Io credo, ponderando da anni la questione, che si tenda a fare tre errori o inciampi quando si parla di come la musica si debba inculturare nel mondo di oggi. Sono errori probabilmente fatti in buona fede e sono ovviamente aperti alla discussione. Ma doipo anni di osservazioni e letture mi sembra proprio che almeno per questi tre punti bisognerebbe riflettere più attentamente.
Un primo errore comune è: inculturazione significa ricominciare da capo, significa distruggere la cultura liturgica (e musicale) di provenienza. Ora, non possiamo tacere senza essere poi ingiusti, che il cristianesimo si è sviluppato in determinati contesti culturali che hanno apportato anche tante cose buone e ancora in parte valide per la fruizione del messaggio stesso, anche nella liturgia e nella musica. Perché distruggere tutto? In effetti alcuni esempi veramente buoni di inculturazione della musica liturgica sono proprio la prova che la distruzione non serve a niente, quello che serve è la nuova creazione generata da quello che viene prima e che diviene parte, oserei dire genetica, di questa nuova creazione. Questo passato non è un ingombro, è un’opportunità. Ora, canto gregoriano e polifonia sono stati per secoli il repertorio liturgico della Chiesa cattolica. Possiamo tentare di andare oltre ma non per questo bisogna disprezzarli o considerarli come nemici della “nuova musica liturgica”. Dovrebbero esserne i genitori da rispettare ed amare, non ha senso vergognarsi. Da parte di taluni c’è una furia che oserei dire quasi rivoluzionaria di cominciare sempre tutto da un punto zero, il che mi sembra quanto meno imprudente. Quello che serve non è una rivoluzione, ma una evoluzione. Sempre cercare di fare meglio ma con la consapevolezza di poter vedere più lontano perchè ci vogliamo sedere sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto. Ricordiamo che l’istruzione del 1994 sulla Inculturazione nella Liturgia Romana si chiamava Varietates Legitimae, legittime differenze, variazioni, non distruzioni.
Un secondo errore comune è di tipo più culturale: si identifica come cultura di certe nazioni un determinato repertorio che in realtà è più la cultura creata dai mass media. Quante volte ho sentito cantare anche ai giovani le solite canzoni echeggianti modelli musicali provenienti dalla musica di consumo (che non ha niente di male in se stessa, è il contesto che è sbagliato). Ora, come già avvertiva il Cardinal Ratzinger nel suo libro “Introduzione allo Spirito della Liturgia”, non si può propriamente dire che questa musica sia musica popolare (nel senso espresso dalla Sacrosanctum Concilium al punto 119, espressione del genio di un popolo), in quanto è chiaramente il prodotto di alcune determinate strategie di mercato. Non si può neanche negare che la grande musica del passato non era popolare in senso stretto, essendo il frutto di strategie ecclesiastiche e politiche. Ma quella che credo sia la differenza rilevante è che la musica liturgica del passato non ha mai preteso di essere “popolare”, ma senz’altro era per il popolo. Nasceva come grande arte per essere poi a disposizione di tutti. Bisogna anche fare una osservazione che proviene dalla storia: sappiamo come la causa del movimento ceciliano per la riforma della musica liturgica che influenzerà anche il famoso Motu Proprio di san Pio X sarà il tipo di musica che si sentiva nelle chiese nel XIX secolo, pesantemente influenzata dalla musica operistica. Ma, e questo non si dice spesso, quello era veramente un esempio riuscito di inculturazione. La musica operistica nel XIX secolo era la musica di tutti, poveri e ricchi, permeava il tessuto sociale e culturale. Quindi, prendendo la maniera in cui taluni oggi intendono l’inculturazione, essa doveva essere accettata con tutti gli onori. Ma, pur essendo a volte di fattura tecnica pregiata ed amata da larghi strati del popolo e del clero, non fu poi accettata perchè non si conformava ad alcuni canoni che la musica liturgica dovrebbe possedere e su cui si potrà tornare in seguito. Quindi, questo repertorio fu sostituito da un altro, poco a poco, che si riteneva più consono all’azione liturgica. Sempre in Varietates Legitimae, al punto 19, si chiede che le culture devono essere purificate e santificate nel momento di incontro con la liturgia. Non si prende tutto quello che capita. San Paolo diceva di vagliare tutto e trattenere ciò che è buono, non buttarsi nelle braccia delle mutevolezze umane.
Un terzo errore comune conseguente al secondo è che si fa intendere che tutto debba sempre partire da una supposta base. Ma così non è nel mondo reale. Se si pensa alla rivoluzione informatica, ci si accorge che c’è sempre una elite che in un certo senso orienta e ispira la base. Questa elite comprende i geni che hanno rivoluzionato il modo in cui comunichiamo. Essi orientano la rivoluzione informatica anche aspettandosi possibili insuccessi e fallimenti. Ma la loro creatività e perizia permette l’avanzamento enorme che stiamo vivendo. Lo stesso è per la musica liturgica: l’“elite”, formata dai professionisti, lavorava per il bene di tutti, al servizio di tutti. Invece si è pensato che bisognava eliminare questo elemento intermedio, che una sana inculturazione significasse de-professionalizzare il musicista di chiesa. Doveva essere tutto frutto dello spontaneismo. Ma ricordiamo che queste elite, come del resto quelle informatiche, erano estremamente democratiche. Chiunque poteva farne parte, anche dagli strati più umili del popolo, se possedeva la volontà di applicarsi nello studio e nella pratica musicale. Anche oggi, quando si parla di inculturazione nel campo della liturgia e della musica, si tende a pensare che musica del popolo significa musica che il popolo ascolta. Ma i due concetti possono essere ben diversi. I miei studenti cinesi sono familarissimi con il pop e rap americano ma lo sono pochissimo con la loro cultura musicale di origine. Cosa si inculturerà?
Io fortemente credo che tutti e tre i punti esposti sopra siano stati un travisamento grossolano delle istanze del movimento liturgico. L’inculturazione si intendeva come momento nascente, non come apocalisse di ciò da cui proveniamo. L’inculturazione era impregnarsi nuovamente della tradizione per nuove primavere di fede, non uscire nella notte gelida dell’ignoto ad ogni costo. Quello che i padri ci hanno lasciato non dovrebbe essere vissuto come un peso, ma come una opportunità. Il passato è come il chicco di grano che momentaneamente sparisce per riapparire in nuove creazioni, mutato ma sempre se stesso.
(Fonte: Aurelio Porfiri, Zenit.org, 3 novembre 2010)
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