Shahbaz Bhatti non era un uomo alla ricerca della notorietà. Pur essendo ministro del governo pakistano, girava senza scorta. Non era nemmeno un “politico” nell’accezione comune del termine. Quella per le minoranze era per lui una vera e propria vocazione; e nel suo paese il concetto di minoranza non è quello occidentale, riferito alla normale dialettica di un’opinione pubblica libera in cui chi ha più voti governa e chi ne ha di meno è comunque rispettato e può esprimere pacificamente il suo dissenso.
Essere in minoranza in Pakistan è sinonimo di marginalità, di isolamento, di miseria, di persecuzione. Il più grande torto di Bhatti era quello di appartenere a queste minoranze, in quanto cristiano. La sua più grande forza era quella di essere un cristiano vero, ovvero senza compromessi con il mondo e con la consapevolezza che la propria missione non si conclude con la morte e che la violenza dei nemici non potrà mai vincere.
Ma chi era davvero Shahbaz Bhatti e per quale motivo i fondamentalisti islamici lo hanno così barbaramente assassinato lo scorso 2 marzo? Fu lui stesso a descriversi così: “Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù”. Parole che farebbero onore a qualunque cristiano, di qualunque luogo ed epoca. Bhatti, però, è nato e vissuto nel Pakistan del XXI secolo: un paese dove la libertà di culto è limitata e dove vige la vergognosa legge contro la blasfemia, laddove per blasfemo (alla faccia della libertà religiosa e della laicità che piace tanto agli europei…) non si intende l’offesa a qualunque culto ma solo ed esclusivamente ad Allah e all’Islam, dei quali è devoto il 96% della popolazione. E probabilmente in nessun paese islamico l’intolleranza religiosa sta raggiungendo livelli preoccupanti come in Pakistan: da quando il caso di Asia Bibi è diventato noto all’opinione pubblica internazionale, per i cristiani non c’è più tregua: mentre la 45enne contadina del Punjab rischia la lapidazione per aver educatamente criticato la figura del profeta Maometto, lo scorso 4 gennaio, il governatore della stessa provincia, Salman Taseer (mussulmano), è stato assassinato dalla sua guardia del corpo per aver espresso la propria contrarietà alla legge antiblasfemia. In Pakistan la violenza fondamentalista non è tanto un problema politico, quanto un problema culturale, tristemente radicato nel popolo. Il governo di Islamabad – del quale Shahabz Batti, unico ministro cristiano faceva parte – ha condannato tiepidamente gli attentati e si sta dimostrando impotente (forse connivente?) dinnanzi alla furia distruttiva dei fanatici. Dall’altro lato c’è una larga parte della popolazione accecata dall’odio religioso. Non solo l’applicazione della legge sulla blasfemia è tutt’altro che restrittiva e numerosissime condanne vengono comminate per motivi pretestuosi; chi viene assolto vede la sua vita messa a repentaglio, esposta alle aggressioni dei fanatici che pretendono di fare giustizia sommaria in luogo dei tribunali. I pochi cristiani del paese, da parte loro, fanno molta fatica a porgere l’altra guancia. Grande ira ha infatti suscitato la decisione del governo di bloccare, per motivi di sicurezza, l’ingresso alla chiesa dove si sono svolti i funerali del ministro ucciso: persino i familiari della vittima ne sono rimasti fuori.
Il vero problema non riguarda la strategia da adottare dall’interno: sia che i cristiani rimangano in silenzio per non prestare il fianco a rappresaglie (come aveva auspicato il vescovo di Lahore, Lawrence Saldanha), sia che reclamino ad alta voce i loro diritti, essi saranno sempre e comunque sotto tiro. La responsabilità più grande è, piuttosto, a carico della comunità internazionale e delle organizzazioni non governative che dovranno esercitare le opportune pressioni su Islamabad per abrogare o, quantomeno, attenuare la legge antiblasfemia.
Se da un lato, la situazione diplomatica internazionale si presta a dilemmi amletici e a troppe inquietanti zone d’ombra, il contrappunto luminoso è proprio la testimonianza di Shahbaz Bhatti, un uomo che, dinnanzi ai bisognosi, ai poveri, agli affamati e agli assetati non si è mai tirato indietro, anche a costo della propria vita. L’impegno umano e quello cristiano per Bhatti erano una cosa sola. “Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità”, aveva affermato in un’intervista il ministro assassinato. “Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere”, insisteva a dire. Aveva quindi assunto la propria carica governativa, per puro spirito di servizio. Come spesso capita nelle spietate dinamiche del potere, a Bhatti era stato proposto di abbandonare le sue ambizioni umanitarie, in cambio di una rapida ascesa a ruoli prestigiosi. Aveva avuto il coraggio di dire di no, a costo di minacce e tentativi di aggressione contro di sé e contro la propria famiglia. Ma Shahbaz Bhatti, consapevole che, come affermava Tertulliano “il sangue dei martiri è il seme dei nuovi cristiani”, aveva già da tempo accettato il proprio destino, qualunque sarebbe stato: “mi considererei privilegiato qualora (…) Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese”.
(Fonte: Luca Marcolivio, L’Ottimista, 10 marzo 2011)
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