giovedì 28 ottobre 2010

Ancora sulla Bibbia Cei: traduzioni edulcorate

Prima lettura della Messa di oggi: Efesini 6,1-9. Finora il v. 5 suonava: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo». Una traduzione letterale, abbastanza fedele al testo originale (Οἱ δοῦλοι, ὑπακούετε τοῖς κατὰ σάρκα κυρίοις μετὰ φόβου καὶ τρόμου ἐν ἁπλότητι τῆς καρδίας ὑμῶν ὡς τῷ Χριστῷ). La nuova versione CEI invece ci fa ora leggere: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo». La nuova traduzione in un punto migliora la precedente: invece di “con semplicità di spirito”, rende, più letteralmente, con “nella semplicità del vostro cuore”. Sembrerebbe dunque che uno dei criteri seguiti sia quello di una maggiore fedeltà al testo originale. E invece, che cosa succede? I “padroni secondo la carne” (che sarà pure un’espressione non usuale nel linguaggio corrente, ma certo di non impossibile comprensione) diventano “padroni terreni”. Si potrebbe discutere sull’opportunità di rimpiazzare quell’espressione “secondo la carne”, così comune nella Bibbia; ma passi (del resto anche la Volgata aveva reso con una certa libertà questo passo: «oboedite dominis carnalibus»).
Ciò che risulta assolutamente incomprensibile è invece l’annacquamento dell’espressione seguente (“con timore e tremore”), che diventa uno slavato “con rispetto e timore”. Notate: il “timore” si trasforma in “rispetto”, ma, al tempo stesso, inaspettatamente si sostituisce al “tremore”. Mi chiedo: perché mettere le mani su una formula fissa, ricorrente nella Bibbia, che semmai andrebbe spiegata, non alterata? San Paolo la usa diverse volte: oltre che qui, in 1Cor 2,3; 2Cor 7,15; Fil 2,12. Giustamente, la TOB (acronimo di Traduction Oecuménique de la Bible) nel presente passo annota: «Espressione biblica che designa una situazione in cui l’uomo impegna la propria esistenza e dove, al di là delle circostanze, si trova alle prese con Dio». In nota a Fil 2,12, spiega: «Coppia di parole già conosciuta nella Bibbia e nel giudaismo, per esprimere la debolezza che si prova di fronte a Dio vivente e santo, che manifesta la sua esigenza attraverso l’obbedienza di Cristo». Nel caso di 2Cor 7,15, sempre la TOB postilla: «Espressione corrente, che esprime l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla grandezza e alla maestà divine…». Se si tratta di un’espressione così comune, in qualche modo “tecnica”, perché modificarla? Meraviglia poi che nel Sal 2,11 (possibile fonte di tale formula) la nuova versione CEI traduce letteralmente: «Servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (dal che si deduce che il tremore è addirittura compatibile con la gioia).
Qualcosa di simile è accaduto nel vangelo di san Luca (14,26). Finora leggevamo: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Ora leggiamo: «Se uno viene a me e non mi ama piú di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Si dirà: ma questo è esattamente il senso che intende Gesù con quell’espressione. Il passo parallelo di Matteo (10,37) suona infatti: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (in tal caso, traduzione vecchia e nuova della CEI più o meno si equivalgono). Per l’appunto: Matteo sente il bisogno di sciogliere quell’espressione così ruvida, propria di una lingua priva di sfumature; mentre Luca la lascia così com’è (per rispetto degli ipsissima verba Iesu), lasciando agli interpreti il compito di spiegarla.
Ritengo che il compito del traduttore non possa essere confuso con quello dell’esegeta: al primo è chiesto di rendere in una lingua diversa il testo originale, sforzandosi di rimanervi il più fedele possibile, in modo che i lettori, seppure in un altro idioma, possano assaporare il gusto (se necessario, anche l’asprezza) dell’originale. Il traduttore non può sostituirsi all’esegeta: il compito di interpretare e di spiegare non spetta al primo, ma al secondo. Capisco che talvolta si possano incontrare concetti oggi non politicamente corretti; ma lasciamo che sia l’interprete a edulcorarli, se proprio è necessario. Anche perché le interpretazioni possono variare (e di fatto sono variate) da un’epoca all’altra, a seconda delle mode del momento; il testo, invece dovrebbe rimanere sempre lo stesso. Tradurre troppo liberamente rischia di risolversi non solo in un tradimento dell’autentico significato del testo, ma anche in un tradimento del lettore, che ha il diritto di accostarsi al testo così come esso realmente è stato scritto

(Fonte: Querculanus.blogspot.com, 27 ottobre 2010)

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