Anche in questi giorni di tremende persecuzioni a danno dei cristiani ad opera del neo-costituito Califfato siro-irakeno, i Pastori della Chiesa, salvo rare eccezioni, si sono purtroppo segnalati per debolezza, inadeguatezza, timidezza. E quando hanno parlato, non hanno saputo uscire da un equivoco concetto di libertà, intesa secondo la dottrina liberale.
Hanno invocato il diritto alla libertà religiosa, lo stesso che consente ai musulmani di impiantare moschee in tutta Europa e di procedere indisturbati alla islamizzazione delle antiche nazioni cristiane. Si è completamente perso il riferimento ad un orizzonte oggettivo di valori, per il quale si possa affermare una sola religione come vera e i diritti dei cristiani e della Chiesa si debbano fondare su questa verità e non sull’istanza relativista e soggettivista dell’ideologia liberale. Se neppure i Pastori rivendicano più la verità esclusiva della religione cattolica e la libertas Ecclesiae quale diritto divino denunciando la violenza islamica come espressione di una falsa religione, si deve amaramente constatare il trionfo dell’ideologia relativista sin dentro i Sacri Palazzi.
Si deve cioè riconoscere che la stessa Chiesa cattolica, nel suo aspetto umano e contingente, è attrice e vittima al medesimo tempo di quel circolo vizioso di cui sopra. E qui si aprirebbe il campo vastissimo di studi sul Concilio Vaticano II, la sua ricezione, la sua ermeneutica. È il tema della libertà religiosa del decreto Dignitatis humanae, se sia la liberale libertà di religione accolta nelle legislazioni occidentali contemporanee ed elevata a diritto umano dalle Carte internazionali, oppure la razionale e cattolica libertà della religione. Si dovrebbe poi precisare cosa si intenda per religione, se una soggettiva credenza oppure la virtù omonima.
Se l’esercizio della religione sia un diritto in virtù della libertà liberale dell’autodeterminazione soggettiva, oppure perché prima di tutto dovere di giustizia verso Dio. Quasi sempre l’impressione che si ricava dalle dichiarazioni dei Pastori è la loro adesione al paradigma liberale e tutto ciò non fa che imprigionare ancor più la Chiesa e, con essa, quella che fu la Cristianità, nel mortifero circolo vizioso tra totalitarismo islamico e relativismo liberale.
Analoga è la risposta cattolica alla dissoluzione interna dell’Occidente visibile nell’imporsi dell’ideologia gender, nella teorizzazione del transumano, nelle legislazioni abortiste, eutanasiche, omosessualiste. Si invoca il «diritto all’obiezione di coscienza» ovvero si fonda la propria risposta, la propria opposizione sul principio liberale di «libertà di coscienza». Così la risposta del mondo cattolico alla dissoluzione è essa stessa interna alla ideologia della dissoluzione: ci si oppone all’esito radicale (coerente) dell’ideologia liberale in nome di quei principi liberali (es. libertà di coscienza, libertà di religione, etc.) che sono alla radice della dissoluzione stessa. Il concetto di «libertà di coscienza», da cui deriva quello di «obiezione di coscienza», appare strutturale tanto nel linguaggio dei Pastori quanto nella così detta cultura cattolica. Potremmo anche dire che è principio cardine! Ciò ai più, cattolici compresi, apparirà a-problematico, anzi scontato.
Tuttavia ci permettiamo, con il massimo rispetto per le nobili intenzioni di tutti, di dubitare, di vagliare criticamente ciò che sembra, ormai, indubitabile e incontestabile: il dogma della libertà di coscienza! È ben vero che la coscienza nel caso concreto è per l’agente morale norma ultima benché non suprema, e che è doveroso seguire la propria coscienza anche quando invincibilmente erronea (e solo quando lo è invincibilmente), ma tutto ciò è ben lontano dal fondare il moderno principio della libertà di coscienza. Ciò per almeno tre ragioni che oppongono per contraddizione la verità classico-cristiana all’idea moderna in tema di coscienza:
1) La coscienza come giudizio della ragione pratica sulla bontà o colpevolezza di un’azione, giudizio come applicazione della legge morale al caso concreto, e non come facoltà o autocoscienza;
2) La funzione conoscitivo-applicativa e non creativa della coscienza;
3) La coscienza come norma prossima della moralità personale e non come norma oggettiva e universale della moralità che deve, invece, informare di sé l’ordinamento giuridico.
Quando si invoca «il diritto alla libertà di coscienza» si compie un indebito passaggio dal piano soggettivo a quello oggettivo, dal foro interno al foro esterno o pubblico. La coscienza ha la capacità di errare contrapponendosi oggettivamente alla giustizia, ma non ne ha il diritto, tutt’al più, se invincibilmente erronea, l’agente morale non sarà moralmente imputabile (lo sarà però eventualmente giuridicamente) per il male scelto. Ancor meno il giudizio di coscienza può pretendere di porsi come norma superiore, in sede di foro pubblico, alla norma giuridica. E vero, piuttosto, il contrario: è la coscienza a dover giudicare conformemente alla norma giuridica la quale deve essere, per essere veramente norma giuridica, conforme alla norma universale e oggettiva della moralità data dalla legge divina, naturale e positiva.
È la legge positiva, ogni singola legge positiva, a dover essere conforme alla legge divina, al diritto naturale e quando ciò non è, il cittadino non è tenuto all’obbedienza per il semplice fatto che quel testo normativo non è né può essere legge ed è propriamente un comando illegittimo e tirannico. Qui non si tratta di obiezione di coscienza ma, piuttosto, obiezione della coscienza ad un comando ingiusto. Non sarà invocato il «diritto all’obiezione di coscienza» fondato sulla «libertà di coscienza», piuttosto sarà denunciata l’ingiustizia della norma e il suo non essere legge, ne sarà pretesa la cancellazione e si riconoscerà come doverosa la resistenza (anche occulta) ad essa. Se la modernità suggerisce un diritto del singolo a non applicare una norma positiva quando giudicata soggettivamente in contrasto con i convincimenti personali in nome della «libertà di coscienza», il pensiero classico-cristiano insegna la necessaria conformità del diritto positivo al diritto naturale, il dovere per il singolo di conformarsi alla legge e il non essere legge di quegli ordini emanati dall’autorità politica in contrasto col diritto naturale.
La cultura cattolica odierna opta decisamente per la suggestione moderna tanto che è sempre più raro un riferimento al diritto naturale, così come è assente il tema dei criteri di legittimità delle leggi positive. Il richiamo ai “diritti umani” e alla “norma internazionale” non ovvia alla mancanza, anzi conferma l’opzione, visto che i diritti umani sanciti dalle Dichiarazioni e Convenzioni internazionali poco o nulla hanno a che fare con i diritti naturali dell’uomo e sono piuttosto espressione coerente (nell’errore) del razionalismo giuridico. Ciò significa accettare acriticamente il giuspositivismo dominante e il relativo indifferentismo etico finendo per sostenere proprio ciò che rende possibile quanto si dice di voler combattere.
Non è, infatti, senza gravi conseguenze una simile opzione, aggravata dalla rivendicata «libertà di coscienza» che “bilancia” l’assoluta arbitrarietà etica del diritto con una altrettanto arbitraria volontà soggettiva dei singoli. Oggi, in campo cattolico, si discute del diritto all’obiezione di coscienza di fronte ad insegnamenti ideologici impartiti a scuola e si fa così della libertà di coscienza il principio su cui fondare la lotta contro l’indottrinamento LGBT. Si invoca, ad es., il diritto dei genitori ad educare secondo le proprie convinzioni magari, facendo obiezione di coscienza quando queste non siano rispecchiate nell’insegnamento scolastico. Facciamo ora un esempio: ipotizziamo una scuola dove l’insegnamento sia conforme al buon senso e alla retta ragione, dove la morale sia insegnata avendo la legge naturale per bussola e una coppia di genitori seguaci dell’ideologia gender.
Coerentemente i sostenitori della libertà di coscienza dovrebbero riconoscere ai genitori il diritto di fare obiezione di coscienza contro la verità e il complementare diritto di indottrinare il figlio secondo l’ideologia LGBT. Il problema, come si vede, è la conformità a verità e bene della legge come dell’insegnamento, non la libertà di coscienza! Porre a cardine il principio della libertà di coscienza porta, ad esempio, a legittimare quel preteso «diritto all’autodeterminazione» che regge tutto il processo di dissoluzione. Come infatti giustificare un ordinamento che proibisca il suicidio o l’eutanasia volontaria quando si deve rispettare e promuovere, per principio, la libertà di agire secondo la propria coscienza? Quando un cittadino riterrà in coscienza di non voler più vivere rivendicherà tale diritto in nome della libertà di coscienza. E coerentemente non glielo si potrà negare! La libertà di coscienza, rispetto alle credenze più varie e soggettive, si dà quale libertà di religione, con tutto ciò che ne consegue in termini di dissoluzione della civiltà cristiana e di “disarmo” intellettuale di fronte alla pretesa egemonica dell’islam.
C’è poi la questione della laicità della democrazia, anch’essa traduzione dell’assioma liberale, e l’ambigua contrapposizione tra laicità e laicismo, l’una benedetta, l’altro negativamente giudicato. Il tema, in verità, non è così facilmente e schematicamente liquidabile; cosa sia sana laicità e cosa laicismo è non facile da dirsi. Che poi quella che viene chiamata sana laicità sia veramente cosa sana è tutto da dimostrare. Ascoltando autorevoli Pastori e la generale convinzione in campo cattolico, sembrerebbe essere il modello liberale di laicità debole-inclusiva sul modello statunitense ciò che è chiamato laicità mentre il laicismo sarebbe la laicità forte alla francese.
Ebbene, siamo proprio sicuri che il modello di laicità e libertà religiosa proprio del liberalismo anglosassone sia cosa sana? Ricordiamo che tale modello si caratterizza per l’indifferentismo dello Stato e il più spinto relativismo, dove tutto e il contrario di tutto è posto su uno stesso piano di diritto, la verità e l’errore, il bene e il male.
Veramente il male in senso forte è posto sullo stesso piano di diritto del bene se è notizia di questi mesi che è stata autorizzata, in nome della libertà religiosa, l’edificazione di un monumento a Satana da erigere nella piazza principale di Oklahoma City. Il Satanic Temple, setta satanica riconosciuta e tutelata dal diritto USA, lo ha chiesto in nome della libertà religiosa! Non si dimentichi poi che negli USA, faro e modello di sana laicità e libertà religiosa, «i veri adoratori del Diavolo, coloro che venerano la figura biblica, immagine metafisica del male, sono presenti (…) dove varie chiese sataniche hanno un riconoscimento ufficiale ed hanno i loro cappellani militari all’interno dell’esercito americano» (C. Gatto Trocchi, Occultismo, esoterismo, magia, satanismo. Analisi antropologica, p. 5) e tutto ciò in nome della libertà religiosa. E sempre la sana laicità anglosassone è quella che più facilmente offre all’islam di mettere radici, costituire comunità autoreferenziali, dare vita a vere e proprie istituzioni islamiche (rette dalla sharia) in terra d’Occidente.
La confusione sotto il cielo d’Occidente è grande, i nemici temibili, i fronti aperti più d’uno, il gregge disorientato e disperso, i Pastori quasi tutti «all’osteria a discutere di pastorizia» (card. Giacomo Biffi) mentre i lupi circondano l’ovile e sbranano gli agnelli. ()
(Fonte:
Christian De Benedetto, Corrispondenza Romana, 10 settembre 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/islam-liberta-religiosa-e-liberta-di-coscienza/
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