “Corpo di morte” non vuol dire che il corpo procura la morte, ma che il corpo, ferito dal peccato, è mortale.
L’atto sessuale fisiologicamente normale è sempre genericamente buono, anche se non è detto che lo sia sempre dal punto di vista morale. È moralmente cattivo e quindi peccaminoso, quando viene esercitato, sotto la spinta della concupiscenza, fuori o prima del matrimonio, e allora si ha la fornicazione, e in special modo in quell’unione o convivenza moralmente illecita tra uomo e donna, che si chiama “concubinato”: una convivenza che può avere l’apparenza della convivenza legittima, ossia il matrimonio, senza essere tuttavia un vero e completo matrimonio.
Peggio ancora è la convivenza di due soggetti dello stesso sesso, perché lì non si trasgredisce solo la finalità spirituale dell’unione uomo-donna, ma si compromette la stessa funzione fisiologicamente normale del sesso. Il che naturalmente non esclude il dovere di trattare con rispetto anche queste persone. Ma non è qui il luogo per sviluppare questo delicatissimo argomento.
Il vero matrimonio è un patto o contratto cosciente, libero e volontario, socialmente e giuridicamente riconosciuto, tra un uomo e una donna fisiologicamente sani e normali, in sufficienti condizioni economiche, che si piacciono e si amano, col quale davanti a Dio essi si impegnano per sempre (indissolubilità), secondo un amore esclusivo (monogamia) ad essere una cosa sola, nella fedeltà reciproca, nella buona e nella cattiva sorte, aperti alla generazione ed alla educazione della prole ed al bene della società, aiutandosi a vicenda nell’acquisto della virtù. Come si sa, Cristo ha elevato a sacramento, ossia a mezzo di salvezza, questo contratto naturale.
Il matrimonio poligamico concesso dal Corano suppone una grave disistima per la donna e contrasta con il progetto biblico “la sua donna”, ossia “ad ognuno la sua”, e quindi una sola[10], principio, questo, legato alla reciprocità uomo-donna. Questa reciprocità, si badi bene, non si giustifica solo in rapporto ad una conveniente educazione della prole, ma è radicalmente[11] richiesta dalla pienezza dell’essere umano, che per sua essenza è stato creato con questa propensione e questo bisogno.
Come è risaputo, tutto ciò non impedisce le seconde nozze. Il che vuol dire che solo in cielo sarà superato l’elemento dell’esclusività, ma non evidentemente nel senso musulmano a briglia sciolta, perché la doppia relazione celeste è fondata su due successive nozze monogamiche regolarmente contratte sulla terra.
Il bisogno di un partner, che tanto è sentito e a volte tormenta i giovani, non è tanto il bisogno di sfogare l’istinto sessuale, quanto quello di avere una compagna per la vita. È la voce del Genesi che si fa sentire, anche se il giovane non ha mai letto la Bibbia e un giorno si farà sacer-dote o religioso.
Il che ovviamente non vuol dire che ognuno riesca o possa avere il suo partner, si tratti o non si tratti del matrimonio[12]. Resta tuttavia che ciò è richiesto dalla pienezza di umanità dell’individuo, come per esempio nel caso del peso corporeo, che, in linea di principio, come dicono i medici, dovrebbe essere tanto di quanto egli supera il metro: 70 kg per 1m e 70.
Il che naturalmente non vuol dire che anche i grassi e i magri non possano andare in paradiso. Non trovare una donna che faccia al caso proprio come amica o come sposa, può essere una sofferenza; ma non bisogna farne una tragedia. Né bisogna credere che ciò possa essere il segno che Dio ci vuole o alla vita religiosa o a quella sacerdotale. Anche qui infatti, più che mai, occorre instaurare un rapporto onesto e fruttuo-so e una sana confidenza fra i sessi, senza venir meno agli impegni assunti.
D’altra parte bisogna evitare l’avidità dei musulmani con l’ accumulo o collezione delle mogli, come se si trattasse di far collezione di automobili. L’esperienza della partnership non può limitarsi al campo delle relazioni che prevedono il rapporto sessuale e non è impossibile, anzi è auspicabile avere più amicizie nell’altro sesso.

Il perché della verginità
Poniamoci a questo punto alcune domande relative al valore della verginità: da dove trae Gesù l’idea di proporre “ad alcuni” l’obbiettivo della vita religiosa? Che senso gli dà? Non c’è dubbio che nel frangente della natura umana decaduta dopo il peccato originale, Gesù rappresenta la volontà del Padre, ma una volontà di emergenza, una specie di “pronto soccorso”, non l’originaria volontà che comunque resta sostanzialmente valida e un giorno tornerà in vigore.
Gesù, come si esprime Egli stesso, viene a restaurare ciò che il Padre ha voluto “al principio”. Egli, per mandato del Padre, viene a rimediare ai danni conseguenti al peccato originale e ad innalzare la coppia umana ad uno stato di grazia, la figliolanza divina, ignoto nello stato di innocenza originaria.
Nel fondare la vita religiosa, e in particolare con l’esaltazione della verginità consacrata, Cristo si propone tre fini: primo, mostrare la nuova vita secondo lo Spirito; secondo, favorire una maggior dedizione alla vita spirituale, con una migliore vittoria sulla concupiscenza; terzo, far vedere al mondo come la verginità sia un precorrimento della vita eterna.
Con la venuta di Cristo, il comando genesiaco che l’uomo come tale, quindi ogni uomo, è fatto per unirsi alla sua donna, viene in qualche modo condizionato e limitato. Non tutti sembrano chiamati a questa unione, ma alcuni sembrano essere chiamati ad esser “soli”, ossia l’uomo senza la donna e viceversa. Non dunque l’unione, ma la separazione. Una separazione cautelativa – vedi la tradizionale “clausura” – in vista di una più profonda unione spirituale. Una separazione che non dice ostilità, ma amore.
C’è insomma la possibilità per alcuni, “ai quali è dato di capire questo discorso”, di “lasciare tutto per Lui” e quindi di praticare l’astinenza sessuale, il cosiddetto “voto di castità” in vista di una maggiore perfezione: “se vuoi essere perfetto”.
In ogni caso, è chiaro che per la riproduzione della specie, non è necessario né sarebbe possibile che tutti si dedichino al compito riproduttivo. Tutti invece, per quanto a loro è possibile e a seconda delle circostanze, devono poter vivere una sincera reciprocità con l’altro sesso, in vista di un fecondità spirituale al servizio della società e della Chiesa.
Il rapporto uomo-donna costituisce la forma più radicale ed originaria della socialità umana. Per riempire la solitudine dell’uomo, Dio non crea un altro uomo, ma la donna. Il che vuol dire che il fine dell’esser donna, prima ancora che la riproduzione della specie e quindi il matrimonio, è quello di garantire all’uomo la sua piena umanità e l’apertura al rapporto sociale. Non esiste tra due esseri umani un rapporto così intimo e confidenziale, così stretto e saldo, quale quello che può essere realizzato tra l’uomo e la donna.
Due maschi assieme possono realizzare sul piano sociale, politico e culturale grandi imprese, che restano alla storia; ma nessuna opera umana vale tanto quanto vale l’amore, dove la donna è maestra impareggiabile, come dice la sposa del Cantico: “le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo”[13].
Per questo, in tutte le mistiche dell’umanità l’amore tra l’uomo e la donna è il simbolo dell’unione dell’anima con Dio, la massima opera che una creatura umana può fare. Lo stesso rapporto tra il Figlio e il Padre è mediato dallo Spirito Santo, che è lo Spirito dell’Amore.
Che cosa dunque chiede Gesù con la rinuncia al matrimonio? Significa forse una rinuncia alla socialità? Niente affatto. Cristo, con la proposta della vita religiosa, non intende affatto far ritornare l’uomo allo stato di solitudine precedente la creazione della donna, perché tale stato, per esplicita volontà del Padre, è male. Invece Gesù propone un nuovo e migliore rapporto uomo-donna, prefigurativo del rapporto escatologico alla risurrezione finale, il quale, nella pratica della verginità, è fecondo di una generazione spirituale, che edifica la Chiesa, inizio in terra del regno di Dio. Lasciando tutto per Cristo, uomo e donna, i consacrati ricevono già da adesso il centuplo, in mezzo a tribolazioni, e il premio nella vita futura.

La vita nuova donata da Cristo
Siccome il rapporto uomo-donna, nel piano divino, è sostanzialmente un rapporto d’amore (“una sola carne”) e un rapporto di coppia (“la sua donna”), e l’amore continuerà nella futura risurrezione, ci si può domandare se anche in paradiso, benché sia cessata l’opera della generazione, almeno per alcuni, soprattutto per le coppie coniugali, sarà presente il piacere sessuale, come espressione dell’amore.
La Scrittura indubbiamente ci presenta la gioia della vita futura, che, data la presenza del corpo, non potrà non avere aspetti fisici, non solo come gioia spirituale, ma anche con immagini tratte dai piaceri terreni. Isaia parla per esempio di un banchetto con “cibi succulenti e vini eccellenti” (25, 6), quando sappiamo che in paradiso l’alimentazione non sarà più necessaria. Ma l’unione uomo-donna, a parte la procreazione, esprime anche l’amore e l’amore non verrà mai meno. Così pure la gioia dello stare assieme a tavola può essere distinta dall’atto del nutrirsi. Si può mangiare anche da soli. Il banchetto allora vuol rappresentare la gioia della compagnia e dell’amore reciproco.
Non sembra convincente la tesi di chi dice che, siccome godremo di una gioia spirituale somma, non sentiremo la mancanza di quella fisica. Questo è un discorso che sa di platonismo. Giacché allora potremmo chiederci che senso ha la risurrezione del corpo e perché Dio ci ha dato la facoltà di godere con i sensi.
È vero che il piacere fisico vale assai meno di quello spirituale e tuttavia questo non può sostituire quello. Posso infatti dire: è vero che provo molto più piacere a leggere San Tommaso che a bere un bicchiere di coca-cola. Ma la lettura di Tommaso, benché calmi la mia sete di verità, non può sostituire la coca-cola.
D’altra parte è innegabile il valore altissimo della verginità così esaltato dal Vangelo. Ma si può obiettare che siccome Dio è creatore del piacere fisico, nella visione beatifica e nell’unione con Lui il piacere fisico può essere virtualmente contenuto e presente in quello spirituale.
Siamo davanti ad un mistero, circa il quale il Magistero della Chiesa non ci dà chiarimenti. Quello che ci ha detto di recente con San Giovanni Paolo II è che vi sarà l’amore fra uomo e donna. Ma come sarà l’aspetto fisico e sensibile di questo amore, non lo sappiamo.
È terreno aperto alle indagini ed alle ipotesi teologiche. L’ importante è non sconfinare al di là di ciò che la Chiesa insegna, negando per esempio o mettendo in dubbio, alla maniera gnostica del platonismo o dell’induismo, la differenza sessuale oppure cadendo nell’edonismo islamico.
Anche la teoria del gender, che ammette altre forme sessuali oltre a quelle naturali dell’uomo e della donna, è evidentemente incompatibile con una sana escatologia, oltre che naturalmente con le norme dell’ etica sessuale.
Inoltre, per fare una qualche luce su questo mistero, possiamo usare, con prudenza e sobrietà, immagini, preferibilmente quelle bibliche[14], tratte dall’amore come è vissuto quaggiù, togliendo ciò che vi è di cattivo, sconveniente e caduco, e mantenendo il buono, il conveniente e il permanente.
Ma separare convenientemente e chiaramente questi due aspetti contrari è cosa assai difficile; il che, del resto, non ci deve sorprendere, trattandosi di una condizione di vita trascendente, di tale sublimità e misteriosità, che si comprendono le parole dell’Apostolo: “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).
Nell’Eden il Padre aveva voluto l’armonia e la complementarità reciproca tra uomo e donna; ad ogni uomo la sua donna e viceversa, nella fedeltà e nell’amore reciproci, su di un piano di parità e di mutuo rispetto, nell’apertura alla procreazione. Ma se è misteriosa questa condizione primitiva, ancora più misteriosa e sublime è quella escatologica.
Quello che adesso ci è chiaro, anche perché ne facciamo esperienza, è che il peccato originale ha spezzato questa armonia e ha reso l’uno nemico dell’altra. L’uno adesso vuol sfruttare l’altra, trasformata in puro strumento di piacere. L’uno si isola dall’altra e non si cura dell’altra. L’uno si chiude all’altra, lo teme e ne diffida come da una tentazione. I due si divertono a illudersi e a lusingarsi a vicenda. L’uno diventa ostacolo all’altra nella ricerca di Dio, oppure l’uno pretende di sostituire Dio per l’altra. Scomparsa l’esclusività dell’amore, i due si tradiscono a vicenda.
Scompaiono la serietà e la perseveranza dell’amore, che diventa superficiale, una semplice avventura, schiavo della volubilità, degli umori e dei sentimenti del momento. L’uomo opprime e violenta la donna: questa lo seduce e lo inganna col suo fascino stimolando la sua concupiscenza, che spesso è irresistibile e lo porta a cercare soddisfazione anche nell’adulterio o in atti diversi da quelli normali o in rapporti diversi da quello con la donna.
L’inclinazione e la necessità del matrimonio tuttavia restano, e Cristo viene a restaurare la sua bellezza elevandolo alla dignità di sacramento. L’atto coniugale non è soltanto aperto alla generazione, non è solo espressione d’amore ed incentivo all’amore, ma è anche rimedio alla concupiscenza per quei soggetti che non riescono a controllarsi. L’unione degli sposi, secondo l’insegnamento di San Paolo, viene a simboleggiare, a rappresentare e a partecipare dell’unione stessa tra Cristo e la Chiesa.
La reciprocità uomo-donna non esaurisce il suo significato nei limiti della vita presente, come potrebbe sembrare a qualcuno, considerando che la riproduzione della specie, alla quale mira il matrimonio, termina con la vita presente.
Invece dobbiamo dire e ripetere che la futura risurrezione dei corpi significa che ognuno di noi risorgerà col suo corpo determinato dal suo sesso. Chi quaggiù è stato maschio risorgerà maschio; chi è stato donna, risorgerà donna.
Pertanto il detto di Gesù “saranno come angeli” riferito alla domanda circa le sorti del matrimonio alla risurrezione, va inteso nel senso che non vi sarà più aumento numerico della specie, ma non che non ci sarà un qualche rapporto tra uomo e donna, in quanto questo rapporto non è solo finalizzato alla generazione, ma deve anche esprimere la per-fezione finale della persona e dell’amore reciproco, il quale evidente-mente è destinato a durare in eterno.
Cristo dona ai coniugi delle risorse soprannaturali, che, vissute nella comunione ecclesiale, li sostengono e li confortano nel compimento dei loro doveri. Resta comunque che la pratica matrimonio e l’edificazione di una famiglia si presentano oggi più che mai, in una società scristianizzata come la nostra, mete difficilissime, spesso realizzabili solo parzialmente.
Oggi la questione è questa: la Chiesa deve continuare come un tempo a dire: o matrimonio o nessun legame, oppure potrà legalizzare a precise condizioni e dovute garanzie, certe unioni dove c’è la buona volontà, ma l’incapacità oggettiva riconosciuta di compiere tutti i doveri del matrimonio? Ecco la questione del rapporto tra matrimonio e concubinaggio.

Concubinaggio e matrimonio
Il parlare che oggi si fa di “coppie conviventi” è un eufemismo ipocrita, col quale si cerca di celare uno stato o un atto peccaminoso sotto apparenze innocue, come purtroppo oggi accade in diversi casi, come per esempio il parlare di “interruzione della gravidanza” per l’aborto, di “gay”[15] per gli omosessuali, di “pedofili” (=“amanti dei bambini”) per i pederasti, di “eutanasia” (= buona morte) per la soppressione dei malati o di “eugenetica” o “pulizia etnica” per il genocidio.
A questo punto io dico scherzando che anche noi frati siamo dei “conviventi” e per di più dello stesso sesso. In morale è molto importante la lealtà del linguaggio e l’attenzione all’aspetto formale, ossia al motivo o alla ragione dell’atto, più che all’atto stesso preso nella sua materialità.
Altrimenti non comprendiamo perché un medesimo atto dal punto di vista materiale debba essere lecito in un caso e peccaminoso in un altro. Unirsi a una prostituta può essere un atto fisiologicamente normale come l’unione tra marito e moglie. Perché nel primo caso la cosa non è lecita, mentre lo è nel secondo?
Lo stesso dicasi per la verginità. Non è affatto detto che il semplice non esercizio della facoltà sessuale sia una virtù. Può essere causata da frigidità o da malattia mentale o da pregiudizi rigoristi o da impotentia coeundi. È solo uno speciale tipo di astinenza sessuale, dettato da quei nobilissimi motivi che abbiamo visto, che merita la nostra lode e la nostra ammirazione.
Quanto al concubinaggio – detto eufemisticamente “convivenza” – esso vorrebbe evidenziare o esaltare l’amore a prescindere dalla generazione. Esso pertanto sembrerebbe a tutta prima avere qualche somiglianza con l’unione escatologica. Eppure c’è un abisso.
Infatti, a parte il fatto che a questa coppia non interessa assolutamente la visione beatifica, tanto che potrebbe starsene anche all’inferno come i danteschi Paolo e Francesca, la visione beatifica invece è la somma gioia comune della coppia escatologica, per cui in essa l’amore è pienezza e purificazione finale dell’autentico amore, sostanzialmente spirituale, vissuto qui in terra.
Viceversa, l’amore concubinario è misero egoismo e sfruttamento reciproco, magari posteriori ad adulterio, sulla base del più smaccato edonismo, salvo che non si tratti forse a volte di unione sincera, ma che per vari motivi, culturali, psicologici, sociali, ambientali od economici, la coppia, libera da legami precedenti, non se la senta o non sia oggettivamente (e quindi senza colpa) in grado di affrontare una vera e propria unione coniugale, con tutti i pesi, le adempienze, gli impegni e gli obblighi che essa comporta.
Comunque, il peccato o vizio del concubinaggio sta insomma nel fatto che esso non si fonda, né si mantiene su di un’unione spirituale tra i due orientata a Dio, né si alimenta con un rapporto sincero e continuo con Lui, ma dello sfruttamento dell’uno sull’altro, sulla base del piacere o di interessi o finalità disonesti[16]. Questo modo lussurioso ed empio di realizzare il rapporto uomo-donna è contrario alla dignità umana e la degrada al livello delle bestie.
Il concubinaggio può possedere, tuttavia, qualche elemento del matrimonio, senza però realizzarlo in pienezza, ed anzi eventualmente danneggiandolo o screditandolo con dottrine false, soprattutto in relazione l’osservanza delle norme etiche dell’unione coniugale e delle finalità della vera unione uomo-donna.
È noto come anche oggi e forse più che mai siano diffuse idee contro il matrimonio, la famiglia e la verginità, in quanto le leggi della Chiesa in questa materia sono ritenute oppressive. Da qui i movimenti cosiddetti “radicali”, che si autodefiniscono così perché ritengono di andare alla “radice” dell’esistenza umana, dalla quale trarre il criterio e la forza della sua liberazione dalle pastoie medioevali della Chiesa.
La dottrina del gender si inserisce in questo quadro. L’idea di fondo è che non esiste una natura umana fissa, determinata ed uguale per tutti, ma ciascuno è libero di foggiare la propria natura individuale con le mutevoli decisioni della sua libera volontà. Queste idee sono oggi diffuse dai rahneriani.
A ciò si aggiunge un elemento di epicureismo, per il quale non è il piacevole che si fonda sull’onesto, ma è l’onesto che dipende dal piacevole. L’effetto di questa concezione è che la regola dell’agire non è più l’onesto, ma il piacere, non importa il contenuto dell’azione.
Come i catari, i radicali, non ammettono una legge morale naturale riguardante il sesso, ma lo considerano come qualcosa di contingente, di opinabile e di manipolabile, a diposizione della volontà del singolo, ma con la differenza che, mentre i catari relativizzavano il sesso per godere nell’al di là – poveri citrulli! – , Pannella e la Bonino, ben più saggi, lo relativizzano per goderne nell’al di qua.
È evidente in queste idee, l’intento di sostituire il concubinaggio al matrimonio, continuando a chiamarlo “matrimonio”, sempre con quel linguaggio ipocrita, che ho segnalato. Ora, ciò non vuol dire che certe forme di concubinaggio, a certe condizioni, non possano essere legalizzate e tollerate. In tal caso certamente non le chiameremmo più con questo nome, ma le si potrebbe chiamare “unioni civili”, sicché il matrimonio sarà sempre un’unione civile; ma non necessariamente un’unione civile sarà matrimonio.
Anche lo Stato dovrebbe fare questa ragionevole distinzione, per il suo stesso bene; ma è chiaro che la Chiesa si riserva comunque il diritto di farla, anche indipendentemente dal linguaggio usato dello Stato. Essa infatti non potrà mai rinunciare al suo concetto di matrimonio, che non è altro che il contratto naturale elevato a sacramento, condannando nel contempo il concubinato, che continuerà a chiamare col suo nome, perché alla Chiesa non piacciono gli equivoci e le scappatoie, ma usa il linguaggio del suo Signore, che è “sì, sì, no, no”. Faccia lo Stato, dal canto suo, quel che crede meglio nel suo concetto di matrimonio.
La legge civile può peraltro permettere convivenze che, per scusanti, attenuanti o motivi recepibili, non riescono a osservare in pienezza tutti gli obblighi essenziali del matrimonio, a patto che anch’esse possano e vogliano dare il loro contributo al bene comune. L’unione civile può essere dissolubile. Il divorzio civile dal matrimonio religioso per la Chiesa continua ad essere canonicamente nullo.
La grave questione che si pone oggi è se la Chiesa ritiene di prendere in considerazione queste forme di matrimoni imperfetti o incompleti, in quali casi e a quali condizioni. Attendiamo fiduciosi una risposta orientativa ed efficace dai nostri pastori sotto la guida del Santo Padre.
Perché ho inserito il discorso sulla verginità in un tema così scabroso? Perché dobbiamo aver fiducia che anche le unioni più sciagurate sono pur sempre unioni di esseri umani, che comunque posseggono quella coscienza morale, che non può mai estinguersi del tutto, né quindi possono perdere del tutto quella stima dell’amore fra uomo e donna, che nella vita consacrata viene vissuto nella luce della verginità. La misericordia di Dio toglie la distanza infinita tra il peccato e la grazia.

NOTE
1.- E.Denifle, Lutero e luteranesimo nel loro primo sviluppo, Desclée,Lefebvre &C. Editori, Roma 1905.
2.- Cfr. Yoghi Ramacharaka, La suprema sapienza, Fratelli Bocca, Milano 1950; L.Gardet, Espe-rienze mistiche in paesi non cristiani, Edizioni Paoline 1960; Mahendranath Sircar, Hindu mysticism according to the Upanishads, New Delhi 1974; Daniel Acharuparambil, La spiritua-lità dell’induismo, Edizioni Studium, Roma 1986; L.Gardet-O.Lacombe, L’esperienza del sé. Studi di mistica comparata, Editrice Massimo, Milano 1988; René Guénon, Introduzione ge-nerale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano 1989.
3.- Cfr. O. Lacombe, L’Absolu selon le Vedanta, Vrin, Paris 1937.
4.- La rappresentazione della morte come un “tornare al Padre”, oggi diffusa, apparentemente così pia e sublime, in realtà riflette questa mentalità panteistica, confondendo il cristiano con Cristo.
5.- Cfr. il trattato cataro-manicheo De duobus principiis, edizione critica a cura di A. Dondaine, OP, Istituto Storico Domenicano di Santa Sabina, Roma 1939; Anne Brenon, I Catari. Storia e destino dei veri credenti, Nardini Editore, Firenze 1990.
6.- Ossia deforme ovvero difettoso rispetto all’integrità o alla finalizzazione procreativa fisiologica.
7.- Sum.Theol., II-II, q.152, a.4.
8.- Perfectae caritatis, n.5; Lumen Gentium, nn.42, 44.
9.- Cfr. il mio libro La coppia consacrata, Edizioni Vivere In , Monopoli (BA), 2008.
10.- “Una sola è la mia colomba”, Cant 6,8. Cristo ha una sola sposa, anche se oggi certi ecume-nisti scriteriati parlano di una molteplicità di “chiese”.
11.- Qui abbiamo il vero radicalismo, non quello di Pannella e della Bonino.
12.- Questa reciprocità si nota anche in molte coppie di santi religiosi. Basti per tutti l’esempio di San Francesco e Santa Chiara.
13.- Cant 8,7.
14.- Per esempio il Cantico dei Cantici. Uno spunto può esser dato dal c.2 del Genesi, che si limita a parlare dell’unione uomo-donna, mentre il c.1 è superato, in quanto tratta della riproduzione della specie.
15.- Non so immaginarmi quanto gli omosessuali siano gioiosi. L’orgoglio è una falsa gioia, che nasconde il vuoto interiore.
16.- Esistono per esempio coppie dedite alla diffusione di dottrine ereticali, al terrorismo o ad altri generi di attività criminose.
 

(Fonte: Giovanni Cavalcoli, Isola di Patmos.com, 25 agosto 2015)
http://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2015/09/GIOVANNI-CAVALCOLI-OP-MATRIMONIO-CONCUBINATO-E-VERGINITA.pdf
 

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