Chissà se certi organi d’informazione (vedi il mitico Fatto Quotidiano), dopo aver diffuso scenari allarmanti alla vigilia della visita del Papa in Inghilterra, hanno poi ammesso che si è trattato di un trionfo. Me lo auguro e lo spero. Ma, così, alla cieca, credo che pochi si siano dati il pensiero di leggere e meditare quanto Benedetto XVI ha detto. Magari qualche giornalista l’avrà fatto per obbligo professionale. Nel mondo cattolico (specie quello adulto e progressista) questo tipo di esercizio di solito non si fa.
C’è stato un discorso in particolare, quello rivolto ai maggiorenti del Regno nella Westminster Hall, che merita di non essere gettato presto nel dimenticatoio. Qui il Papa ha toccato un problema fondamentale, che si riassume in una domanda: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? Non è ovviamente un problema secondario, perché gli Stati devono darsi dei principi morali, sulla base dei quali legiferano. Allora ecco altre domande: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?
Il Papa ha affrontato direttamente il tema dei fondamenti etici del discorso civile e ha messo in guardia i presenti: “Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia”.
Delle due l’una: o ci sono dei principi cui fare riferimento, oppure c’è il consenso sociale, sempre mutevole, sempre influenzabile, sempre in balia dei condizionamenti dei grandi centri di potere. In Italia abbiamo avuto la famosa stagione dei referendum. Una legge come la 194 (tra l’altro oggi clamorosamente sconfessata e addirittura superata nella pratica) fu approvata dalla maggioranza di un Paese che per gran parte votò con la pancia più che con la testa. Vinse chi riuscì ad orientare il consenso sociale, chi ebbe più forza nell’impressionare la pubblica opinione. Non può essere questo il criterio che regola il processo democratico. La storia ce l’insegna.
Quella antica, che il Papa ha ricordato alle autorità inglesi: quando il Parlamento britannico abolì l’ignominiosa tratta degli schiavi, “si basò su principi morali solidi, fondati sulla legge naturale”. Quella moderna, recentissima: “Vi è un vasto consenso sul fatto che la mancanza di un solido fondamento etico dell’attività economica abbia contribuito a creare la situazione di grave difficoltà nella quale si trovano ora milioni di persone nel mondo”.
Insomma, le scelte politiche non possono non avere un fondamento etico, se si vuole ragionare non in termini di dittatura dell’opinione indotta, ma in termini di bene comune.
Ma allora il Papa pensa al famigerato “stato etico”, nel quale la religione detta le leggi? Il passaggio che segue va letto e mandato a memoria (i corsivi sono miei):
“La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi”.
Nessuna tentazione egemonica, dunque, ma piuttosto un servizio reso dalla religione alla ragione. E che la ragione abbia bisogno di essere aiutata, illuminata, addirittura corretta è fuor di dubbio: “Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo”.
Ma si registra spesso una vera e propria ostilità nei confronti della religione. Con l’umiltà che lo contraddistingue, Benedetto XVI si è permesso di suggerire “che il mondo della ragione ed il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà”. Insomma, la religione non è un problema da risolvere, per chi fa le leggi, ma un fattore che contribuisce allo sviluppo del bene comune.
Coraggiosa affermazione, in un mondo, come quello britannico, che sta cancellando le proprie trazioni cristiane e che si vergogna della propria fede, e in un’Europa i cui governano legiferano a colpi d’ideologia o seguendo le voglie dell’opinione pubblica.
Un’ordinata e sana convivenza civile si può costruire solo sul dialogo aperto e sincero tra fede e ragione. L’alternativa è quello sprofondamento nella barbarie di cui oggi purtroppo abbiamo abbondanti esempi.
(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella,23 settembre 2010)
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