sabato 15 giugno 2013

Che cosa ci insegna l'enciclica a quattro mani

I portavoce vaticani avevano cercato di smussare la realtà, avevano parlato di un documento di cui Benedetto XVI aveva abbozzato qualche parte e che Francesco avrebbe ripreso e completato; dicevano di una traccia del Papa emerito che il Papa regnante avrebbe sviluppato di persona.
Invece, sarà proprio una «enciclica a quattro mani»: così, testuale, lo schietto annuncio di Bergoglio in un'occasione ufficiale, il discorso alla Segreteria Generale del Sinodo dei vescovi. Dunque, ecco un'altra «prima volta» del pontefice argentino: un documento dottrinale di primaria importanza, addirittura sulla fede— dunque, sulla base stessa della Chiesa — voluto, pensato e in gran parte scritto da un Papa e firmato da un altro. Un altro che ha annunciato nella stessa occasione che non mancherà di dire subito ai destinatari della lettera circolare alla cristianità (tale il significato di enciclica) di «avere ricevuto da Benedetto XVI un grande lavoro e di averlo condiviso, trovandolo un testo forte».
Certo, ogni Papa nei documenti a sua firma ha sempre citato i suoi predecessori: ma in nota, come fonti, non certo come coautori. Anzi, viene subito da pensare — con un po' di ironia amara — che nel caso della rinuncia di Celestino V al pontificato, il suo successore Bonifacio VIII lo fece incarcerare in un luogo nascosto per paura di uno scisma e poi braccare quando fuggì.
Ma cerchiamo di capire come si sia giunti a questa situazione inedita. Preoccupazione primaria di Joseph Ratzinger — come studioso, poi come cardinale e infine come Papa — è stata sempre quella di tornare ai fondamenti, di ritrovare le basi del cristianesimo, di riproporre un'apologetica adatta all'uomo contemporaneo.
Per questo, aveva progettato una trilogia sulle virtù maggiori, quelle dette «teologali»: così, ecco un'enciclica sulla carità e una sulla speranza. Restava quella sulla fede, che contava di pubblicare entro l'autunno di questo 2013, al termine cioè dell'anno che aveva voluto dedicare proprio alla riscoperta delle ragioni per credere nel Vangelo. Il lavoro era già avanzato, quando ha dovuto constatare che l'avanzare dell'età non gli permetteva più di portare sulle spalle il fardello del pontificato.
Forse — libero dagli impegni di vescovo di Roma — le forze gli sarebbero bastate per concludere il testo e pubblicarlo, «declassandolo» da enciclica pontificia a opera di semplice studioso, come già ha fatto con i tre volumi dedicati alla storicità di Gesù. Volumi che non hanno valore magisteriale ma che sono aperti al dibattito degli esperti. È probabile che si sia consultato al proposito con Francesco ed è altrettanto probabile che sia stato lui ad assumersi ben volentieri il compito di utilizzare il lavoro già compiuto, portandolo a termine e firmandolo con il suo nome.
In qualche ambiente ecclesiale c'è sconcerto: l'idea di un documento papale di questa importanza e su un tema tanto decisivo redatto insieme lascia perplessi molti. A noi invece, per quanto vale, la cosa piace, la novità ci sembra preziosa perché potrebbe aiutare a ritrovare una prospettiva che anche molti credenti sembrano aver dimenticato. Quella prospettiva di fede, cioè, secondo la quale ciò che importa non è il Papa in quanto persona, dunque con un nome, una storia, una cultura, una nazionalità, un carattere. Ciò che importa è il papato, l'istituzione voluta dal Cristo stesso con un compito: quello di condurre il gregge, da buoni pastori, nelle tempeste della storia, senza deviare dal giusto percorso.
Il Papa (ovviamente sempre per gli occhi del credente) esiste perché sia maestro di fede e di morale, ma non dicendo cose sue, bensì aiutando a comprendere la volontà divina, annunciando la vita eterna che attende ciascuno al termine del cammino terreno, vigilando perché non si cada nel precipizio dell'errore.
E per questo gli è assicurata l'assistenza dello Spirito Santo che lo preservi dallo smarrire egli stesso la strada. Nel suo insegnamento, il pontefice romano non è «un autore», di cui apprezzare le qualità: anzi tradirebbe il suo ruolo se dicesse cose affascinanti e originali ma fuori dalla linea indicata da Scrittura e Tradizione. A lui non è concesso il «secondo me», che è invece proprio dell'eresia.
Semplificando all'estremo, potremmo dire che «un Papa vale l'altro» in quanto alla fine non conta la sua personalità ma la sua docilità e fedeltà come strumento dell'annuncio evangelico. L'aneddotica sui pontefici, sulla loro vita quotidiana, può essere interessante, ma non è influente sulla loro missione. Ciò che importa davvero, lo dicevamo, è il papato come istituzione perenne sino alla Parusia, sino alla fine della storia e al ritorno del Cristo; istituzione, che per il cattolico non è un peso da sopportare ma un dono di cui essere grato. Ci sia o no, il pontefice del momento, «simpatico» a viste umane, amiamo o no il suo carattere e il suo stile, Joseph Ratzinger e Jorge Bergoglio hanno, come ogni uomo, grandi diversità tra loro ma non possono divergere (e il Cielo veglia proprio perché questo non avvenga) allorché parlano del Cristo e del suo insegnamento da maestri di fede e di morale. In quanto strumenti - «semplice e obbediente operaio nella vigna del Signore », disse di sé Benedetto XVI nel suo primo discorso — sono in qualche modo intercambiabili. Possono approfondire il significato del Vangelo, aiutare a comprenderlo meglio per il loro tempo, ma sempre nel solco di Scrittura e Tradizione: non è loro lecito essere «creativi». Non sono «scrittori» ma guide, guidate a loro volta da un Altro.
Proprio per questo non ci dispiace affatto, anzi ci sembra preziosa l'occasione offerta ora da una di quelle che Hegel chiamerebbe «le astuzie della storia»: proprio per un documento che riannuncia la fede, cioè la base di tutto, un Pontefice emerito e uno regnante mostrano che gli uomini sono diversi ma che la prospettiva di chi è chiamato a condurre la Catholica è eguale, la direzione è la stessa. Ed eguali sono, in fondo, anche le parole per riproporre la scommessa sulla verità del cristianesimo. Dunque, nessuno scandalo per le «quattro mani».



(Fonte: Vittorio Messori, Corriere della sera, 15 giugno 2013)
 

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