mercoledì 1 settembre 2010

Le provocazioni di Gheddafi all’Europa e alle sue donne

Anche nel corso della sua ultima visita al nostro paese, il colonnello Gheddafi non ha perso occasione per provocare non solo l’Italia, ma anche l’Europa e l’Occidente. Dopo avere affermato che “l’islam dovrebbe diventare la religione di tutta Europa”, non ha esitato a ribadire che “in Libia la donna è più rispettata che in Occidente e negli Stati Uniti”. Ebbene, le affermazioni sull’islam non sono una novità. Quel che più colpisce è la sfrontatezza nel giudicare la condizione della donna in Occidente.
Basterebbe leggere il rapporto di Human Rights Watch del 2009 che a riguardo della Libia denuncia quanto segue: “La posizione del governo rispetto alla violenza contro le donne resta una posizione di negazione, che lascia le vittime non protette e senza soluzioni. La Libia non ha una legge di protezione domestica e leggi inadeguate che puniscono la violenza sessuale. Il governo persegue solo i casi più violenti di stupro, e i giudici hanno il diritto di proporre il matrimonio tra lo stupratore e la vittima come ‘rimedio sociale’ al crimine. Le vittime di stupro rischiano a loro volta di essere punite per adulterio o fornicazione se cercano di aggravare l’accusa. […] Il governo detiene decine di vittime di stupro in luoghi di ‘riabilitazione sociale’. A molte donne viene negato il diritto di opporsi alla detenzione. Le autorità le oppongono a controllo forzato della loro verginità e a un trattamento punitivo, compreso l’isolamento”.
Ritengo che quanto appena descritto possa di per sé rappresentare una risposta alle aberranti affermazioni di Gheddafi. Tuttavia non dobbiamo nemmeno dimenticare che dal 1970 l’islam è la religione di Stato in Libia. Quindi merita una parentesi anche la descrizione della condizione della donna nella religione islamica.
I testi sacri rappresentano un “nemico” importante, ma fittizio, per le musulmane. Infatti non è il Corano in sé ad essere “ostile” alla loro condizione, ma una interpretazione errata, conservatrice e integralista – di fatto molto vicina a quella in cui crede Gheddafi - che di esso viene fornita. Purtroppo i predicatori islamici, i cui pulpiti sono alcune televisioni satellitari arabe, tutti di sesso maschile, che attraverso una “comoda” interpretazione letterale del Corano sottopongono la donna a continue umiliazioni e violenze e, più, in generale la pongono in una condizione di estrema inferiorità. Purtroppo in alcuni paesi, come l’Arabia Saudita, l’Iran, non da ultimo la Libia, questa interpretazione è praticamente legge di stato.
Ma analizziamo meglio la situazione. A che cosa è dovuto questo stato di cose? Al maschilismo o al sessismo di una certa tradizione culturale? O è interna e organica al Corano? Come afferma la sacra scrittura islamica “Gli uomini sono preposti alle donne”. Alcuni uomini applicano nei confronti delle donne esclusivamente i principi, ribaditi da molti imam, che servono loro per imporre la propria superiorità, al fine ultimo di sottomettere le mogli, facendosi scudo di falsi criteri, che vengono fraintesi, anche se in alcuni versetti del Corano si sottolinea che la donna deve essere protetta dall’uomo. E’ significativa la storia dell’antropologa francese, Dounia Bouzar. Figlia di un algerino e di una francese, viene cresciuta all’insegna del rispetto delle due religioni, islam e cristianesimo. In seguito si sposa con un tunisino che dopo qualche anno di matrimonio inizia a picchiarla in nome dell’islam. La reazione della Bouzar fu quella di approfondire lo studio del Corano per capire se era vero quanto sosteneva il marito. Il risultato del suo studio furono la separazione dal marito violento e la sua conversione all’islam. Ai suoi occhi il Corano proteggeva le donne. Oggi Dounia Bouzar è una delle maggiori esponenti dell’islam francese che combatte con estremo coraggio l’estremismo islamico.
E’ indubbio che il Corano abbia migliorato la status delle donne rispetto all’epoca preislamica: prima della predicazione sia in ambiente nomadico sia in ambito urbano dominava il principio del patriarcato a discendenza maschile che attribuiva al maschio il possesso della donna. Era diffusa la pratica dell’infanticidio, limitato alle figlie femmine ricordato anche nel testo coranico (XVI, 58-59). Con l’avvento dell’islam le donne iniziarono anche ad avere proprietà a loro nome.
La vita di due mogli di Maometto, Khadija e Aisha, è significativa. Khadija, prima moglie del Profeta, era una vedova attiva e ricca e viene indicata dalla tradizione islamica come la prima convertita all’islam. Aisha, la moglie prediletta, che venne però sposata all’età di nove anni, guidò in prima persona battaglie. Per quanto riguarda lo statuto della donna i problemi che si pongono sono dovuti all’ambiguità del discorso giuridico e alla confusione nata nel corso dei secoli tra legge divina e legge umana. Tali problemi sono affrontati in parte nel Corano, dove due sure sono dedicate l’una alle donne (IV) l’altra al divorzio (LXV), e molti altri versetti trattano altri problemi quali l’adulterio, il pudore o l’eredità.
Il Corano non solo afferma che “Gli uomini sono preposti alle donne” (IV, 34-35), ma anche che “gli uomini sono un gradino più in alto” (II, 228). Inoltre la donna vale la metà dell’uomo: sono necessarie due testimoni ove un uomo sarebbe sufficiente. La porzione d’eredità è, in generale, la metà di quella dell’uomo dello stesso livello di successione (IV, 11-12). La poligamia è autorizzata (IV, 3). Una grande indulgenza divina è assicurata agli uomini “Anche se lo desiderate non potrete agire con equità con le vostre mogli, però non seguite in tutto la vostra inclinazione, sì da lasciarne una come sospesa.” (IV, 129) nel rispetto di certi limiti: “Non costringete le vostre ancelle al meretricio” (XXIV, 33) e di alcuni divieti: “V’è proibito prendere in ispose le vostre madri, le vostre figlie, le vostre sorelle…” (IV, 23-24). Anche se libera la sposa è “come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere, ma premettete qualche atto pio, utile a voi, e temete Iddio” (II, 223). Gerarchicamente situata a livello dei bambini e degli esseri deboli da proteggere (VII, 127, 141; XIV, 6; XL, 25), sarà mantenuta dal paternalismo coranico e nel corso dei secoli in uno stato di soggezione quasi totale.
Ma uno sguardo ancora più severo è rivolto alle “donne del Profeta” modelli referenziali che permetteranno di imprigionare più strettamente nei suoi veli e nei suoi divieti: “O donne del Profeta! A chi fra voi commette manifesta turpitudine toccherà castigo raddoppiato di due doppi, cosa questa facile a Dio! Ma chi di voi sarà devota a Dio e al Suo messaggero e opererà il bene, daremo a lei, mercede due volte, e generosa provvigione preparammo per lei! O donne del Profeta! Voi non siete come le altre donne. Se temete Iddio, non siate troppo umili nel parlare, che non accada vi desideri chi ha un morbo in cuore, ma con dignità parlate. Rimanetevene quiete nelle vostre case e non v’adornate vanamente come avveniva ai tempi dell’idolatria; compite anzi la preghiera, pagate la Decima e obbedite a Dio e al Suo messaggero. Iddio infatti vuole che siate liberi da ogni sozzura, o gente della casa del Profeta, ed Egli vi purificherà di purificazione pura” (XXXIII, 30-33).
I fautori dell’integralismo hanno irrigidito ulteriormente le posizioni del Corano sostenendo a spada tratta l’interpretazione letterale del testo sacro. Così le doti che secondo il versetto 4 della sura delle Donne dovevano essere versate spontaneamente alle spose di fatto non furono mai versate in questa maniera. L’atto stesso del matrimonio, per esempio, in principio spogliato di ogni carattere religioso, concluso per offerta e accettazione, senza presenza obbligatoria dell’autorità religiosa, un atto puramente civile, si sacralizza nel diritto e diventa per le popolazioni un atto sottomesso alla legge divina. Le costrizioni imposte alla donna sono sempre maggiori. L’adulterio, ovvero il commercio carnale illecito, punito nel Corano con cento frustate sia per l’uomo che per la donna (XXIV, 2) avrà in seguito, per sanzione legale la lapidazione a morte della sola donna. Ancora peggio, se si considera che il Corano esigeva quattro testimoni dell’atto di adulterio prima di autorizzare la punizione (XXIV,4,13) la pratica posteriore sarà ancora più rapida e consentirà la condanna a morte della colpevole sospettata dal marito o dal fratello.
Nel diritto islamico il ripudio (II, 226-32 e tutta la sura LXV) è un diritto assoluto riservato allo sposo che deve sempre (LXV,2) ricorrere alla testimonianza di persone fidate. Tuttavia questo principio restrittivo è stato omesso nella pratica, durante i secoli. Un nuovo diritto sarà istituito e consentirà all’uomo di ricorrere alla autorità di polizia per ricondurre la sposa in fuga al tetto coniugale. Ciononostante il riferimento costante al Corano, anche quando non era in causa serviva per sacralizzare lo statuto imposto alla donna.
Il problema della donna araba ha forse per causa prima questa “sacralizzazione” della sua inferiorità. Ontologicamente, è un essere umano di secondo piano, che viene dopo l’uomo nella gerarchia delle creature divine, sottomessa ai suoi doveri, limitata nei poteri e non avendo voce in capitolo sul suo divenire né su quello del suo corpo. Tutto ciò che la riguarda è ritenuto un tabù.
A questa visione, purtroppo diffusa in molte moschee anche in Occidente, l’intellettuale tunisina Raja Benslama risponde: “La questione della donna è inscindibile da quella dell’islam. Quando dico che è inscindibile vuol dire che c’è una questione centrale che rivela il tutto, è una parte di un tutto che si rivela e quindi è una questione paradigmatica, centrale perché la donna è l’altro primigenio, è il primo altro su cui si aprono gli occhi e quindi determina il rapporto di ogni comunità rispetto all’alterità di ogni altro essere. E’ la donna il metro su cui si può misurare il grado di tolleranza della società e la sua capacità di non trasformare la differenza in inferiorità. Le società che non accettano l’alterità della donna come essere libero e la sua uguaglianza, la sua parità come simile, non accettano nessun altro e trasformano tutti i diversi in minoranze che incarnano quello che nella letteratura femminista si chiama il divenire femminile, che appunto è rappresentato da una serie di categorie che non necessariamente rappresentano le donne. La discriminazione si costruisce sull’odio, un certo odio sapientemente elevato a sistema, è una mina in azione, è una macchina che attacca le donne, continua a spezzare le vite di tutti gli esseri resi minori da tutte le società tradizionali e patriarcali. Gli uomini deboli, quelli poveri, i bambini, gli omosessuali, i pazzi, gli handicappati, i bastardi, i non correligionari. La questione della donna è quindi inscindibile in quanto parte di quella dell’islam. L’islam e la donna hanno un nemico comune, che è il totalitarismo religioso in tutte le sue forme. I nostri testi sacri non possono più essere una fonte di legislazione se non creando le peggiori disuguaglianze liberticide. Dobbiamo rinunciare all’idea, che secondo me è un’impostura intellettuale, molto diffusa anche fra le femministe e fra le antifemministe islamiche, che l’islam ha liberato la donna, che la sharia le rende giustizia, che la mette in condizione di parità rispetto all’uomo. Questa cosa non è vera, è una vera negazione della realtà storica.”
Resta quindi inaccettabile che si consenta a un ospite del nostro paese, in questo caso il colonnello Gheddafi, di affermare che la donna viva meglio in Libia e nel mondo islamico. Nessuno nega la mercificazione del corpo della donna in Occidente, ma anche presentarsi con le “amazzoni” non significa certo rispettare la donna in quanto persona. Sarebbe bene che l’Italia in particolare, l’Europa in generale invitassero e dessero risalto mediatico a quelle donne, intellettuali o attiviste, che in seno al mondo islamico combattono ancora oggi per “diventare persone” e che pagano sulla propria pelle la prepotenza e l’arroganza di una società in cui interpretazione radicale del testo religioso e tradizione maschilista vanno di pari passo.

(Fonte: Valentina Colombo, Cultura cattolica, 1 settembre 2010)

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